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verecondo e sdegnoso Tibullo, a cui intitolo un’ode e un’epistola; niuno insomma, tranne Ovidio, cortigiano anch’egli e dissoluto per natura e per professione, benchè nè avido, nè maligno, che in una elegia ove loda gli altri poeti nomina Orazio quasi ricordandosene perchè andava recitandogli i suoi versi:

          Et tenuit nostras numerosus Horatius aures.

ove quel tenuit mi par che spieghi la solita insistenza de poeti recitanti, e il numerosus, e l’aures, certa poesia più sonora che passionata. Non fu dunque Orazio così felice come si crede; e basta leggere con certo studio del cuore umano i versi di Orazio e segnatamente le epistole, e si vedrà che quel vagar di sistema in sistema, quel confessarsi or corrotto discepolo di Epicuro, or deliberatissimo stoico, quel non aver pace con se medesimo quel cercare avidamente il favore de’principi fino a dichiarare che

          Principibus placuisse viris non ultima laus est,

e sospirare ad un tempo si ansiosamente l’ozio e l’indipendenza della campagna; quel correre a’ conviti de’ grandi, ed odiare poco dopo lo strepito ed il fumo di Roma; l’esaltazione dei buoni costumi, e il disprezzo ch’egli mostra per i critici de’ suoi versi, e le difese ch’ei fa ad ogni leggiera critica, mentr’ei si loda delle´