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rispose con un fine sorriso il portinaio sotto la lunga barba grigia: ero fuori per i suoi ordini.
— Almeno il vino hai saputo sceglierlo? Non ti hanno ingannato sulle marche?
— Ho detto il nome di Vostra Alta Nobiltà per precauzione.
— Andiamo, andiamo.
L’andito era vuoto: a sinistra salirono quattro rami di scale in legno, umide e buie, delle quali gli scalini, levigati dall’uso e resi lubrici dalla neve lasciatavi dalle scarpe degli inquilini, presentavano più di un pericolo, e si fermarono al secondo piano. V’erano tre porte; batterono a quella di mezzo: un mugik in camiciotto rosso, vecchio, calvo, con una lunga barba bianca si presentò umilmente. Era un servo di Andrea Petrovich.
Molte voci nell’altra stanza si acquetarono tosto.
— Andrea Petrovich, smetti di suonare, gridò con voce allegra il conte Ogareff: Giacomo Martinovich salito colle bottiglie sta ascoltando. È capace di vantarsi con tutti gl’inquilini di avere assistito alla prima rappresentazione della tua opera.
— Non permettergli dunque di entrare, s’intese dall’interno una voce gaia tra uno scoppio di riso: dagli a bere come alla Peri di Moore, sulla porta del paradiso.
— Sciocco! La Peri piangeva.