Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
246 | amore nell'arte |
tano indietro e si trovano soli... questi grandi, questi infelici solitarii!...
«Ti ricorderai anche di Adalgisa. Io non poteva accettarne l’amore, corrispondervi; le ragioni che ti ho espresso ora mi allontanavano anche da lei, me ne allontanavano ripugnante, afflitto, corrucciato di me stesso. Perchè io avrei voluto amarla, poterla amare, rendere a lei quelle gioie, quella felicità, quella luce che essa voleva gettare su tutta la mia vita. Non lo poteva. Tu mi lasciasti in quel tempo — erano gli ultimi giorni delle mie lotte e delle mie esitazioni. Adalgisa si ammalò poco dopo la tua partenza — la sua etisia raggiunse uno sviluppo impossibile ad arrestarsi — non si riebbe più — io la perdetti quando incominciava a tenermi cara la sua vita e il suo amore.
«Io ti parlerò di questo amore come di una malattia della mia anima, come di un fenomeno inesplicabile della mia natura. Non vi ha dubbio che gli artisti sieno uomini infermi, creature malate, esseri incompleti, i quali perciò appunto dovranno sempre sottrarsi alle norme comuni della vita. Ciò che essi creano è effetto della loro imperfezione, della loro infermità; come alcune specie di bache, di frutti, di nodi bizzarri, sono un prodotto della malattia delle piante, come dalla corteccia incisa di alcuni alberi stilla la gomma. Io che l’aveva tratta a morire colla mia indifferenza, che l’aveva resa infelice col mio rifiuto, io doveva amarla quando già la vita avea incominciato a sfuggirle, ad adorarla dopo che l’aveva perduta. Non so se tu abbia provata la più spaventosa tortura che possa subire il cuore umano — l’impossibilità d’amare le persone che ci amano e che reputiamo degne di amare. Non vi è tormento che possa adeguarsi a questo: basta averlo provato una volta perchè si comprenda tutta l’impotenza della nostra volontà,