Della morale letteraria/Lezione I
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LEZIONE PRIMA
Della letteratura rivolta unicamente al lucro.
Se la fortuna a cui l’umana vita deve le più volte obbedire, non mi avesse distolto da’ primi divisamenti, io mi sarei giovalo almen di
quest’anno per dichiararvi praticamente quei principii, la somma de’ quali vi significai nella prima lezione, c che soli mi sembrano necessari alle lettere. Pari al mio desiderio di consigliarvi era il vostro d’udirmi, quando appunto l’opportunità di compiacere a voi e a me stesso si andò dileguando; ed il tempo che scemò a noi tutti una parte di vita, rapì a me la migliore e per sempre. Ch’io non potrò più spendere omai le poche mie forze in vantaggio vostro, nè parlarvi sovente, nè spirarvi nell’animo (non dirò le più utili istituzioni di letteratura) ma certamente l’amore delle lettere, e l’amor della patria, da che l’uno non può mai andare disgiunto dall’altro. Avrei così stabilito tra voi e me, un patto d’alleanza sotto gli auspici delle muse e dell’Italia, si che quand’anche dopo que to mese non mi fosse più dato di rivedervi, quand’anche le mie opinioni dissentissero dalle vostre, il patto rimarrebbe santificato in voi dalla memoria della mia buona volontà, ed in me dalla gratitudine per la vostra fiducia nell’ascoltarmi.
Or a me non rimane che di vedervi ancora poche volte, ma senza lusinga d’avere spazio ad ammaestrarvi in ciò ch’io posso sapere; pero non dissimulo ch’io colgo questi ultimi avanzi di tempo non per altro che per mirarvi qui radunati e vivere almen quanto ancor posso tra voi, e confortarvi ad amare nobilmente le lettere e con l’amor vostro per esse e con le speranze che il vostro numero e la vostra giovinezza mi porge a confortarmi io pure a non abbandonarle in sì difficili tempi. Poichè ormai le inquiete vicissitudini degli stati, e il decadimento delle arti d’immaginazione, e il freddo calcolo delle scienze a cui par che si vogliano sottoposte tutte le grandi e generose forze degli ingegni e le fazioni delle scuole letterarie, e la scarsezza degli uomini grandi in letteratura mi avvisano che difficilissima è la gloria, e scarsi gli emolumenti della letteratura; che chiunque la coltiva non deve riguardarla come feconda di onori, di comodi, e di riposo, ma soltanto come consolazione del cuore, ed aiuto alla costanza della mente e alla interna dignità della vita.
Ma pure anche questo nobile e discreto fine a cui, rinanziando ad ogni altro profitto, possiamo rivolgere i nostri studi, da quanti inciampi non è attraversato? l’ignoranza degli uomini potenti, l’invidia de letterati avari e venali, le cieche vicissitudini che governano il genere umano, le perplessità finalmente delle nostre passioni congiurano sempre a smoverci da forti proponimenti, e ad intorbidarci nell’animo la sorgente de’ più secreti e disinteressati conforti.
Questa considerazione sulla difficoltà somma di procacciare a noi stessi la voluttà e la pace del cuore per mezzo dello studio, mi trasse ad esaminare particolarmente per quali cagioni le lettere si spesse volte tornino a tormento ed a vituperio, anzichè ad ornamento ed a gioia de’ loro cultori. E nondimeno gli studi e l’esempio degli uomini illustri devono certamente insegnarvi che il cuore solo, e la mente sola sono gli artefici di ogni opera degna d’immortalità. Non dobbiamo quindi tollerare che l’animo artefice di opere nobili sia contaminato dall’invidia, dalla malignità, dalla vendetta, dall’adulazione, dall’impostura, dalla menzogna, dalla servitù, e dagli altri vizi che deformano e spezzano tutte le forze dell’intelletto. Or concedasi pure che sì fatti vizi siano insanabili e provengano dall’indole particolare di alcuni individui, non è però meno vero che molti animi generosi, quantunque soggetti alle altre passioni dell’uomo, son pur sempre incontaminati da quelle sozzure: e questi spesso ci tocca di vederli infelici, appunto perchè son perseguitati da coloro che più sono corrotti. Or se la loro sventura dipende dall’altrui malignità, non dovrebbero, a quanto mi pare, concedere che gli uomini vili abbiano in loro potestà la pace e la dignità de’ generosi. Invece accade pur troppo il contrario; e quali siano i mezzi di preservarvi da questo giornaliero ed immeritato infortunio, credo prezzo dell’opera di esporveli, o giovani, discorrendoli oggi con voi dopo di averli da gran tempo discorsi coll’esperienza degli uomini e con me stesso.
Voi parteciperete fra non molto del grande commercio sociale, ove per volere della natura tutti gli individui vendono e comprano vicendevolmente le loro merci. L’opinione presiede al commercio come a tutta la nostra vita. Ma fra le merci che ritraggono la parte maggiore del loro prezzo dalla opinione, sono certamente quelle che le cure delle vostre famiglie, e la vocazione del vostro ingegno vi mandano ad acquistare nelle scuole, Nè bisogna lunga esperienza a conoscere che ogni uomo tende a ricavare il maggior vantaggio possibile dalle proprie merci, e che quindi quanto più la merce è soggetta a’ prezzi d’opinione e di affetto, tanto più coloro che devono trafficarla devono anche studiarsi di adescarsi la migliore opinione e la benevolenza de’compratori. Or le lettere comportano tre specie di traffico. Si acquista per mezzo del loro capitale, il diletto, il sapere, e la dignità della mente; s’acquista la stima de’ concittadini e la celebrità del nome tra’ lontani e tra’ posteri; s’acquistano gli onori, le cariche. gli emolumenti, e tutti que’ beni i quali giovanoagli agi ed alle voluttà della´ ta, Chi avesse tanto capitale letterario e tanta industria e fortuna ad un tempo da fare unitamente questi tre traffici, sì ch’ei provedesse nel tratto medesimo, e alla felicità della mente, e alla gloria del nome e alle comodità della vita, quei senza dubbio sarebbe giudicato sapientissimo e felicissimo tra gli uomini tutti. Ma la sapienza e la felicità non sono se non desiderio dell’uomo; nè potrebbe essere sapiente o felice che quando cessasse di desiderare; invece vediamo che siamo creati per vivere in desiderio continuo; e la speranza e il timore che sono elementi come dell’umana vita, così del desiderio, sono ad un tempo voleri della sapienza e d’ogni tranquilla felicità.
Resta dunque, o giovani, che l’uomo rassegnandosi ai decreti della natura, tenti almeno di trarne il maggiore vantaggio o il minor danno possibile. La letteratura è, come io credo di aver dimostrato’altra volta, inerente ai bisogni e alla facoltà dell’umana società, ed io la definirei la facoltà di diffondere e di perpetuare il pensiero. E quanto questa diffusione e questa perpetuità, eccitando le passioni e l’ingegno degli uomini riesca a riunirli sempre più in società, ad alimentare l’operosa attività del loro intelletto, o a propagare le poche verità che possiamo conoscere, a far aborrire i vizi ed amar le virtù dell’umana natura eccitando le più generose passioni, e rintuzzando le più maligne, non fa d’uopo ch’io proceda a di mostrar velo da che parla la cosa stessa. Che se, come pensano i detrattoti degli umani istituti, le lettere sono corrompitrici dell’uomo, questa colpa è ad ogni modo da ascriversi alla eterna ed arcana natura che ha dato ad ognuno sì fatti bisogni, e sì fatte facoltà; or finch’essi declamando non possono cangiare nè in ciò, nè in verun’altra cosa il sistema del mondo, noi ci contenteremo di tollerarlo virilmente, e di valersene accortamente dacchè la natura nel tempo stesso ci ha dotati e di coraggio contro i mali inevitabili e di accorgimento per profittare dei beni toccati in sorte alla nostra specie. Sia dunque un bene o un male la vita, vero è che viviamo; sia bene sia male la letteratura, non è meno vero che nel mondo vi fu sempre e vi sarà finchè i pensieri e gli affetti degli uomini avranno bisogno di una comunicazione reciproca. A voi spetta di far della vita e delle lettere l’uso migliore, o se così più vi giova, d’abbandonarle, che niuna forza o ragione può nè opporsi nè costringere a si fatto divorzio. Bensì chiunque per rale tendenza e per l’educazione ed i casi sociali s’appiglia all’esercizio d’un arte, non può senza nota d’insensatezza trascurare quell’utilità che l’arte potrebbe recargli. E s’è già dichiarato essere sovrumana fortuna applicare la letteratura a tutti e tre i diversi traffici di cui l’abbiamo creduta capace; ben si può acquistare per essi o sapienza, o gloria o voluttà, o due fors’anche di questi beni, non tutti ad un tempo, e se talvolta tutti, non mai certi e perfetti, quantunque a tutti aspiri infaticabilmente la nostra immaginazione. Or se in noi sta la scelta, scelgasi, e soprattutto scelgansi i mezzi che ci facciano prosperare quella parte di traffico da noi preferita, e ce la preservino in modo che nè spada d’uomo, nè immutabilità di fortuna valgano a rapirnela mai.
Però s’io non ebbi nè sì accomodata occasione, nè ingegno sì pronto di dichiararvi com’io aveva intrapreso i principii che guidano alla letteratura, crederò di soddisfare in parte al debito suggerendovi alcuni consigli, perchè quando altri precettori, o il vostro genio v’abbiano guidati alle lettere, possiate poi farle strumento della vostra prosperità. E a che mai giovano la bellezza, il valore, il sapere, la ricchezza; a che la stessa virtù se questi beni non si rivolgono a calmare le infermità della nostra vita? Chi le possiede non potrà mai sacrificare con gratitudine alla natura calla sorte se non quando sa (li essere per esse meno infelice; che se poi, come avviene assai volte, si convertono in danno ed in vergogno, ed in lacrime del possessore, quest’uomo è sciaguratissimo Ira tutti gli altri, si perchè non può de’suoi mali accusare che se medesimo, si perchè non so a chi ricorrere per trovare rimedio alla propria follia. Or dunque profittiamo del tempo che viviamo. Ricerchisi quale è il frutto migliore che i letterati per la propria felicità possono ricavare dalle loro arti.
Tutta la lei tel atura d’ogni nazione consiste ne’poeti, negli oratori, c negli storici; l ’eloquenza è la facoltà che dà colorito, disegno, ed anima a queste tre parli della letteratura. Qualunque siasi la materia che i poeti, gli oratori, e gli storici trattino non rileva; purché sia animata dall eloquenza. Anche l’agricoltura diventa poetica in Virgilio, la politica la giurisprudenza e la metafisica diventano oratorie in Machiavelli, in Montesquieu ed in Platone, l’astronomia e l’anatomia stessa degli animali diventano sublimemente ¡storiche nella penna di Baylli e di Buffon. Or l’eloquenza che è il carattere generale ed ingenito della letteratura, distinguesi da ogni altra facoltà ed arte dell’uomo, perchè esercita l’Intelletto non per mezzo dei sensi come la musica e la pittura, non per mezzo del raziocinio come fanno i calcoli matematici, e le dimostrazioni scientifiche, bensì per mezzo del calore delle passioni e dell’energia della verità. L’eloquenza in somma qualunque argomento maneggi, e sotto qualunque forma in prosa o in versi, deve ottenere che il cuor senta, che l’immaginazione s’infiammi, che le idee si dipingano vive, calde c presenti dinanzi la mente, e che queste fortissime sensazioni ed idee risveglino ed invigoriscano l’attività della nostra ragione e ci facciano non tanto calcolare la verità, quanto sentirla e vederla. Se cosi è, coni’ io credo, e crederò finché non mi sia provato altrimenti, è chiaro che la letteratura è una merce la quale nel commercio sociale non ha rapporti che con le passioni degli uomini e con le opinioni che si credono più vere e più utili ai tempi, ed alla società in cui vivono gli uomini letterali.
Poniamo dunque un letterato che per necessità famigliar!, o per avarizia o prodigalità voglia rivolgere principalmente le lettere all’acqui sto di denaro, di poderi o di que’ pubblici impieghi e privati che possono procacciar ricchezze. Avendo egli come letterato rapporto unico quasi e diretto colle passioni e le opinioni degli uomini, certo è che egli non può se non secondare le passioni e le opinioni, quali pur sieno, di coloro che essendo ricchi e potenti gli possono essere liberali di danaro e di cariche. E certo è, parmi, per direttissima conseguenza, che tutto quello che piace alla ricchezza deve essere adornato da questo scrittore, e tutto quello che le dispiace vituperato e taciuto. Non già che si debba stranamente disprezzare la ricchezza, poichè finchè si vive in una società ove il danaro è il rappresentante di tutte le necessità ed i comodi della vita, ed è inoltre strumento dell’individuale indipendenza, non si può disprezzare senza essere o divinamente esenti da ogni umano bisogno, o stolidamente incuranti della propria indipendenza. Inoltre la ricchezza presa assolutamente in se stessa non può se non destarci certo desiderio ed anche certa stima di se. Infatti a questa idea di ricchezza sono associate le idee di educazione nobile e liberale, d’industria e d’attività nell’aquistarla; di facoltà di giovare alle arti, di beneficare gli amici, di sollevare gli oppressi, l’idea finalmente di grandezza d’animo e di libertà di pensiero, dacchè la ricchezza aggiunge molto coraggio e toglie molte catene al mortale che la possiede. Ma tutte le cose devono primamente essere stimate sino ad un certo grado e non più; in secondo luogo devono essere stimate più o meno anche a norma dell’uso che se ne fa. Or quanto al grado di stima dovuto alla ricchezza, credo che si possa assegnarlo con precisione così: la ricchezza va stimata più di tutte quelle cose che ella può dare, e meno di quelle cose che ella non può dare. S’ella dunque per se non può darci nè la costanza, nè il valore, nè la saviezza, nè la compassione, nè l’ingegno, nè gl’incanti della bellezza, nè la delicata voluttà delle muse, nè l’amore schietto e soave, nè l’amicizia, nè il sacro amor della patria, nè tante altre di quelle virtù che spirano in viso un certo che di celeste alla misera e mortale natura dell’uomo, a queste virtù incomparabili la ricchezza deve essere fuori d’ogni dabbio posposta. Or diciaino anche dell’uso della ricchezza; quel verso Di tibi divitias dederunt artemque fruendi, è pieno di filosofia, e ci fa lampeggiare nella mente questa bellissima verità; che l’arte di godere di ogni bene della vita è l’anima unica del bene. Ma voi o giovani richiamate alla vostra memoria tutto ciò che avete letto ne’ libri intorno all’uso che gli uomini fanno della ricchezza; volgete gli occhi e il pensiero a’ vostri concittadini, e confesserete che di questo bene si fa le più volte il peggior uso possibile, e che l’ignoranza. l’orgoglio, la vanità, la crudeltà, la dissolutezza, la oscenità, l’ingiustizia, l’avarizia, l’inumanità in somma hanno per loro incitamento gli agi e l’opulenza, e che se v’è bene che si corrompa nell’uomo è certamente questo della ricchezza. Che se tali sono per lo più le passioni e le opinioni degli opulenti, l’uomo letterato che per avere danaro cerca di secondarle non può essere che sciaguratissimo. Però che egli è sottoposto ai capricci ed alla malignità delle passioni alle quali interde di vendere la sua merce. Domiziano odiava la virtù di Tito mentre era imperadore, dunque Stazio che voleva oro ed impieghi da Domiziano, che uccise Tito e che ne abbruciò fino le ceneri, doveva come fece, comporre la Tebaide. e dipingere Tito sotto le sembianze di generale usurpatore del trono del fratello. Augutsto temeva ancora la memoria di Bruto, e la costanza di Labeone, e Orazio dovea insultare all’ombra di Bruto, e versare fiele e sarcasmi sul nome di Labeone. Io non posso o giovani, pensare a Orazio senza maravigliarmi, come egli, in grazia delle virtù del suo stile, sia raccomandato nelle scuole, e nella letteratura si ciecamente, che non si veda quanto corrompa gli ingegni co’ vizi de’ suoi pensieri. Labeone di cui vi parlo fu celebre giureconsulto con temporaneo di Orazio, e la fama della sua scienza nelle leggi umane e divine sono ancora nei libri della romana legislazione; era senatore ed acerrimo partigiano della libertà, nè mai volle sacrificare alla possanza di Augusto; bensì stavasi tacito e obbediente col fatto al principe, ma adoratore della tomba della repubblica ch’egli aveva veduta gloriosa e possente, e quindi ritroso a tutti gli onori che Augusto vole va compartirgli per adescarlo e per avvilirlo. Solo una volta che nel senato fu chiesto a palesare la sua opinione, disse: poichè non posso liberamente tacere non devo indegnamente parlare, e parlò in sentenza contraria alla volontà dell’imperadore perch’ei la riputava più vantaggiosa allo stato. Ma quando si vede che Orazio volendo dare l’ultima pennellata alla pittura d’un pazzo solenne scrive insanior Labeone, e che nel tempo stesso si legge negli annali di Tacito sì bello elogio alla scienza e alla costanza di Labeone, chi non aborrisce la viltà d’un poeta che insulta ail un vecchio venerando ed inerme, perseguitato dal più forte, e a cui non rimaneva in quella condizione di Roma altro protettore ed amico che la sua virtù, nè altro asilo che il sepolcro dei suoi maggiori? Concedasi ad Orazio di vantarsi d avere disertato nell esercito di Unito, e quando militava per la repubblica, gettato vilmente lo scudo; concedasi eh egli si faccia merito di spergiuro, e di codardia presso Augusto capitano poco leale e poco valoroso egli stesso; concedasi che Orazio con la propria infamia magnilicandola in versi eleganti, si meriti protezione e danari. Orazio stesso ncH’epislola a Giulio Flaro fu professione eli’ egli aveva scritti versi per fuggire la povertà, e che divenuto agiato non aveva più cagione di scrivere
Paupertas impulit audax
Ut versus facerem.
Se per altro in alcune circostanze sarà tollerabile che si venda l’ingegno, è cosa ad ogni modo esecrabile per tulli gli uomini, e sacrilega in ogni tempo il perseguitare la virtù, il calpestare la vecchiezza inerme, l’invitare la possanza d’un principe contro la debolezza d’un cittadino innocente; e non per altro che per denaro. Sappiamo che Virgilio e Pindaro vollero pur essi ritrarre ricchezze dal loro ingegno, ed è da notarsi che Orazio in un’ode diretta a Virgilio gli scrive
Mitte tristitiam et studium lucri,
Ma quest’amore di lucro non trasse Virgilio a verun atto inumano, nè a niuna professione d’impudenza e di codardia. La memoria di Cicerone doveva esser temuta da Augusto quanto l presenza di Labeone; Virgilio non insulta mai Cicerone; ma non lo nomina mai: con si fatto temperamento provide e al debito di cortigiano, e a quello d’uomo amico delle lettere; e infatti quando in certe cose non è libera la parola è liberissimo sempre il silenzio. Quanto a Pindaro quel suo desiderio di cambiare i frutti del suo ingegno per mezzo della richezza ha del giusto e del generoso. Io, dic’egli, fui adornato dal cielo del dono di esaltare con l’armonia e con l’immortalità del canto le nobili imprese, e mandar luminosi nel lontano avvenire i nomi degli uomini. Or voi vincitori lieti dei doni della fortuna compensate chi vi fa più bella e più permanente la corona della vittoria. Tutti non possono possedere i favori de’numi: a me diè il fato l’amabile canto, e a voi le nobili imprese che vi recano, e possanza e dovizia; ed i mortali ricambiandosi i loro beni s’aiutano reciprocamente a fornire questo loro affannoso viaggio dalla culla alla tomba. Egli dunque secondava la propria passione, ma palesemente e liberamente; egli offeriva lodi per oro; ma per l’oro soltanto di quelli che l’avevano acquistato per mezzo di nobili imprese e che quindi erano degni di lode. È anche memorabile l’accorgimento di Pindaro nel lodare que’ vincitori di giuochi, i quali sovente non erano che cittadini privati e di fama poco celebre nella Grecia. Nè la vittoria, nè i nomi erano tali da conferire a un’alta poesia, e da giustificare le lodi. Ma il poeta coglie l’occasione dei vincitori per celebrare le città greche a cui egli apparteneva; rammemora il valore degli antenati di coloro a cui l’ode si dirigeva; i trofei della sua patria, la santità delle sue leggi; ed illumina la storia passata d’una repubblica, consiglia indirettamente chi la governa sotto pretesto d’onorare il di lei cittadino. Idoleggiava nel tempo stesso tutte le sentenze della filosofia, tutte le massime della politica, tutte le opinioni della religione, e diffondeva così le verità utili e care alla Grecia, esercitando in questo modo le più forti passioni e le opinioni più santificate di una intera nazione. Pindaro dunque non distoglieva la letteratura dal suo fine principale; che s’egli perciò voleva raccorre da lei alcun agio alla vita, chi può ascriverlo a disonore ed a colpa?
Vero è ch’ei si sarebbe procacciato più merito con la poesia e con la virtù, s’egli avesse aspirato ad un prezzo assai più magnifico della ricchezza, quello cioè di applaudire al valore e alla gloria senza alcun interesse. Ma quanta diversità nondimeno in Orazio, Virgilio, e Pindaro! Orazio assoggettava la letteratura interamente e positivamente al guadagno. Datemi danaro e maledico le ceneri di Bruto; poi si vede ricco e non fa più versi. Virgilio l’assoggettava al guadagno negativamente ed in parte; a lui bastava l’aver ricchezze dal principe per viversi indipendente ed attendere a’viaggi ed agli studi rimunerò il principe coll’incenso dell’adulazione, ma incenso non misto mai al fuoco di vittime umane. Di fatti sappiamo che il quarto libro del perfetto poema delle Georgiche finiva con un episodio in lode di Gallo; Gallo era stato benefattore, e viveva amico di Virgilio; ma congiurò contro Augusto, e fu punito; il poeta avea cantato neget quis carmina Gallo? ma aveva pur cantato Dulces ante omnia musae; non volle dunque sacrificare per ferità la dolcezza delle sue muse all’amicizia di Gallo. Tolse dalle Georgiche ancora inedite l’episodio che poteva offendere Augusto; ma non tolse gl’encomi a Gallo dalle Egloghe che correvano già pubblicate. All’episodio consecrato all’amico, e sacrificato all’ira del principe sostituì non le lodi d’Augusto, ma que versi celesti della favola di Aristeo e della morte di Euridice. L’argomento dunque della condotta di Virgilio conclude cosi: io non poteva scrivere senza agi e senza il favore del principe; l’ho dunque adulato; ma io non poteva acquistare stima a’miei scritti se all’adulazione avessi unita l’infamia e la malignità; ho dunque conservata la verecondia e la bontà d’animo anche nell’adulazione. Ma Pindaro adonesta ancor più di Virgilio il suo amore per la ricchezza. Dalle sue poesie si scorge che egli considerava la ricchezza e la virtù come due beni, senza de quali non v’è felicità sulla terra. Callimaco segui questa opinione ed imitò l’antico lirico negli ultimi versi dell’inno a Giove. «O Re dell’universo, dic’egli, concedi a noi virtù e ricchezza; la ricchezza senza la virtù non basta agli uomini; nè la virtù senza ricchezza». Pindaro quindi non isdegnava la ricchezza finchè non contaminava la virtù, ne seguiva eroicamente la virtù in modo che egli perdesse così la ricchezza. Abbiamo già veduto com’egli cantasse senza apparenza di adulazione i nomi de’ vincitori de’ giuochi; e come nel tempo stesso non sacrificasse la letteratura alle passioni basse e alle dannose opinioni degli uomini. Vediamolo anche alle strette. Pindaro fu in una occasione incalzato e dall’avidità del danaro e dal timore del più forte. Arcesilao Re di Cirene volle essere celebrato dal poeta Tebano. Il poeta desume argomento di poesia nobilissima illuminando i tempi eroici quando Giasone nelle sue imprese cogli Argonauti fondò il regno di Cirene; loda quindi Arcesilao paragonandolo indirettamente al fondatore del suo regno; e con l’esempio della sagacità di Giasone gli suggerisce consigli altissimi di politica necessaria a’regnanti. Ma Giasone, conclude il poeta, Giasone ch’ebbe a tollerare tante avversità delle sorti, tanti pericoli nelle imprese, tanta invidia degli uomini, perch’era clemente e magnanimo vinse non solo i concittadini, ma i nemici stessi colla generosità che egli avea imparata da Giove immortale, che perdonò a Titani e sciolse Atlante dalla pena che egli erasi meritata. E d’una colpa, ma sola, ma nobile colpa è reo verso di te il poeta Demofilo; ti guerreggiò nelle battaglie civili quando ei sperava di liberare la patria. Ah non sapea che la pace, benchè servile, dev’essere preferita ad una sanguinosa libertà! Ma Demofilo giovine ancora negli anni non s’accorgea che la vita rapidissima ed incerta precipita, e che i pochi beni presenti vanno colti senza fidarsi nell’avvenire, il quale o non viene, o viene dopo avere scemati i giorni dell’uomo. Ma questo giovine è caro ad Apollo ed a me: lui piangono i suoi concittadini, lui sospirano le vergini Orenee, che pel suo ritorno apparecchiano corone di soco; cola la madre domanda nella disperazione del suo dolore un’urna dove possa raccogliere almeno le ceneri del figliuolo e lagrimare nella sua vecchiaia sovr’essa.
Ma tu, o re, richiama Demofilo dall’esilio: mostra alla sua patria, e a lui, tutto lo splendore delle tue virtù, persuadilo colla tua clemenza; e me pure il tuo valore e i tuoi doni persuasero a celebrarti allora anch’ei t’allegra l’animo colla stessa dolcezza ed armonia delle muse le quali sorridono a quest’inno. Intanto Demofilo siede dolente sulle montagne di Tebe e volge gli occhi alle spiagge australi ove lasciò la sua patria, nè la lira confortatrice degli umani dolori gli giova omai se non per piangere più amaramente sovr’essa le gioie perdute, e che tu solo puoi rendergli. In queste ultime strofe della quarta ode Pitica, eccovi un modello di finissima lode e di umanissima libertà. Pindaro non nega d’essere persuaso da’doni di Arcesilao, ma non per questo cessa di esortarlo alle regie virtù e alla clemenza; loda altamente se stesso, ma con quanto amore non palesa egli il merito di Demofilo? Nel tempo che egli celebra un re insanguinato ancora ne trofei della guerra civile, osa raccomandare i pregi di un’incognito repubblicano esule dalla patria che pur non aveva nè ricchezze nè potestà di gratificarsi l’animo del poeta. Quindi appare che il lirico greco reputando, come s’è detto, due beni indispensabili alla vita, la virtù, e la ricchezza, non seguiva la virtù così eroicamente che gli togliesse la ricchezza, nè anelava sì vilmente alla ricchezza che gli contaminasse la virtù. Io vi ho lungamente recati gli esempi e il paragone di tre illustri poeti nel contegno della loro vita in ciò che riguarda il guadagno perchè possiate aver campo d’imitazione e di ragionamento. Ma pochi possono avere l’ingegno e le circostanze di Orazio e di Virgilio, ne’ secoli di Mecenate e degli Augusti ricorrono si frequentemente nel mondo; pochissimi hanno quella mirabile filosofia di Pindaro da sapersi appigliare a tale temperamento di onestà e di guadagno; e nel fondo, Virgilio e Pindaro non volgeano in tutto come Orazio le lettere al traffico del solo danaro, nè quest’era la principale cagione, bensi l’accessorio degli scritti di que’due sovrani scrittori. Non si può dunque col loro esempio distruggere ciò che si è conchiuso poc’anzi, ed è; che lo scrittore che non tende che alla sola ricchezza, ed a questo unico scopo assoggetta le lettere, nè può se non lusingare le opinioni e le passioni di chi la possiede e può darla. Or le passioni e le opinioni degli opulenti essendo inquietissime spesso, spesso conosce il letterato, che nel secondarle non può essere che sciaguratissimo. E certamente prima e somma sciagura si è quella di non poter dire sempre quelle verità che ci parlano nel profondo dell’animo, e che crediamo utili all’arte e alla patria, ma che affrontano lo sdegno de’potenti; però il profeta Calcante negava di dire il vero benchè fosse ispirato dai Numi, e volle prima che Achille gli promettesse difesa.
Però che i due doni l’uno della ragione non l’abbiamo dalla natura se non per discernere il vero e l’utile; e l’altro dell’eloquenza non l’abbiamo se non per comunicare con gli altri e procacciare ad essi diletto ed utilità. Ora il possedere poco e nulla questi doni è minor martirio che il possederli pienamente e non potersene giovare. A questa sventura s’aggiunge l’altra dell’infamia; perchè non solo a chi può dare ricchezze si deve tacere la verità che of fende, ma bensì dire, e sostenere e adornare la menzogna che gli piace. E gli uomini benchè per la maggior parte sieno incapaci a distinguere evidentemente il vero ed a palesarlo utilmente, non sono inetti a sentirlo e ad accoglierlo, che anzi tutti hanno nel cuore e nelI intelletto i germi e il desiderio del vero, e perciò solo il letterato che lo palesa e che lo rende certo e caro con l’eloquenza si procaccia la fede e l’amore degli uomini; ed il vero ha questa proprietà di riescire più splendido agli occhi mortali, quant’è più illuminato dal nostro ingegno. Per la stessa ragione il letterato che adonesta il vizio, e tenta di adornare la falsità, non può non essere per la natura stessa del vizio e del falso agevolmente convinto, e quindi tenuto a vile e come ingannatore, aborrito. Se dunque la ricchezza è da preferirsi alla stima e all’amore del genere uma no chi sel crede ne profitti, ch’io mi rimarrò in quella sentenza di Platone: che due freni hanno gli uomini in società, il pudore e il patibolo. Però parmi che chi perde il pudore non può avere altri maestri che lo divezzino dalle colpe tranne il carceriere e il carnefice. Ora due sono in ogni stato le fazioni perpetue le quali cospirano colla loro tacita discordia alla concordia comune d’una nazione; gli oppressori e gli oppressi. Non si può pigliare. tutte le parti dell’uno senza offendere le ragioni dell’altro: le leggi pongono è vero l’equilibrio tra le forze di queste fazioni, ma se condannano certe colpe e ricompensano certe virtù non però valgono a correggere le triste abitudini ed i vizi inerenti in queste due sette. Più delle leggi può bensì la forza delle ragioni e l’onore delle opinioni, e forse quest’onore stà nella voce degli scrittori che possono insinuarlo; se gli scrittori dunque adulano l’una delle due fazioni sono odiati dall’altra, se tutte e due sono tenuti uomini vili e leggeri e non si tardi, perchè le loro arti sono per proprio istituto palesi. Non resta dunque che di dire il vero, il quale se in alcuni tempi e da taluni spesso perseguitato, vive ad ogni modo e regna sempre nella maggior parte degli uomini, e per tutte l’età del mondo. Rispondesi con l’esempio di Orazio, che quantunque egli adornasse la falsità e perseguitasse malignamente tutti quelli che erano odiati da Ottaviano, non però fallì il suo intento, perchè visse piacevolmente, ed è anche a’di nostri reputato fra i poeti che furono in vita più lieti e dopo morte più gloriosi. Così si stima da chi non guarda nè dirittamente nè spregiudicatamente: a me in vece pare il contrario. Dico dunque che se gli agi e il favore de’ potenti bastano alla felicità della vita, confesso che Orazio fu felicissimo; se le lodi de’ critici, de’retori, e di tutti coloro che riguardano le lettere come i suoni della musica, confesso anche che Orazio è glorioso poeta. Ma le ricchezze e gli agi non possono dare assai di quelle cose di cui tutti gli uomini e specialmente i letterati nutrono desiderio: certo che se Orazio adulava i vizi d’Augusto e de’ suoi cortigiani non peteva essere nè stimato, nè amato da quegli antichi compagni di Catone, di Cicerone, di Pompeo; non da letterati che pur venerano ancor la memoria di queste grandi anime; non dagli amatori della repubblica; non da coloro che piangevano ancora sulle carnificine d’Augusto e che per tutta Italia cercavano di raccogliere le ossa di mille proscritti, non degli uomini infiniti beneficati da Antonio; non dal popolo Romano in somma, a cui tutti quegli uomini celebri che disprezzavano Orazio, doveano pure avere ispirato lo stesso disprezzo. E per quanto un poeta scriva squisitamente, tutti coloro che hanno giuste ragioni di essere avversi non sono allettati dall’arte sua; Orazio dunque viveva in ira a una gran parte de’ suoi concittadini, nè da quest’ira, nè da questo disprezzo potea redimersi con l’oro di Mecenate e d’Augusto. E poichè egli confessa che lo scopo principale della sua poesia era il guadagno, io lo loderò di esser riescito nell’intento. Ma all’amore dell’oro s’aggiungeva anche in Orazio il desiderio di fama, e il timore dell’altrui sdegno, l’ambizione insomma e molte delle altre passioni che governano l’uomo, e di ciò fa testimonianza il suo libro. Soddisfatto il desiderio della ricchezza, queste passioni dovevano senza dubbio agitarsi in lui più fortemente; ma non potè soddisfare anche queste passioni le quali benchè seconde, furono lunghe e più infelici. È notabile che mentre egli si sbraccia a lodare or l’uno or l’altro degli scrittori suoi coetanei, niuno ad ogni modo non nomina Orazio, nè Virgilio a cui diresse tre odi; nè il verecondo e sdegnoso Tibullo, a cui intitolo un’ode e un’epistola; niuno insomma, tranne Ovidio, cortigiano anch’egli e dissoluto per natura e per professione, benchè nè avido, nè maligno, che in una elegia ove loda gli altri poeti nomina Orazio quasi ricordandosene perchè andava recitandogli i suoi versi:
Et tenuit nostras numerosus Horatius aures.
ove quel tenuit mi par che spieghi la solita insistenza de poeti recitanti, e il numerosus, e l’aures, certa poesia più sonora che passionata. Non fu dunque Orazio così felice come si crede; e basta leggere con certo studio del cuore umano i versi di Orazio e segnatamente le epistole, e si vedrà che quel vagar di sistema in sistema, quel confessarsi or corrotto discepolo di Epicuro, or deliberatissimo stoico, quel non aver pace con se medesimo quel cercare avidamente il favore de’principi fino a dichiarare che
Principibus placuisse viris non ultima laus est,
e sospirare ad un tempo si ansiosamente l’ozio e l’indipendenza della campagna; quel correre a’ conviti de’ grandi, ed odiare poco dopo lo strepito ed il fumo di Roma; l’esaltazione dei buoni costumi, e il disprezzo ch’egli mostra per i critici de’ suoi versi, e le difese ch’ei fa ad ogni leggiera critica, mentr’ei si loda delle´ proprie oscenità, non sono certo contrassegni di un’anima contenta e tranquilla, e che riposi sopra saldi principii. Nè i poderi dunque acquistati da Orazio, nè un Augusto che lo onorava, nè un Mecenate che lo favoriva, bastarono a farlo felice; e non bastano a persuadermi che le lettere, giovino alla nostra prosperità quando sieno rivolte a procacciarsi danaro. Questo sia detto su la pretesa felicità di questo poeta; e quanto alla sua fama dopo la morte, diremo altrove, quando vedremo quanto giovi alla vita felice la letteratura che non si volga che a cercar gloria.
Or via, per esaurire il discorso in questa parte che concerne la ricchezza poniamo un’ipotesi, e concediamo anche come fatto ciò che non può essere che astratta immaginazione: ed è che vi siano uomini i quali non abbiano per intento, per istituto, per unica passione in somma e perpetua che la ricchezza, e che per soddisfarla si valgano della letteratura. Concediamo anche che quest’uomo sia libero d’ogni pudore; concediamo che qualunque istituzione sociale, la quale non abbia in aiuto i carcerieri e i fiscali, possa essere calpestata. E se in Giulio Cesare si tollerò quel detto, che un regno meriti uno spergiuro, si tolleri in un letterato la massima che un podere merita una viltà.
Or si dirà; si ha egli a trascurare affatto l’utilità che per i bisogni e i piaceri domestici si può ricavare dalle lettere? Non affatto: ma questa utilità deve essere accessoria. Che s’egli è provato come parmi, che le lettere quando non si volgano che a cercare ricchezze non giovano alla felicità di chi le coltiva, è altresì chiaro che non si denno rivolgere alla sola ricchezza. In alcune società come nell’Inghilterra, il numero de’ lettori, la forza delle leggi, il gran prezzo de’ libri fanno indipendenti ed agiati gli scrittori; un letterato che riesca di utile o di diletto a’ suoi concittadini è sicuro d’arricchirsi con l’arte sua senza prostituirla. Non così tra di noi, che la facilità d’eludere le leggi che hanno i librai de’diversi stati in cui si divide l’Italia, la difficoltà di propagare con infidissimo commercio le opere in tuttii paesi italiani; il gusto finalmente che è diviso secondo la varietà e la disunione degli stati, e che fa in una città apprezzare un libro nel tempo stesso che vien disprezzato in un’altra, ed altre cagioni ch’io non conosco forse, fan sì che pochi stampatori arricchiscano, e molti autori impoveriscano; l’Alfieri il più celebrato tra i moderni scrittori non ristorò mai le spese della prima edizione delle sue tragedie alla quale prefisse un sonetto con quel verso
Profondo tutto in linde stampe il mio.
E chi come l’Alfieri non ha facoltà di profondere, deve spesso cercarsi un Mecenate che col premio della dedicatoria gli rifaccia le spese della stampa, o implorare come nelle collette da suoi concittadini che s’associno, non so dire se per la compassione o importunità dell’autore.
La nazione in Italia non può darvi che la sua stima e misera tra di voi a cui questa stima non è sufficente. Bensi verso agli uomini che l’hanno meritata, i governi i quali amministrano i beni del pubblico adempiono sovente a ciò che gli individui non possono fare, e questo è il frutto più onesto che un letterato nato e cresciuto povero possa sperare dalle sue fatiche. Nè solo può averne speranza, ma Socrate c’insegnò che può anche averne diritto, e palesarlo, perchè in quel giudizio ove ebbe indegnamente la morte, dopo d’essersi discolpato aggiunse che egli aveva fatto tanto di bene alla sua città, ch’essendo omai vecchio, povero, ed incapace ad altre fatiche anzichè il perdono di colpe che non avea commesse, meritava e domandava d’essere nudrito nel Pritaneo a spese della repubblica. Vero è che se da provvedimenti de’governi e de’ principi i letterati possono attendersi che siano liberati dalla povertà, non però devono credere che la letteratura sia ad essi per ciò solo sorgente di prospera vita: che anche questa fiducia si converte sovente in grave calamità. Non tutti i governi possono amare il vero, e quindi se i letterati non secondano le loro passioni danneggiano a se stessi; se le secondano danneggiano la loro fama e la loro patria. Inoltre l’instabilità delle cose mortali cangia a sua voglia, e in breve spazio di tempo le costituzioni delle città ed i Principi; e chi era nemico del tuo re diventa in brevissimo tempo tuo padrone; non puoi quindi servire all’uno e all’altro senza essere ingrato verso uno di loro, o se continui a lodare chi t’avea prima beneficato, corri grave pericolo di perder gli emolumenti che ti erano unica rendita. E quando si voglia serbare ogni umano rispetto, benchè non s’abbia nessun patrimonio, bisogna abbandonare in tutto le lettere e darsi ad un più sicuro mestiere, o sopportare con egregia costanza amando fedelmente le sue muse, senza patire che le calamità dell’indigenza valgano a contaminarle. Questo non dico io se non per tenere avvertito chiunque crede che basta essere letterato per essere provveduto, dacchè nemmeno l’ottima volontà de’ migliori principi può mai opporsi al capriccio delle sorti del mondo, perchè o lusingando, o minacciando costringono sempre gli uomini a secondarle. Nè lo dico per insinuare in alcuno di voi l’ostentazione sdegnosa di rifiutare i premi del governo; insensata ed ipocrita ostentazione, smentita appunto dal costume di tutti questi sprezzatori de pubblici beneficii. Seneca stoico ricusava dopo essersi estremamente arricchito, i doni di Nerone; ma continuava ad accrescere con l’usura quest’oro stesso già da lungo tempo accettato dal suo crudele discepolo. S’hanno dunque si a procacciare que’ beneficii dal pubblico, ma non con arti servili, non con la prostituzione delle lettere, non come munificenza d’un uomo qualunque, bensì come guiderdone che il tesoro della nazione contribuisce a chiunque sa coll’ingegno e con la fama ammaestrarla e onorarla. Ma la speranza di questi guiderdoni essendo tarda, fuggitiva, ed in balia degli uomini e della fortuna, non deve mai essere tale da persuaderci di coltivare le lettere con l’unico scopo di procacciarsegli.
Parmi sufficientemente provato come le lettere, ove si volgano all’acquisto delle ricchezze, non possano giovare alla felicità di chi le coltiva; resta a vedersi se con maggiore profitto si possano applicare alla gloria e alla perfezione dell’animo. Ma veggo omai ch’io vi vo trattenendo più di ciò che comporta l’assiduità che gli altri studi vostri esigono per gli esami imminenti; riserberemo dunque queste due parti rimanenti del discorso ad altra lezione.