Amore nell'arte/Lorenzo Alviati
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LORENZO ALVIATI
G. Michelet.
Lo conobbi nel collegio di Valenza. Io aveva allora quattordici anni, egli ne aveva diciassette compiuti, ma il suo corpo erasi già sviluppato come a venti; in quella scolaresca di fanciulli egli rappresentava, colla sua statura elevata, colla sua testa di Apollo, un personaggio assai più imponente del maestro. Quell’immagine mi richiama le memorie più dolci e più pure della mia fanciullezza, mi evoca scene obliate da lunghi anni, rimembranze confuse, sulle quali il mio pensiero non sa tanto arrestarsi e scrutare da ritesserne intatta la tela. Difficilmente la nostra memoria ha la virtù di evocare un passato di quindici anni; ma spesso in quelle tenebre che lo circondano rimane un filo di luce che ci guida a rintracciare le gioie; spesso basta il profumo d’un fiore, un filo d’acqua, un suono, un nome, una fronda, per richiamarci le immagini di alcuni affetti, le circostanze di alcuni avvenimenti che si erano dimenticati da anni. Ma sono scene che l’intelletto illumina ad intervalli, a bagliori; quell’edificio si sfascia ricostruendolo; la memoria evoca e passa, poichè nella lotta che noi combattiamo col dolore non ci schermiamo che dal dolore dell’istante: nessuno potrà lottare ad un tempo colle sofferenze riunite di tutta una vita.
Non vi è mai accaduto di trattenervi in quelle lunghe notti d’inverno a meditare vicino al focolare, e, rimescolando le ceneri già fredde, rinvenirvi un piccolo carbone ancora acceso? Lo avreste veduto brillare in quel momento d’uno splendore vivissimo, ma subito impallidire ed estinguersi al contatto di quella luce a cui si era sottratto per sempre. Così è delle memorie. Esse non si arrestano più d’un istante; esse ricompariscono e fuggono; la loro apparizione è simile, nel mondo immaginario, all’apparizione fantastica dei trapassati: si mostrano e si dileguano, splendono come un baleno nella notte dell’intelligenza e si estinguono. E che cosa sono in fatto le memorie se non le reliquie della nostra vita morale, le sue salme, i suoi morti? È strano come la maggior parte degli uomini consideri la vita come un avvenimento continuato, e non s’avveda come noi moriamo ogni giorno, come seppelliamo ogni sera una parte di noi, anzi la nostra intera esistenza morale, poichè la sola vita fisica costituisce, nella sua decadenza progressiva, un fatto isolato e compiuto. E quante vite non abbiamo noi sepolte prima di morire! su quante care esistenze di un giorno non dobbiamo noi piangere! speranze, affetti, piaceri, nobili aspirazioni alla virtù, ebbrezze ineffabili dell’amore... a trent’anni la vita non è più che un immenso cimitero, sulle cui tombe noi veniamo a lamentare le gioie dell’esistenza che ci è sfuggita, e l’aridità dell’esistenza che ci rimane. — Dolci e serene memorie dell’infanzia, voi formate tutto il segreto de’ miei affetti, tutto il tesoro delle mie più care predilezioni. Oh potessi, dal sepolcro in cui giacete, evocarvi almeno un istante, per riabellire del vostro sorriso fugace questi miei giorni sconsolati e sofferenti!
Povero Lorenzo! E parmi di rivederlo là sotto quei pioppi, ove venivamo a riposarci dalle nostre passeggiate delle vacanze. Là il Po si allarga e forma alcuni seni incantevoli circondati da alberi secolari. Uscendo pieno ed unito dalle gole dei colli, si versa e si dilata nella pianura, ove le sue acque creano una vegetazione rigogliosa, e le rapide selvette dei salici, i cui fusti riuniti e raggruppati dai rovi e dai lentischi, coprono gli stessi sabbioni delle rive. Non un eco, non un grido sotto quei pioppi maestosi e giganti, le cui sommità riunite come un immenso padiglione ti nascondono spesso la vista del cielo. Nel meriggio dei giorni canicolari tu non v’intendi che il ronzìo delle ali delle libellule o delle mosche dorate, e solo nel mattino il lamento malinconico del cuculo ne risveglia gli echi più lontani e sonori. Allorchè quei lunghi fusti giganti, coperti dei loro ampi mantelli di licheni, emergono colla loro bianchezza dalle prime ombre della notte, sembrano acquistare forme o movenze di fantasmi; un mistero ineffabile di malinconia si diffonde per tutti quei luoghi; la natura vi siede mesta, quasi ritrosa, e vi crea nel silenzio i prodigi più meravigliosi della sua vegetazione. Vi sono infatti delle foglie grandi come ventagli, dei convolvoli ampii come le ninfee, dei livertizii che s’innalzano coi loro fusti tortuosi fino alle sommità più elevante degli alberi. E dove le sorgenti si dilatano in qualche seno e formano alcune bolle o alcuni canali, l’acqua si cinge tutto all’intorno come di una corona, e sono masse di piccoli fiori bianchi simile alle margherite dei prati; ma l’onda vi ha la trasparenza del cristallo, e vi si vedono andare e venire frotte timorose di pesci, mentre la luce riflette nel fondo sabbioso le forme singolari dei ragni ballerini che nuotano colle loro lunghe gambe su quell’immobile superficie d’argento.
Ritornando alle memorie più remote che la mia anima ha conservate di Lorenzo, mi si affacciano per le prime queste scene incantevoli della natura, che furono testimonii dei nostri dolori e delle nostre prime confidenze. Per un rapporto misterioso tra la natura degli esseri e la nostra natura spirituale, quasi sempre il carattere degli uomini si informa a quelle impressioni esterne che lo hanno colpito nei primi anni della vita. Le nostre idee, le nostre aspirazioni, i nostri giudizii avranno sempre un rapporto esatto, benchè incomprensibile, colla natura dei luoghi e delle cose che furono testimonii della nostra infanzia. Io sento che vi ha in me, nella mia indole qualche cosa di quel teatro della mia fanciullezza, di quei campi, di quelle acque, di quella vegetazione; in certi miei sentimenti parmi di scorgere un rapporto ben definito col profumo di certi fiori, colle loro tinte, coll’azzurro melanconico di quel cielo. Tali fenomeni, non che gli altri tutti della nostra natura, si manifestano, io credo, in tutti gli uomini; e se molti tra essi non se n’avvedono, è perchè la loro indole non li porta a meditare su sè medesimi; ma io penso che essi tutti sieno o possano essere poeti ad un modo: tutti subiscono le stesse impressioni, concepiscono le medesime idee; la diversità del loro valore sta nella diversità dell’espressione, nella forma — la letteratura non è che arte — noi vediamo che uomini turpi nella loro vita privata scrissero pagine sublimi; uomini sublimi per domestiche e sociali virtù, non seppero costrurre un periodo secondo le esigenze dei rettori. Se ciò non fosse, come avviene che un libro è inteso da tutti? trova un eco in tutti i cuori?
Lorenzo ed io ci amavamo di un affetto ardentissimo; ma il suo amore sentiva quasi della paternità, ed egli si tratteneva meco come avrebbe fatto con un fanciullo; le sue confidenze erano affettuose, piene, espansive; ma egli pareva rivolgerle a sè più che a me stesso; non pareva chiedere a me che di essere ammirato o compianto. Nè io indovinava allora perchè avrei dovuto compiangerlo: mi sfuggiva il segreto de’ suoi dolori — giovine, vigoroso, intelligente, libero come il suo pensiero, padrone di vagare a suo talento per quelle campagne, di contemplarvi tutte le mattine il sorgere del sole, di cercarvi a sua posta dei nidi, di farvi una colazione sull’erba, di sottrarsi, quando il volesse, alla dura tirannia dello studio — tutto ciò mi parea troppo dolce perchè io potessi crederlo sventurato, perchè non vi fosse tra noi chi non avrebbe mutata la sua sorte con esso.
I fanciulli, più che ogni altro, sono avidi della propria libertà, nè smarriscono questo amore che in proporzione delle abitudini che devono contrarre vivendo. La vita sociale è una lotta che espelle a dramma a dramma la natura dagli uomini, fino alla completa trasformazione dei loro caratteri. Le disillusioni, gli inganni, le cure, le lunghe infermità dello spirito, l’ipocondria, le terribili prerogative dello scetticismo e del dubbio non esistono nello stato naturale: esse non sono che un prodotto nella società. Nessuna legge havvi nella natura la quale ci faccia conoscere che il corpo e lo spirito debbono invecchiare ad un tempo, partecipando alle stesse fasi di decadenza: nulla potrebbe corrompere in essa la verginità primitiva dei nostri pensieri e delle nostre aspirazioni; in essa la vita non potrebbe essere che una fanciullezza eterna, che una giovinezza perenne.
Lorenzo era nato in un piccolo villaggio del Piemonte. Suo padre, costruttore e suonatore di organi, era venuto con lui, ancora bambino, a stabilirsi in una grande fattoria, di cui aveva come ereditato, per titolo di parentela, il diritto e i vantaggi dell’amministrazione dall’amministratore defunto. Quel vasto stabilimento era situato sulla riva destra del Po in una posizione incantevole. Lorenzo vi aveva passato la sua infanzia, e non era stato mandato alle scuole che a dodici anni compiuti. Suo padre aveva preferito valersene fino a quell’età per i servigi che poteva prestargli nel suo mestiere; e poichè egli era uno dei più vaghi fanciulli dei dintorni, inorgoglivasi di condurselo seco a tutte le feste dei paesi vicini, ove egli suonava nelle chiese ed ove il suo giovine allievo era incaricato di muovere i mantici degli organi. Ma dopo alcuni anni quest’umile attribuzione era divenuta tediosa a Lorenzo: egli aveva già appreso da suo padre i primi erudimenti della musica, e aveva voluto ribellarsi a quella schiavitù che non lo rendeva che uno strumento dell’arte, che lo condannava a ignorarne per sempre i segreti. Non era artista, ma voleva divenirlo; non ne aveva il genio, ma lo presentiva. Egli aveva conosciuto che doveva in qualche modo dirozzare la propria intelligenza, apprendere a frenare i trasporti della sua natura impetuosa e selvaggia prima di abbandonarsi allo studio dell’armonia, allo studio di un’arte in cui tutto è raccoglimento e pensiero; si era perciò deciso di frequentare le scuole, e fu allora che io lo aveva conosciuto a Valenza.
Pochi fanciulli si erano sviluppati come lui a dodici anni. Lorenzo attraversava il Po a nuoto quando era gonfio, prendeva i nidi delle ghiandaie sulle punte più elevate dei pioppi, raggiungeva le lontre alla corsa, aveva disegni e ardimenti proprii di un’età più matura; onde soffriva di quell’inazione a cui lo condannavano le discipline dello studio. Non vi si dedicò che per cinque anni, e a malincuore: si sarebbe detto che egli vi interveniva per una violenza che la sua mente esercitava sulla sua natura, per una forza di volizione straordinaria: la sua intelligenza era aperta, forte, serena: dopo un anno di studio egli ci aveva raggiunti, poco dopo ci aveva superati, e in breve tempo eragli rimasto più nulla da apprendere di quelle aride e sterili cognizioni, di cui si era sempre pasciuto lo spirito, e impicciolite e ingannate le nobili aspirazioni della gioventù nelle scuole.
Tutto era stato precoce in lui; la natura vi aveva sviluppato l’uomo prima del fanciullo; alla sfrenata vivacità d’un istante era successa una calma pensierosa e profonda; tutta la potenza della sua vitalità si era trasfusa nell’operosità febbrile dello spirito; si sarebbe detto che quella vita, che appariva in lui come raddoppiata, fosse pur duplice nella forza e nella celerilà della sua azione. Ed egli lo sentiva; egli aveva forse il presagio di un’esistenza breve e affannosa, e affrettavasi a trasvolare con rapidità sull’oceano de’ suoi dolori e delle sue gioie.
E infatti tutte le anime elette, tutte le intelligenze elevate hanno provato questa impazienza tormentosa, quest’avidità irresistibile dell’avvenire, questo bisogno di pascere lo spirito delle dolci seduzioni dell’ignoto. Oh potessi divorarmi la vita! È il voto, è l’esclamazione di tutte le intelligenze superiori: voto e aspirazione eloquente, che rialza un lembo della mistica cortina del futuro, che le riconforta e le rassicura del loro destino immortale. Nate per l’eternità, esse sentono il peso del finito, e anelano di spezzare i legami della materia che le incatena e le opprime.
Un giorno Lorenzo si avvide che le sue guance incominciavano a portare i segni della pubertà, e che in mezzo a noi tutti, egli appariva troppo discorde d’anni e di cuore per rimanersene ancora in quella spensierata società di fanciulli. Ci strinse la mano e ci disse addio — lo avremmo riveduto ne’ suoi boschi, e chi sa... forse lo avremmo anche incontrato in quella vita sconosciuta e svariata che ci rimaneva a percorrere.
Ci separammo con delle lacrime.
Sei anni dopo io aveva compiuto i miei studii, e stava per abbandonare il collegio, quando mi sovvenni di Lorenzo che non aveva più riveduto durante tutto quel tempo, e pensai che egli mi avrebbe abbracciato volentieri, e che separandomi allora da lui avrei dato anche un addio affettuoso, quasi più colmo, più intero, alla mia fanciullezza, a’ miei sogni, a quel mondo sì lusinghiero e sì dolce dal quale stava per dividermi per sempre. Belle colline del Po, dove io non aveva che venti anni, e che attraversai in quell’incantevole mattino di agosto per recarmi alla casa di Lorenzo! Ripasserò io ancora quei colli in un mattino si delizioso come quello? e potrò io ripassarli con venti anni soltanto?
Era lui: seduto presso una siepe di carpino, leggeva ad alta voce Le Vite di Plutarco; mi riconobbe da lontano, si alzò, mi raggiunse e mi gettò le braccia al collo, esclamando: — Mio caro amico, mio caro fanciullo! Fui colpito da questa parola: fanciullo. Era sempre quella superiorità d’anni, d’intelligenza o di cuore che aveva dimostrata nel collegio; ma era una dolce superiorità che non sentiva dell’orgoglio, che non voleva esser tale che per amare e proteggere; era l’espressione di quell’elevatezza morale che tutti gli uomini acquistano più o meno coll’esercizio delle passioni e del dolore.
Allorchè due persone s’incontrano per la prima volta ha luogo tra le loro anime una lotta tacita e ostinata, il cui esito è quasi sempre immediato, e per la quale una di essa si eleva ed impone, l’altra si sottomette e obbedisce. Vi sono delle anime orgogliose che contendono a lungo la loro supremazia, e non potendo serbarla, fuggono dalla lotta; vi sono delle anime dolci che vi si abbandonano volonterose, che si affidano a un’altr’anima sorella, e gioiscono di questa dolce sottomissione. Tali sono la maggior parte delle donne coll’uomo, tale era io con Lorenzo.
Ma quando pure non l’avessi conosciuto che in quell’istante, avrei potuto esitare ad abbandonargli tutto me stesso, come ad un fratello o ad un padre? Vi era qualche cosa di affascinante nel suo viso, qualche cosa di magnetico nel suo sguardo; il suono della sua voce era dolce e severo ad un tempo; i suoi modi affettuosi, ma energici, la sua persona bella e aitante; e poi quella sua testa di Giove, que’ suoi occhi neri e inquieti, quelle linee maestose del suo viso, quelle ciocche massiccie di capelli, mi davano l’idea di una di quelle divinità greche scolpite da Fidia, di cui il tempo ha come paralizzati i rigidi lineamenti del volto. Se la natura mi avesse creato donna, avrei trascorsa la mia vita a’ suoi piedi.
Passammo insieme un giorno felice; andammo a risalutare quei boschi, quelle siepi, quelle campagne; risalimmo a nuoto la corrente: la natura era tutta una festa; pareva sollevarsi da tutto il creato una voce che dicesse: — Amate, esultate, folleggiate, tutto è vostro quanto vi circonda, inebbriatevi di me, benedite alla gioventù ed all’amore!
Tornammo silenziosi, raccolti, oppressi da quell’esuberanza di affetti e di memorie che la natura aveva versato nelle nostre anime... Ma quel silenzio di Lorenzo racchiudeva in sè qualche cosa di più opprimente che non fossero le sole rimembranze del nostro passato. Come avviene di tutte le costituzioni irritabili e pronte, egli si era trasformato in un istante: era ritornato fanciullo, aveva folleggiato meco tra i boschi, sugli argini, tra le fresche correnti del fiume; ma ora la meditazione lo aveva richiamato a sè, e la natura aveva ripreso il suo dominio abituale e imperioso.
Gli chiesi che avesse. Egli mi abbracciò con trasporto e mi disse: — Ti narrerò tutto stasera; se tu sapessi quale trasformazione ha subito in questi anni il mio carattere; come tutto mi apparisce disprezzevole e vano; come la mia anima, elevandosi ad investigare il destino umano, e creandosi una vita in sè, è rimasta imponente e isolata nella gran vita che le si agita d’attorno. Speranze, amori, piaceri, tutto si è trasformato per me, tutto si è concretizzato in una sola idea, tutto ha assunto un solo carattere, una sola legge, una sola rivelazione, quella dell’arte. Essa ha resa la mia fibra sì irritabile, la mia immaginazione sì feconda, la mia sensitività sì sofferente e sì viva, il mio orgoglio sì esigente e severo, che io mi trovo collocato quaggiù come in un mondo strano ed inesplicabile, di cui non giungo a percepire nè la natura nè il fine. L’arte mi ha creato un mondo — essa sola — e se io potessi popolarlo colle creature della mia fantasia, dar loro forma e esistenza, vivere con esse e per esse, non avrei più nulla a rimpiangere del mio destino; ma ohimè! nulla esiste quaggiù tranne che l’ideale, e l’ideale è l’ombra, è il fantasma, la parodìa; — la realtà che noi ci affanniamo di raggiungere è oltre la vita.
Egli tacque, ed era mesto; io lo contemplava tacendo; egli rappresentava in quell’istante per me una di quelle creature straordinarie in cui la bellezza fisica e la bellezza morale rivaleggiano, e l’una presta all’altra una forma sensibile, e l’altra vi si rileva vestendola della sua espressione celeste.
Ritornammo alla fattoria, che le prime ombre della notte si disegnavano su quelle vaste lande di arena lasciate asciutte dall’acqua; il cielo si andava qua e là popolando di stelle; alcuni fuochi fatui brillavano in quei seni dove l’acqua stagnante aveva raccolte e corrotte le alghe; gli uccelli annidati sulle quercie mormoravano strane voci dai loro nidi, i cani si rispondevano dalle valli, e gli ultimi rintocchi dell’avemaria, così prolungati dagli echi e dai venti, sembravano gemere su quel non so che di funerario e di triste di cui si veste la natura nel piangere la sua morte di un giorno.
Lorenzo ed io ci tenevamo per mano camminando; spesso le nostre dita si allentavano o si stringevano convulse; le nostre sensazioni erano divenute comuni, le nostre vite si effondevano l’una nell’altra, e noi lo sentivamo tacendo...
Oh come è nobile la gioventù, come è potente nelle sue concessioni, come è generosa e severa! E perchè la natura ci ripudia a trent’anni? Perchè quegli alberi, quelle montagne, quegli astri non hanno più una voce per noi? Ogni uomo è artista, è poeta nei primi anni della vita; è un arido egoista negli ultimi; e quei pochi esseri che un’eccessiva sensibilità ha condannati a rimanere eternamente fanciulli, errano smarriti nel mondo, sbattuti come un fragile schifo su questo oceano tempestoso della vita. È la società? è la natura? Domandiamolo a noi stessi, noi che non abbiamo più che il conforto disperato del dubbio, ma spargiamo di fiori il sentiero della gioventù, inebbriamola di amore e di illusioni; non riveliamo ad essa questa terribile verità, che ogni uomo che è giunto a trent’anni è già sopravvissuto a sè stesso.
Era un suono delicato e lamentevole, un arpeggiare sommesso di pianoforte, forse una di quelle celesti melodie di Schubert che non si odono mai senza piangere.
— Ascoltiamo, mi disse Lorenzo — e ci sedemmo sul limitare della porta — è Adalgisa che suona: essa non ha cantato più da tre giorni, certo la povera fanciulla è sofferente, e la sua malattia glielo avrà vietato.
— Chi è dessa? gli chiesi commosso dalle note melanconiche di quella musica.
— Una donna che mi ama, diss’egli, una creatura sventurata; oserei dire un angelo, se le triste passioni che si sviluppano colla materia non ne contaminassero la natura privilegiata e celeste. L’infelice, aggiunse Lorenzo, è travagliata da una malattia terribile, la cui azione è dolce, lenta, sicura, mortale senza nulla svelarle della morte, dall’etisia: questa infermità non è che uno svolgersi più rapido della vita, in cui tutte le nostre facoltà si moltiplicano e si consumano nella attività straordinaria della loro azione. L’anima dell’etico acquista facoltà di nuovi e grandiosi concepimenti; la sua sensibilità è squisita, la bellezza delle sue forme incantevole, l’espressione e la mollezza dei suoi profili ineffabile. Adalgisa aggiunge alla sua avvenenza naturale le fatali attrattive di questa infermità.
— E tu l’ami? gli chiesi.
Lorenzo stette un istante pensieroso, poi mi disse risoluto:
— Non l’amo; o almeno, aggiunse correggendosi, non l’amo di quell’amore che si concepisce quaggiù dagli uomini. Dopo che una fatale avidità di lanciarmi nell’avvenire mi ha fatto conoscere quali frutti maturassero sull’albero della vita e mi ha allettato a raccoglierli, la mia anima ha sentita la vanità di questi piaceri; essa ha compreso l’avvilimento che le ne proveniva fruendone, e si è formato un ideale di purità e di perfezione morale, a cui dirigere tutte le sue aspirazioni e i suoi voti. Non credo alla donna, diss’egli, non ne ammiro che la bellezza incantevole delle forme; non credo all’amore, non ho fede che nel godimento che ne deriva. L’amore di un’anima elevata, quello sforzo che ella compie per avvicinarsi alla divinità col culto del buono e del bello, non può essere diretto ad una creatura la quale non può darvi che della voluttà, la più vana di tutte le sensazioni; non può essere rivolto al conseguimento di un piacere che vi degrada. L’amore ha tale scopo nella donna; esso non può essere concepito da lei disgiunto da questo fine, come da quella che vi è portata dall’istinto della maternità e da una minore elevatezza di concezioni, di aspirazioni e d’ingegno. Vi ha oltre a ciò nella donna un dolce sentimento di sottomissione, un delicato desiderio di confortare di gioie e di piaceri la vita dell’uomo che l’ha scelta a compagna — gioie e piaceri che ella non può, che ella non sa offrire che offrendosi. — La perfezione maggiore del suo essere, l’irritabilità della sua costituzione la rendono più atta a sentire i piaceri e più avida a procurarseli; ed è perciò che la natura ha collocato in lei una dose più grande di pudore, che non è che una ipocrisia della sensualità, e che non ha altro scopo che di frenare le ingenue rivelazioni dell’istinto. Ma perchè tu comprenda tutto ciò, diss’egli, perchè tu intenda come quell’amore dell’ideale che ci infiamma nei primi anni della giovinezza, e ci guida a porgere un omaggio alla virtù come linguaggio del bello, al bello come rivelazione del buono, escludendo ogni appetenza di godimento, per ciò solo che noi siamo ancora dominati dal sentimento dell’arte e della poesia, sentimento innato nell’uomo, possa così miseramente trasformarsi e rivolgersi al culto esclusivo del piacere, è d’uopo che io t’accenni quella triste esperienza della vita che mi fu dato di raccogliere nei primi anni della nostra separazione. Spesso i fiori che intrecciano la nostra corona non si distaccano che per opera di quella mano alla quale era dato di aggiungerne, non si avvizziscono che per ciò solo, che noi li avvolgiamo nell’atmosfera velenosa delle nostre passioni, e per un frutto amaro della terra non esitiamo a contaminarli nel fango.
Morto mio padre, io mi sono avventurato nella vita, nella vita agitata, clamorosa, elegante; nei grandi centri ove la mia gioventù e la mia arte mi avevano aperta una via. Mio padre aveva accumulate molte ricchezze durante la sua vita operosa e modesta: un giorno mi trovai solo nel mondo, ma mi trovai dovizioso: aveva tributato alla mia arte otto anni di studii indefessi: le prime creazioni del mio genio mi avevano dato fama di artista valente; aveva ventidue anni, il mio volto era l’espressione fedele della mia anima, e la mia anima era nobile e pura; avevo del coraggio e del cuore, e mi gettai risoluto nell’avvenire.
Questo battesimo sociale che chiude la vecchia vita e ce ne riapre una nuova, apporta spesso con sè molte gioie e molti dolori. Io non ebbi che dolori. Non era la mia anima suscettibile di provare la gioia? Forse lo era, ma non per quella presso la quale si affannano tutti gli uomini. I tripudii del mondo erano troppo o troppo poco per me; mi opprimevano e mi lasciavano un gran vuoto nel cuore: più io correva verso di loro, e più me ne trovava lontano; avrei voluto vedervi un’entità, una cosa concreta, uno scopo, un soddisfacimento nobile e pieno, e non vi vedeva che il nulla.
Amai. Chi non ha amato o non ama? Era stato il delirio della mia gioventù, il sogno di tante notti, lo scopo della mia arte. Predispormi coll’arte all’amore, prepararmi l’animo ad accogliere questo sentimento e a sentirlo, ingigantirmene l’ideale, rivestirlo di tutte le illusioni, di tutte le parvenze possibili, ecco ciò che io aveva vagheggiato nel silenzio di questo ritiro prima di avventurarmi nel mondo.
Ma gli uomini tutti e la gioventù sovratutto, credono che lo scopo dell’amore sia la donna, non distinguono tra il sentimento e la sensazione, fanno di queste due cose disparatissime una cosa sola, e chiedono più tardi a sè stessi: «Che cosa era l’amore?» Avrebbero dovuto chiedere: «Che cosa era la donna?»
Io pure ho ingannato me medesimo: ho creduto che tale fosse lo scopo di questo sentimento e mi affrettai a raggiungerlo. Mi era creato di esso un ideale abbagliante, lo aveva vagheggiato per tanti anni, non aveva mai dubitato di realizzarlo; e quando aveva abbandonato, per sempre la casa di mio padre, aveva detto a me stesso: — Avrò anch’io un amore.
Ohimè, io non sapeva che un artista non può amare che l’amore, che due affetti sono troppo per esso, che quell’ideale che egli si è creato, non è che l’ideale dell’arte, che nessuna creatura al mondo può renderglielo in tutta la sua sublimità, può possederne tutte le forme e i colori.
Ma che cosa è l’arte? È dessa che ci conduce all’amore, o è l’amore che ci conduce all’arte? quale dei due è l’essenza e quale è la forma? quale è quello che rivela e quale è quello che è rivelato?
Non ho potuto comprenderlo ancora; egli è però ben certo che ogni grande anima si è manifestata coll’arte, e che nessuna di esse ha potuto sottrarsi al dominio dell’amore.
Ho amato anch’io una donna, una creatura non migliore e non peggiore delle altre, un essere vago e felice, quali ne incontriamo spesso nel mondo — esseri che sorvolano su tutto, che amano tutto, che spargono delle rose su tutto; che versano delle lacrime e non piangono, che sorridono e non gioiscono, che non potrebbero essere felici e lo sono. Si chiamava Regina, aveva vent’anni ed era vedova. Viveva sola, aveva blasoni e livree, aveva ammiratori ed amici, aveva arredi e palazzo da sultana, era superbamente bella e orgogliosa. L’aveva veduta e l’aveva segretamente ammirata, mi pareva che la sua avvenenza avesse sorpassato la bellezza di quel tipo immaginario che io portava meco nel cuore; mi pareva che il suo amore avrebbe dovuto colmare ad esuberanza quel vuoto che io sentiva in me da gran tempo. Volli ispirare dell’affetto e l’ottenni, volli smarrirmi nella mia passione e lo feci..., non ne ritrassi che amarezza e sconforti.
La vedeva ogni giorno lungo i viali cavalcare colla spigliatezza d’un giocoliere e coll’ardimento di una amazzone sorridere e pure atteggiarsi a mestizia. Era sempre sola, un palafreniere la seguiva da lontano; e quando io passava presso di lei mi fissava in volto gli occhi con espressione di affetto indicibile. Ne fui presto ammaliato; era il mio primo amore — il mio ultimo — mi vi abbandonai come un fanciullo.
M’incontrava con lei ogni giorno durante le sue passeggiate; e benchè non avessi osato o potuto dirle il mio amore, e benchè ella del paro mi avesse tutto taciuto, nessuno di noi due ignorava di essere amato, e non attendeva che l’occasione di accertarsene. Anche questa occasione venne. Io aveva dato una sera un concerto e vi era stato applaudito: il teatro era affollatissimo, l’uditorio silenzioso ed intento, io stesso agitato da una commozione indicibile; era giovane e artista, e aveva destato in tutti gli animi un interesse profondo, una viva ammirazione di me: il mio trionfo era stato felice, ma non era stato meno completo; mi erano stati gettati dei fiori, molte signore si erano tolte dai capelli le loro camelie e le avevano lasciate cadere sul palco: io ne aveva raccolto una parte, quando nell’alzare lo sguardo scorsi Regina che mi gettava colla sua piccola mano coperta dal guanto un ricco mazzo di fiori. Rimasi indicibilmente confuso; accennai appena del capo in atto di ringraziamento, e mi ritrassi stringendomi al seno quel dono.
Quando fui nella mia camera, nell’appressare alle labbra quel mazzo, vi scorsi un piccolo brano di carta arrotolata. Lo svolsi, era un foglietto da taccuino dorato nei margini, su cui ella aveva scritte colla matita queste parole:
«Siete degno del mio amore, e ve ne ringrazio. Vi posso scrivere queste righe perchè sono sola, e posso farlo perchè ho dell’affetto per voi. Voi siete un grande uomo, ma avete la timidità di un fanciullo: venite domani a ringraziarmi di questa lettera.
«Regina.»
Rimasi profondamente impressionato da quella lettera. Non era così che io avrei voluto conoscere di essere riamato; quelle parole non mi rivelavano quell’amore casto, esitante, ritroso, che aveva desiderato di scorgere in lei, che aveva sentito fino allora in me stesso. Non conosceva ancora il linguaggio e gli ardimenti di una passione sensuale, ma ne aveva avuto in quelle parole una intuizione piena e scoraggiante. Cercava un amore puro, quell’amore che tutti gli uomini cercano a vent’anni, e non vi trovava che un amore di progetto, un amore già quasi colpevole nella prima, nella più timida, nella più santa delle sue rivelazioni. Ne era turbato; avrei voluto trovare in me la forza di non andarvi, ma mi sentiva sì debole anche dinanzi a quell’affetto, che mi era impossibile combattere il mio cuore. La natura e l’istinto trionfavano. Io ignorava che le espressioni di quel foglio erano il linguaggio esatto di un sentimento, intorno al quale gli uomini si formano generalmente un falso concetto, erano la rivelazione del vero amore, quale egli è, quale deve essere: gli uomini non tengono mai una giusta via di mezzo nell’uso e nell’apprezzamento che essi ne fanno; prima di vent’anni domandano ciò che la natura non può dare, che la stessa innocenza rifiuta — il sentimento puro e intangibile: dopo le prime disillusioni non chiedono più che la voluttà, negano la sua fusione col sentimento — non vogliono più che il piacere. La donna si dà, ma non si dà mai sola, dà il cuore con essa: la donna soltanto sa amare.
Lottai, ma mi era impossibile sottrarmi alla mia passione; andai da Regina. La trovai splendida, superba, raggiante; non l’aveva veduta mai così bella. Non appena fummo soli mi si gettò tra le braccia e mi baciò sulle guance, eccitata da una commozione che pareva sincera. Provai nondimeno una gioia meno intensa di quanto non lo fosse il dolore che la mia anima sentiva in quell’istante. Avrei desiderato di averlo ottenuto dopo lunghi giorni di amore quel bacio; ma averlo così, senza conoscersi ancora, senza avere ancora ragione di amarsi... il primo bacio, quello che non si dimentica più, quello che segna il primo periodo della nostra esistenza morale!... Ah, tutto ciò parevami assai doloroso!
Queste considerazioni si agitavano dentro di me in quell’istante medesimo in cui ella pendeva sul mio seno, e aspettava parole colme di passione e di affetto. Non ne dissi, non avrei potuto dirne. Regina si sciolse dalle mie braccia, e guardandomi con occhi pieni di meraviglia e di amore, esclamò con suono di dolce rimprovero:
— Non mi amate voi dunque? Mi avete dunque ingannata?
Dio buono! ingannata... e come? Apprezzava dunque ella tanto il nostro amore? Era amore vero e sentito? Era un abbandono logico, naturale, doveroso quello di gettarsi tra le mie braccia? Mi parve di comprendere qualche cosa: mi affrettai a rispondere, non meno commosso di lei:
— Perdonate, è una strana confusione di idee che si è formata nella mia anima: è gioia, è amore, è sorpresa, sono mille sensazioni che mi opprimono per quanto siano dolci e nuove, anzi perchè sono tali mi opprimono... Non ho mai amato, Regina, non fui mai amato; è naturale che io debba trovarmi così confuso ed oppresso, così dolcemente oppresso..., avrei bisogno di sollevarmi colle lacrime; se fossi, come voi dite, un fanciullo, se fossi solo, vorrei piangere, e piangere fino a morirne.
— Quanto siete sensibile! mi disse Regina, quanto siete nobile e buono! Ed è in vero la prima volta che amate? e son io che vi avrò inspirato il primo amore, che potrò farvi conoscere le prime dolcezze di questo sentimento? Oh ditemi che io non m’inganno, che mi amate; ho osato tutto con voi, ho osato troppo, non punitemi col vostro silenzio, con una riserbatezza che mi offende, perchè mi fa supporre che il vostro cuore abbia emesso un giudizio troppo severo su di me.
Compresi che ella mi amava veracemente, che nel suo stesso abbandono, nella sua stessa felicità vi era la prova più eloquente del suo amore. È dell’amore che io doveva lagnarmi, non di lei; e mi accinsi a rassicurarla con quanta potenza di persuasione io seppi attingere dalla mia mente sconvolta ed agitata. Passai seco alcune ore — ci separammo commossi. — Quando fui solo nella mia camera mi raccolsi e piansi lungamente, piansi per la cessazione di un’illusione che avrebbe dovuto accompagnarmi per tutta la vita. Era quello l’amore? Era così che lo concepiscono gli uomini, che deve essere concepito da tutti gli uomini? E perchè formarsene un ideale così elevato? Che cosa è l’ideale? Che cosa è il sentimento in amore? Può egli l’amore stare dà sè, rinunciare alla sensazione che ne costituisce l’essenza, che unicamente lo crea? Poichè non è il sentimento astratto che ci unisca indissolubilmente alla donna, ma il possedimento che ci crea dei doveri e dei bisogni; è l’intimità, è l’abitudine che rendono potente l’amore.
Tuttavia non abbandonai Regina: la natura agiva troppo potentemente su me perch’io potessi superarla colla forza della mia volontà. La volontà è sempre più debole dell’istinto, perchè, ove noi fosse, ciascun uomo potrebbe violare impunemente la propria natura. Incominciai anzi ad amarla, conosceva che il suo cuore era retto e sincero, non ne poteva dubitare: investigai il suo passato, e non vi trovai cosa alcuna di cui dovessi soffrire ed affliggermi: un uomo qualunque, un uomo che non fosse stato vero artista, avrebbe potuto essere felice con Regina. Io non lo era.
Ottenni tutto da lei. Da quel giorno ella cominciò ad amarmi, da quel giorno io sentii che il mio affetto era svanito. Lo dissimulai lungo tempo, era pietà, era gratitudine che me lo imponevano, ma essa non tardò ad avvedersi del mio abbandono, e ne fu mortalmente ferita.
— Che vuoi? mi disse ella una volta, che pretendi da me per amarmi? che posso io fare per meritarmi il tuo amore? Hai guardato nel mio passato e non vi hai veduto nulla, hai indagata la mia condotta e sono uscita illibata dalle tue investigazioni. Quale demerito ho io per essere condannata al tuo abbandono? Non sono abbastanza bella? non sono abbastanza giovine e ricca? Sei geloso? preferisci l’isolamento? Vuoi che rinunci a tutto, a’ miei abiti, a’ miei cavalli, alle mie abitudini? Vuoi che abbandoniamo questa città e ci ripariamo in un angolo di terra ignorato? che viviamo soli, sconosciuti, felici? Dimmi, lo vuoi?
Io era vinto, io era commosso, io avrei fatto il sacrificio della mia vita per lei, ma non poteva amarla, non lo poteva: sentiva che nessuna donna avrebbe potuto inspirarmi ancora dell’amore; l’amore, l’ammirazione, il culto, l’affetto di quell’ideale che portava meco nel cuore lo trovava nell’arte — la donna ne era la negazione.
Oscillammo alcun tempo tra la repulsione e l’amore, prevalse la repulsione — ci separammo.
Io abbandonai quella città sei mesi dopo, nello stesso giorno in cui ella partiva per Francia col ricco barone di Saint-Froix, colonnello di cavalleria, col quale si era sposata al mattino.
Così disgustato dell’amore altrui, rientrai nell’amore di me medesimo, non perchè il mio cuore fosse incapace di collocare in una creatura simile a me un affetto saldo e durevole, ma perchè aveva compreso che nessuna di esse avrebbe potuto divider meco questo sentimento senza offenderne la purezza; perchè sapeva che quell’amore che io voleva, il mondo non me lo avrebbe mai dato, non me lo avrebbe mai potuto dare. Nell’amore dell’uomo, e più specialmente della donna, ho sempre veduto una specie d’ipocrisia, delle norme di convenzione che volevano mostrare di condurre al sentimento, e non conducevano che alla sensazione, non avevano altro scopo che la voluttà, e incominciate con tutte le apparenze di un amore ideale, di un puro affetto di cuore, finivano colle basse soddisfazioni di un amore brutale, assai spesso colla sazietà, colla nausea, col disgusto che dà una passione soddisfatta. L’amore non è che un’ipocrisia — nella maggior parte degli uomini non è che l’abuso, l’applicazione falsa ed inesatta di un nome. Potrebbe chiamarsi il piacere, la voluttà, la sensazione — sarebbero le parole — ma l’amore, questa espressione di cui ci serviamo per indicare quanto abbiamo di sacro e di diletto nel mondo, per rivolgerci alla divinità, per accennare a quei legami pieni di mistero e di incanto che sembrano congiungerci all’universo; essa, la parola più dolce e più nobile del linguaggio umano, quella che inchiude l’idea del sacrificio scambievole, che è la nostra religione, la rivelazione più eloquente della nostra immortalità, non può essere adoperata per nascondere la natura ed i fini di un desiderio sì basso, per velarne la nudità, per travisarne lo scopo — l’amore è cosa dell’anima, la voluttà è cosa della materia: distinguiamo tra due nature sì differenti.
Nella stessa facilità di quelle donne che si danno senza ritegno — e quel ritegno ha sempre le sue cause nell’amor proprio, è sempre un’arte quando non è calcolo o freddezza, — che non lo dissimulano, che dicono: vi domando del piacere e vi do del piacere, mi parve di scorgere, non dirò una maggiore virtù, ma una maggiore arditezza della verità, una franchezza saggia e lodevole. Che differenza tra esse e le altre? Le une promettono di darsi, nulla più, e si danno — le altre promettono cose infinite, l’amore puro e ideale, tutte le smorfie che affetta il sentimento, e finiscono col darsi come le prime, nulla di meno: in quelle una sincerità che ne scema, se non ne scusa, i traviamenti, in queste un inganno, un artifizio volgare, od una ignoranza di sè deplorevole. Tra un uomo ed una donna che si piacciono, la virtù non è in alcun luogo, se è in tal cosa che vuoli far risiedere la virtù. Basta avere un’esperienza della vita assai lieve per apprezzare la verità di questa asserzione: quando due giovani creature di sesso diverso sono prese di affetto l’una per l’altra, sanno a che cosa li deve condurre l’amore, e comprendono che dissimulano, e fingono entrambe l’ignoranza di uno scopo che pure si struggono di affrettare col desiderio.
Ecco le considerazioni che mi allontanarono per sempre dall’amore: intendo l’amore quale ordinariamente tra gli uomini, quell’affetto che incomincia da un’apoteosi e finisce in una degradazione, le cui fila sembrano partire dal cielo, e nondimeno toccano il fango. Non spero altro dalla donna, benchè sappia che l’amicizia non è altro che un’ombra dell’amore, e che non potè mai appagarmi soltanto di essa; benchè comprenda che non può darlo alla donna, lei sola, ancorchè puro, ancorchè deliberato per sempre all’astinenza di quei piaceri che ella può offrire.
Ma ciò è per fermo nella natura; e come ella abbia condannato ad un fine sì triste un sentimento sì elevato e sì nobile, come si sia servita di mezzi così divini per raggiungere uno scopo sì turpe, è ciò di cui la mia anima non ha mai saputo darsi ragione, è l’enimma eterno e insolvibile del cuore umano. Non condanno la facilità con cui gli uomini corrono al piacere, ma l’astuzia con cui dissimulano di non corrervi, le illusioni di cui circondano un atto di intimità che non ne ha alcuna, e che riserbano alla gioventù inconsapevole un disinganno certo e terribile.
Hai tu quattordici anni? Te ne rammenti? Ti ricordi di quel tempo quando nella donna non vedevi che l’angelo, quando nell’amore non vedevi che l’unificazione di due anime? Ed hai serbato memoria di quel giorno in cui afferrasti la realtà, in cui vedesti soccombere il tuo ideale? Oh, la natura vi ebbe la sua parte di colpa, ma la donna non meno!... La donna voluttuosa, facile, meno elevata di mente, è meno atta a comprendere la bassezza e la vanità del piacere; desiderosa di darsi perchè sa darsi, perchè vi ha attitudine, perchè desidera di sottomettersi, e sa porre, più che altrove, in questo abbandono, quella leggierezza, quella grazia, quella docilità, quel non so che di vago e di fatuo che sa mettere sì bene in tutti i piccoli nonnulla della sua vita. Si direbbe che il loro ritegno non è che un’arte, che quelle medesime che si serbano virtuose lo fanno perciò solo, che sanno di conservare in tal modo uno degli allettamenti più energici, e di poter esercitare una seduzione più potente. Tutto ciò che vi è nella donna — le sue opere, i suoi pensieri le sue parole, i suoi atti — tutto è seduzione, benchè seduzione tacita e delicata. Oh, l’uomo è assai più puro! Nella sua franchezza, nelle sue abitudini un po’ ardite, nel suo stesso linguaggio un po’ rozzo e un po’ brutale, egli è assai più puro! Nella fanciulla si trova sempre la donna — l’angelo bisogna cercarlo nella madre.
Mio caro amico, riprese Lorenzo dopo un breve intervallo di silenzio, io mi sono disgustato assai presto delle donne; le prime prove mi hanno atterrito; non ti dirò ciò che ebbi ad esperimentare di poi; aggiunse sconforto a sconforto — mi ritrassi nella mia solitudine disperando di non poter amare che la mia arte. E forse un artista non può, non deve avere un altro amore che questo — l’amore astratto del bello, del buono, l’amore che conduce direttamente a Dio, che rinuncia alla creatura, che non si posa su cosa alcuna del mondo — tutto il resto è sogno, è illusione, è voluttà d’un istante. Se l’amore debb’essere infinito e gli uomini tutti amano cose finite, gli artisti sono i soli uomini che amano.
Dopo l’abbandono di Regina ebbi altri affetti e altri inganni; conobbi le donne uguali tutte, propense all’amore, ripugnanti perciò dall’amicizia che ne rifiuta i privilegi e i diritti, facili all’affetto, atte a colorire con quella vena di facile poesia che è in esse qualunque atto di degradazione fisica sul quale l’uomo si arresta a meditare con dolore... Non ho serbato memoria di una donna giovine, che abbia saputo perdonare a me giovane di averle potuto offrire dell’amore e di non averle dato che dell’amicizia. Rientrai in me stesso; volli riabitare questa casa, rivedere questi luoghi che mi parlavano dell’infanzia, l’unica età della vita sulla quale noi possiamo ritornare senza piangere, e darmi tutto alla mia arte, e vivere di essa e per essa.
Ma neppure qui non mi sento sereno, non mi sento felice; non si può amare l’amore per l’amore, e l’arte che ci crea un ideale così elevato, non basta a far tacere quel bisogno incessante dell’anima che ci spinge a cercarne una personificazione più o meno imperfetta negli uomini e nelle cose reali della vita.
Bisogna amare, ecco la condanna; o turpemente o nobilmente bisogna amare: per noi che ne vediamo l’oggetto nel cielo e dobbiamo cercarlo nel fango è una condanna doppiamente terribile. Io vorrei possederlo questo oggetto, ma dove mi sarà dato di rinvenirlo? dove troverò la donna diversa dalla donna? Combatto da lungo tempo col mio cuore, tento di ucciderne l’affettività, di deviarla dalla donna e di rivolgerla all’arte. Inutile sforzo! La natura prevale; e l’arte, che è troppo grande, troppo conscia di sè per temere di una rivalità così poco durevole, ne seconda la legge ed i fini.
Tornato qui, trovai Adalgisa già adulta; ci eravamo separati bambini, e benchè io non fossi allora che un povero fanciullo della sua fattoria, ci eravamo legati di quell’amicizia pronta e sincera che si contrae facilmente in quegli anni; ora quel sentimento si è mutato dal canto suo in un amore appassionato e ardentissimo. Posso io corrispondervi? È troppo tardi, nè ella potrebbe offrirmi di più di ciò che altre m’offersero, nè vorrebbe offrirmi di meno; in lei vedrei sempre la donna, l’amante sparirebbe coll’amore.
Così dicendo la notte era caduta, e Lorenzo, prendendomi per mano, mi ritrasse dal limitare nella stanza. Passai con lui altri due giorni, in cui vidi e conobbi Adalgisa, dopo di che ci separammo tristi e scorati.
Abbrevierò la narrazione di questo racconto.
Due anni dopo ebbi da Lorenzo questa lettera:
«È assai tempo che non ho più novelle di te. Ho saputo che sei a Nizza e ti scrivo. Avrei avuto bisogno prima di scriverti. Ho attraversato molte calamità, ho subite molte prove dacchè ci siamo divisi — ho compreso spesso che se avessi potuto confidarmi a te, versarti tutto il mio cuore, mi sarei sentito sollevato. Come la vita ci sfugge, come la felicità ci sfugge! Due soli anni!... e pure quale solitudine si è fatta intorno a noi, quante care esistenze ci sono state rapite in così breve spazio di tempo! Ho pensato sovente con dolore quanto debba essere triste la vecchiezza, quanto debba essere tormentoso il sopravvivere a tutti quegli esseri che si sono amati e perduti.
«Ti ricordi dei discorsi che facemmo l’ultima volta che ci siamo abbracciati? Il mio cuore combatteva allora una gran lotta, la mia virtù stava per soccombere, una sfiducia terribile si era impadronito di me. Io non credeva alla donna, io non poteva amare la donna — reputava l’amore turpe o impossibile, così soggetto come mi appariva ai bisogni irresistibili della natura, così fuso, così legato, così immedesimato con questi stessi bisogni. Nel tempo medesimo anelava a questo amore che la mia ragione ripudiava, ne subiva la prepotenza irresistibile, vi soggiaceva come alla tirannia di una passione indomabile. Strano mistero del mio cuore! Amava la donna nella sua beltà, nelle sue attrattive — l’odiava nelle sue debolezze, nella sua facilità, nella sua avidità di piacere. L’arte me ne aveva creato un tipo perfetto, io voleva concretizzare questo tipo in una creatura vivente, spiritualizzare la donna fino a trasformarla, fino a farle raggiungere la perfezione ideale di quel modello.
«Mi ricordo che tu sorridevi di questo sogno, dissimulavi a stento la tua sfiducia, mi nascondevi appena l’ilarità che ti destava questa illusione. E pure che cosa è questo lavoro assiduo che compie l’umanità da molti secoli se non una conseguenza del bisogno che essa ha di spiritualizzarsi, di sottrarsi alle leggi fisiche per crearsi delle leggi morali? Le idee confuse di civiltà, di progresso, di perfezionamento sono una derivazione di questa grande idea, di questa grande aspirazione. Ogni uomo tende a spiritualizzarsi. Perchè ci vergogniamo delle nostre debolezze, delle nostre imperfezioni, dei nostri bisogni? Perchè ci sono delle cose che ci sembrano turpi nella nostra natura?... Perchè tentiamo di nasconderle? Nella lotta di questi due grandi principii — del principio fisico e del principio morale — è riposto il segreto delle lotte umane — forse anche le oscure ragioni dell’umanità e della vita.
«Ebbene! che faceva io se non che spingermi troppo innanzi su questa via? se non che anelare con troppo ardore a quel perfezionamento ideale cui tutti gli uomini aspirano? Gli artisti sono uomini che precedono gli altri — vanno innanzi e additano il sentiero, si voltano indietro e si trovano soli... questi grandi, questi infelici solitarii!...
«Ti ricorderai anche di Adalgisa. Io non poteva accettarne l’amore, corrispondervi; le ragioni che ti ho espresso ora mi allontanavano anche da lei, me ne allontanavano ripugnante, afflitto, corrucciato di me stesso. Perchè io avrei voluto amarla, poterla amare, rendere a lei quelle gioie, quella felicità, quella luce che essa voleva gettare su tutta la mia vita. Non lo poteva. Tu mi lasciasti in quel tempo — erano gli ultimi giorni delle mie lotte e delle mie esitazioni. Adalgisa si ammalò poco dopo la tua partenza — la sua etisia raggiunse uno sviluppo impossibile ad arrestarsi — non si riebbe più — io la perdetti quando incominciava a tenermi cara la sua vita e il suo amore.
«Io ti parlerò di questo amore come di una malattia della mia anima, come di un fenomeno inesplicabile della mia natura. Non vi ha dubbio che gli artisti sieno uomini infermi, creature malate, esseri incompleti, i quali perciò appunto dovranno sempre sottrarsi alle norme comuni della vita. Ciò che essi creano è effetto della loro imperfezione, della loro infermità; come alcune specie di bache, di frutti, di nodi bizzarri, sono un prodotto della malattia delle piante, come dalla corteccia incisa di alcuni alberi stilla la gomma. Io che l’aveva tratta a morire colla mia indifferenza, che l’aveva resa infelice col mio rifiuto, io doveva amarla quando già la vita avea incominciato a sfuggirle, ad adorarla dopo che l’aveva perduta. Non so se tu abbia provata la più spaventosa tortura che possa subire il cuore umano — l’impossibilità d’amare le persone che ci amano e che reputiamo degne di amare. Non vi è tormento che possa adeguarsi a questo: basta averlo provato una volta perchè si comprenda tutta l’impotenza della nostra volontà, perchè rovini tutto l’edificio della nostra fede, perchè una tenebra immensa si distenda su tutta la nostra vita. L’amore è inesorabile; è in noi, ma è fuori di noi; non possiamo imporlo a noi stessi, non possiamo lasciarcelo imporre.
«Tutte le persone dotate di qualche virtù e di qualche avvenenza hanno assistito a questa rovina che facevano intorno a sè stessi, hanno suscitato delle passioni che non potevano appagare, consumato delle vite che non potevano proteggere col loro amore. Nelle stragi che l’amore mena nel mondo, alcuni pochi soccombono alla felicità dell’affetto contraccambiato, molti al dolore dell’affetto non corrisposto, moltissimi — e sono infinitamente i più miseri — allo strazio di non poter amare.
«Io ho provato questo strazio in tutta la sua potenza. Vedeva deperire la bellezza di Adalgisa, avvizzirsi la sua fede, affievolirsi e consumarsi la sua vita, e non poteva soccorrerla. Io assisteva a questa distruzione, lenta, penosa, inesorabile, senza poterla impedire. Chiedeva indarno al mio cuore ciò ch’egli non poteva darmi, ciò che io non poteva esigere da lui. Perchè l’amore è una gran fede, è un gran vero — non lo si finge, non lo si smentisce. Esso non proviene da noi, ci viene non sappiamo donde, lo subiamo — perciò non lo possiamo mentire perchè non lo conosciamo che dopo averlo provato — o meglio ancora provandolo.
«Te partito, Adalgisa si pose a letto, la pietà mi trattenne presso di lei fino al giorno della sua morte. Fu in quel frattempo che il gelo del mio cuore si sciolse, che io incominciai ad amarla e a confortarla di questo convincimento — non visse felice, ma morì felice. Perchè ho incominciato ad amarla in quei giorni? È una domanda che mi sono rivolto sovente io stesso senza potervi rispondere. Di mano in mano che la sua malattia affievoliva la sua vitalità, prostrava le sue forze e le sue passioni, la sua animi acquistava una nuova potenza — di mano in mano che si restringevano i limiti della sua vita fisica, si dilatavano, si estendevano quelli della sua vita morale. Io l’amava forse perchè vedeva in lei sparire la donna e formarsi l’angelo, pur rimanendo angelo e donna ad un tempo — perchè la vedeva librata tra il cielo ed il mondo, come avesse voluto additarmi il cielo senza togliermi alle gioie più miti della terra.
«Non ti parlerò dei giorni che trascorsi presso di lei, al suo capezzale — giorni pieni di tristezza e di grandi gioie ad un tempo, di esitanze, di sogni, di illusioni, di subiti sconforti — cari e mesti giorni che io non potrò ricordare mai senza piangere.
«Adalgisa non prevedeva, non credeva vicino il suo fine: mi parlava dell’avvenire, di noi, del suo amore; formava progetti di felicità per un tempo lontano — la sua anima, simile alla fiamma che si ravviva un istante prima di spegnersi, gettava, già vicina a dividersi da lei, una più gran luce sulle gioie immaginarie del suo avvenire. Soventi ella intravedeva il vero, ricadeva nei suoi sconforti, presentiva l’abbandono della vita. Allora rivolava al passato, evocava, numerava, interrogava le gioie in quell’età, più spesso accarezzate che godute, più spesso sognate che ottenute; mi parlava dell’infanzia, di quelli anni che avevamo trascorsi assieme, quando la nostra affettività era ancora una virtù che spandevamo su tutti, che dividevamo con tutti; quando gli affetti, così dispersi, non si erano ancora riuniti nel cuore per rivolgerli ad una sola creatura. L’amore, diceva ella, era stato allora una grande espansione, ora non era che un grande egoismo.
«La malattia aveva come modificate le sue sembianze, aveva dato al suo volto qualche cosa di sì pallido, di sì mobile, di sì trasparente, che la sua natura appariva trasfigurata, spiritualizzata, mutata essenzialmente da quella di prima. La sua vitalità era affluita tutta allo sguardo; pareva intravedesse sempre qualche cosa al di là degli oggetti che la circondavano — guardava, come si guarda spesso, senza vedere. Le sue mani si erano come affilate, erano divenute sì piccole, sì leggiere, sì bianche, che nello stringerle vi sentivate la mancanza della vita, e ricordavate quelle mani che vi accarezzavano fanciullo, vi avvedevate che esse non dovevano più toccare alcuna cosa della terra... Oh le mani di un morente! Chi non ha strette una volta quelle mani? Chi non ha compreso il terribile linguaggio di quel contatto? Sì, le mani hanno un linguaggio speciale, un’espressione a sè, un’eloquenza misteriosa che ogni uomo non può non intendere. Son esse che accarezzano le teste dei biondi fanciulli, che asciugano le lacrime degli infelici, che rivelano i primi tumulti della passione, che esprimono la pietà, la tenerezza, che infondono i conforti, che vi toccano, che vi stringono, che vi abbracciano l’ultima volta prima di morire. Le mani sono il linguaggio del corpo, come il sentimento è il linguaggio dell’anima.
«Non è senza ragione che le superstizioni umane hanno attribuito un pregio sì grande alla verginità della donna. Non saprei come provare questa asserzione, come giustificare questa fede che mi ha inspirata la vista di Adalgisa; ma egli è ben certo che se vi sono nella nostra natura due elementi che lottano per dominarsi — l’elemento fisico e l’elemento spirituale — e se la nostra perfezione, la nostra supremazia, la nostra grandezza sono riposte nella prevalenza di quest’ultimo, ella è una grande rinuncia quella che vien fatta per esso alla soddisfazione dei sensi più viva e più irresistibile. Si può deplorare questa rinuncia, non si può non ammirarla — la verginità eserciterà sempre uno dei più grandi prestigi sugli uomini, perchè rivela ad un’ora la casta verginità del cuore e della mente.
«Vi sono delle creature che sentono il peso della materia, la sua tirannia, l’impero che esercita sullo spirito; alcuni la subiscono, alcuni vi si ribellano. Quei martiri delle leggende cristiane che, spinti da un ascetismo religioso, si maceravano il corpo coi digiuni e colle battiture, non potevano essere che uomini straordinarii: combattevano ad oltranza quella lotta che noi combattiamo con armi più facili, con tregue lunghe, con viltà più frequenti, e nelle quali preferiamo spesso il soccombere al resistere forti ed infaticati.
«Questa vittoria dello spirito sulla materia mi appariva piena, intera in Adalgisa — è in ciò che è riposto il segreto di quel fascino che la fede, che il genio, che il culto di un gran principio morale esercitano sopra di noi; il rispetto che c’inspira la vecchiaia, l’interesse che ci destano le persone deboli o inferme — simile a quelle lampade funerarie che gli antichi collocavano presso le tombe, la cui fiammella acquistava sempre più maggior luce, quanto più s’assottigliava il vaso d’alabastro che la conteneva — l’anima della fanciulla traspariva, si rivelava attraverso le forme vaghissime del suo corpo, che la consunzione svigoriva senza alterare.
«Essa era anzi più bella. Che ti dirò delle contraddizioni inesplicabili della mia natura?... Io me ne innamorai in quei giorni; e quanto più ella si andava approssimando al suo fine, quanto più io acquistava la certezza del suo abbandono, tanto più si rafforzava in me questo affetto. Come raccontarti tutte le lotte del mio cuore? descriverti, enumerarti le mie sensazioni? In poco tempo il mio amore raggiunse tutta la sua pienezza, assunse tutta la forza d’una passione indomabile. Sola, mia, soffrente, purificata dalla morte — così e non altrimenti io poteva amare una donna. Una donna! Non era una creatura umana che io amava in lei, era uno spirito concretizzato, personificato in un essere vivo, racchiuso in un velo vaghissimo, delicato, trasparente, che appena lasciava indovinare l’essenza di cui era composto.
«Ma a che dirti tutto? come spiegarti il carattere della mia passione? Spesso mi atterriva il pensiero di perderla, più spesso ancora il pensiero di ricuperarla. La vita le avrebbe ridonato la forza, la salute, i desiderii; io avrei trovato in lei ciò che aveva trovato in Regina, ciò che si trova in tutte le donne, la donna; noi saremmo sopravvissuti al nostro amore... Perdendola, io raffermava invece per sempre la mia fede, conservava per sempre le mie illusioni; la religione dell’amore avrebbe potuto pretendere da me un culto sincero ed eterno. Incauti coloro che piangono la perdita di una donna amata! Non vi è che la morte che possa purificare l’amore, che possa santificarlo, eternarlo — essa ne suggella la fede. Quando essa ha diviso due esseri che si amano, colui che è sopravvissuto può illudersi sulla durata che quell’affetto avrebbe avuto, se vivo; ha una tomba su cui piangere, e può costruirsi una fede su cui riposare. Nessuna gioia della terra è dolce come quelle lacrime e come quella fede! Ma ciò che è orribile è sopravvivere alle proprio affezioni, vederle vacillare, cadere, finire, irridere a sè stesse, posarsi sopra altre creature. Quanti esseri ci circondano che avevamo amati, che avevamo fusi colla nostra esistenza, coi quali avevamo sfidato la mutabilità dei tempi e della fortuna... e che adesso sono più nulla! Vivere tra tali creature, vederle vive e felici, e portarne il lutto, è come vivere in un mondo che. ha cessato di appartenerci, è come presentire la morte co’ suoi dolori, co’ suoi abbandoni, co’ suoi rimpianti, senza averne nè la dimenticanza, nè la quiete.
«Ma a che farti conoscere tutti i dettagli dolorosi del mio racconto? Adalgisa morì; e con quella morte cessò in me quell’indifferenza, quell’avversione all’amore, quel bisogno di raccogliermi in me stesso che mi aveva chiuso fino allora tutte le sorgenti della felicità e del piacere. Quell’affetto che mi s’era formato nel cuore durante la sua malattia si tramutò, dopo che l’ebbi perduta, in una passione che mi divorava la vita, senza che potessi spegnerla, che mi dominava senza che potessi combatterla. L’aveva dimenticata viva, l’aveva amata morente, l’adorava già morta. In ciò io era conseguente a me stesso, a’ miei principii, alle mie idee: il mio amore era logico come lo era stata la mia indifferenza — procedeva dalle stesse cause, si riposava sulle medesime convinzioni. Un ostacolo mi aveva allontanato fino allora dalla donna — la sensualità della bellezza: ora questo ostacolo era sparito, la bellezza di Adalgisa non era più che un riflesso della bellezza intatta ed eterna — in quelle forme pure e perfette io vedeva personificato quell’ideale che l’arte, che il vero, che il bello avevano come delineato nella mia fantasia. Gli uomini tendono a personificare tutte le loro sensazioni, tutte le concezioni della loro mente — la vasta idealità umana si riduce tutta alla creazione di alcuni tipi vaghi e indecisi, di cui cerchiamo indarno quaggiù una personificazione vivente. Dio non si è rivelato a noi: egli non ha tanto creato gli uomini, quanto gli uomini hanno creato lui stesso — l’idea di Dio non è che una personificazione dell’idea del bello eterno e del buono eterno — le anime elevate non hanno osato circoscrivere questa bontà e questa bellezza in una forma, le anime volgari sono discese fino all’umanazione.
«Se tu avessi visto Adalgisa, avresti potuto comprendere quanto ella si avvicinasse a questo ideale. Non so dirti quanto ella fosse bella, nè quanto il mio ideale fosse elevato! D’altronde che cosa è la bellezza? Essa non può essere il risultato dell’armonia di alcune linee, perchè queste stesse linee disposte diversamente possono dare diverse specie di bellezze — non vi è una legge in ciò; non vi è una bellezza assoluta. Possiamo analizzare il volto umano, descriverlo in tutte le sue parti, ammirare l’armonia dei loro rapporti — non basta — vi è ancora qualche cosa che è fuori di questa legge, che sfugge a questa analisi, che costituisce unicamente il bello che noi ammiriamo. Egli è che ciascun uomo, personificando le proprie idee, si è formato un tipo di bellezza, secondo il quale esamina e giudica delle forme, degli oggetti e delle creature che ci circondano. Ciò è quanto noi chiamiamo il gusto. Le leggi della bellezza fisica sono riposte in una legge della bellezza morale. L’identità della natura in ciascun uomo rende queste leggi pressochè simili in tutti, quindi pressochè uno il tipo della bellezza umana, ma se noi potessimo uscire un istante fuori di noi medesimi, distruggere e mutare questa legge, vedremmo che il bello ci apparirebbe deforme, e il deforme bello, che la bellezza è tutta immaginaria, tutta convenzionale, tutta subordinata a questo principio. Ecco perchè io non tenterò di delinearti l’immagine di Adalgisa — converrebbe che tu discendessi nella mia anima per rintracciarvela.
«Non ho mai preso ad investigare che cosa sia l’amore, quali i suoi limiti nel cuore degli altri uomini. Per ciò appunto che ti ho detto ora, io non ignorava che nel bello si ama inconsciamente il buono, che nel deforme si odia inconsciamente ciò che è cattivo, ma le ragioni di quest’odio e di questo amore mi rimasero sempre ignorate — si poteva aver coscienza di questi due estremi morali, ammirarne queste personificazioni diverse, senza nè amarle, nè odiarle — il segreto dell’amore, che è ad un tempo il segreto della vita universale, rimarrà sempre inviolato dagli uomini.
«Oh! dirti le ore di ebbrezza che io trascorsi al suo fianco, i deliri di quegli abbandoni!... Quel cadavere che mi stava dinanzi ricongiungeva i fili spezzati della mia esistenza, mi rimetteva in pace coll’umanità, con me stesso; riannodava i legami che mi avvincevano all’arte e alla vita. Quante anime non sapranno comprendere la natura di questa passione, giustificare la sua origine, la sua essenza, i suoi fini! Non è vero che le donne sappiano amare; sanno piacere, godere. Spogliatele di quelle attrattive del sesso che vi vedete mascherate dal sentimento — e non vi è più nulla. Ma in Adalgisa queste attrattive erano mute, distrutte — tutto ciò che vi era di ripugnante era sparito, tutto ciò che vi era di dolce era rimasto. Che importava a me che ella non vivesse? Io non aveva mai voluto chiederle del piacere. Nella ricerca affannosa del bello, io non aveva cercato mai che il bello, ancorchè passeggiero, ancorchè inanimato. Fui sempre casto di piena castità che è propria della robustezza; nè io aveva cercato nella personificazione del mio ideale altri attributi che quelli elevatissimi del mio ideale medesimo. E poi vi è qualche cosa di morto in natura? vi è qualche cosa di inanimato intorno a noi, cui non possiamo infondere una parte della nostra anima? Ho sempre sorriso di questa specie di avversione che gli uomini hanno per tutto ciò che non vive: mi sono sempre sentito nel cuore un’esuberanza di spirito sufficiente a infondere la vita a tutti quegli esseri inerti che mi stavano dintorno. Le grandi anime soffrono in mezzo a ciò che si agita e vive; prediligono la solitudine dove possono espandere la propria vitalità.
«Non vissi con lei che due giorni — la terra riebbe Adalgisa — io assistetti senza lacrime alla sua sepoltura. E perchè avrei dovuto piangerla? Non mi bastava la memoria? Coloro che piangono ciò che muore rinnegano la propria fede, la durabilità dei proprii affetti, la coscienza del proprio destino.
«Da quel giorno le mie lotte erano finite, io mi sentiva riconciliato coll’esistenza. Mi ridonai all’amore della mia arte — non era che un solo amore, uno stesso amore — non vissi più che di quello.
«La musica, fra tutte le arti, è la più divina perchè la più indeterminata. Concretizzare le idee nelle parole, la luce nella tela, le forme nel sasso, ma non potete concretizzare il suono — il regno delle note è infinito come il regno delle idee — più ancora, va oltre le idee, ve ne crea di quelle che non potete determinare, di cui non sapete darvi ragione. Strana e ridicola cosa! Gli uomini hanno voluto circoscrivere la potenza di questo linguaggio, il solo che sia veramente universale; l’hanno collegato colla parola la quale non esprime che cose determinate, — connubio mostruoso! — hanno detto: queste note esprimeranno il dolore, queste il piacere, quelle la sorpresa, e via via; hanno composta la sintassi delle note — hanno immiserito, circoscritto, rinnegato questo linguaggio che ci parlava di un mondo lontano, che ci sollevava sull’ordine delle idee comuni, che ci trasportava oltre il dominio dei sensi; che appunto era grande, perchè era impossibile sottoporlo a leggi fisse, trattenerlo dentro limiti fissi, perchè era inesauribile, perchè era indeterminato.
«Queste parole ti lasceranno indovinare quali sieno le mie idee in fatto di musica, quali i tentativi che io faccio per redimerla da queste leggi di convenzione.
«Scrivimi. Dopo la perdita di Adalgisa, io vivo da solo in questa città. Vorrei farti comprendere quali sieno i rapporti misteriosi che esistono tra la di lei memoria e la mia arte, e come questa attinga da quella, e quella si avvivi nella fiamma di questa, e formino un tutto solo ed armonico — ma ciò mi tornerebbe impossibile.
«Rimarrai tu costì lungo tempo? Ti scriverò altra volta.»
Ma non ebbi da lui altre lettere.
Passarono due anni da quell’epoca, nè io aveva più ricevuta notizia alcuna di Lorenzo, e quasi me n’era dimenticato allorchè n’ebbi da un amico le tristi novelle che mi accingo a raccontare; anzi trascriverò qui quel brano della sua lettera, che vi si riferisce:
«È da lui stesso che io ho saputo che tu non ignori le sue follie passate e quella sua passione d’amore così strana, così ideale e così incomprensibile. Ho anzi ragione a credere che tu abbia penetrato meglio e più profondamente di me nelle segrete oscurità della sua anima, e che la natura della sua follia ti sia apparsa più evidente e più chiara. Credo averla compresa io pure, e ciò mi spiega in qualche guisa la seconda e la più grave delle sue aberrazioni. Se egli non ti ha scritto più dopo la tua partenza da ***, ignori senza dubbio che egli si è dimenticato di Adalgisa, e che un amore non meno appassionato, non meno esigente, ma non meno inesplicabile si è sostituito a quel primo.
«Era naturale che egli se ne dimenticasse, e che quell’affetto così triste, così spento, così solitario si spegnesse nel suo cuore per dar luogo ad una passione più viva e più reale, benchè ancora più assurda. Tu meraviglierai dell’oggetto di questa sua seconda affezione.
«Io credo che tutta l’infermità della sua anima e della sua intelligenza si riducesse a ciò: che egli voleva personificare in un tipo di bellezza sensibile quel tipo astratto e ideale che gli aveva creato la sua arte. La natura stessa lo conduceva a cercare questa personificazione nella donna; la purità della sua anima, la casta religione di questo ideale lo costringevano a volerne escluse quelle passioni fisiche che la contaminavano. Perciò egli non aveva amata Adalgisa che morta, l’aveva amata solamente in quegli istanti, in cui senza avere ancora perduto nulla della sua bellezza, si era già spogliata di tutte le sue passioni. Seguendo questo ordine stesso di idee, non allontanandoci dalle leggi e dalla natura della sua follìa, comprenderai agevolmente come egli non potesse rimanere fedele a questa affezione, giacchè egli aveva d’uopo di vedere, di ammirare questa personificazione più o meno imperfetta del suo ideale. Non è a dirsi se egli soffrisse di questa dimenticanza che gli imponeva la sua stessa natura, la sua arte stessa; egli aveva creduto che quell’affetto sarebbe durato eterno, e lo sentiva svanire, spegnersi, dileguarsi miseramente come tutti gli affetti terreni; sentiva riformarsi nel cuore quel vuoto che egli aveva riempiuto un istante, ma che ora non poteva sperare più di riempire.
«In quell’intervallo di lotte, in quel periodo di triste scoraggiamento si disgustò anche della sua arte, alla quale credeva, e non senza ragione, dovere unicamente la sua infelicità. La musica, diceva egli, è relativamente alle nostre facoltà la più imperfetta e la più incompleta di tutte le arti. Noi non sappiamo se ci andiamo avvicinando od allontanando dalla sua perfezione — non lo potremo mai indovinare — non le potremo mai assegnare nè un limite, nè una legge, nemmeno una via sicura, tanto ella si allontana da tutto ciò che è sensibile, da tutto ciò che è reale. Non è nemmeno possibile una definizione, ella sfugge ai sensi, al raziocinio, a tutto: si è camminato finora sopra delle ipotesi, si sono stabilite delle norme elementari, si sono creati dei sistemi, dei generi, delle leggi di convenzione, ma nessuno ha ancora potuto comprendere che cosa ella sia, d’onde si è partiti, e fin dove si potrà giungere. I veri artisti hanno sentito tutto il tormento di questa ignoranza e di questa impotenza, hanno compreso quanto fosse grande il contrasto che la vaga idealità di quest’arte formava coll’arido realismo, con cui la natura li aveva condannati a lottare.
«Disperando di trovar pace qui, egli prese a viaggiare; e fu a Firenze che vide la Venere dei Medici, e che lo stesso sentimento che lo aveva fatto invogliare di una fanciulla morta, gli destò nell’anima una passione ancora più ardente, ancora più inesplicabile per quel tipo perfettissimo della bellezza femminile. Lorenzo passò da quell’amore a questo colle stesse esitanze, colle stesse indecisioni di coloro che si sciolgono da un affetto reale. E con questa nuova passione non fece che crearsi nuove origini di sofferenze. Era naturale che egli, sì vigoroso, sì ardente, dotato di un’immaginazione così viva e così feconda, non potesse appagarsi di un amore così sterile e così solitario. Egli aveva voluto lottare colla sua natura, ma indarno.
«Fu anzi quella medesima esuberanza di vitalità che egli si sforzava di trattenere, di accumulare in sè stesso, che guastò in qualche modo il suo organismo, e finì collo spegnere in parte la sua ragione. Il suo cuore, la sua mente, le sue aspirazioni combattevano una lotta perenne coi bisogni della sua vita, colle esigenze aride, materiali, inesorabili della natura. Egli non voleva soccombere anche a prezzo della sua felicità; non voleva concedere nulla al realismo dei sensi e delle passioni.
«Se tu verrai qui ti racconterò a voce la storia di questo suo secondo amore. I dettagli sono molti e strazianti, nè mi regge l’animo di evocarli e di scriverli.»
Tale era il brano di quella lettera che si riferiva a Lorenzo.
Io accorcio, per quanto mi è possibile, la mia narrazione.
L’analisi di questa dolorosa infermità della sua mente — noi chiamiamo infermità di mente tutto ciò che si allontana dalle sue leggi comuni — potrebbe fornire argomento a molti volumi, e pochi saprebbero entrare nello spirito vero di questo esame — gli artisti forse, e non tutti. Questa specie di anatomia di un’anima non potrebbe offrire interesse che per coloro i quali furono dotati di una mente superiore, per quei pochi che hanno molto amato o molto sofferto, per quegli eletti, cui l’idea del bello si è mostrata per altre vie e per altre immagini che non soglia mostrarsi alle masse.
Lorenzo Alviati ebbe natura e passioni e genio eccezionali. Le sue opere, non note che a pochi amici, furono forse di quelle grandi aberrazioni, di quei grandi errori, di quegli slanci giganteschi, di quelle prodigiose antiveggenze che precedettero in ogni tempo le scoperte dei più grandi veri scentifici e filosofici. Fu un uomo fuori de’ suoi tempi — oserei quasi dire che fu un’anima fuori della sua natura, tanto egli seppe combatterla, ancorchè ne uscisse vinto, e dominarla così miseramente.
È noto come quella Venere destasse passioni d’amore violentissime. Lorenzo tradì, suo malgrado, il suo segreto, — il segreto di questo priapismo singolare del genio — e gli fu impedito dì rivederla. Rimpatriato, si ammalò di malinconia, e la sua ragione incominciò ad alterarsi nell’isolamento che egli creava intorno a sè stesso. Tutta quell’affettività, e assieme tutto quel fuoco represso di gioventù che non aveva potuto versare in nessun cuore, si raccolse e si riversò tutto in sè medesimo. Come spiegarlo? Egli incominciò a non trovare più altra compiacenza che con sè stesso, altro oggetto degno di amore che sè stesso, altra rivelazione del bello che la sua persona. In una parola, la sua ragione ne andò interamente sconvolta — egli finì coll’essere preso d’amore per sè medesimo. Io rifuggo dal descrivere i dettagli deplorevoli di questa follìa: ciascuno li potrà agevolmente immaginare.
Il mio amico non lasciò scritte che poche opere, le quali, per quanto io credo, andarono smarrite. Io conservo tuttora un suo manoscritto contenente alcune idee speciosissime sul ritmo, e uno schizzo di progetto relativo all’abolizione del melodramma. La sua musica — contrariamente a ciò che si poteva supporre — era dolce, semplice, appassionata, estremamente melodica. Coloro che l’hanno udita hanno serbato memoria per lungo tempo di quel fascino inesplicabile che esercitavano le sue melodie. Mi è pur rimasta una sua memoria circa quel barbaro sistema di finali fragorosi e convenzionali, da cui nessuno ha finora saputo sciogliersi, e che io ho in animo di pubblicare. Sarà l’ultimo omaggio che io renderò alla memoria di un amico affettuoso e di un genio sventuratissimo.
Lorenzo Alviati morì nel manicomio di Alessandria l’11 giugno 1863.