Amore nell'arte/Riccardo Waitzen
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RICCARDO WAITZEN
Il Magistrato. no, io non ho fede alcuna negli spiriti — intesi però a dire che essi esercitano delle strane influenze sugli uomini, e questa fede antica quanto l’umanità non può essere avversata ciecamente, nè distrutta ad un tratto.
(A Ghost in comedy)
Che cosa è l’immaginazione? Chi ne definisce le facoltà? Dove rintraccieremo noi quella linea che separa l’immaginario dal vero? E nel mondo dello spirito, nelle sue vaste concezioni, esiste qualche cosa che noi possiamo chiamare assolutamente reale, od assolutamente fantastico? O piuttosto non è egli tutto fantastico nello spirito? Come nulla vi ha di individuato, di isolato nell’immensità delle masse che compongono l’universo, ma tutto si riunisce e si sfuma per mezzo delle piccole masse intermedie, non potrebbe essere che l’ideale ed il realismo si congiungessero tra di loro per certe leggi che a noi non è dato di conoscere, per certo mistero che a noi non è concesso di afferrare; e che gli uomini non facessero che definire con queste due parole i due punti estremi di questa linea, quali sono il mondo sensibile ed il mondo immaginario? Qualunque sia quel vero che a noi non è dato di percepire, egli è però ben certo che dei grandi legami esistono tra di loro. La loro conciliazione, secondo la natura umana, ha formato la lotta di tutti i tempi, come forma la lotta dell’oggi: l’umanità tende ad equilibrarsi tra queste due grandi attrazioni, come quella che si sente dominata da entrambe, e non ignora costituirsi dalla loro azione il segreto delle sue lotte e della sua vita.
La letteratura moderna, conscia di questa verità, si è rivolta alla soluzione di un grande quesito: «idealizzare il reale;» fondere assieme queste due potenze, costringere l’immaginazione, l’idea a soffermarsi sulla realtà, ad anatomizzarla, a rivestirla de’ suoi colori, delle sue forme, delle sue seduzioni divine. Quella grande letteratura, che è la recente letteratura francese: Karr, Vittor Ugo, Girardin, e più di tutti Michelet co’ suoi libri divini dell’amore e della donna, hanno dimostrata possibile questa conciliazione, indirizzandola allo scopo dell’umana felicità. Forse la letteratura avvenire non mirerà più ad altro fine che a questo: essa arresterà lo spirito degli uomini sempre rivolto all’ideale e al fantastico per trattenerlo sui campi della realtà, ove noi dobbiamo combattere, qui e non altrove, vogliosi o non volenti, la lotta secolare della vita.
Ma la scienza ha pure rialzato in questi ultimi tempi un lembo della cortina misteriosa. Mesmer, colla scoperta del magnetismo, sembrò aver fatto un passo gigantesco su questa via. I primi fenomeni di quella scienza, arcani, oscuri, confusi, perciò accolti con quella superstiziosa credulità che affascina tutti gli uomini all’idea dell’incomprensibile e dell’ignoto, sembrarono aver afferrato le prime fila per districare tutto quanto il segreto, fino allora inviolato, della natura umana: — la fusione delle anime, la trasmissione del pensiero, la chiaroveggenza, l’intuizione, l’unificazione di due, di più individualità, furono altrettante scoperte che parvero assicurarci la conquista di verità prodigiose e infinite.
Tuttavia non si tardò a riconoscere che tutto era fittizio in questa scienza, e che le prime basi gettate con tanta apparente solidità, non bastavano a sostenere quell’edificio colossale e gigantesco che si voleva innalzare sopra di esse: toltine i fenomeni materiali, tutto si è arrestato, tutto è ricaduto nell’ignoto; — l’ipnotismo ci ha dimostrato che gli stessi effetti si ottenevano colla semplice fissazione di un oggetto luminoso; lo spiritualismo rimaneva dunque escluso, e i fenomeni del Mesmer ricadevano nel dominio della materia. — Perocchè chi ha mai potuto definire le proprietà degli spiriti, e i rapporti che essi hanno tra di loro? Che cosa è il sogno, il sonnambulismo, il presagio, l’astrazione, il pensiero, e più di tutto l’incubo? I sensi — ecco i limiti estremi delle nostre facoltà; nulla di positivo, nulla di assoluto fuori di essi — ogni altra cosa è immaginaria e fantastica; essa appartiene a un’altra sfera di esseri, sulla cui natura, sul cui fine, sulle cui facoltà, nulla ci è dato di comprendere e di asserire con sicurezza.
Ciò non di meno, una vaga, una poetica illusione è venuta oggi a mettere in rapporto il mondo fisico col mondo spirituale, il mondo finito col vivente: intendo parlare dello spiritismo, questa applicazione singolare della scienza, per la quale uno spirito compiacente discende a parlare con voi un linguaggio di convenzione immedesimandosi in un tavolo, in una sedia, in un arnese qualunque della vostra camera: ed ecco che il magnetismo si è collocato come interprete, come intermedio tra voi e il mondo spirituale — perocchè come avrebbe potuto uno spirito rivelarsi senza il concorso di un oggetto sensibile?
Io vorrei conoscere se coloro i quali, mercè questo mezzo, continuano a convivere in ispirito coi loro cari, hanno la fede assoluta nella realtà di questa convivenza. Se essi credono, il fenomeno esiste. Noi non possiamo sorridere di questa credenza: proviamone l’assurdo, proviamone del paro la verità se ci è possibile. Bensì ciascuno di noi ha sentito in sè stesso, in molte circostanze della vita, qualche cosa che gli parlava di altri esseri, o sofferenti o lontani, o già morti alla nostra esistenza di un giorno. Ditemi, non avete voi perduto qualcuno dei vostri diletti? e non ne avete spesso udito ancora la voce e i consigli? non li avete più riveduti nei vostri sogni, nelle vostre veglie affaticate e affannose? non li avete sentiti come discendere, pesare sopra di voi, immedesimarsi in voi stessi, congiungere alla vostra la loro vita? Chi vi dice che mentre vi si affaccia un’immagine nel sogno, quell’immagine stessa non sia li viva, palpitante, curvata sopra di voi o assisa presso il vostro guanciale? E chi vi dice ancora che voi sognate? Che cosa è il sogno se non che un’esistenza piena, colma, smisurata, al cui confronto l’esistenza della veglia non è che la vita monca e impotente della pietra?... Veglia, sonno... parole! Io non vi domanderò quali fatti appartengano al mondo reale e quali a quello della immaginazione, non vi domanderò ancora quale sia quella linea che separa questi due mondi. — Negatemi che i fenomeni esistano.
È assai tempo che io conobbi nell’esercito due giovani ufficiali, due gemelli: la natura li aveva fatti ad uno stampo; nessuna distinzione fra di loro — le stesse fattezze, lo stesso colorito, lo stesso suono di voce — essi si amavano di tutta la tenerezza fraterna, e forse alla loro nascita la natura, ignara del concepimento di due esseri, trovatasi così alle strette, poichè la cosa non ammetteva indugio, aveva diviso fra di loro quel soffio della vita, che aveva predestinato inconsciamente ad un solo. Non ho conservato memoria di avvenimenti più singolari di quelli a cui dava luogo la loro prodigiosa somiglianza.
Uno di essi, Giulio, era un abile giuocatore di bigliardo: l’altro, Luciano, non era che un giuocatore assai mediocre. Spesso i loro compagni, prima di accingersi al giuoco con uno di essi (era impossibile farlo con entrambi senza che ne derivasse una strana confusione), gli domandavano:
— Sei tu Giulio o Luciano? noi confidiamo sulla tua parola.
— Luciano, sul mio onore.
Ed ecco che la partita s’impegnava colla certezza di uscirne vincitori, ma ad un dato momento, Luciano scivolava dalla sala, subentrava non visto il fratello, e la partita era perduta.
Spesso ancora nelle riviste del reggimento, uno di essi si assentava per turno, sicuro che l’altro poteva supplirlo senza pericolo di essere scoperti. Ed eccone uno sfilare grave e impettito dinanzi al colonnello nella prima compagnia cui appartiene, e appena uscitogli di vista, portarsi alla coda del reggimento e ripassare di nuovo alla testa della compagnia dell’assente. Ma un giorno il colonnello, insospettito, lo fa uscire dalle file, lo trattiene presso di sè, ed ecco che lo strattagemma è scoperto e punito.
Come è costume di soldato, essere chiuso agli affetti duraturi e gentili, e aperto solamente alle piccole passioni di un giorno, essi avevano delle amanti delle quali si dividevano i favori senza che le tradite potessero avvedersi dell’inganno. La loro vita rimaneva così come moltiplicata, e la loro natura porgeva ad essi il privilegio di sensazioni sempre rinnovate e sempre recenti.
Spesso avveniva che una di loro gli dicesse:
— Amor mio, io non ti riconosco più questa sera, tu mi sei tutto mutato: è forse ciò che tu mi promettevi ieri l’altro? un contegno più delicato, più rispettoso, più calmo?... ecco le tue promesse, ecco i tuoi giuramenti svaniti...
— Non mi badare, o fanciulla, le mie preoccupazioni del giorno sono sì gravi che io ho tutto dimenticato, e poi il mio amore è sì veemente, sì imperioso, sì cieco... ma tu che lo disconosci, oh! tu mi ami sì poco...
Certo quella mente immaginosa di Shakespeare, nell’ideare la sua commedia degli equivoci, non avrebbe potuto creare delle combinazioni più singolari e più ardite. Ma la vita dei due giovani era predestinata ad un fine prematuro e inatteso. Luciano cadde colpito da una palla austriaca nella giornata di San Martino: Giulio, che gli sopravvisse, divenne malinconico e pensieroso, sentì che gli era venuta a mancare come una metà di sè stesso, abbandonò la carriera militare, ed essendosi ritirato a vivere in una piccola casa di campagna sul Canavese, vi morì di patéma un anno dopo.
Alcuni mesi prima della sua morte io mi recai a visitarlo, e mi trattenni alcuni giorni presso di lui. Lo trovai infermo e prostrato, affetto da quell’etisia del cuore che precede nelle nature soffrenti e sensibili, l’etisia fisica; ma la sua anima aveva acquistata tuttavia una potente affettività, una forza di astrazione straordinaria. Egli mi assicurava che era felice, che aveva ogni giorno dei lunghi ed affettuosi colloquii con suo fratello, che egli era presente ad ogni istante, che in quelle sei ore che egli trascorreva ogni giorno rinchiuso nella sua camera ne evocava lo spirito col suo atto della volizione, e si abbandonava con lui alle dolci confidenze, alle piene espansioni del loro affetto, alle costanti e profonde investigazioni del loro destino.
Spesso io sorrideva della sua fede, ed egli mostrava di compiangere la mia incredulità, e diceva con tutto lo slancio d’un desiderio a stento represso: — Oh potessi io presto morire, andarmene, libero, là dov’egli dimora! oh potessi presto raggiungerlo!
E lo raggiunse di fatto.
Ora potremo noi dileggiare un trasporto di fede sì vivo? E siamo noi ben sicuri che tutto ciò non fosse che fede, che allucinazione, che sogno? Ho sentito uomini colti e severi dire coll’espressione d’un convincimento incrollabile: «Ciò è falso, ciò è vero, ciò solamente sussiste, fin là e non più oltre voi dovete innalzare l’edifizio della vostra fede.» Presuntuosi! E fino a qual punto hanno essi scrutato nelle viscere della natura? Fino a qual pagina essa ha loro aperto il libro meraviglioso de’ suoi segreti? Che vi hanno essi letto? La fede è finita: dalle sue basi incrollabili noi possiamo trarre delle conseguenze finite, perciò spesso limitate, monche, imperfette: ma il dubbio solo è grande, sconfinato come l’immenso universo, incommensurabile come l’oceano, profondo e tenebroso come gli abissi dell’anima umana: il dubbio è la rivelazione della scienza, — essa lo cerca immolandogli ogni fede — poichè una sola fede esiste, quella del dubbio.
Ma veniamo al nostro racconto.
In un caldo mattino di agosto dell’anno 1840, un elegante calesse tirato da due cavalli amburghesi, sollevava un nembo di polvere sulla via che da Raab mena a Vienna. Su quel calesse vi era Riccardo Waitzen; egli veniva da Ofen; era uscito di tutela due giorni prima, e andava a domiciliarsi nella capitale dell’impero, con ventidue anni, due cavalli amburghesi, uno spartito di Mozart nella sua valigia e un ordine di pagamento di cento mila fiorini sopra una banca principale di Vienna. Riccardo Waitzen si sentiva equilibrato come un principe nella sua carrozza; egli non era mai stato così felice, e poichè la felicità eccessiva sente assai spesso della natura del dolore, il giovine era portato a sentimenti malinconici, e guardava il sorgere del sole dietro le foreste del lago di Neusiedl con aspetto cupo e turbato, come se quel giorno fosse stato l’estremo della sua felicità e delle sue speranze. Questa sensibilità, che si eccita e si ridesta alla vista della natura, ci dice che Riccardo non era cattivo, e che il suo animo era suscettibile di sentimenti delicati e profondi: sì, egli era tale, e lo sarebbe per certo rimasto se egli non fosse uscito da Ofen, se gli avvenimenti futuri della sua vita non ne avessero sconvolto l’indole e il cuore. Poveretto! il giovine non aveva più nè padre nè madre, anzi egli non li aveva conosciuti; non aveva ricevuto quella dolce e perseverante educazione della famiglia che s’immedesima in noi e perdura a traverso tutte le peripezie della vita: uscito da un collegio a diciotto anni, egli conosceva le coniugazioni latine e i primi elementi della storia, sapeva suonare un valzer di Bach, e cantare una cabaletta di Schubert o di Thalberg, ma il suo cuore era rimasto costantemente la parte più negletta di lui: egli non aveva amato, egli non si era mai sentito tratto ad amare; la sua natura lo chiamava soltanto al piacere, all’incostanza, alla vita clamorosa e felice. Riccardo non aveva che una passione, una sola, ma energica, prepotente, assoluta, la passione ruinosa del giuoco, e fu da essa che ebbero origine quegli avvenimenti che noi stiamo per raccontare. Non ci arresteremo su quei due primi anni che egli trascorse così ignorato nella capitale: noi non lo considereremo che nella sua vita di artista e di amante, e aggiungeremo solamente che un anno dopo quel primo mattino di agosto, egli aveva ventitrè anni, un solo cavallo amburghese, lo spartito di Mozart ancora nella sua valigia, e cinque mila fiorini di capitale depositati alla banca. E finalmente un altr’anno dopo, egli non aveva più che ventiquattro anni, lo spartito inalienabile di Mozart, e cinquantamila fiorini di debito. Il giuoco lo aveva rovinato.
Ma prima che Riccardo Waitzen, per una di quelle predilezioni della fortuna così rare negli annali del genio, si fosse acquistato per tutta la Germania fama di artista straordinario in due soli anni di studii e di occupazioni indefesse, era già conosciuto nei grandi centri di Vienna come un giovine la cui eleganza e la cui liberalità avevano superato ogni esempio. Bisogna aggiungere che Riccardo era bello, di quella bellezza intatta, sorridente, fiorita, da cui traspare, come la luce in un vaso d’alabastro, l’interna contentezza dell’anima: il dolore non aveva tracciata la più piccola ruga su quel volto, e, a dire il vero, è d’uopo confessare che egli ignorava completamente che cosa fosse il dolore.
Non so se qualcuno de’ miei lettori, qualcuno di coloro che sono portati dalla loro natura a riflettere e a trarre il meglio che si può dalla dubbia morale dei costumi presenti, si sia mai tolto seco uno di questi esseri che in tutte le società, in tutte le nazioni, rappresentano la classe più improduttrice, più inoperosa e più riprovevole del popolo — i lions, i dandys, i zerbini — e rinchiusoselo nella sua camera, da solo a solo, e citatolo al tribunale incorruttibile della sua coscienza. Io misento umiliato nella mia natura di uomo all’idea di emettere un giudizio su queste creature. Io li vorrei poco meno che esclusi dalla nostra grande famiglia, nè dubito che verrà un tempo in cui l’umanità riverente ai due grandi principii d’ogni ordine sociale, che sono la punizione dell’ozio e la santità e la ricompensa del lavoro, condannerà all’ostracismo e al disprezzo questa classe inoperosa e fatale. Giova però osservare che il fashionable inglese ha certe eccentricità proprie della sua nazione che ne fanno un tipo interessante e curioso: il tedesco è quasi sempre assai colto, spesso artista o poeta: il francese splendido, originale, simpatico, impaziente di profondere tutta la sua fortuna per avere il diritto di uccidersi a venticinque anni, o di rientrare con decoro nella vita domestica: ma l’italiano non ambisce che lo sfoggio dell’abito, non ha nè arte, nè studio, nè distinzione alcuna, nè pregio alcuno intellettuale: egli è costantemente il più frivolo, il più ignorante e il più scipito di tutti.
Riccardo non era però tanto caduto in fondo d’ogni bassezza che non riconoscesse l’avvilimento che gli proveniva da quella sua vita insipida e vana. «Io ho più di cento mila lire di debito, diceva egli una sera a sè stesso, una somma che non potrò più restituire, la fortuna ha cessato di sorridermi, e di tutto ciò che mi aveva accordato una volta non mi è rimasto nè un confidente, nè un amico, nè tampoco uno di quei buoni cavalli amburghesi che aveva portato meco da Ofen: in verità gli è ben tempo che io riprenda tra le mani quell’eccellente spartito di Mozart, che riassume tutte le mie memorie di collegio: non per nulla la Provvidenza lo avrà collocato tra gli arnesi della mia guardaroba e conservatomelo per due anni nel fondo della mia vecchia valigia.» Riccardo meditava su queste e tante altre cose più tristi tra il frastuono d’una festa da ballo sdraiato sopra un sofà collocato nello sfondo di una finestra, di cui aveva racchiuse le cortine per nascondersi alla vista de’ suoi amici. Era la prima volta che il pensiero del suo avvenire veniva a collocarsi come un incubo assiduo, pesante affannoso, tra lui e l’abbandono prestabilito della sua vita: Riccardo soffriva e sentiva per la prima volta di soffrire.
Ma mentre egli si abbandona con una voluttà ancora ignorata a questo nuovo sentimento di dolore, ode proferire il suo nome, sente che si cerca di lui; e il giovine si scuote, si passa le mani sul viso, si racconcia la zazzera colle dita, si alza, e si slancia sorridente nella sala.
Una vaga fanciulla di sedici anni, la cui voce era melodiosa come quel bisbiglio degli usignuoli, delle farfalle e dei fiori che si ascolta nelle prime notti di aprile, era stata pregata di cantare una vecchia leggenda tedesca ordita sopra i motivi d’una patetica sinfonia di Hummel, e Riccardo doveva accompagnarla al pianoforte. Anna Roof, che tale era il suo nome, era uscita di collegio pochi giorni prima, e si dicevano grandi cose della sua abilità nel canto e nel suono, ma sopratutto nel canto: ella era divenuta a un tratto la regina della festa, e aveva ricevuto un tributo di ammirazione e di elogi che poche donne avevano fino allora ottenuto. La sua bellezza aveva certo giovato a questo trionfo, ma nessuno avrebbe saputo dire perchè Anna era bella: le sue fattezze sfuggivano allo sguardo, come qualche cosa di mobile e di vaporoso; i suoi occhi avevano tutta la trasparenza del cielo, e quella profondità e quel mistero del suo azzurro; il sentimento e la malinconia nel baciare il volto di una donna, non vi avevano mai lasciato tanta parte di sè come su quello di Anna: il sentimento e la malinconia riuniti formano la natura dell’angelo, e Anna era un angelo.
Certo se v’ha al mondo un tipo vivente di donna che si informi a quell’ideale di cui ogni uomo ha portato delirando l’immagine nel cuore fino a vent anni quella è la donna tedesca. In verità io posso anche odiare i Tedeschi, ma non posso odiare le loro spose e le loro fanciulle. È ad esse, alla loro dolcezza, al loro abbandono, alla loro fedeltà, a quella verginità di mente e di cuore, a quella cara ingenuità di fanciulla che esse sanno conservare per tutta la vita, che la Germania va debitrice della letteratura più morale e più appassionata del mondo.
È la loro moralità che regge e costituisce la famiglia, è la moralità della famiglia che regge e costituisce la nazione. Io lo ripeto; io credo che ogni buon italiano odia cordialmente un tedesco, ma vede di buon occhio le sue donne.
Dobbiamo e possiamo noi credere alla predestinazione? certo molti avvenimenti si compiono quaggiù per un concorso di circostanze che non possiamo giudicare imprevedute e immediate. Vi sono molte anime che si sentono, che si conoscono, che si cercano, che non ignorano l’esistenza di un’altra colla quale sono destinate a raggiungere la loro completazione. Tutte le unità nell’universo sono divise e separate, e tendono per le proprietà della loro natura a riunirsi: forse vi è nel fondo tenebroso di questo pensiero un debole filo di luce che ci potrebbe guidare a rintracciare i segreti della vita universale, del moto, della generazione e dell’amore. Quando Anna Roof e Riccardo si videro in quella sera la prima volta, sentirono che essi erano nati l’uno per l’altro, e che nessuna avversità di fortuna li avrebbe potuti disgiungere. Nessuno di loro aveva ancora amato, ma il giovane non aveva più di puro che il cuore; Anna aveva ancora l’ignoranza della purità e l’ignoranza della colpa: aveva la purezza naturale dell’angelo.
Quella sera fu decisiva per tutta la vita di Waitzen; egli suonò con entusiasmo e s’inebbriò della voce divina della fanciulla.
Anna cantava con sentimento; la sua voce era debole e languida, uscivale dal petto come affannosa; era più un lamento che un canto, ma quel lamento aveva affascinato ogni cuore e spremuto delle lacrime dagli occhi di tutta quella folla spensierata e felice. Riccardo ballò colla fanciulla un valzer vertiginoso, le cui rimembranze, il cui suono non uscirono mai più dalla sua memoria, come quelle che avevano segnato per lui il primo periodo di una nuova esistenza. Quella ghirlanda di rose bianche avvizzite, quell’abito azzurro tempestato di stelle d’argento, quei capelli cadenti e scomposti, quella taglia slanciata e flessibile, tutto quell’olezzo di cielo che emanava dalla sua persona, riempirono per lunghi anni la mente immaginosa del giovine con sì grande pienezza di affetti, di sensazioni e di fede, che tanta non gliene avrebbe procurato una lunga esistenza di felicità, di godimento e di amore.
Quando Riccardo, rientrato nella sua camera, rivolse lo sguardo a quegli oggetti che gli richiamavano alla memoria il suo passato, lo assalse un pentimento doloroso della sua esistenza trascorsa, di quei giorni senza amore, senza amicizia, senza coscienza di bene e di male, nei quali nulla si è raccolto, non una rimembranza, un affetto, una fede di cui riconfortarsi in quell’età nella quale non si può più vivere che di memorie. Il giovine si commosse e si armò di saldi e nobili propositi per l’avvenire: che accadesse di lui in quella notte, il cielo ed egli solo lo seppero; egli pregò e pianse come un fanciullo, si coricò colle lacrime e si ridestò tutto mutato.
Otto giorni dopo egli abitava un piccolo appartamento in una casa di fronte a quella di Anna, per modo che non si frapponeva tra di loro che la distanza della via. Fu così che Riccardo poteva lanciare sul balcone della fanciulla delle piccole pallottole di carta, sulle quali effondeva tutti gli affetti della sua anima innamorata e sofferente.
Nella sua potente vitalità l’amore subisce due fasi: quella delle idee e quella dei fatti, ed è la prima di esse che ha nobilitato negli uomini questo sentimento, creando una distinzione tra i loro amori e quegli degli altri esseri organizzati, poichè nell’uomo l’amore non è tanto il congiungimento delle vite, quanto è quello delle anime e delle idee. Esistono due forze nella natura umana, sulle quali si basa tutto il sistema della vita: e sono la forza di attrazione e la forza di ripulsione — l’amore e l’odio: — l’amore è quella lotta che combattono due anime per riunirsi; e la sensualità non ha più altro scopo che quello di distruggere i corpi per affrettare la fusione delle anime: ma questa fusione e impossibile nel mondo materiale senza la cessazione delle vite, è del paro impossibile nel mondo dello spirito come quella che distruggerebbe l’individualità: da ciò il desiderio di morte negli abbandoni di amore, e quel vuoto eterno e quell’insoddisfacimento tormentoso che si prova anche nell’amore corrisposto.
Ma la storia di un amore nella prima delle sue fasi, il suo nascere, il suo crescere, il suo svilupparsi, è tal cosa che sfugge alla potenza della parola. E che è ella la parola? Tutti coloro che hanno sentito potentemente si sono arrovellati contro questo povero linguaggio umano, il quale non sa accomodarsi che colla vita dei fatti, e si trova immiserito e impotente allorchè vuole esprimere la vita delle idee. Essa può manifestare un fatto con un suono, con una voce, con un periodo; ma un’idea richiede dei volumi ancorchè non avesse abbracciato che un atomo impercettibile di tempo, perchè l’idea è l’infinito.
È perciò che noi pubblicheremo qui semplicemente il contenuto delle varie pallottole di carta che Anna Roof e Riccardo Wailzen si scambiarono dai loro balconi.
Il lettore che ha amato indovini le battaglie di quelle anime.
1.ª pallottola di Riccardo ad Anna:
Io vi amo.
2.ª pallottola di Riccardo ad Anna:
Io vi amo.
3.ª pallottola di Riccardo ad Anna:
Il vostro silenzio è inesplicabile; perchè ricevere le mie pallottole se non mi amate? E se mi amate perchè non rispondere?
4.ª pallottola di Riccardo ad Anna:
Voi mi dileggiate crudelmente, voi raccogliete volentieri le mie pallottole, voi mostrate di leggerle con commozione, e non mi rispondete; mostrate di amarmi e non me lo dite. Il vostro contegno è un enimma che tortura e confonde la mia povera ragione, allorchè io tento di decifrarlo. Qualunque sia il vostro cuore per me, o rispondetemi od abbandonerò domani questo alloggio.
1.ª pallottola di Anna a Riccardo:
(Se ne ignora il contenuto essendo caduta sulla via)
2.ª pallottola di Anna a Riccardo:
(Caduta come sopra)
5.ª pallottola di Riccardo ad Anna:
Per carità, lanciate le vostre pallottole con maggior forza; componetele di una carta più consistente.
3.ª pallottola di Anna a Riccardo:
Che vi dirò io, o Riccardo? Abbiate compassione di me, perchè io più non mi riconosco in questi giorni. Ve lo dirò, sì, che vi amo, ma non mi opprimete colla vostra insistenza, non mi lusingate, non mi straziate coll’immagine d’una felicità che non può, che non deve durare..., sappiate che il filo della mia vita è spezzato..., giurate di amarmi, e vi rivelerò un segreto terribile.
6.ª pallottola di Riccardo ad Anna:
Sulla mia vita, sul nostro amore, lo giuro. Dite, angelo, dite.
4.ª pallottola di Anna a Riccardo:
Il nostro amore sul quale avete ora giurato, non vi legherà a me per uno spazio maggiore di un anno. Sappiate che la mia esistenza è consumata da una malattia tremenda, la quale non conosce rimedio, dall’etisia. Io devo morire indubbiamente non più tardi del mio anno diciassettesimo che compirò nella prossima primavera, nella stagione dei fiori, quando tutto mi richiamerebbe alla felicità ed alla vita. Dite ora, o Riccardo, potete voi amarmi a questo prezzo? potete voi rendermi vostra?
7.ª pallottola di Riccardo ad Anna:
Sono dodici giorni che non vi vedo: voi soffrite? voi siete malata? o, perdonate questo sospetto, ricusate piuttosto di vedermi? La vostra confessione mi ha atterrito, e io sento più che mai il bisogno di amarvi e di rendervi mia. Ma esistono pure dal mio canto ostacoli insuperabili: io vi amo, Anna, ma ho centomila franchi di debito.
5.ª pallottola di Anna a Riccardo:
Il vostro cuore non vi aveva ingannato; io era malata. La speranza di tanta felicità mi ha commossa ed oppressa fino a morirne. Ho voluto meditare su tutte le possibili eventualità del nostro amore prima di rispondervi. Sono lieta che accettando il sacrificio che vi assumete di compiere col rendermi vostra, io possa dimostrarvene in qualche modo la mia riconoscenza. Ma potrò io ricompensarvi del vostro amore? Possiedo esattamente abbastanza di che pagare i vostri debiti e dispongo liberamente della mia fortuna. Ma questo mutamento di stato richiederà la mia lontananza da questa città; e quindi anche la vostra. Acconsentite? Io vi offro la mia vita di un anno, ma una vita la cui potenza sarà centuplicata dalla sensibilità, dall’amore, dal pensiero della sua cessazione imminente. Un’altra donna non potrebbe offrirvi un anno di ebbrezze più divoranti; la vostra esistenza trascorrerà attraverso una serie di sensazioni nuove e infuocate, io non vivrò che un anno nel tempo, ma vivrò un’eternità nell’amore. Tuttavia questa passione smisurata ha diritto ad una ricompensa: un altro patto tra noi: — Voi dovete essermi fedele anche dopo la mia morte, voi dovete amarmi per tutta la vostra vita. —
8.ª pallottola di Riccardo ad Anna:
Acconsento ad amarvi per tutta la mia vita: ma giacchè noi dovremo abbandonare questa città, non si potrebbe fare a meno di pagare i miei creditori?
Noi non diremo quante altre pallottole furono scambiate tra i due amanti, fino all’ultima di esse che era così concepita: «Venite Riccardo, tutto è combinato e compiuto».
E una settimana dopo una carrozza da posta viaggiava sulla via da Vienna ad Amburgo. Anna Roof e Riccardo Waitzen andavano a passarvi la loro settimana d’orpello.
Da questo punto ebbe principio la vita artistica di Riccardo, poichè egli non aveva appreso da giovinetto che i primi rudimenti dell’arte, e sebbene la natura lo avesse creato per essa, egli ne aveva delusi e attraversati sempre i disegni. La fanciulla non lo aveva ingannato assicurandolo della sua terrìbile predestinazione ad una morte sicura e precoce: egli stesso s’avvedeva di quella rapida rovina che la morte andava compiendo sopra di lei; quella gemma si era sbucciata ad un tratto, troppo presto fioriva, ma di quella bellezza fugace, di quello schiudersi violento del fiore raccolto e collocato nel vaso d’acqua, i cui petali si distaccano ancora non avvizziti dal gambo: ma nondimeno essa era bella; era mesta, ma di quella mestizia che forse negli esseri soprannaturali costituisce la gioia; l’amore la rivestiva di tutta la sua luce, il suo amore era tutta la sua vita, e la sua vita bastava a tutto il suo amore.
Coloro che hanno veramente amato sanno comprendere l’eternità di un anno di amore, le mille voluttà ch’egli può offrire in un giorno, in un’ora, in un fugace momento, quegli abbandoni riuniti di ebbrezza e di cuore, in cui si dice: basta, te ne scongiuro, lasciami amico, perchè io temo di morire..., io temo che la mia natura s’infranga.
Riccardo non aveva ancora amato: come la maggior parte degli uomini egli aveva trasvolato su tutto, sfiorato tutto; ma non era giunto mai al fondo di un cuore, non aveva conosciuto quel profondo possedimento morale che costituisce unicamente l’amore, che unicamente lo autorizza, che eleva il possedimento fisico fino alla sua celeste sublimità, e la cui privazione fa sì che molti di coloro i quali credono di avere smisuratamente amato, muoiono senza aver conosciuto questo divino sentimento.
Fu quindi una serie di sensazioni nuove e profonde quella che venne a ridestare la sensibilità assopita del giovine. Riccardo si vide come risvegliato da uno di quei sogni, i quali ci sembrano così belli, così lusinghieri nel sonno, e che al mattino ci appaiono insipidi e vani. Allo svelarsi di questa verità egli avrebbe potuto rinvenire un conforto nelle seduzioni della sua vita avvenire, ma questa dolcezza eragli amareggiata da un convincimento terribile, dalla perdita inevitabile di Anna.
Riccardo non poteva illudersi: egli lo vedeva, egli lo sentiva; quello stesso amore, quegli stessi abbandoni della fanciulla scuotevano troppo profondamente la sua sensibilità... oh ella era sì fragile, sì delicata..., l’avresti detta una di quegli steli di giunchiglie che si spezzano sotto il peso di una goccia di rugiada, una di quelle piccole farfalle azzurrine che intorpidiscono e muoiono sotto il soffio più sottile del tuo alito..., e il giovine temeva sovente di abbracciarla, egli poteva stringerla troppo forte, farle male, intorpidire, arrestare quella corrente vorticosa della sua vita; scuotere, avvizzire quelle forme divine e sensibili come le foglie pudiche della mimosa.
Questo ritegno forzato e volonteroso ad un tempo, quel non so che di arcano che circonda una creatura sì sofferente, sì delicata e sì frale; quella nobile imponenza del dolore, quella triste e solenne maestà che proveniale dalla morte, che era già in lei, che rivelavasi appunto in quell’azione centuplicata della vita, ne formavano per Riccardo l’oggetto di un culto superstizioso e indefesso. Ma ciò che affascinava sopratutto la mente esaltata del giovine, era la dolcezza, l’espressione ineffabile del suo canto. Anna cantava con forza, con sentimento; cantava spesso dalla mattina alla sera, la musica era il suo linguaggio, essa ne conosceva tutte le leggi, tutte le intonazioni, tutti gli effetti, tutte le modulazioni più arcane... Ma ciò che v’era di incomprensibile, direi quasi di pauroso nel suo canto, era che esso non ridestava idee, od effetti, o memorie di questa terra: colui che l’udiva si sentiva rivivere con sensazioni nuove, incomprensibili, inusitate, in un mondo del pari inusitato...
Era forse l’approssimarsi per lei di questo mondo che le permetteva di udirne e di rivelarne le armonie come l’eco di un eco?
Perocchè io credo che esistano armonie, linguaggi, rivelazioni tra mondi e mondi. Quella vaga malinconia che s’impossessa talora di noi, che sente come del rimpianto, che sembra accennare a gioie, a dolori, ad affetti trascorsi, e ci occupa tutto, e non si sa cosa sia, è la rimembranza di un mondo passato: quelle aspirazioni che riempiono ed agitano tutta la nostra vita, quel succedersi di tante speranze sempre deluse, e sempre rinnovate, quell’avidità insistente dell’infinito, non sono che l’attrazione di un mondo avvenire. Noi viviamo nell’eternità, collocali tra queste due potenze ugualmente dilette, e ugualmente formidabili: sono queste attrazioni del passato e del futuro che dilatano i confini della nostra esistenza, anzi che la costituiscono, poichè noi non vivremmo senza di esse che la vita materiale dell’istante.
L’infinito è nell’uomo. Chi non sente? Noi viviamo in esso a sbalzi, a tratti, a periodi, a vite parziali; ma passiamo dall’una in un’altra come gli anelli di una catena riunita alle sue estremità, come i punti lineari di un circolo; noi giriamo sulla superficie senza mai uscirne. Ecco l’infanzia: voi non vi siete ancora tutto emancipato dalla vecchia vita: avete modi, pensieri, aspirazioni inadatte a quello stato di cose nel quale siete rinato; vi sentite smarriti, confusi, impicciati; egli è che voi agite tuttora per le abitudini di un mondo antecedente: ma la vostra intelligenza, dopo aver lottato trent’anni per redimersi, vi pone finalmente in equilibrio tra queste due attrazioni, ed ecco a quell’età la pienezza della vita, sulla quale oscillate un istante prima di uscire dalla corrente, prima di subire l’attrazione di un mondo avvenire che vi precipita verso la vecchiaia e verso la morte; ma la morte non esiste; essa è la vita e la luce.
Avete mai osservato un infermo? egli è buono, egli è docile, la sua natura si è tutta mutata, per poco che il suo spirito sia stato coltivato, egli sarà anche poeta: egli è che più si rallentano i nodi che ci avvinghiano a questo mondo, e più noi ci sentiamo posseduti dall’altro: i vecchi, i sofferenti, gl’infermi ne subisono già la natura; essi si trovano collocati tra le due vite, lì, sul margine, sentono ancora dell’una e dall’altra, e non appartengono più interamente ad alcuna. L’umanità riverisce nel dolore e nella vecchiaia le scolte di questo mondo invocato.
E certo quel fascino del canto di Anna, quella emanazione divina e incomprensibile di tutta la sua persona, non erano che l’eco di una rivelazione di quel mondo. E che cosa è il canto? Tutti i popoli cantano, ma gli sventurati sopra tutti. Egli è forse la rimembranza di un linguaggio che sparve o le prime voci di un linguaggio che sorge? forse la lingua delle passioni, di cui noi balbutiamo le prime sillabe disordinate e sconnesse? Anna cantava il suo amore e la sua morte, e le sue note erano l’elegia del suo destino. — Anche gli uccelli cantano morendo.
Mi ricordo che quando era fanciullo mi prendeva vaghezza di andare le notti di primavera ad ascoltare il canto degli usignuoli. Una sera era per ciò uscito alla campagna, e m’era seduto presso una siepe poco distante da un olmo, su cui uno di essi cantava con tale abbandono, e con note sì malinconiche e toccanti che io, senza saperne il perchè, mi struggevo tutto in lacrime udendolo. Si piange assai facilmente a quell’età, e tutta la vita avvenire ha di rado un sorriso che valga una sola di quelle lacrime. La luna era limpida e piena e inondava quelle campagne silenziose della sua luce; tutta la valle risuonava di quel canto. Ma nel colmo della notte la sua voce divenne fioca e lamentevole; a poco a poco le sue note si mutarono in un gemito prolungato, sommesso, poi interrotto..., poi non udii più nulla: pensai che fosse volato via. Stava allora per allontanarmi quando intesi un improvviso romorìo tra quelle frondi, e sentii qualche cosa caderne, urtando di ramo in ramo:... mi avvicinai esitando, e vidi che era un uccello, un usignuolo, certo quello medesimo; lo raccolsi, era ancor vivo, ma sì delicato, sì leggiero, non aveva più che le penne; il suo piccolo cuore batteva sì concitato che non poteva numerarne le pulsazioni..., il poveretto mi spirò tra le mani pochi minuti dopo. Non ho mai dimenticato quell’uccello.
Strana potenza dell’amore! Riccardo divenne artista per Anna: fu a lei che egli dovette la sua gloria, la sua fecondità, il suo nome. Per quale mistero essa aveva potuto apprendergli in un anno i segreti più imperscrutabili dell’arte? essa che pure li ignorava, e a cui forse non erano suggeriti o svelati che da un istinto? Ecco la sorgente di quel terrore superstizioso e fatale che invase tutta la vita del giovine, e che si accrebbe dopo la cessata esistenza di Anna. Essa avevalo educato col canto. Sotto l’incantesimo delle sue note, la mano inesperta di Riccardo, quasi passiva, quasi non volente, aveva creato delle melodie straordinarie: a poco a poco il suo orecchio, il suo cuore si erano aperti a quell’armonia, a quel ritmo celeste della musica; il giovine vi si era abbandonato con trasporto, tutto era inusitato per lui, tutto delizioso e incantevole; egli aveva provato delle sensazioni nuove, energiche, insperate, la cui potenza lo aveva quasi atterrito; come cosa che egli aveva creduto impossibile nell’arida realtà della sua vita trascorsa. Pareva che la fanciulla non volesse dividersi da lui senza apprendergli tutto, senza trasfondersi tutta in lui stesso. «Mio povero amico, le diceva ella sovente, tu rimarrai solo assai presto, ma io sento che non ti abbandonerò anche estinta: il mio spirito veglierà costantemente presso di te, e ti accompagnerà come una guida invisibile sulla tua via abbandonata e deserta: come una fiaccola solitaria illuminerà della modesta sua luce la tua povera vita di artista. Ma se pure io dovessi talvolta separarmi da te, se tu più non mi sentissi al tuo fianco, e avessi bisogno della tua Anna..., oh allora chiamami; suona quella sinfonia memorabile di Hummel, le cui note ci ricordano il primo giorno avventurato del nostro amore, e a quel richiamo, io abbandonerò tutto, io volerò ancora presso di te, dovessi per ciò divellermi dall’infinito, e rinunciare alle gioie più sacre e più inebrianti del cielo».
E tredici mesi dopo le nozze di Riccardo e di Anna, la Germania era commossa dall’apparizione di una raccolta di grandiosi componimenti musicali, che un artista già grande e ancora ignorato dedicava sotto il titolo di Foglie di cipresso, alla santa memoria di Anna Roof sua moglie.
Passeremo di volo su tutte le fasi della sua vita di artista: non accenneremo ad alcuna delle sue composizioni più elette, benchè quell’ingiusta dimenticanza a cui furono condannate da una fatalità dolorosa, altrettanto che inesplicabile, ci ecciti a riporle, per quanto è in noi, alla luce della pubblicità e della gloria. Ma ciò appartiene al cómpito dell’arte e sfugge alle esigenze del romanzo. E chi d’altronde potrebbe rintracciare nel vasto oceano dell’armonia, tra i ruderi de’ suoi monumenti abbattuti, le reliquie di quelle concezioni obbliate e disperse? Prodigio ineffabile dell’amore! Egli è sopravvissuto alla scienza, egli che ne è la sintesi, egli che è la scienza immortale della vita. Il nome di Riccardo accoppiato alle glorie palesi dell’arte fu travolto nell’oscurità e nell’obblìo, congiunto alle gioie segrete dell’affetto è passato splendido e illeso a traverso le tenebre secolari del tempo. L’amore, giudice e maestro dell’umanità, ne registra la storia ne’ suoi volumi infiniti. L’umanità è nata e si perpetua coll’amore, nè potrà ricomporsi che nella sua tomba medesima.
Dopo la perdita di Anna, Riccardo abbandonò Amburgo, e pensò che la vista di nuovi cieli e di nuovi costumi lo avrebbe distolto dal suo dolore operoso e costante. Venne a Linz, attraversando quegli ultimi gioghi delle Alpi che si perdono nelle pianure del Danubio, e poichè tutti quei luoghi gli parlavano ancora di lei e della sua infanzia, decise di attraversare la Germania e di entrare nella Francia per quel fiume e pel Reno.
Fu sui teatri di Ratisbona e di Straubing che egli raccolse i suoi primi allori musicali, e di là festeggiato e onorato in tutti i diversi stadii del suo cammino, ad Amberga, ad Asch, a Coburgo, a Francoforte, a Magonza, entrò in Parigi pochi mesi dopo la sua partenza, preceduto da tutti gli allettamenti della pubblicità e della fama.
Riccardo passò cinque anni nella capitale della Francia, allora, come attualmente, l’unico paese della vecchia Europa ove le arti e le scienze fossero rimunerate di fama e di danaro: l’unico centro ove si riflettesse tuttora un debole raggio di quella civiltà che è tramontata nell’antico continente per risorgere sulle rive del nuovo mondo. Egli vi si vide ad un tratto onorato, dovizioso, felice; ma una profonda amarezza veniva a turbare di tempo in tempo l’immensità delle sue gioie insperate: la rimembranza, la terribile rimembranza, diremmo quasi la presenza spirituale di Anna. Riccardo era buono, sensibile, affettuoso, ma la sua natura era variabile, sdegnosa di riposi e d’indugii; egli non sapeva essere lungamente misero o lungamente felice, non sapeva, come tanti esseri sensibili e delicati, sacrificarsi ad una astrazione, ad un’idea fissa, ad un voto, darsi ad un affetto per tutta la vita: e che era egli quell’affetto?... quali diritti aveva il passato sopra di lui? perchè tributare ad un amore che aveva cessato di esistere il sacrificio di quelli che potevano ancora rallegrare la sua vita spensierata e ridente? Egli aveva pianta la fanciulla per due anni, l’aveva amata fortemente e nobilmente, e questo lungo tributo di lacrime e di memorie doveva bastare alle terribili esigenze di quell’amore sepolto. Riccardo lo credeva, lo voleva, egli sentiva che la vita ha i suoi diritti, la virtù i suoi doveri e l’umanità le sue leggi: tutto inesorabile, tutto prepotente e severo.
Noi lo diremo, Riccardo non amava più Anna: non solo egli avrebbe voluto dimenticare di averla amata, ma per una di quelle facili ingratitudini di cui tanto si compiace lo spirito umano, egli avrebbe desiderato di obbliare anche il suo debito, il debito della sua celebrità, del suo nome, della sua ricchezza medesima.
Nulla è più grave e penoso, nulla è più insoffribile alla maggior parte degli uomini che il peso della riconoscenza. Assai di rado, se il benefattore non assume i modi e l’apparenza del beneficato (ciò che pretendiamo assai spesso), noi possiamo perdonargli il suo beneficio. È un debito tremendo che ci toglie ogni quiete, che ci rende avidi e impazienti di soddisfarlo anche ad usura. Quelle minute soddisfazioni, quelle piccole vittorie che si riportano ogni giorno, ogni ora, in questa lotta indefessa tra anima ed anima, tra creatura e creatura, in queste battaglie assidue e spietate dell’egoismo, sono le uniche sensazioni che ci confortino, nella nostra umana piccolezza, dei mali grandi e reali della vita; — tutto ciò è dolce, ma nulla è più dolce e più consolante che lo sciogliersi dal vincolo della gratitudine.
Noi non l’abbiamo detto; ma abbiamo sentito più volte la nostra coscienza susurrarci all’orecchio: oh com’è dolce l’essere ingrati!
Dopo la morte di Anna, Riccardo aveva passato sei mesi interi senza suonare: il suo dolore era ancora troppo vivo, troppo recente; pareagli che ogni nota, richiamandogli qualche circostanza della sua vita felice, un alto, un detto, un sorriso della fanciulla, avrebbegli ricordata con una realtà troppo eloquente la memoria terribile di quella perdita. Ogni rimembranza di lei era connessa ad una rimembranza della sua arte: ripassando su tutti gli studii musicali di quella sua carriera prodigiosa, egli poteva ricostruire tutto intero l’edificio del suo amore e delle sue memorie: Anna era morta, ma avevagli lasciata un’eredità di rimembranze così potenti che avrebbero bastato a riempiere tutta una vita. L’arte e l’amore si erano fusi per lei, e così unite le erano sopravvissuti nel giovine: forse in tal modo ella aveva tentato di eternare in lui la sua memoria, affidando al suo cuore di artista i doveri e gli affetti del suo cuore di amante.
Ma una sera Riccardo aveva avuto vaghezza di risuonare quella sinfonia di Hummel che la fanciulla avevagli indicata per richiamarla. Egli aveva errato tutto quel giorno per le campagne, l’autunno volgeva al suo termine e l’inverno si riaffacciava colle sue brezze; cadevano dagli alberi le ultime foglie ingiallite, e i piccoli scriccioli nascosti nelle siepi alternavano quei loro gridi acuti e lamentevoli come di qualche cosa che pianga: l’anima di Riccardo era agitata da strane sensazioni..., egli pensava a lei..., egli avrebbe data la sua vita per rivivere un giorno nel suo amore, per ritogliere alla mente inesorabile quella sua Anna adorata.
Rientrò nella sua camera che le prime tenebre della notte ne velavano stranamente gli oggetti senza nasconderli e senza lasciarne apparire le forme; il vento faceva gemere gli alberi del suo giardino, e gli steli dei fiori collocati nei vasi della sua finestra percuotevano spesso, così agitati, nei vetri come persona che accenni di entrare. Riccardo si sedette risoluto al pianoforte e suonò la sinfonia fatale di Hummel. Prodigio meraviglioso! Le sue mani scorrevano come trascinate, come mosse da una forza estranea, sulla tastiera; le note ne uscivano così limpide, così pure, così simili alla voce umana, e più propriamente alla voce di Anna, che il giovine si sentì rivivere un istante in tutta la più dolce realtà del suo passato; egli si sentiva invaso da un’altr’anima, sentiva la sua esistenza raddoppiata, vi era qualche cosa che gravitava sopra di lui senza pesare, che lo investiva tutto senza toccarlo, che parlavagli senza essere udito; egli udiva suonare e pareagli ad un tempo che tutto fosse silenzio intorno a lui, senonchè la fiammella della candela, che gli ardeva dinanzi, crepitava stranamente, curvandosi da un lato e dall’altro come sotto l’azione di un soffio invisibile.
Riccardo non dimenticò mai quella notte. Egli visse più volte di questa doppia e misteriosa esistenza, le cui sensazioni, anzichè estinguersi coll’abitudine, diventavano sempre più delicate e più vive. È in quegli istanti che egli aveva creato quelle melodìe così dolci e così patetiche, che gli procurarono, ancora vivente, una celebrità invidiatagli da tutti i più grandi compositori della Germania. Fu per ciò che le sue opere, benchè sorte in un paese che vanta una musica ideale come la sua letteratura, e che può dirsi la patria della musica elegiaca, furono segnalate per la loro malinconia e per i sentimenti singolari e nuovissimi che suscitavano anche nei cuori più induriti e più aridi. Ma il carattere di Riccardo formava uno strano contrasto coll’indole delle sue creazioni: egli lo sentiva, egli comprendeva del paro che nulla proveniagli da sè stesso, che la sua musica non era sua, era di Anna. Fu forse questa convinzione che uccise il suo amore e la sua riverenza per essa? Noi esitiamo a credere che un’invidia così ingiusta e colpevole abbia potuto allontanare dal cuore del giovane la dolce immagine della fanciulla, e quasi rimproverarle la tenacità del suo affetto e l’assiduita della sua dimora presso di lui; egli è però ben certo che, due anni dopo la sua perdita, l’anima di Riccardo incominciò a ribellarsi a quella memoria, e ciò che aveva formato un tempo uno dei suoi allettamenti più dolci, quella presenza spirituale di lei, che manifestavasi appunto nella fecondità e nella potenza improvvisa del suo genio, divenne pel giovane un oggetto di terrore e di sdegno.
Riccardo si sentiva trascinato al realismo della vita, e forse la sua anima era troppo debole per reggere all’imponenza di quell’affetto, troppo poco elevata per inorgoglirsene e tributargli il sacrificio di tutta la sua esistenza. E pure egli lo aveva promesso: «Tu mi amerai anche dopo la mia morte, tu mi amerai per tutta la tua vita;» ecco il patto terribile che lo aveva vincolato a quella fanciulla, e che ella sembrava richiamargli ad ogni ora, ad ogni istante, rinfacciandogli, colla tremenda solennità della sua presenza, il disegno che egli aveva concepito d’infrangerlo. Parve a Riccardo che vi fosse qualche cosa di crudele in quel pretendere il compimento d’un sacrificio sì inutile e sì doloroso; egli pensò che l’insistenza della fanciulla lo sciogliesse dall’obbligo della sua gratitudine e del suo amore, e credette che avrebbe potuto dimenticarla senza essere infedele ed ingrato.
Egli è così facile il credere ciò che è nei nostri voti, che Riccardo si avvalorò di quella persuasione per obbliare senza rimorso ciò che doveva essere l’oggetto di tutti i suoi affetti di amante e di tutte le sue aspirazioni di artista: a poco a poco il suo spirito si sentì preparato a quella rivolta, e un giorno esitò, poi decise, e si abbandonò risoluto alle sue nuove passioni, pregustando l’ebbrezza di esaudirle senza lacrime e senza pentimento.
Passò così quattro anni, durante i quali egli non aveva mai più udito quella fatale sinfonia di Hummel, nè nota alcuna che potesse richiamargli il suo passato: l’immagine della fanciulla era così svanita a poco a poco dal suo cuore, e se vi tornava qualche volta egli sapeva attutirne e dimenticarne i rimproveri nella gioia di affetti più recenti e più lieti.
Riccardo era felice.
Quattro anni dopo questo ultimo avvenimento, Waitzen diresse al suo amico Giorgio Duplessy, direttore della Società degli artisti, la lettera seguente:
«Mio caro amico. Come tu sai, io sposerò domattina madamigella Emilia Duport, quella bella e saggia guascona che abbiamo conosciuto insieme a Pontoise, ricca de’ suoi diciott’anni e d’un mezzo milione di dote. Papà Duport darà per ciò domani a sera una splendida festa da ballo nel suo palazzo al boulevard Montmartre, 52. Egli, mia moglie e il tuo amico ti pregano d’intervenirvi.»
Come aveva passato Riccardo quei quattro anni? Egli era ricaduto nel suo abbandono abituale, in quell’avidità di piaceri frivoli e vani pei quali aveva già un tempo dissipata quella fortuna che aveva portato seco da Ofen. Non aveva più amato, ma si era dato ai piccoli amori di un giorno, a quegli amori senza trasporti, senza dolori, senza quelle gioie opprimenti che danno le grandi passioni, simili a quei fiori che noi raccogliamo quasi senza avvedercene camminando, e che sfogliamo e gettiamo sulla via dopo averne aspirato una sola volta il profumo. Nei due primi anni della sua vedovanza egli aveva già stabilita la sua fama d’artista ed ottenuto un successo che nulla avrebbegli più potuto contendere. In quella sua stessa inazione egli si era serbato un posto eminente tra le grandi individualità della scienza, e vi sarebbe rimasto anche perseverandovi, ma l’amore dell’arte e della vita domestica avevano ripreso il loro impero sopra di lui, e Riccardo contava oramai di abbandonarvisi per tutta la sua esistenza.
Non aveva egli più pensato ad Anna durante tutto quel tempo? La memoria della fanciulla era dunque svanita per sempre dal suo cuore? No, egli aveva riprovati ancora dei momenti paurosi, aveva risentite delle memorie strazianti; in quegli stessi abbandoni de’ suoi mille amori, nell’ebbrezza delle sue gioie, nel colmo della sua felicità, l’immagine di lei gli si era riaffacciata cupa, minacciosa, inesorabile: il giovane aveva risentita la presenza di lei con tutte quelle circostanze che gliel’avevano palesata la prima volta; aveva avuti dei sogni tremendi dai quali si era destato inorridito, compreso d’uno sgomento che rinasceva ogni notte più tormentoso e più atroce. E più volte, sotto l’oppressione di quell’incubo, Riccardo aveva pregato la fanciulla di perdonargli; l’aveva pregata come un ragazzo, piangendo; le si era prostrato, le si era umiliato come un codardo, tremando dinanzi all’orrenda apparizione di quell’immagine spaventevole. Perchè essa le appariva nel sogno sotto altre forme, e non per questo perdeva della sua somiglianza. Riccardo la vedeva dappertutto, nelle prime ombre della notte, in tutti gli oggetti che si presentavano al suo sguardo, in quei riflessi profondi e fantastici degli specchi che ricevono l’ultima luce del giorno, nelle persone da lui amate, in sè stesso; sì, e ciò era più terribile, in sè stesso. Egli se ne sentiva invaso come da uno spirito che assorbisse tutte le sue facoltà, che lo paralizzasse, che lo possedesse tutto senza lasciargli che l’impotente intuizione del suo stato. Vi furono dei momenti in cui Riccardo aveva pensato di sottrarsi col suicidio all’orrenda persecuzione di quell’immagine; vi fu un giorno in cui, il giovine inorridiva pensandovi, aveva osato perfino di maledirla. E che poteva ora pretendere da lui quella donna? quali erano i tremendi disegni di quello spirito severo e implacabile? Avvelenargli tutte le sorgenti della vita, mescersi a tutte le sue gioie, travolgere tutti i suoi affetti, turbare tutti i suoi sonni... perchè... sì, era d’uopo che egli il confessasse a sè stesso, egli si era deciso per ciò solo a scegliersi una nuova compagna: per avere una creatura al suo fianco, cui dire nella notte: — Svegliati, te ne prego, ho paura, ella è lì, vedila; ella mi vuole, ella mi domanda.
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Riccardo volgeva nella sua mente questi pensieri in quella stessa ora felice che seguiva al suo nodo fortunato; tra lo stesso fragore del ballo, in quella sala di papà Duport che per una strana somiglianza di decorazioni e di arredi gli richiamava alla memoria quella sala di una casa sconosciuta ove aveva veduto Anna la prima volta.
Ma egli fu riscosso assai presto da quella preoccupazione affannosa: tutto gli parlava di felicità e di amore in quel luogo, e la danza e quel frastuono di mille voci, e quel profumo inebbriante di donna, — emanazione della loro anima, mista a quegli atomi più preziosi della loro persona che esse abbandonano col moto, come i fiori agitati dal vento abbandonano la parte più pura del loro polline fecondatore. Ma nell’uomo questo profumo, il bacio di questi atomi volatizzati, non desta che la voluttà, e non suscita che desiderii di amore: nel fiore, essere più perfetto, soddisfa egli solo a tutte le leggi della fecondazione.
Riccardo si abbandonò con trasporto alla danza e si scagliò in quel turbine di valseggiatori, ove si confuse abbracciato alla fanciulla. Sotto quella sua taglia piena ad un tempo e flessibile, la mano del giovine indovinava le dolci ondulazioni delle sue forme: vi era in esse, nella loro mobilità, nel loro fremito, qualche cosa di più eloquente del desiderio; il cuore di Emilia batteva concitato e sommesso, spesso interrotto come il timido linguaggio delle passioni: i ricci de’ suoi capelli disciolti lambivano la fronte del giovane come un bacio protratto; le lunghe pieghe del suo abito ne avvolgevano, agitandosi, la persona quasi a confonderli in un essere solo e indivisibile.
In quell’abbisso di voluttà Riccardo dimenticò il suo passato e sè stesso.
Ma nell’ora che la festa volgeva quasi al suo termine, in un momento in cui i danzatori si riposavano sui soffici divani della sala, e le fanciulle si asciugavano coi loro fazzolettini di batista quelle gemme importune di sudore che piovevano dai loro volti arrossati; in quel periodo di solenni meditazioni in cui ripassano dinanzi a noi tutte le gioie, tutti i timori, tutte le ansietà della festa; e la stretta di mano e il bacio involato, e il fremito di tutta la persona, e la parola susurrata all’orecchio, e, Dio lo perdoni, quel contatto ardente e magnetico del ginocchio che uccide tante innocenze nei balli, e basta a svelare egli solo tutti gli arcani più imperscrutabili della vita, il signor Duplessy entrò nella sala tenendo per mano una bella fanciulla, e disse al signor Duport:
— Perchè non fate suonare vostro genero?... ecco qui una giovine artista che ha una voce portentosa da soprano, e che accompagnata da lui, ci farà sentire tutte le meraviglie del suo canto.
Pregato dal signor Duport, Riccardo si sedette senza esitazione al pianoforte; tutte le copie dei danzatori gli si disposero in circolo; egli era lieto di dare a sua moglie e a quella vaga riunione di giovani e di signore un saggio straordinario della sua abilità musicale.
Ma nel rivolgersi alla fanciulla per invitarla a sedersi presso di lui, egli trasalì nello scorgerne le sembianze. Era lo stesso profilo di Anna, la stessa persona esile e delicata, lo stesso aspetto pensieroso e soffrente; ma vi era ancora di più, essa vestiva un abito azzurro sparso di stelle d’argento, e pendevate tra le trecce scomposte una corona di rose bianche avvizzite. Tutto si riaffacciò allora alla sua mente: erano scorsi sei anni che in una sala come quella, in una festa da ballo, forse in quell’ora medesima, egli aveva conosciuto quella fanciulla a cui lo aveva legato un giuramento formidabile, a cui aveva fatto sacramento di fedeltà e di amore per tutta la vita; in quel giorno stesso egli aveva infranto il suo patto, in quel giorno stesso egli doveva forse subirne una punizione tremenda.
Riccardo impallidì a questa rimembranza, e disse alla fanciulla con voce interrotta:
— Che cosa desiderate di cantare? Incominciate.
— Non so, diss’ella, ciò che mi verrà pel primo sotto le mani, e tolto un volume di musica, e apertolo a caso, lo collocò sul leggìo. Riccardo vi gettò gli occhi e trattenne a forza un grido di spavento... era quella sinfonia abborrita di Hummell...
Allora il giovane avrebbe voluto ritirarsi, ma non era più in tempo; la fanciulla aveva già incominciato..., era la stessa voce di Anna..., un brivido di morte scorse per tutte le fibre di Riccardo; egli pure volle incominciare, ma, orribile cosa! le sue mani erano irrigidite; le sue dita toccavano la tastiera e non potevano premerla; cinque o sei note soltanto risposero a’ suoi sforzi impotenti e convulsi: la sua fronte si coperse di un sudore gelato e un pallore cadaverico si diffuse per tutto il suo volto...
Papà Duport gli si avvicinò e gli disse:
— Che avete? cessate per carità, voi soffrite, voi siete pallido come un cadavere.
— È nulla, disse Riccardo sorridendo d’un sorriso spaventevole, ora vedrete.
E volle ricominciare, ma le sue braccia avevano smarrita ogni coscienza della loro forza e ogni facoltà di governarla; egli percosse sì violentemente sulla tastiera, che molte corde s’infransero e si arricciarono scivolando sulle altre con uno stridìo prolungato e terribile. In quel momento parve a Riccardo che la fanciulla si curvasse presso di lui e gli mormorasse all’orecchio: «Tu mi amerai anche dopo la mia morte, tu mi amerai per tutta la tua vita.»
Egli gettò un grido e svenne. Trasportato nella sua stanza nuziale, gli furono prodigate tutte le cure che la scienza e l’affetto potevano suggerire alla desolata famiglia di Duport..., ma fu indarno che si tentò di richiamarlo alla vita.
Riccardo Waitzen era morto di sincope.