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agonie si assomigliano, la loro differenza non è che nel tempo. Ora che siamo noi tre soli, aspettando gli altri, possiamo dir tutto.
— Hai paura, ripetè l’altro.
— Forse....
— Allora non parliamone più.
Andrea Petrovich Kartof stava seduto al pianoforte colle mani abbandonate sulle coscie e la testa bassa meditando; Fedor Vassilich Karatajeff andò a guardare dalla finestra, e Slotkin rimase presso al tavolo pieno di libri e di fascicoli di musica, in mezzo ai quali un grosso samovar lucente si alzava come un’urna. Nella camera vasta tre larghi divani addossati alle pareti sembravano aspettare gli invitati, mentre in un angolo un’alta stufa di ferro gettava dai fori ricamati dello sportello rossastri lampeggiamenti. Due tende di mussolina persiana, a fondo azzurro con fiori piccoli e bianchi, velavano cupamente la luce filtrante dai doppi vetri e intercettata da una massiccia scrivania di quercia: il pavimento a scacchi, di pino, tenuto con poca cura, era qua e là screpolato e rispondeva con sonorità fesse ad ogni passo; la porta era chiusa. Nell’angolo di contro alla scrivania, sopra un bacile di legno rosso e oro, l’enorme carafa della vodka s’ergeva fra una cintura di bicchieri a calice di varie misure.
Passò del tempo.
I tre non parlavano più.
A un tratto Fedor, che nascosto sotto la tenda guardava dalla finestra, disse: