Tragedie (Alfieri, 1946), Volume I/Lettera di Ranieri de' Calsabigi all'autore sulle quattro sue prime tragedie

Ranieri de' Calzabigi

Lettera di Ranieri de' Calsabigi all'autore sulle quattro sue prime tragedie ../ ../Risposta dell'autore IncludiIntestazione 1 febbraio 2024 100% Critica letteraria

Lettera di Ranieri de' Calsabigi all'autore sulle quattro sue prime tragedie
Tragedie (Alfieri, 1946), Volume I Risposta dell'autore

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LETTERA

di ranieri de’ calsabigi all’autore
sulle quattro sue prime tragedie

Envy will merit, as its shade, pursue;
But, like a shadow, proves the substance true.

Pope’s, Essay on criticism.


Non so se piú con lei, stimatissimo signor Conte, o se piú coll’Italia nostra io debba congratularmi delle quattro bellissime tragedie, che ella ha finalmente stampate, lasciandoci la lusinga di vederne date alla luce delle altre, giacché annunzia per primo volume questo che si è degnato trasmettermi.

Un bel tesoro ella ha messo insieme per noi Italiani, che siamo stati fin qui tanto vergognosamente poveri nella tragedia; lo ha raccolto anche per gl’Inglesi, a noi ugualmente meschini, se si eccettuino, non le tragedie intere, assai più difettose delle nostre, ma alcuni sublimi pezzi del celebre Shakspeare: potrá servire ai Francesi stessi, i quali, essendo mancati Crebillon e Voltaire, sono pure caduti in bassa fortuna, con probabilitá di non cosí presto risorgere.

Sí, ardisco asserirlo, amico veneratissimo:

Dixisti insigne, recens et adhuc
Indictum ore alio.

Quanti da quí avanti anderanno a provvedersi da lei di situazioni nuove e teatrali, di caratteri al vivo e con ardito e fiero pennello delineati, e di vigorose, energiche, laconiche espressioni? [p. 2 modifica]Quanti da un solo suo pensiero, passandolo alla trafila, ne ricaveranno interi periodi, ed anche scene intere? Ella c’insegna

Magnumque loqui, nitique cothurno;

spoglia la nostra tragica Musa dei cenci de’ quali finora andò sconciamente vestita; ci consola delle nostre miserie drammatiche; e ci mette in possesso di qualche ricco e decoroso manto, col quale mostrarci possiamo non inferiori a quella nazione che con giustizia, fino al giorno d’oggi, ci ha guardati con occhio di compassione, e meritamente derisi.

Se alcuno di tranquilla pazienza dotato si accinge a leggere, amico stimatissimo, quelle poche nostre tragedie, che, separate da un immenso numero di storpiate sorelle, si stampano tuttavia col fastoso titolo di scelte, e si annunziano come modelli; se, facendo forza a se stesso, ardisce scorrerle dal principio al fine; si dia luogo al vero, cosa mai ci trova? Piani stravolti, complicati, intralciati, inverisimili, e sceneggiatura male intesa; personaggi inutili; duplicitá di azione; caratteri improprj; concetti o giganteschi, o puerili; versi languidi; frasi stiracchiate; poesia non armonica, o non naturale: ed il tutto poi corredato di descrizioni, di paragoni fuor di luogo, di squarci oziosi di filosofia, di politica; intrecciati d’amoretti svenevoli, di leziose parole, di tenerezze triviali, che ad ogni scena s’incontrano. Della forza tragica, dell’urto delle passioni, delle sorprendenti rivoluzioni teatrali, non ve n’è pur segno: quello che

Pectus inaniter angit,
Irritat, mulcet, falsis terroribus implet,

invano vi si cerca; quello che interessa, ammaestra, trattiene, incanta,

Delectando, pariterque monendo,

non vi s’incontra affatto: tutto si riduce ad una concatenazione di spesso insulsi versi, ne’ quali

Acer spiritus ac vis,
Nec verbis, nec rebus inest.

Ed eccogli, signor Conte, (forse con un poco troppo di cattivo umore, ma però con verità) liberamente descritta quella che da [p. 3 modifica]noi venne fin qui chiamata Tragedia. Il maggior vanto che dar le possiamo è d’essere composta colle regole che Aristotele prescrisse; perché avendocene il Trissino dato il modello nella sua Sofonisba, niuno ha ardito di allontanarsene.

Ma perché, mi si dirà, ci siamo noi fermati in questi limiti, tanto dalla perfezione tragica lontani? Perché nissuno fra noi (quando per altro ad ogni passo c’incontriamo in poeti, o che tali si chiamano) ha fin qui prodotto una tragedia da mettere in confronto con quelle de’ Greci, o almeno de’ Francesi, che si ammirano? Perché, quasi disperando di rivaleggiarli, ci siam noi rivolti a quel genere di drammi per musica, che ridicoli nel caduto secolo, sono poi stati dal Zeno resi più sopportabili, e dal Metastasio perfezionati; lasciando in potere di quei nostri vicini il coturno e la laurea tragica, senza tentare sforzi ulteriori per disputargliela? Risponderò separatamente a questi quesiti, figurandomi d’averne trovata la soluzione.

Dopo la Sofonisba del Trissino di sopra citata, che andò in scena in Roma; dopo alcune altre tragedie (che furono i nostri primi vagiti tragici) in Firenze e in Ferrara rappresentate, non ci mancarono in vero i poeti che continuarono a scriverne delle nuove, ed ottennero di esporle sopra i teatri.

Ma quali furono questi nostri teatri? Alcune poche volte teatri di Corte, e per lo più di signori, i quali, o ne’ loro palazzi, o nelle loro ville, li fecero fabbricare. In queste temporarie scene, o da cortigiani comandati dal principe, o da cavalieri e dame amici, volontariamente uniti in compagnia, quelle tragedie che si sceglievano, una o poche piú volte si recitavano in societá. Cosí l’Italia non avendo mai posseduto teatro tragico permanente né attori di professione, questi tali spettacoli non si poterono propriamente chiamare che tentativi passaggieri, e di poco o nissun profitto per l’arte.

Peggio poi fu quando le truppe d’istrioni, che sole han sempre sulla scena italiana regnato, s’impadronirono di quelle piú o meno informi tragedie, fatte comuni per via della stampa. Ognuno sa di qual sorte di sciocchi, e sgraziati buffoni, queste truppe vagabonde siano per lo più state composte. È noto a tutti, che la maggior parte di questi barbari attori, gente della plebe piú inculta e meno educata, è per lo più nata in quelle provincie nelle quali la pura nostra lingua, né si parla, né si sa pronunziare: e però scilinguando costoro una tragedia, producono negli uditori quella sensazione [p. 4 modifica]stomachevole, che in Parigi produrrebbero le tragedie stesse di Racine e Voltaire, se recitate vi fossero nel gergo loro da attori guasconi, piccardi, o altri provinciali. Sa ciascuno di noi, a quali ridicole, sgarbate, sconce, e spesso deformi donne, sieno per lo più date in preda le parti sublimi delle Fedre, delle Andromache, delle Semiramidi, delle Zaïre, per lacerarle a mezza lingua in dialetto bolognese, lombardo, o genovese, e recitarle e gestirle senza garbo né grazia, come farebbero le donnicciuole delle piazze.

E in tal guisa la mancanza assoluta di nobile e perpetuo e decente teatro, e quella ben anche più importante di attori idonei, distolsero i nostri poeti dall’applicarsi a comporre la vera tragedia; il pubblico dall’accorrere in folla di persone studiose e distinte allo spettacolo; e noi tutti dal mettervi un’importanza, e farne un oggetto di gloria nazionale.

Di più, divisa l’Italia in tanti piccoli Stati, non ebbe mai un punto grande e centrale, ove riunire un generale e vivo impegno per l’italica ambizione. Il Romano, il Lombardo, il Toscano, il Piemontese, il Veneziano, il Napoletano, si riguardarono come separati d’interessi, e come nemici, o almeno rivali, e nelle scienze e nelle belle arti. Lo furono nella pittura: le diverse scuole si urtarono, si lacerarono fra loro; il romano pittore cercò di deprimere il bolognese, questo il fiorentino, e il fiorentino il veneziano e il napoletano. Ciascuno fece setta a parte, con detrimento generale della nazione.

Tanto accadde appunto nella poesia. Si rammentino in prova le inette critiche fatte dagli insulsi Infarinati al divino poema del Tasso. I libercoli che da que’ signori del buratto (che ben possiamo chiamar burattini) contro quell’immortal poema furono scritti, riempiono una buona scansia. Si accinsero tutti a provare, sotto la bandiera del signor Lionardo, non Leonardo Salviati (per maggiore pretesa eleganza di lingua), che la Gerusalemme liberata era una sguajataggine. Impazzir fecero il troppo irritabile autore, giá per infelice passione attristato e scomposto: sedussero i meschini parolaj invidiosi della sublime corona dal Tasso ottenuta: ebbero un breve corso di vita, come i nocivi insetti fastidiosi; ma poi sprofondarono nell’obblio che meritavano.

Da quella pedantesca genía presero però l’origine i paragoni ridicoli fra l’Orlando furioso e la Gerusalemme: ridicoli, perché mettevano in confronto l’Iliade colle Novelle arabe, l’Eneide co’ romanzi dei paladini di Francia. Di là nacquero le predilezioni puerili [p. 5 modifica] del parlare e scrivere Petrarchesco, e le insensate pretensioni di voler giudicare la lingua già adulta del sedicesimo secolo, sulla grammatica di quella del quattordicesimo, che appena usciva di culla.

Separati, come accennai, gl’Italiani d’interessi e d’ambizione nelle scienze e nelle belle arti; e (presa ogni parte d’Italia da se) non trovandosi ella abbastanza facoltosa per stabilire, e poi mantenere per l’intero corso dell’anno il teatro tragico nazionale, continuarono, è vero, a scrivere di volta in volta delle tragedie, ma sempre su’ modelli di quelle prime; le stamparono ancora, ma non poterono esporle mai al pubblico in un teatro; cimento essenzialissimo per osservarne l’effetto. E cosa esser può mai una tragedia composta cosí a tastone, senza la pratica dell’effetto teatrale? Abbandonato il poeta ad indovinarlo, si trova nella dubbiezza involto, in cui si troverebbe quel pittore, o scultore, cui un gran quadro, o un gruppo di statue, comandato fosse, senza che ei sapesse se in terra, in una galleria, in una piazza, o sopra il frontispizio di un arco trionfale o di un tempio, si destinasse di collocarlo. Mancante cosí del discernimento di ciò che piú può fare impressione nell’animo dello spettatore, interessarlo, o scuoterlo, il poeta comporrá sí una tragedia sulle regole prescritte, ed anche in culto stile; ma probabilmente riuscirá senza moto, languida, fredda, nojosa, e stentata.

Né questa indispensabile pratica tragica acquistar si può senza frequentare il teatro, e meditarlo, con una provvista preventivamente fatta di tutte l’altre cognizioni necessarie all’arte drammatica. Mancando questa esperienza, (che difficilmente si ottiene, se, col possesso delle lingue straniere, i teatri meglio corredati d’attori delle altre nazioni non si veggano, non si meditino, con critica e sano discernimento) non potrá farsi gran progresso in questa nobilissima parte della poesia. Rari sono quegl’ingegni, che quasi inspirati, da per se stessi si formano, e si sollevano; e questi ad un tratto l’arte non perfezionano, ma solo aprono agli altri le strade. Corneille, cui servirono di scorta Mairet, Rotrou, ed altri imperfetti tragici, formò Racine: questi due formarono Voltaire e Crebillon. Cosí, fra’ Greci, da Eschilo fu formato Sofocle, e da questo Euripide, ma colla guida di un teatro permanente. Destituito della pratica dell’effetto teatrale un poeta non potrà far colpo nelle sue tragedie, se non momentaneo in qualche scena, derivata dal riscaldamento e entusiasmo suo; o in qualche sfogo di tenera passione, che con maggior facilitá negli animi s’insinua, e gli agita e scuote. [p. 6 modifica]

È dunque secondo me incontrastabile, che il teatro fisso forma principalmente i poeti e gli attori; e che gli attori e i poeti si perfezionano scambievolmente. Onde qualora un principe italiano desiderasse d’introdurre nel suo Stato l’utile e dilettevole drammatica, converrebbe che cominciasse a stabilire un teatro continuo e permanente. Dovrebbe poi unire un numero de’ migliori attori che trovar si potessero; scegliendo nelle compagnie, che corrono per le città, que’ rarissimi che pronunzian bene la lingua, che hanno un personale grazioso e disinvolto, una bella voce, ed una qualche intelligenza, o naturale, o acquistata. Sarebbe soprattutto necessario, che unisse delle donne, nelle quali queste doti concorressero; liberandole dalla diffamazione, a cui, non si sa perché, sono state da noi condannate tutte quelle che salgono in scena, senza far distinzione alcuna ragionevole fra loro per la condotta e il costume. Stipendiata poi sufficientemente questa truppa cosí ben scelta, e formato un giudizioso repertorio di tragedie e comedie, o proprie nostre, o con forza e vaghezza tradotte, con opportuna distribuzione di parti, ogni giorno si dovrebbe far comparire in teatro a recitarle; quando prima coll’assistenza d’intelligenti direttori le avesse bastantemente concertate per la veritá della declamazione, del gesto, e de’ movimenti teatrali. Da questo cosí ammaestrato spettacolo, frequentandolo i giovani poeti, si troverebbero insensibilmente istruiti nel maneggio delle passioni, nella sceneggiatura, ne’ piani tragici, e in quanto può contribuire a produrre eccellenti tragedie: non trascorrerebbero dietro agl’impeti della sregolata immaginazione; imparerebbero il vero linguaggio naturale della scena; ed a poco a poco giungerebbero a quella perfezione, che in Italia ora appena si conosce.

Sprovveduti di tutto i nostri poeti, ed in particolare di questo essenzialissimo specchio del permanente teatro, in cui vedere

Quid sit pulchrum, quid turpe, quid utile, quid non;

pure si accingono, per nostra disgrazia, a comporre la tragedia. Pensano che quando hanno osservate le prescritte regole, han fatto tutto; e non si avveggono che sono pigmei, che pazzamente imprendono a maneggiare la clava d’Ercole: non riflettono che

Non satis est dixisse: Ego mira poemata pango:

[p. 7 modifica]non rammentano qual dura impresa sia di lottare co’ Sofocli, cogli Euripidi e con altri tre o quattro tragici, che riempiono il vasto vuoto di ventiquattro secoli. Si scordano, che tutte le tragedie da un secolo in quá fischiate, vituperate, derise, son però scritte secondo le regole: quasi che bastasse l’osservar le unitá per giungere alla perfezione; e che poco o nulla importasse poi la cognizione degli uomini, del loro carattere, del loro costume, del cor loro, in tutti i secoli, in tutte le educazioni, in tutte le legislazioni, in tutti i paesi, in tutte le etá, in tutti i diversi culti; che inutil fosse l’arte, tanto difficile, di ben formare un piano, di ben dividerlo, e sceneggiarlo, e ristringerlo, affinché l’interesse sempre cresca, mai non languisca; e finalmente d’esser dotato della immaginazione poetica, principal pregio d’ogni genere di poesia, e della vena fluida, dell’eleganza del dire, dell’impeto e della robustezza del pensare, della vaghezza e franchezza del colorire, e di quello, che in somma chiama Orazio

Mens divinior, atque os
Magna sonaturum;

talenti diversi tanto, che sembra che facciano uno sforzo la natura e l’arte, quando giungono a riunirli.

Or ecco perché, mancando a noi, stimatissimo amico, un teatro tragico stabile, essendovene però un musico quasi che costante in molte cittá, a questo ci siamo rivolti, immaginando de’ mostri. Tali sono i nostri drammi per musica, almeno quelli della maggior parte de’ poeti teatrali. Apostolo Zeno, per migliorarne il piano, abbandonò que’ ridicoli dello scorso secolo, e volle adattare all’Opera il taglio delle tragedie francesi. In tal guisa ci veggiamo una lunghezza, che insopportabile anche per la sola declamazione, si rifletta quanto esser lo debba per il canto. Abbiamo introdotte esposizioni lunghe, complicazione d’intreccio, duplicitá d’azione, scene interminabili scientifiche, e pettegole passioncelle, tutte calcate sopra uno stesso disegno. Di nostro ci abbiamo aggiunte le similitudini (invenzione gotica), gli scioglimenti stiracchiati, i perpetui discorsi di morale, e fin’anche di guerra, di politica e di governo, che tanto bene al teatro si confanno, quanto un vestito d’Arlecchino alla divina statua dell’Apollo del Vaticano.

So benissimo, che non senza motivo si è adottato questo piano. Con queste riempiture egli è facilissimo l’andare innanzi. I personaggi tutti han sempre molto da dire, perché li facciamo [p. 8 modifica] tutti innamorati, con incrociati amori, e fino i confidenti, ed i capitani delle guardie. E quando pure ci mancasse materia in qualche scena, abbiamo subito in pronto le dicerie filosofiche e i paragoni: dove che, quando si tratta del simplex et unum; quando è forza ristringersi a que’ personaggi che l’azione prescrive, e non piú; quando questi non hanno da parlare che secondo il loro carattere e nella loro passione; allora fornir pienamente, e con interesse, tre o cinque atti, col solo linguaggio del core, e senza quello dell’ingegno,

Pauci, quos aequus amavit
Juppiter, aut ardens evexit ad aethera virtus,
Dis geniti potuere.

In questo spettacolo musico tutto passa, tutto si sopporta: la poesia è la cosa che meno si contempla; niuno la legge, niuno l’ascolta; e con ragione. Si aspetta l’arietta gorgheggiata, il duetto di due colori, il rondeau rifiorito; e frattanto si discorre, si scherza, si ciarla, si amoreggia; e cosí smoderatamente, che ne’ nostri teatri si verifica ciò che scrisse Orazio di quelli del suo tempo:

Quae pervincere voces
Evaluere sonum, referunt quem nostra theatra?
Garganum mugire putes nemus.

Con queste nostre onorevoli costumanze, ponno lusingarsi gli odierni poeti d’acquistarsi un nome per altro poco durevole, e piú tosto biasimato, che ammirato fuori della patria: ponno vantarsi, felicitarsi, applaudirsi; e andare avanti con poco ingegno, e meno fatica; e conseguire gli elogi e le predilezioni delle nostre dame e donnicciuole.

Siccome però, signor Conte veneratissimo,

Iliacos intra muros peccatur, et extra:

cosí, se volgendo l’occhio dal nostro infelice teatro, all’inglese mi fermo, non ho troppo motivo di lodarlo in ogni sua parte.

Questa illustre nazione, che affetta maniera e pensar diverso da tutte l’altre, nazione libera e fiera, anche nella tragedia ha voluto singolarizzarsi. Ha adottato, come nel suo governo, una particolar costituzione tragica sua per il suo teatro: se ne contenta, e n’è vanagloriosa, malgrado gli schiamazzi dell’altre tutte. Per il famoso Shakspeare, autore di questa nuova costituzione, le unitá [p. 9 modifica] sono catene proprie per gli schiavi; il verisimile è un ritrovato d’una immaginazione scoraggita. Egli non vide, o non si curò di vedere né le poetiche, né i modelli de’ Greci, come il nostro Metastasio asseriva di non aver mai letti né voluti leggere i Francesi per sfuggirne l’imitazione. Il tragico inglese volò dunque con impeto proprio suo. Produsse de’ mostri, ma degli originali; introdusse personaggi senza numero. A’ pugnali, a’ veleni degli assassini e de’ tiranni, alle morti, e al sangue, mescolò le facezie de’ servi sciocchi, spesso sciocchi effettivamente. Ne’ suoi drammi, compassionevol strage si vede in una scena, si ride in quella che seguita. Non si curò egli di abbellir la natura; la mostrò tale qual’era al tempo suo, rozza, feroce, selvaggia: ma selvaggi erano a dir vero coloro che in scena introdusse, e forse quelli ancora che assistevano a que’ suoi spettacoli. Mise fuori gli spettri e l’ombre con grande incontro, e a mio parere con gran giudizio: sono queste (che che se ne dica) le macchine più efficaci a movere il terrore; e si adattavano maravigliosamente poi agli animi superstiziosi e creduli de’ suoi compatriotti. Forse allora, ed in animi di quella tempera, non faceva grande effetto la semplice morte violenta: Shakspeare le multiplicò dunque fino alla nausea; diede agli assassini la rabbia sanguinaria, la brutalità, e lo scherno mostruoso. E quando si accorse che la sua udienza né anche perciò si agitava, si commoveva, andò a cercare le forze motrici per quei cori induriti, fino all’inferno. Mescolò prosa e verso, e il triviale col sublime, con questa particolarità, che il suo triviale è appunto quello del basso volgo, il suo sublime è quello di Longino. I suoi successori, il fiorito ed elegante e poetico Dryden, il tenero Rowe (tenero però quanto gli permette il carattere nazionale), il fervido ma sconnesso Otway, il politico e meditante Addisson, e freddo (eccetto nel suo soliloquio di Catone)

Deliberata morte ferocior,

tutti procurarono d’imitare quel loro maestro. Non l’ottennero, o ben di rado nel caratteristico distintivo suo, nel grande, nel fiero, nel pittoresco, perché non ebbero il suo ingegno: talché l’antico Shakspeare, l’Eschilo inglese restò padrone della scena; ed ancora vi signoreggia, ancora spaventa, ancora fa arricciare i capelli agli spettatori; a dispetto d’essersi, e ripuliti, e istruiti: perché quando questo singolar poeta intende di spaventare, distrugge colle sue fiere, strette, vibrate espressioni ogni prevenzione, ogni difesa. [p. 10 modifica]A questo padre della tragedia sua si fermò l’Inghilterra: questo suo Eschilo non fu seguitato da’ Sofocli e dagli Euripidi. Sembra che la Musa tragica abbia, morendo Shakspeare, pronunziato

Thus far extend, thus far thy bounds,
O english stage.

Passando poi ad esaminare con imparzialitá il teatro tragico francese, egli è senza contrasto il migliore che esista; ma conviene però confessare che non pochi difetti vi s’incontrano. Vi è molta narrativa, molta declamazione, poco movimento, pochissima azione. I personaggi, che vi compariscono, sono modellati sul fare francese: tutti presso a poco si somigliano; pensano, parlano com’è la moda in Francia; amano come i pastori di Fontenelle. Passioni greche, romane, scite, africane, asiatiche dell’antichità, se bene gli eroi di quelle nazioni si mettano in scena, di rado s’incontrano.

Di rado vi si trovano i gran pensieri di quell’anime libere, di quelle costituzioni virtuose, di quelle politiche d’allora: tutto è del nostro tempo. La tragedia francese è forzata, inceppata ne’ legami di una decenza che hanno lá immaginata. Il discorso poetico è spesso, anzi quasi sempre, elegante; ma quasi sempre si raggira in querele amorose sottilmente sillogizzate. Vi han trasportato tutte le eroidi di Ovidio, e l’elegie de’ poeti appassionati, ma rivestiti a modo loro. Eccone la prova. Prendo all’apertura del libro la prima tragedia che mi si presenta, l’Andromaca, una delle più belle dell’immortale Racine. La scena che mi vien sotto gli occhi è la quarta dell’atto primo fra Pirro e Andromaca: scena di cento trenta versi, che non contiene che una lunga disputa in forma, in cui si argomenta sottilizzando se la vedova di Ettore possa e debba amare il figlio di Achille; di quell’Achille che le uccise il consorte, e lo strascinò dietro al suo carro intorno alle mura di Troia. Chi fosse questo Pirro ce lo dice Virgilio:

Primoque in limine Pyrrhus
Exultat telis, et luce coruscat ahenâ.

Il poeta lo rassomiglia a un serpente,

Mala gramina pastus:

indi a un fiume, che, rompendo le sponde,

Cum stabulis armenta trahit:

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quando poi lo fa parlare, con crudele insulto gli fa dire al rispettabile canuto Priamo mentre l’uccide:

Referes ergo haec, et nuncius ibis
Pelidae genitori:

e nell’atto di assassinare un vecchio senza difesa:

Nunc morere .... Altaria ad ipsa trementem
Traxit,
Impliquitque comam laevâ;
Ac lateri capulo tenus abdidit ensem.

(si noti questo eccesso rabbioso), abdidit ensem.

Or questo Pirro, in tal guisa tratteggiato dal primo poeta del mondo, sentiamo con quanta galanteria parigina vien fatto parlare da Racine alla lacrimosa Andromaca:

Me cherchiez-vous, madame?
Un espoir si charmant me seroit-il permis?

e segue a dirle:

Peut-on haïr sans cesse, et punit-on toujours?
Que vos beaux yeux sur moi se sont bien exercés!
Brûlé de plus de feux que je n’en allumai....
Tant de foi, tant de pleurs, tant d’ardeurs inquietes....

Lascerò di trascrivere altri versi: credo che questi soprabbondino in prova di quanto ho sopra avanzato. Queste tenerezze, languidezze, vezzi, carezze amorose, e que’ concettini, sicuramente non sono appropriati a Pirro1. [p. 12 modifica]

Se ancora (per mostrare che non siamo ingiusti a segno di fissarci ad un esempio solo) ponderiamo come parla in Britannico quel mostro di Nerone, ci confermeremo in ciò che ho assunto di dimostrare. Nerone è conosciuto, mercé a Tacito e a Svetonio, è conosciuto, dico, a’ giorni nostri, quanto lo fu in Roma durante il suo abbominevole regno. Nel Britannico noi lo troviamo a ciarlare per cento sessanta versi con quella immaginaria Giunia, introdotta per compiacere le dame galanti della Corte. Colla stessa galanteria si spiega l’ostinato Mitridate,

Adversis rerum immersabilis undis,

colla sventurata Monima. Nello stesso venusto stile parla il turco Bajazette a Attalide; collo stesso anche il nemico d’amore, il semisalvatico Ippolito alla favolosa Aricia; col medesimo vezzo lo sdolcinato Tito alla sua fedel Berenice. Si rileggano quelle tragedie; e non sarò accusato di malignitá nell’impegno che ho di far vedere, che tutti gli eroi delle tragedie francesi sono vestiti d’un colore.

Meno teneri e meno spasimanti sono per verità quelli di Corneille. L’ingegno suo era più sollevato: troppo pieno di grandiose [p. 13 modifica]immagini, stenta ad avvilirsi nelle smorfie amorose; e quando lo fa, ci rappresenta Polifemo che vuol vezzeggiare con Galatea. Ma si osservi, che tutti altresí i suoi personaggi son somiglianti nel gigantesco suo, nella sua ruvidezza. Corneille è quasi sempre al di lá della natura; le sue figure sono costantemente massicce e stragrandi; il sentenzioso di Lucano, il rettorico di Seneca sovente vi s’incontra: anche esso, cercando imitarli,

Nubes et inania captat;

e quando con simulata delicatezza vorrebbe pure nella passione d’amore ingentilire i suoi eroi, siccome lo spiega senza sentirlo, vi si scopre subito l’artifizio.

Crebillon, suo ammiratore e discepolo, è sempre nero, e troppo nero; e il suo stile è difettoso e inelegante. Voltaire trascura i suoi piani, onde sovente inciampa nell’inverisimile; e basta solo a provarlo la sua Semiramide, del di cui troppo inverisimile piano uscí, pochi anni sono, una giudiziosa insolubil critica in Londra. Non ha sfuggito affatto il difetto della declamazione, non quello di travestire i suoi personaggi alla francese. Non mi dilungherò in altre prove, per non esser tedioso. [p. 14 modifica]

Ma, a dispetto di quanto si può con occhio troppo acuto rilevar di debole e difettoso nelle tragedie di questi quattro sublimi poeti, non vi è niente di meglio al mondo. Uguagliano gli antichi Greci, e in alcune cose, anzi in molte, li superano. Se piú avessero imitata la natura; se meno avessero concesso al gusto frivolo del tempo in cui scrissero (tempo in cui le idee vere e maestose dell’antichitá venivano schernite o aborrite) avrebbero per i tragici futuri stabilito il non plus ultra teatrale. Ma la perfezione è collocata al di sopra dell’umanitá; il piú grande in qualunque scienza, o bell’arte, è quello che ha meno difetti:

Optimus ille est,
Qui minimis urgetur.

Tali sono questi illustri tragici della Francia.

Quando mi torna in mente il celebre detto di Orazio;

Ut pictura, poesis:

mi compiaccio in credere che sia piú significante e misterioso, di quello che comunemente si pensa: parmi che, a guisa d’un oracolo, gran cose racchiuda, e che molto sia necessario meditarci sopra per interpretarlo. Si contenti, signor Conte stimatissimo, che gli dica ciò che mi è venuto nell’idea sopra queste poche parole. Il mio lungo studio sul teatro tragico mi autorizza (almeno cosí mi lusingo) a proporre il mio sentimento, qualunque sia.

Penso dunque, che la tragedia altro esser non deve, che una serie di quadri, i quali un soggetto tragico preso a trattare somministrar possa all’immaginazione, alla fantasia d’uno di quegli eccellenti pittori, che meriti andar distinto col nome, non troppo frequentemente concesso, di pittor-poeta. Dilucidato sará meglio questo mio pensiero con un esempio.

Supponendo adunque che a taluno di questi pittor-poeti eccellenti nella composizione, come Rubens, Giulio romano, Tintoretto, o altro emulo loro, fosse comandato da qualche sovrano di dipingere in ampia sala il sagrifizio d’Ifigenia: egli è chiaro, che questa a lui proposta istoria, o favola dovrebbe in diversi quadri distribuire: quadri che, esponendola dal suo principio, nella da lui ideata catastrofe, o scioglimento, andassero a terminarla.

Immaginato il suo piano intiero, il pittore ne sceglierebbe le situazioni piú pompose e interessanti, che al suo giudizio si presentassero. Ad ognuna di queste assegnerebbe uno de’ suoi quadri. [p. 15 modifica]In questi, io raffiguro gli atti di una tragedia. Quelle situazioni, che fossero piú idonee a svelare i caratteri de’ personaggi introdotti, e le passioni che gli agitavano, e quelle che piú movimento ad esse somministrassero, sicuramente dal pittor-poeta sarebbero preferite; perché queste situazioni appunto cagionano nello spettatore maggior diletto, curiositá, sorpresa, e interesse.

Il primo suo quadro però rappresentar potrebbe l’armata navale greca nel porto d’Aulide ancorata, colle bandiere e fiamme non agitate dal vento; e soldati e marinari oziosi e inoperosi sul lido. Sul davanti, da una parte, dipingerebbe la real tenda di Agamennone, in cui da’ capitani con Calcante si terrebbe consiglio, a trovare il mezzo di placar gli Dei per conseguire il vento, onde navigare a’ lidi troiani. Principalissima figura in questo quadro dovrebbe esser Calcante, che, invasato, annunzia lo sdegno de’ Numi, e la consulta da farsi dell’oracolo di Apollo, accennando un tempio in lontano sopra un promontorio inalzato: proposizione alla quale Agamennone e gli eroi greci mostrano di acconsentire.

Il secondo quadro (che ben può stare nello stesso primo atto) sarebbe l’arrivo pomposo al campo di Clitennestra moglie, e d’Ifigenia figlia di Agamennone. È questa, promessa sposa ad Achille. Le principesse, allo scendere d’un superbo cocchio, sono da Agamennone, da’ capitani greci, e da Achille incontrate. Il seguito delle medesime, con quello degli eroi (che io riguardo come i cori di una tragedia) esprimono la comune approvazione degli illustri sponsali, la comune allegrezza. Achille, Ifigenia, Clitennestra, Agamennone mostrano l’eccesso del loro giubbilo.

Nel terzo quadro si vedrebbe un’ara in lontano, verso la quale a celebrare il grande imeneo, s’incamminano lieti gli sposi, Agamennone, Clitennestra, ed il seguito de’ principali del greco esercito. Spettatori e spettatrici, coronati di fiori, cantano l’epitalamio al suono di numerosi strumenti. Questo gruppo occuperebbe una parte del quadro: dall’altra, in severo sembiante, accompagnato da sacerdoti e sacrificatori, si presenterebbe Calcante. Sarebbe la comitiva degli sposi in faccia a lui soffermata: si vedrebbero turbarsi Clitennestra ed Agamennone; e quella, in atto di venir meno, sostenersi da due sue seguaci: smarrita Ifigenia s’appoggerebbe ad Achille; infiammato, e acceso di sdegno l’eroe si vedrebbe in sembiante minaccioso: stupiti si rappresenterebbero i capitani del seguito; mentre che Calcante, accennando, pronunziato l’oracolo, e vibrando il sacro ferro verso Ifigenia, esprimerebbe esser lei appunto la vittima che il cielo domanda. [p. 16 modifica]

Nel quadro seguente si dipingerebbe Achille furioso, in attitudine di sguainar la spada contro Calcante e Agamennone. Ai piedi d’Achille si mostrerebbe Clitennestra prostrata fra un gruppo di meste donzelle: piangente sarebbe dipinta Ifigenia. All’intorno si figurerebbero eroi greci pensierosi, ed incerti fra la compassione per la principessa, ed il terrore per la religione. Ulisse potrebbe fermare il braccio del minaccioso Achille. Il volgo, in diverse passioni tratteggiate in volto di ciascheduno, empirebbe il rimanente della composizione.

In un altro quadro, fra’ sacerdoti scortati dal feroce Calcante, accompagnati da fanatici soldati, campeggerebbe Ifigenia nell’atto di essere svelta a forza dalle braccia della invano fremente e supplicante Clitennestra. Calcante, acceso da religioso zelo, sarebbe espresso in figura di animare que’ satelliti alla crudele impresa, mostrando loro esser quella la volontá de’ Numi. Confusi gruppi di damigelle delle principesse, altre atterrite, altre piangenti, altre in atto di difendere Igenia, riempir si vedrebbero il campo del quadro.

E nell’ultimo, mentre all’ara, davanti alla statua di Diana, coronata di fiori e pallida e semiviva si vedrebbe prostrata la misera Ifigenia; mentre Clitennestra, dalle guardie fermata in distanza, sarebbe dipinta in attitudine di slanciarsi verso la figlia; mentre il fiero Calcante vibrar giá si mirerebbe il sacro coltello: colla spada in mano il furibondo Achille dipinto sarebbe, afferrando la destra del sacerdote, e in punto di ucciderlo. I suoi Tessali da una parte si vedrebbero abbassar giù le aste; e le schiere greche, dall’altra, in figura di opporsi a loro. Agamennone, fra’ capitani greci, sarebbe dipinto col volto coperto. Ma Diana in nuvola, con una cerva a’ piedi, mostrerebbe scendere verso l’altare, soddisfatta dell’ubbidienza. In lontananza, sulla flotta ondeggerebbero le bandiere delle navi; gonfie sariano dipinte alcune spiegate vele, ed occupati alle sarte i marinari: contrassegni evidenti di esser placati gli Dei, assicurata la vita d’Ifigenia, contento Achille, calmati Agamennone e Clitennestra; e con felice scioglimento terminata l’azione2. [p. 17 modifica]

A prima vista si scopre che, in questi diversi quadri, tutto quel movimento che quella celebre favola prestar può all’immaginazione, compendiato si trova. Il pittore, che è poeta muto, non potendo far parlare i personaggi che introduce, è necessitato a farli agire. Quí niente ci astrae, né ci divaga. Tutto serve a rappresentarci le passioni di quegli eroi in quel solenne turbamento. A me sembra, che se una tal continuazione di quadri (che formano una dipinta tragedia) ben disegnata fosse, e arditamente e fieramente colorita da un primario pittore, desterebbe negli animi degli spettatori il terrore e la compassione, con maggior sentimento e maggiore energia e celeritá, che una tragedia sullo stesso soggetto composta, o letta, o in teatro rappresentata.

Se dietro questa mia idea anderá ella, signor Conte stimatissimo, esaminando le meglio disegnate tragedie che si conoscano, rileverá, credo, che vi si adattano maravigliosamente, e che tanto piú vi si adattano quanto piú sono meglio disegnate e sceneggiate. Anzi l’imperfezione di molte, penso che derivi dal non essere state maneggiate su questo meccanismo. Le tragedie son tanto piú interessanti e piú perfette, quanto son meno declamatorie, piú in movimento, e piú pittoresche: e però somministrano alla fantasía piú ricche e piú interessanti situazioni per la pittura; come piú d’ogni altro epico poema ce le presenta la divina Gerusalemme del Tasso, omai espressa in migliaja di quadri, di sbozzi, e disegni.

Or quando tutto ciò sia vero, come, secondo me, egli è incontrastabile, ecco che avremo la vera chiave, e per giudicare del merito d’ogni poema, e singolarmente della tragedia, e per formarne il piano piú perfetto, e la piú interessante sceneggiatura.

I pantomimi (intendo parlare di quelli degli antichi) co’ gesti, co’ movimenti, colle attitudini, animavano le figure o i personaggi che imitavano; li caratterizzavano, e gradatamente di scena in scena li conducevano a collocarsi in que’ quadri o gruppi, co’ quali immaginavano piú far colpo sugli animi degli spettatori. Cosí intessevano qualunque azione o tragica o comica, dal suo principio fino al meditato scioglimento, senza pur dire una parola. Pilade e Batillo cosí, a mio credere, disegnavano le loro rappresentazioni. L’effetto di queste pantomine, che saltazioni chiamavano gli antichi, era maraviglioso; come ci lasciò scritto Luciano, come ce lo dice Apuleio, concordi con tutti gli scrittori di que’ secoli, che di questi spettacoli ci diedero qualche notizia. [p. 18 modifica]

Non voglio io entrare, per non troppo dilungarmi, in questa ora sí poco nota materia, perché per dilucidarla mi converrebbe fare una dissertazione. Rammenterò solo, relativamente all’effetto che questi muti spettacoli producevano negli spettatori, i versi di Giovenale:

Cheironomon Ledam molli saltante Bathyllo,
Tuccia vesicae non imperat:

e quelli di Manilio, il quale d’un di questi celebri pantomimi cosí fa l’elogio:

Omnis fortunae vultum per membra reducet;
. . . cogetque videre
Praesentem Trojam, Priamumque ante ora cadentem:
Quodque aget, id credes, stupefactus imagine veri:

e rimandando il curioso per piú ampie notizie agli autori sopra citati, l’avvertirò di riflettere al furore del pubblico per queste teatrali rappresentazioni; e ai partiti che insorsero cosí strepitosi e fervidi per Pilade e Batillo, e per Ila e Pilade, che Augusto si credé in dovere di reprimerli, ed altri imperatori dopo di lui.

Ma dunque, ciò che principalmente muove, agita, atterrisce, o impietosisce lo spettatore in una azione tragica teatrale, non è il parlare. Lo accennò Orazio, dicendo:

Segnius irritant animos demissa per aures,
Quam quae sunt oculis subjecta fidelibus;

ma dunque, il troppo vagare nel discorso, il declamare, il dissertare nuoce all’interesse; ma dunque, evidente è che quanto piú il poeta fa ciarlare i personaggi che introduce, tanto piú si allontana dall’oggetto primario della tragedia.

E ciò essendo vero, come mi speranzo averlo provato, ne risulta evidentemente; che è difettoso ogni piano tragico, in cui troppo si ragiona, e poco si fa; che è d’uopo toglierne, per accostarsi alla perfezione dell’arte, gli ambiziosi ornamenti; e che fabbricandosi il piano medesimo, come una serie e continuazione di quadri, come ho proposto, (quadri che ristringeranno il discorso a quel poco indispensabile per caratterizzare i personaggi, e condurli in quella situazione pittoresca che ha da colpire, e efficace[p. 19 modifica]mente scuotere gli animi degli spettatori) si otterrá di fare d’ogni azione teatrale la miglior distribuzione; e la piú viva, la piú interessante, la piú animata, la piú commovente tragedia, che far si possa.

Il disporre però in tal maniera il piano di una tragedia non è da tutti. La sceneggiatura, che deve far nascere questi gruppi, questi quadri, è difficilissima a combinare. La cosa che meno adesso si studia, è questo piano, questa sceneggiatura; si abbandona al caso; non si bada all’inverisimile. E pure da una tal disposizione assolutamente dipende il non mancar mai di materia da trattar nelle scene, e la riuscita della tragedia medesima.

Qualche cosa di simile a quello che io penso e che ho esposto, ha ella, amico stimatissimo, avuto in mente nello scrivere le sue. Osservo che ha costantemente cercato di farvisi poeta-pittore, col metter quasi tutto in azione. Se talora si è lasciato trasportare dalla pratica attuale, d’abbandonare alla narrativa ciò che s’incontra di piú vigoroso, di piú capace di scuotere in una azione tragica, ha procurato però di non trattenervisi lungamente: come Racine, che dormitat nel racconto che mette in bocca di Teramene a Teseo della morte d’Ippolito; racconto in oggi escluso da quella bella tragedia, che terminava in destar la noia, in vece di muovere la compassione. Or eccomi sopra ciascheduna delle quattro del primo tomo, che mi ha favorito, a dirgliene il mio sentimento.

L’azione del Filippo è una, ben distribuita, naturalmente condotta. L’esposizione non è ricercata: alla prima scena sanno gli spettatori di che si tratta. I caratteri son veri: quello del cortigiano Gomez, e di quella orrida corte, è egregio: Filippo è ritratto dal vivo; il Tiberio delle Spagne si riconosce da tutti. Da lui si ascoltano suspensa semper, et obscura verba: in lui si vede l’uomo sine miseratione, sine ira; e lo troviamo sempre obstinatum, clausumque, ne quo affectu perrumperetur: tocchi maestri del carattere di Tiberio, fortemente espressi da Tacito. Quel Leonardo è un ipocrita degno di quel monarca. Perez è un raro esempio di virtú fra que’ ribaldi, per fare un contrasto e un chiaroscuro. Isabella è incauta, ingenua, amorosa: e Carlo, quel che ce lo descrive la storia arcana di quel regno d’empietá, d’artifizio, di veleni e di sangue; è poco avveduto, impetuoso, perché esasperato, ma degnamente degenere dal barbaro padre, e però non trattato come figlio. [p. 20 modifica]

I sospetti del tiranno re dominano la scena: sono messi in moto, e maneggiati con maestria; sono il nodo che intreccia e scioglie l’azione, come nel Mitridate di Racine.

Ma in questo, con un artifizio troppo volgare, si degrada il re per penetrar nell’animo della troppo amorosa e poco accorta Monima. Le propone di fare a lei sposare il suo figlio Zifares ch’ella ama; amore di cui il geloso Mitridate è insospettito. Questa proposizione glie la fa quasi subito dopo che le ha esagerata la sua passione per lei, e le ha annunziati imminenti i suoi proprj sponsali con essa. Monima ha dunque piú motivi di non fidarsi della compiacente proposta del re: onde mi par difetto di giudizio il farla cosí subito cadere nel laccio che se le tende; laccio, che a lei doveva necessariamente essere visibile. Dal fervore dell’amor di Mitridate giá noto, e di recente novamente palesato a Monima, alla condescendenza di cederla ad altri, non v’è gradazione insensibile, ove appoggiare una scusa a tanta semplicitá3. Questa semplicitá, se si consideri il carattere di Monima, è puramente dal poeta in quella scena supposta ad arbitrio suo, a suo comodo, e non verisimile. Meglio assai pensato è l’inganno del Filippo. Non vi si tratta di cedere Isabella a Carlo giá figliastro suo, ma di consultarla sulla di lui condotta; onde molto meno può in lei nascere dubbio e diffidenza. Né al tentativo che fa Filippo sul cuore della regina, malgrado l’intervento dell’amato Carlo, ella si palesa con dabbenaggine, come Monima in Racine al geloso Mitridate. Qualche suo movimento involontario può bene accrescergli i gelosi sospetti; ma questi non sono una prova compita de’ di lei amori col principe: lo scoprimento n’è riservato al finto, astuto, e perverso Gomez, nel momento terribile che le asserisce essersi giá pronunziata sentenza di morte contro il suo amante, che con tanta ipocrisia e malizia compiange. È però assai piú naturale, assai piú verisimile l’artifizio.

Avrei, per altro, desiderato che fosse meglio sviluppata l’accusa del re contro il figlio d’averlo voluto trucidare. Non ben si rileva, se l’attentato sia fondato sul vero, o se sia puro pretesto del padre per rendere il principe reo ed odioso. Se non è che un [p. 21 modifica] puro ritrovato, non basta a mio credere, che Perez ne dimostri la falsitá: dovuto avrebbe Carlo con orrore, con esecrazione dilucidarlo, smentirlo egli stesso, quando Filippo glielo rinfaccia, e non rivolgersi a estranei rimproveri. La palese sua innocenza servito avrebbe a render piú orribile il carattere dell’accusatore e falsario padre.

Per quanto osservo nel Polinice, ella è maestro nel trattar le tragedie senza amori. Difficile impresa, e sopra tutto per i nostri moderni poeti, ai quali se questa affluente materia venga interdetta, si trovano esausto subito il tesoretto che si son fatto, d’arzigogoli fanciulleschi. L’azione del Polinice è una delle piú tragiche dell’antichitá: non v’è chi meglio di lei l’abbia maneggiata. Sono veri i caratteri: migliore è alquanto di quello di Eteocle, il carattere di Polinice; tale doveva essere, perché Eteocle, col mancare ai patti solenni, è la prima cagione dell’odio e della guerra fraterna. Giocasta, e Antigone, sono quelle appunto che ci ha ritratte la storia. Creonte intreccia l’azione col suo carattere ambizioso e falso; accende i suoi nipoti alle gare, agli sdegni; trama insidie e tradimenti; disegna disfarsi de’ due principi, ed occupare il trono. La scena del giuramento è bellissima; né sono meno belle le scene fra la madre e i figli. Il piano è semplice, e corre rapidamente allo scioglimento; è terribile questo, e sugli occhi degli spettatori.

Parrà forse a taluno non troppo decisiva la mira per cui Creonte infiamma alternamente all’ira i due furiosi nipoti. Può egli verisimilmente sperare la morte contemporanea d’ambedue, per impadronirsi egli medesimo del disputato scettro? Sembrano dunque troppo frivole le lusinghe di regno in lui supposte, per determinarlo a spiegare un carattere tanto reo, a meditare tante scelleratezze. Ma appunto perché egli è cosí iniquo, se gli può attribuire il disegno di uccidere a tradimento il superstite de’ fratelli, e di contrastar poi colla guerra la successione alla corona del figlio giá nato a Polinice, che ne sarebbe il legittimo erede in ogni caso. Antigone giá intender ci lascia che le mire di Creonte sono dirette ad usurpare il trono: vorrei però che egli stesso ce le accennasse in poche parole.

Trovo ancora, che il motivo addotto da Eteocle per lasciarsi fuggir di mano il fratello, permettendogli tornar libero al suo campo, quando, come assicura, potrebbe farlo facilmente a tradimento uccidere, trovandosi nella sua reggia in poter suo; trovo, dico, che questo motivo non parrá sufficientemente fondato per [p. 22 modifica] appoggiarvi lo scioglimento dell’azione. Il motivo si è, che all’odio suo non basta la sola morte di Polinice; e che vuole egli stesso dissetarsi col suo sangue. Mi si dirá che l’odio lo accieca: ma può egli accecarsi a segno di avventurar se stesso? può egli esser sicuro di vincere il fratello, non men di lui risoluto e feroce? è egli prudente nell’abbandonare al caso e la sua vendetta, e lo scettro che si assicura con sbrigarsi di Polinice con un tradimento? Gli ostacoli che può naturalmente prevedere a questo assassinio (ostacoli dipendenti dalla tenerezza della madre, dalla vigilanza amorosa della sorella) potrebbero in qualche maniera scusare questa sua inverisimile risoluzione. La giustificherebbero ancor piú, se in qualche luogo c’indicasse Eteocle questi probabili ostacoli, derivanti dalla oculatezza di Giocasta e d’Antigone.

Non conosco su’ teatri tragici soggetto piú uno, piú semplice, piú semplicemente disposto di quello dell’Antigone, ch’ella ha saputo ristringere a quattro personaggi. L’amore fra Antigone ed Emone, è veramente degno del coturno. Non v’è sulle scene tenerezza di moglie piú lagrimevole di quella d’Argía, non tirannide piú orribile di quella di Creonte, che giunge fino a calpestare l’amor paterno. Tante passioni a contrasto dan luogo a maravigliosi accidenti, a sentimenti di eroismo, che sorprendono; come nella scena seconda dell’atto terzo fra Antigone, Emone e Creonte, e nella seguente fra i due primi personaggi.

Nell’atto quinto, scena quarta, ove Creonte (l’odio del quale contro la principessa è frenetico) comanda che non si tragga a seppellirsi viva come avea ordinato, ma sia ricondotta al suo carcere; questa mutazione in un cor feroce ostinato e risoluto, com’è il suo, sembra troppo repentina, ed appoggiata sopra riguardi troppo leggieri. Ma l’uscita d’Antigone verso il luogo del supplizio ha somministrato rincontro di lei con Argía, e la loro tenerissima separazione; e poi io penso che basti a disimpegnare la nuova risoluzione di Creonte l’apologia ch’egli stesso ne fa nell’atto quinto, scena quinta.

Cosí nella scena terza e quarta dell’atto quarto, si potrá forse dire che troppo in Emone fidi il barbaro padre. Non dico che n’abbia a temere per se stesso; il di lui virtuoso carattere può pienamente rassicurarlo: ma nella risoluzione immutabile e feroce in cui è fermo d’uccidere Antigone ad onta del figlio, per motivi ostinati d’odio, di vendetta, di ragion di Stato, il suo figurarsi che Emone non procuri d’involarla con ogni sforzo alla morte, [p. 23 modifica] può stimarsi inverisimile; e tanto piú, che non prende alcuna misura contro una violenza del figlio, troppo facile a supporsi. La sua soverchia fidanza non può sicuramente fondarla Creonte sulla magnanimitá d’Emone: né il figlio sará, in un certo e possente riguardo, meno virtuoso, se colla forza che adoprar gli si concede, salva l’amata dalla morte, e se impedisce al padre di commettere un nuovo odioso delitto.

Eccomi all’ultima tragedia. Se bene, come spiegato mi sono, le tre precedenti mi sembrino bellissime, a questa mi sento inclinato a dare la preferenza. È piena della vera educazione, del vero spirito romano di quel tempo. Non è incorso ella, signor Conte riveritissimo, nell’errore preso da altri poeti, di far pensare e parlare i suoi personaggi di un’epoca, come parlavano e pensavano quelli di un’altra diversa. A me sembra che Corneille sia caduto in questo difetto ne’ suoi Orazj, perché attribuisce ai Romani, allora sudditi d’un re, l’amore per la patria, e l’energia pubblica dell’etá de’ Gracchi.

Nella sua Virginia mi sento trasportare al tempo dei decemviri. I suoi Romani, uomini e donne, son quelli che né pur quest’ombra di servitú vollero sopportare; sono,

Devota morti pectora liberae;

e pensano, e ragionano su questo principio.

Grandi e vivi sono i ritratti, ch’ella vi ha disegnati e coloriti. Icilio, giá tribuno predominante nelle popolari adunanze, spiega la stessa licenza di prima; licenza concedutagli dalle leggi, dal costume, e avvalorata dalla sua passione per Virginia, dall’odio contro il patriziato, dalla libertá tribunizia. Virginio, educato al campo, non nel foro, avvezzo alla disciplina militare, è piú moderato verso chi, secondo le promulgate leggi, ha un imperio; ma, ove si tratta di perdere la libertá, è audace non meno, non meno risoluto. Virginia e Icilio si amano, ma alla romana; però le loro tenerezze partecipano sempre del caratteristico patrio; né si veggono in quelle le sdolcinate espressioni, non romane, ma romanesche, delle Marzie, delle Servilie, delle Vitellie, delle Sabine, che incontriamo ne’ drammi musici. Appio è colui, in cui deve andare a ferire l’odiositá di Roma, e giustificare la magnanima risoluzione che vi si prende di abolire il decemvirato. Egli è però tratteggiato da far nascere abborrimento: è ambizioso, parziale, malvagio; abusa [p. 24 modifica] delle leggi e della potestá: è superbo come patrizio; e piú ancora superbo per essere della famiglia Claudia, ch’ebbe per distintivo l’orgoglio. Ma egli è altresí intrigante, astuto, eloquente, e proprio a sedurre, a raggirare la moltitudine per i suoi fini indiretti e perversi.

Dalla sfrenata libidine e dalla prepotente malvagitá d’Appio, dall’amor virtuoso di Virginia, dall’amor libero e intollerante d’Icilio, dalla tenerezza della madre, dall’affetto paterno di Virginio, nasce l’urto delle passioni che regnano sempre agitate, sempre calorose in tutto il dramma.

Le parlate al popolo di questi personaggi, secondo i movimenti che prova ciascun di loro, e i principi e le massime che loro le dettano, sono tutte pompose, maravigliose tutte. Ci trasportano al foro, al tribunale dell’infame magistrato. Pende il giudizio, c’interessa; c’intimorisce il disegno del venale accusatore, la trama dell’iniquo giudice. Si vorrebbe veder trionfare Virginio, e punire gli strumenti rei della sua terribile e dolorosa situazione.

Fiera scena d’amore, ma romano, è la terza dell’atto terzo fra padre, madre, figlia, e sposo; le loro espressioni penetrano al vivo. Nella scena quarta dell’atto quarto, in cui Appio tenta sedurre Virginia, il momento di debolezza in lei è con grande artifizio maneggiato, affinché il di lei carattere non ecceda il naturale. Virginia Romana, è peraltro sensibile e amorosa: pare che ceder voglia in un istante; ma la virtú patria, l’educazione subito riprendono vigore. Lo scioglimento è grandioso, e, quello che io piú di tutto valuto, è presente. Il lettore è agitato dal terrore e dalla compassione; quanto piú dovrá esserlo lo spettatore. Non saprei ove trovare una catastrofe piú teatrale di questa. Il foro, il tribunale, il decemviro, i littori, gli armati, il popolo, i personaggi, operanti tutti, tutti allo scioglimento inservienti, devono produrre in teatro, a parer mio, un effetto molto maggiore di quello che produce il tanto e con tanta ragione ammirato della Rodoguna di Corneille. La prova, son certo, verificherá questa mia assertiva.

Sbrigato in tal guisa, stimatissimo amico, da’ piani delle sue bellissime tragedie, passerò a dirle quali sono que’ passi, que’ tratti, che in esse mi hanno piú commosso. E cominciando dalla prima, tutti quei discorsi artifiziosi di Filippo nelle scene seconda e quarta dell’atto secondo, nelle quali, con astuzia somma a forza repressa in lui, trasparisce la sua atroce gelosia, mi fecero una grande impressione. È mirabile con qual destrezza, ed ambiguitá [p. 25 modifica] di senso, vi si mescola la parola di matrigna, e quella d’amore, col nero e cupo disegno di chiamare sopra i volti dei commossi amanti i colori della passione sepolta.

Nel Polinice quasi tutte le scene sono sparse di sí sollevati, ma naturali, sentimenti, che ne condannerei la profusione se fosse difetto. Hanno in me prodotta una impressione tale, che provo sempre nel rileggerle quel ribrezzo, che solamente conosce chi è poeta.

Egli è opinione, che per vedere se veramente sublime sia un lavoro poetico, si debba tradurre in un’altra lingua. Se, spogliato delle vaghezze che gli presta la sua, si sostiene col solo pregio de’ pensieri maestosi, veri, e appropriati; se vi si trovano ancora nella traduzione,

Disjecti membra poetae;

si può francamente pronunziare che sia tale.

A questa prova ho voluto esporre alcuni squarci del Polinice, traducendoli in francese, come ho saputo meglio. Si giudicherá se siano ugualmente sublimi, ugualmente belli nell’uno e nell’altro idioma. Ecco la risposta di Giocasta a Polinice, atto secondo, scena quarta. Le adduce il figlio, per giustificar la guerra che move al fratello, che incorrer non vuole nel disprezzo generale della Grecia: la madre risponde:

«O la belle vertu! La Grece doit donc t’estimer parceque tu n’es pas plus méchant que ton frere! L’objet le plus cher à ton cœur est donc le trône. Tu ne songes donc pas quel malheur c’est d’être roi. Regarde tes aïeux: quel d’entre eux régna dans Thebes sans crimes? Le trône où Œdipe fut assis est en effet bien illustre! Crains-tu que la terre ignore qu’Œdipe eut des enfants? Es-tu vertueux? laisse la couronne aux parjures. Veux-tu te venger de ton frere? veux-tu qu’il devienne l’horreur de Thebes, de la Grece, du monde entier? laisse-le régner. Moi-même, le front orné du diademe, malgré son vain éclat, n’ai-je pas vu couler mes tristes jours dans les larmes? n’ai-je pas porté envie à l’état le plus vil? O trône! tu n’es qu’une ancienne injustice, qu’on a toujours tolérée, et toujours détestée4. Funeste honneur! plût aux dieux que [p. 26 modifica] le sort m’en eût toujours éloignée! je ne serois pas la mere et la femme d’Œdipe: perfides! je ne serois pas votre mere.»

Aggiungerò la parlata con la quale Giocasta termina la tragedia.

«Que vois-je? un abyme immense s’ouvre sous mes pas: les royaumes effrayants de la mort se présentent à mes yeux!... Ombre pâle de Laïus, tu me tends les bras!... à ta criminelle épouse! Quel horrible spectacle!... je te vois percé de coups! tes mains, ton visage, sont ensanglantés! Tu pleures, malheureux! tu cries vengeance! Quel fut l’impie qui déchira ton sein?... quel fut-il?... ce fut Œdipe, cet Œdipe ton fils... que je reçus dans ton lit fumant encore de ton sang. — Mais quelle voix prononce mon nom?... J’entends un bruit affreux qui remplit d’horreur les enfers... un cliquetis d’armes et d’épées... O fils de mon fils!... ô mes fils!... ombres féroces!... ô freres! vos fureurs durent donc encore après le trépas!... Accours, Laïus; c’est à toi de les séparer... Mais j’apperçois à leur côté ces infâmes Euménides. Vengeresse Alecton, c’est moi qui suis leur mere; tourne vers moi ton pâle flambeau; lance sur moi tes viperes. Voici, voici le flanc incestueux qui enfanta ces monstres. Furie! que tardes-tu?... qu’est-ce qui t’arrête? Je vole vers toi... Je... meurs...»

Nell’Antigone è interessantissima la scena dell’agnizione fra essa e Argía, moglie di Polinice estinto; e sublimi, e teneri tutti ne sono i sentimenti. Ugualmente bella è la scena seconda dell’atto terzo, in cui ammirai le energiche risposte d’Antigone a Creonte, che offerisce lasciarle la vita purché sposi Emone. La seguente fra Emone ed Antigone, amanti sí, ma dell’amore adattato alle lor passioni diverse, è ugualmente toccante. Quel comando della principessa all’amante, che per vendicarsi del padre vuole uccidersi.

Vivi Emon, tel comando. È in noi delitto
L’amarci tal, ch’io col morir lo ammendo,
Col viver tu.

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e quel laconico dialogo fra Creonte ed Antigone

Creonte. Scegliesti?

Antigone.   Ho scelto.
Creonte.   Emon?
Antigone.   Morte.
Creonte.   L’avrai.

è degno di Sofocle. È ammirabile la dignità di cui riveste Antigone l’odio suo contro Creonte, giustissimo e dovuto, quando ad onta di quello, nella scena 2a del suddetto atto, riprende acerbamente Emone dell’oblio del dover di figlio verso il padre. L’addio delle due principesse all’atto terzo fa piangere.

Tutto mi piace, e mi appassiona nella Virginia; e le libere parlate d’Icilio, e le artifiziose d’Appio, e le tenere fra il padre e la figlia. La scena terza dell’atto terzo fra madre, padre, figlia, e sposo, merita di esser molto meditata. Fra’ tratti sorprendenti, dei quali è ripiena, osservai un tocco di pennello maestro, che adombra la catastrofe, e ne fui sorpreso; eccolo:

Virginio.   Oh donna! oh di quai prodi

Perisce il seme, col perir di queste
Libere, altere, generose piante!
Icilio. Ben altrimenti piangere dovremmo,
Se fosser nati i figli. A duro passo
Tratti saremmo or noi... Svenarli, o schiavi
Lasciarli... Ah! schiavo il sangue mio? Non mai...
Padre io non son;... se il fossi...
Virginio.   Orribil lampo
Mi fan tuoi detti traveder.... Deh! taci,
Taci per or.

Questa scena a me pare un modello di tragica poesia, e la piú bella che s’incontri nelle quattro tragedie.

Preveggo, amico riveritissimo, che lette avendo fin qui queste mie osservazioni, ella mi riguarderá come troppo parziale suo. Ma no; la veritá mi dettò queste lodi; la veritá medesima mi obbliga a dirle ciò che ancora trovare desidererei nelle suddette sue tragedie.

Qualche riflessione giá feci a luogo suo toccante la condotta. Dissi con libertá amichevole quanto mi venne alla mente; accennai il difetto, forse ingannandomi; lo difesi, forse senza necessitá. Adesso, quel che sono per dire, mi sembra che da lei meriti qualche piú serio riguardo. [p. 28 modifica]

Appunto nella Virginia, non son contento, quante volte la rileggo, dello scioglimento. More la donzella uccisa dal padre: si solleva il popolo: ma lo scellerato Appio, dopo tanti e sí odiosi e sí esecrandi misfatti; dopo avere, colla sua tirannica libidine, eccitata in un padre tanto benemerito di Roma una disperazione cosí compassionevole e necessaria; dopo esserci stato dipinto nel corso intiero dell’azione, degno dell’abborrimento di ognuno, ed aver destata negli animi nostri questa sensazione; costui, non solo non paga colla morte la pena di tanti delitti in conformitá della storia, ma trionfa, ma ancora minaccia e il misero Virginio e la tumultuante plebe: e altro non si può arguire dagli ultimi suoi impudenti discorsi, se non che, e per lo meno, ei rimanga impunito. Questa catastrofe inaspettata, e contraria alle leggi della tragedia, e piú ancora a quel desiderio che ella con tanto senno e maestría ha insinuato negli spettatori, a forza di pennelleggiare vigorosamente il carattere iniquo del decemviro, deve necessariamente rimandarli mal soddisfatti, e rammaricati nel vedere esultante l’abborrito personaggio, e oppressa e straziata la virtú. A mio credere, per ben terminar la sua tragedia, è forza farlo perire in scena: ella può sbrigarsene in pochi versi.

Anche lo scioglimento di Antigone può forse non soddisfare tutti i lettori. So benissimo che il carattere infame di Creonte è tale, che la morte di un figlio, e unico, non deve portarlo alla disperazione. Ma i pochi versi co’ quali ei chiude l’azione, possono far pensare che questa morte sia per lui indifferente, quando per altro si è egli mostrato assai compiacente, assai debole per il figlio, nel corso della tragedia. Ha impiegato ogni mezzo per soddisfare i di lui amori; né i suoi rimproveri, né le sue minacce, han potuto indurlo a prendere la minima precauzione di prudenza. L’affetto paterno è dunque dominante in Creonte; ma quando Emone sopra gli occhi suoi si uccide, egli non fa che prevedere con freddezza il castigo del cielo.

Io poi nel Filippo avrei voluto che quel tiranno, nel fine dell’ultima scena, avesse allontanato Gomez, e fosse rimasto solo a pascere lo sguardo con atroce delizia, e di lui degna, dell’orrido spettacolo del figlio e della sposa estinti; e che in pochi sensi e feroci di scherno per quegl’infelici, saziasse la sua mostruosa vendetta con esultanza e compiacenza; dichiarando la loro innocenza, e il sacrifizio che fatto ne aveva alla sola sua nera gelosia. Cosí, penso, sarebbero state date le ultime pennellate all’orribil suo [p. 29 modifica] carattere: ne avrebbe egli riportato un generale e forse espressivo abborrimento alla rappresentazione, come lo ha però meritato. Mi dirá, che io mi lascio sedurre dalla maniera di Shakspeare; e che quello che vorrei inserito nel Filippo, cagionerebbe nell’udienza forse una commozione d’orrore per il poeta. Ma quando ciò succedesse, crederei aver ottenuto l’intento che ciascheduno in scriver tragedie si deve proporre.

Ogni poeta ha la sua maniera, come l’hanno i pittori: ha la sua Sofocle, la sua Euripide, la sua Corneille, la sua Racine. Questi due tragici moderni hanno ciaschedun di loro formata una scuola: quella del primo tende al grande, al sublime, al maestoso; all’ampolloso, al vago, all’elegante, all’accurato, all’esatto inclina quella del secondo. L’una e l’altra ebbe i suoi seguaci, i suoi partigiani. Crebillon si distinse in quella di Corneille: in quella di Racine non si osserva tragico di gran grido. Voltaire si fece una maniera propria sua: cercò d’imitare l’uno e l’altro; si abbandonò anche al suo ingegno, e si rese originale. Shakspeare ha una maniera stravagante, rozza, selvaggia, ma dipinge al vivo, al vivo rende i caratteri e le passioni de’ personaggi. Noi, tragici non abbiamo; ond’ella non ha potuto imitar nessuno dei nostri. Non veggo neppure imitati costantemente da lei né i Greci, né i Francesi: mi servirò dunque per definir lei dell’espressione usata da Tiberio per Curzio Rufo: Curtius Rufus videtur mihi ex se natus. Ella è nato da se, ed ha creato una maniera tutta sua; e prevedo che la sua formerá fra noi la prima scuola. Che se, meditando attentamente sul suo fare, voglio pure trovarci qualche paragone, parmi che a luoghi, e per l’energia, e per la brevità, e per la fierezza, a Shakspeare più che a qualunque altro rassomigliare si debba. Per darne una prova, permetta che io gli trascriva alcuni passi di questo poeta, tali e quali, altre volte senza impegno, e per solo studio mio, in versi o in prosa gli ho tradotti. Si rileverá da questi, mi lusingo, non esser lontana dal vero la mia opinione.

Riccardo III, (nella scena quinta dell’atto quinto della tragedia, che porta il suo nome) svegliandosi subito dopo il sogno, in cui veder gli parve minacciarsi esterminio e morte da tutti quelli che barbaramente avea uccisi, cosí parla:

Presto un altro destrier... Le mie ferite
Presto fasciate... O Dio, pietá!... Ma... piano...
Fu sogno... Oh come mi contristi in sogno,
O coscienza codarda!... Un fosco lume

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Tremola nelle faci;... a mezzo il corso
Non è la notte... Gelido sudore
Mi scorre sopra le aggricciate carni...
Perché?... Teme di me?... Io son qui solo...
Riccardo ama Riccardo... Ed io... son io...
V’è quí un sicario?... No... Sí... io vi sono...
Dunque fuggiam... Che... da me stesso?... Sí,
Da me stesso. Perché?... Perché vendetta
Non faccia... Come!... in me di me? Io m’amo...
M’amo? per qual ragion? per qualche bene
Ch’io mi sia fatto? Ah! no: m’odio piú tosto
Per mille abbominevoli, odiosi
Delitti che ho commesso... Un scellerato
Io son... Mento... Nol sono. O stolto, meglio
Parla di te;... non adularti, o stolto...
La mia coscienza ha mille lingue; ognuna
Fa il suo racconto, e ciaschedun racconto
Condanna me di scellerato ed empio...
Spergiuro,... e quanto esser si può spergiuro;
Ed assassino, il piú atroce di quanti
Sian stati mai. Tanti delitti miei,
E orrendi tutti, al tribunal son tutti,
Gridando: È reo, è reo... Son disperato...
Niun fra’ viventi m’ama: niun, s’io moro,
Avrá di me pietá. Come l’avrebbe,
S’io di me stesso in me pietá non sento?
Tutti gli spettri di color ch’io uccisi,
Veder mi parve alla mia tenda, e tutti
Minacciarmi vendetta al nuovo giorno; etc.


Nella stessa tragedia la regina Elisabetta, vedova d’Edoardo IV, a Riccardo che le chiede la figlia in moglie, e le domanda in qual maniera possa meritar l’amore della principessa, cosí risponde:

Mandale, per colui che i suoi fratelli
Empio svenò, due sanguinosi cori;
E siano in essi i nomi lor scolpiti.
Ella allor piangerá; tu le presenta
In quell’istante insanguinato velo,
Che degli amati suoi germani il sangue
Bevve, e comanda a lei che se ne asciughi
Gli occhi bagnati in pianto. E se non basta
Questo tuo dono, e di te degno dono,
A far che t’ami, ancor le scrivi; tutte

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Le glorie tue a lei racconta, e dille
Che svenasti i suoi zii, i suoi congiunti
Tutti, per amor suo... etc.


In Romeo e Giulietta nella scena quarta del quint’atto, alla sua sposa, che morta crede nella tomba, e prima di bere il veleno, cosí parla Romeo:

«Oh amor mio! oh mia sposa! La morte, che ha succhiato il mele de’ tuoi fiati, non ha ancora acquistato potere sulla tua bellezza; no, ancora non sei vinta dalla morte; ancora l’insegna della beltá spiega le sue porpore sulle tue guance e sulle tue labbra, e la pallida bandiera della morte fin lá ancora non s’inoltra... Ah cara Giulietta! perché sei ancora cosí bella?... Io voglio sempre rimaner teco, e non partir mai da questo nero albergo. Quí, fermar voglio il mio sempiterno riposo, e scuotere il giogo delle avverse stelle, che son stanco di soffrire. Occhi miei, saziate i vostri ultimi sguardi; prendete, o mie braccia, i vostri amplessi estremi; e voi, mie labbra, voi porte della vita, con un pudico bacio sigillate il mio eterno contratto colla morte.»

Questo spirito tragico di Shakspeare, signor Conte degnissimo, se in lei è passato, come io penso, si è molto migliorato; profittando delle sue piú estese cognizioni, e di quelle del secolo in cui viviamo. Cosí troviamo in lei quello, che allora mancò al poeta inglese, per moderare la sua sregolata fantasia, e ristringerla fra’ limiti del verisimile e del decente, e produrre in tal guisa perfette e ammirabili tragedie.

Non mi rimane, che a parlarle dello stile poetico delle medesime. Ho giá detto che lo stile è il colorito della poesia; lo è dunque della poesia tragica. Ha essa ancora le sue bellezze poetiche, il suo fuoco poetico: dello scrittore di tragedie abbiamo da poter dire in certi luoghi, in alcune situazioni:

Fervet, immensusque ruit:

anche al suo stile deve potersi dare l’epiteto d’immaginoso5, d’impetuoso, di sonoro, di florido:

Monte decurrens velut amnis,

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Questo stile fluido ancora, melodioso, concatenato, deve far perdonare a chi scrive in versi sciolti la mancanza della rima, che non è piccola mancanza nella nostra moderna poesia; poichè sembra che senza rima i nostri idiomi non possano esser poetici. Ho ammirato questo stile in molti passi delle sue tragedie, alcuni de’ quali ho sopra indicati; ma confesso, con ingenua amicizia, che generalmente, per quello che mi pare, ella lo ha negletto. Ha preferito i pensieri, e non si è curato di vagamente vestirli.

Convengo, che Orazio in un luogo ha detto:

Et tragicus plerumque dolet sermone pedestri;

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ma in un altro insegna:

Effutire leves indigna tragedia versus.

Osservo, che da per tutto, e con predilezione, ella adopera il pennello di Michelangelo, e quasi disprezza quello del Correggio e dell’Albano; e qualora l’elegante leggiadria se gli presenta naturalmente sotto la penna, ella la fugge; e preferisce l’espressione forte, ma inceppata, e anche dura Dantesca.

Nel Filippo, per esempio, alla scena seconda, atto secondo, ella scrive:

Basso terror d’infame tradimento
A re, che merti esser tradito, lascia.

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Questa trasposizione del verbo rende alquanto oscuro il senso a prima vista. Non dubito punto, ch’ella vedesse che, con piú chiarezza, e forse con piú eleganza, poteva dire:

Basso terror di tradimento infame
Lascia ad un re, che merti esser tradito.

}Nel Polinice, atto quarto, scena prima, trovo:

Ma il sospettar, natura
Fassi in chi regna, sempre;

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e forse era più chiaro scrivere:

Ma il sospettar diventa
Natura sempre in quel che regna.

Tralascio di citare altri passi, perché meglio di me gli avrá ella rilevati: ma conchiudo, che questa durezza, questa ambiguitá pregiudica talvolta a’ suoi sentimenti nobili, sublimi, e spesso nuovi.

Corneille è certo piú maestoso, piú energico di Racine; ma Racine per l’eleganza del suo dire, il fluido della sua poesia, signoreggia sempre sulla scena. Apostolo Zeno è piú teatrale, piú grave, piú pensieroso, piú vario di Metastasio; ma regna Metastasio, e Apostolo Zeno è escluso affatto dal teatro: prova evidente di quanto possa la dolcezza, la melodia, la vaghezza dello stile.

Si contempla con ammirazione dai professori il quadro del Giudizio di Michelangelo: se ne ricavano, e scorci, e positure, e atteggiamenti, e delineamenti, per studio; ma i quadri di Rubens, di Tiziano, del Correggio, di Guido, incantano e pittori, e dilettanti, e ignoranti, e intelligenti.

Questo suo stile, ella ha voluto con sommo impegno formarselo su i nostri antichi modelli. Dante piú d’ogni altro l’ha sedotto: lo ha egregiamente imitato. Ma gli uomini ai quali devono recitarsi le sue ammirabili tragedie, non sono quelli del secolo di Dante. La nostra lingua allora balbettava bambina; ora eloquentemente, maestosamente, e leggiadramente si spiega nella sua virilitá. Par forse a lei, che se Dante ai dí nostri vivesse, scriverebbe come scrisse allora:

Or mentre io gli cantava cotai note,
O coscienza, o dolor che il mordesse,
Forte springava con ambo le piote;

e cento altre stranezze somiglianti? no, sicuramente. Nutrirsi de’ grandiosi sentimenti di Dante, imitarne le forti immagini, le nervose espressioni, è certo degno di lode: ma son di parere, che trasportarle a noi convenga nell’odierno nostro piú culto, piú fluido linguaggio. Chi adopra adesso que’ suoi fiorentinismi, quella sua grammatica? niuno al certo. E colui, che

Quaedam nimis antique... pleraque dure
Dicere credit eum, ignave multa fatetur,
Et sapit, et mecum facit, et Jove judicat aequo.

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Generalmente il tralasciar l’articolo, come:

Patria apprender cos’è...

e:

Mie angoscie...

e:

il dubitar di quanto re ti afferma;

rende scabroso il verso.

Il metter sovente un io superfluo, o il contrarlo per vezzo, come:

Né a me tu aprirlo
Dovevi mai, né posso io udir...

e:

In petto i’ mi sent’io.

lo rende duro.

Il dire:

Del re non temi:

invece di:

Non temere del re;

e:

Né tu men chiedi
Ragione;

in luogo di:

Non me ne chieder ragione;

e poi le frasi troppo complicate, come:

Arbitro tu mi danna
A qual piú vuoi castigo...
Oh trista
Deplorabil dei re sorte!

e ancora l’aggiungere un si non necessario, come:

Reo non s’è fors’egli?

e il dire: Ti hai per hai,

come: La mia t'hai tu;
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e tali altre antiche disusate eleganze, spargono ambiguitá ed equivoci; e obbligano chi recita, e chi legge ad alta voce, a contrar le labbra per declamare il verso.

Ora tutte queste forme di dire, da lei, amico stimatissimo, adottate, e che sfuggir si potevano con sí picciola fatica nelle sue tragedie, son io di opinione che fanno torto a tante loro perfezioni; e vorrei pur esser da tanto per persuaderla di levarle via.

A buon conto, né l’Ariosto, né il Tasso (e che rispettabili nomi son questi!), né il Guarini, né il Redi, né il Filicaja, né il Guidi, né il Chiabrera, né il Testi, né il Marini, né tanti altri celebri poeti scrissero cosí; ed io (confesso il mio peccato) preferisco in loro compagnia lo sfuggire queste affettazioni dei tempi de’ Guelfi e de’ Ghibellini, all’imitarle sotto la bandiera del divino Dante, che fu divino certo allora: ma, mi dica ingenuamente, lo sarebbe egli adesso? Questione a parer mio giá risoluta. In ogni caso, quando un sí gran poeta ai giorni nostri rinascesse, se ottenesse il titolo di divino per la sua poesia, non lo otterrebbe al certo per la sua lingua.

Ma di questa mia amichevole osservazione sopra lo stile delle sue tragedie, come di alcune altre che giá ne feci su la loro condotta, m’avveggo che ne ha giá fatta la scusa Orazio. Dove tanto abbondano le perfezioni e le bellezze, le piccole macchie (se tali veramente sono) non scemano il pregio. Sono nei (se si vuol cosí), ma nei sparsi in membra divinamente disegnate.

Finisco, signor Conte degnissimo, con due versi dell’istesso Orazio:

Si quid novisti rectius istis,
Candidus imperti; si non, his utere mecum.

La mia somma stima per lei resta troppo provata in questo scritto, per rinnovargliene quí le proteste, onde mi ristringo a dichiararmi suo.

Napoli, 20 Agosto 1783.

Ranieri de’ Calsabigi.



Note

  1. Nel Mitridate, deplorando questo re la passione che sente per Monima, che sospetta innamorata del suo diletto figlio Zifares, si lagna in tal guisa:

    J’ai su, par une longue et pénible industrie,
    Des plus mortels vénins prévenir la furie:
    Ah! qu’il eût mieux valu, plus sage ou plus heureux,
    Et repoussant les traits d’un amour dangereux,
    Ne pas laisser remplir d’ardeurs empoisonnées
    Un coeur déja glacé par le froid des années.

    Questi versi sono citati da Voltaire con nazionale compiacimento, e spacciati come degni di servir di modello. Avrebbe egli però dovuto dirci che cosa siano questi ardori avvelenati. Forse quelli della veste di Deianira a Ercole, o di Medea a Creusa? Avrebbe dovuto discolpare il concetto che tanto è osservabile negli ultimi due versi, ne’ quali con un giochetto di parole scherza il poeta fra questi avvelenati ardori, e il core agghiacciato dal freddo degli anni. Una tal freddura li degrada, a mio credere. Se si unisca all’altra di quel citato verso di Pirro nell’Andromaca:

    Brûlé de plus de feux que je n’en allumai;

    ed a qualche altra ancora che trovar potrei in Racine; pare, che avrebbe dovuto trattenere i Francesi dall’imputare con tanto disprezzo il difetto dei concetti al Tasso nostro, e di chiamare clinquant la sua poesia immortale, in parola del niente pittor-poeta Boileau. Sfido chiunque di trovare due freddure più solenni di queste in tutta la Gerusalemme liberata.
    Se questa moderazione avessero avuta i Francesi (come a vero dire l’ebbe spesso il sublime Voltaire) non si meriterebbero quel rimprovero Oraziano:

    Cum tua pervideas oculis mala lippus inunctis,
    Cur in amicorum vitiis tam cernis acutum?

    Questi piccoli difetti punto non scemano la mia somma ammirazione per il gran Racine. Ma qualora s’abbiano a citare de’ versi di qualche poeta, convien farlo con avvedutezza, per non esporsi a riprensione. Io di Racine appunto voglio qui citarne alcuni, che sorpassano quanto di più poetico, di più pittoresco, di più animato si trova in tutti i tragici antichi e moderni. Tali sono quelli che pronunzia Clitennestra nel momento che crede sacrificarsi la figlia: scena IV, atto V, dell’Ifigenia.

    Quoi! pour noyer les Grecs et leurs mille vaisseaux,
    Mer, tu n’ouvriras pas des abîmes nouveaux?
    Quoi! lorsque les chassant du port qui les recele
    L’Aulide aura vomi leur flotte criminelle,
    Les vents, les mêmes vents, si longtemps accusés.
    Ne te couvriront pas de ses vaisseaux brisés?
    Et toi, Soleil, et toi, qui dans cette contrée
    Reconnois l’héritier et le vrai fils d’Atrée,
    Toi qui n’osas du pere éclairer le festin,
    Recule, ils t’ont appris ce funeste chemin!
    Mais cependant, ô ciel! ô mère infortunée!
    De festons odieux ma fille couronnée
    Tend la gorge aux couteaux par son pere apprêtés!
    Calchas va dans son sang... Barbares, arrêtez!
    C’est le pur sang du Dieu qui lance le tonnerre...
    J’entends gronder la foudre, et sens trembler la terre;
    Un Dieu vengeur, un Dieu fait retentir ses coups.

    Oh divino entusiasmo! oh modello d’eloquenza incomparabile per ogni secolo, per ogni nazione! oh impeto tragico inimitabile! Son giusto, ma dovrebbe essere a noi resa egual giustizia dagli scrittori francesi.

  2. Sei sono i quadri da me immaginati: in pittura possono a piacere moltiplicarsi le situazioni. Non è sottoposto il pittore all’unitá del tempo: può vagare quanto gli aggrada. La sua opera, è in sua libertá di chiamarla tragedia, se restringe a cinque quadri la storia o favola che a dipingere si accinse: la chiamerá poema, se un maggior numero dalla fantasia glie ne viene somministrato.
  3. Si osservi che Mitridate mette in campo, parlando della sua passione a Monima, e l’etá sua cadente, e le sue disgrazie, per provarle quanto ei l’ama: e poi torna a parlarne, e le adduce per i ragionevoli motivi che lo obbligano a cederla al figlio. Questo solo poteva bastare alla donzella per metterla in diffidenza.
  4. Questa invettiva contro il carattere e la dignitá reale, con infinito accorgimento e giudizio è posta qui in bocca di Giocasta, per disgustarne il figlio, e terminar le gare fraterne; ed è uno de’ passi piú sublimi che s’incontrino nella tragedia. Come dunque poté essa, con sí poca accortezza, e niuna riflessione, o troppa ma ignorante, malignità essere ripresa?

    Demetri, teque, Tigelli,
    Discipularum inter jubeo plorare cathedras.

  5. Lo stile ch’io chiamo immaginoso, è quello in cui la maggior parte delle parole dipingono una qualche immagine alla mente del lettore. Virgilio piú d’ogni altro poeta possiede questo stile pittoresco. Riporterò dunque in maggior numero degli esempj tolti da lui:

    Triumque imbelle sine ictu
    Conjecit, rauco quod protinus aere repulsum
    Extremo clypei nequiquam umbone pependit...

    Validis ingentem viribus hastam
    In latus inque feri curvam compagibus alvum
    Contorsit. Stetit illa tremens, uteroque recusso
    Insonuere cavae gemitumque dedere cavernae...

    Ponto nox incubat atra:
    Intonuere poli, crebris micat ignibus aether...
    Insequitur cumulo praeruptus aquae mons...

    Furor impius intus
    Saeva sedens super arma, et centum vinctus ahenis
    Post tergum nodis, fremit horridus ore cruento..

    Ter sese attollens cubitoque adnixa levavit,
    Ter revoluta toro est, oculisque errantibus, alto
    Quaesivit coelo lucem, ingemuitque reperta...

    Obstupui, steteruntque comae, et vox faucibus haesit...

    Sibila lambebant linguis vibrantibus ora...

    Ecco degli esempj di questo stile colorito presi da Orazio:

    Jam fulgor armorum fugaces
    Terret equos, equitumque vultus...

    Hinc tibi copia
    Manabit ad plenum benigno
    Ruris honorum opulenta cornu...

    Obliquo laborat
    Lympa fugax trepidare rivo...
    Scimus ut impios
    Titanas, immanemque turmam,


    Fulmine sustulerit caduco,
    Qui terram inertem, qui mare temperat
    Ventosum, et umbras regnaque tristia.


    Eccone del Tasso:

    Sebben l’elmo percosso, in suon di squilla
    Rimbomba terribilmente, arde, e sfavilla...

    In gran tempesta di pensieri ondeggia...

    Treman le spaziose atre caverne,
    E l’aer cieco a quel rumor rimbomba.

    E dell’Ariosto:

    E nella face de’ begli occhi accende
    L’aurato strale, e nel ruscello ammorza,
    Che tra vermigli e bianchi fiori scende...

    Se non vedea la lagrima distinta
    Tra fresche rose e candidi ligustri
    Far rugiadose le crudette pome;
    E l’aura sventolar l’aurate chiome...

    Sta sulla porta il re d’Algier, lucente
    Di chiaro acciar, che il capo gli arma e il busto,
    Come uscito di tenebre serpente... etc...

    E del Camoens. (Si facciano giusti elogj, a tutte le nazioni).

    Debaixo dos pes duros dos ardentes
    Cavallos, treme a terra os valles sonaô...

    Ar mays, que o som terrivel escutaraô,
    Aos petos os filhinhos appettaraô...

    E parlando di suono di trombe:

    Pellas concavidades retumbando...
    Os ventos blandamente respiravaon


    Das naos as vellas concavas inchando...

    Subitas trovoadas temerosas,
    Relampagos que o ar em fogo acendem,
    Negros chuveiros, noites tenebrosas,
    Bramidos de trovoens, que o mundo fendem.

    E per la tragedia, eccone alcuni esempj da Seneca:

    Mihi gelidus horror ac tremor somnum excutit;
    Oculosque nunc huc pavida, nunc illue ferens,
    Oblita nati, miserum quaesivi Hectorem:
    Fallax per ipsos umbra complexus abit...

    En alta muri decora congesti iacent
    Tectis adustis, regiam flammae ambiunt...

    Diripitur ardens Troja, nec coelum patet
    Undante fumo: nube ceu densa obsitus,
    Ater favilla squallet Iliaca dies.

    Tanti esempj ho creduto dover trascrivere, affinché piú sensibile si renda questo immaginoso nell’espressione poetica, il quale dipinge narrando e cagiona negli alunni delle muse un infiammato desiderio d’imitazione. Questo stile presenta continuamente alla fantasia oggetti nuovi, e pellegrine bellezze, e mette in bocca ai personaggi introdotti l’eloquenza propria all’esser loro, al loro carattere, alle loro passioni.
    Senza questo stile, la tragedia, come ogni altro poema, riesce languida, e per cosí dire, dilavata: sia pure ben disegnata, tratteggiata, disposta; ella non apparisce che un puro disegno, che, per quanto eccellentemente ed esattamente delineato sia, mancando dell’attrattiva del colorito, non produrrá mai l’ammirazione, il piacere, l’incanto d’un quadro di Tiziano o di Paolo Veronese.
    I versi di una tal tragedia, benché eleganti e pensierosi, non saranno che una prosa congegnata in linea di undici sillabe. Non potranno mai destare negli animi il trasporto, il rapimento che vi desta la colorita immaginosa poesia: e la tragedia in prosa è un meschino ritrovato del nostro povero secolo.
    Ma i giovani poeti avvertano di non profonder troppo nella tragedia questo stile pittoresco, per non cadere nell’ampolloso. L’economia che ne raccomando non è facile a praticarsi: si tratta di comprimer l’ingegno, di far forza all’amor proprio; né si può accennare dove e quando adoprare si deve. Al solo discernimento del gran poeta è riservata questa cognizione.