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Nell’altra stanza il silenzio seguitava.
Quando il giovane conte entrò rigettandosi famigliarmente la pelliccia dalle spalle e scoprendosi in tutta l’eleganza della moda, con un soprabito nero attilato e calzoni scuri entro gli stivali di pelle lucida, tutti lo guardarono simpaticamente. Erano seduti intorno al tavolo: Andrea Petrovich padrone di casa stava al piano, Sergio Nicolaievich Lemm era accanto a Kepskj, che aveva deposto il proprio violino sulla cassa del pianoforte: il poeta Fedor lungo disteso sopra un divano sembrava dormire, Boris Slotkin col corpo sottile e la testa grossa rigettata sulla spalliera della sedia guardava insistentemente al soffitto, quasi per sottrarsi ai discorsi che già s’erano fatti, e stavano per ricominciare; mentre Michele Romanovich Ossinskj, che aveva accompagnato il giovane conte Ogareff, di lui non meno giovane, si era avvicinato alla stufa e si scaldava le mani con atti nervosi.
— Nessuna notizia, Dmitri Alessandrovich? domandarono simultaneamente più voci ma con scoraggiamento maggiore della curiosità.
— Nessuna.
— Povero Rodion! mormorò Fedor levandosi in sussulto dal divano.
Il samovar acceso mandava un alito leggiero di fumo cantando la canzone del the, piena di gorgogli, dai quali ogni tanto saliva uno strido sommesso.