Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro I
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STORIA
DEL REAME
DI NAPOLI.
LIBRO PRIMO.
REGNO DI CARLO BORBONE.
anno 1734 a 1759.
CAPO PRIMO.
Introduzione al regno di Carlo Borbone.
I. Il fiume Tronto, il Liri, il piccolo fiume di San Magno presso Portella, i monti Appennini dove nascono le fonti di que’ fiumi, i liti del Mediterraneo, correndo i tre mari Tirreno, Ionio, Adriatico, dallo sbocco del lago di Fondi alla foce del Tronto, confinano le terre che nell’xi secolo ubbidivano all'impero greco ed alle signorie longobarde di Capua, di Salerno e di Benevento. Tanti separati dominii, la virtù del Normanno Roberto Guiscardo tramandò al nipote Ruggiero, già fattosi re della Sicilia, da lui conquistata sopra i Saraceni ed i Greci (1130). Passò il regno a Guglielmo il Malo, a Guglielmo il Buono, a Tancredi, e fugacemente a Guglielmo III. Quando il secondo Guglielmo perdè speranza di figli, maritò la principessa Costanza (sola che restava del sangue di Ruggiero) all’imperatore Enrico della casa sveva; il quale succedè, morto Tancredì, nella corona della Sicilia e della Puglia.
Così dalla stirpe normanna, chiara per virtù guerriere, andò il regno l’anno 1189 negli Svevi. Ad Enrico succedè Federigo II gran re. ed a lui brevemente Corrado suo figlio, e poi Manfredi altro figlio ma d’illegittimo congiungimento. I pontefici di Roma, che pretendevano all’imperio del mondo e vieppiù a quello delle Sicilie, dopo aver travagliata la casa normanna volsero le armi sacre e le guerriere contro la sveva. Sempre perdenti benchè combattessero in età d’ignoranza, ma incapaci per la stessa ignoranza de tempi ad essere oppressi e disfatti, risorgevano dopo le perdite più adirati nemici.
Clemente IV papa nell’anno 1265, poi che tre papi che lo precedettero avevano tentata vanamente l’ambizione di Enrico III re d’Inghilterra, instigò contro Manfredi il fratello di Luigi re di Francia, Carlo di Angiò, famoso in armi; che, vieppiù spinto dalle irrequiete brame della moglie, venne con esercito all’impresa. Coronato in Roma re delle Sicilie (1266), passò nel regno e combattè Manfredi accampato presso Benevento. La virtù dello Svevo non bastò contro la fortuna del Franco e l’infame tradimento de’ Pugliesi: morì Manfredi nella battaglia. Carlo stava contento sul trono, quando Corradino figlio di Corrado venne a combatterlo (1268). Il giovinetto, vinte in Italia le città guelfe, vincitore in Tagliacozzo dove gli eserciti si affrontarono, godevasi nel campo le gioje della vittoria e le speranze dell’avvenire, allor che il re gli spinse contro fresca legione tenuta in serbo; così che Corradino disfatto, fuggitivo, e poi tradito, fu prigioniero del felice Carlo: e un anno appresso, per crudeltà di quel re o spietati consigli del pontefice, ebbe (quell’ultimo figlio della casa sveva) troncato il capo. La stirpe degli Angioini si stabilì nel regno delle Sicilie.
Ella diede sei re, due regine; dominarono 175 anni tra guerre esteriori ed interne. Per opera di quei re angioini furono morti Manfredi e Corradino re svevi; poi Andrea e Giovanna Prima della propria stirpe: l’altro re Carlo da Durazzo, sorpreso negl’inganni che ordiva alle due regine di Ungheria, fu ucciso: Ladislao morì di veleni oscenamente prestati. A tempi loro per il vespro di Giovan di Procida furono uccisi ottomila Francesi, tiranni della Sicilia: de’ tempi loro fu il parteggiare continuo de’ baroni del regno: per opra loro nato lo scisma della Chiesa, due e tre papi contemporanei divisero le spoglie della sede apostolica e le coscienze de’ popoli cristiani. Ma que’ re, che ne’ penetrali della reggia nascondevano enormi delitti, erano su la scena del trono riverenti alla Chiesa; ergevano ed arricchivano tempii e monasteri, davano dominio ai papi, concedevano privilegi agli ecclesiastici. Carlo I e Ladislao avevano virtù guerriere; aveva Roberto prudenza di regno, questa e quelle oscurate dai vizii del sangue. Gli altri re della stirpe furono flagelli del regno.
Alfonso I di Aragona, dopo che fugò Renato ultimo degli Angioini, stabilì nell’anno 1441 la dominazione degli Aragonesi che finì nel 1501 con la fuga di Federico. Dominarono, in manco di 60 anni, cinque re di quella casa, quattro dei quali, Ferdinando I, Alfonso II, Ferdinando II e Federigo, s’ingomberarono sul trono nel breve spazio di tre anni, anche interrotto il regnare dalle felicità e dal dominio di Carlo VIII. Quella stirpe aragonese superba e crudele, mosse o respinse molte guerre, abbattè le case più nobili e più potenti del regno, impoverì l’erario, suscitò tra’ baroni gli umori di parte. Le quali divisioni ed universale fiacchezza causarono che lo stato da potente regno cadesse a povera provincia di lontano impero. Della quale caduta io toccherò le miserie: ma ritenga frattanto la memoria degli uomini che in poco più di tre secoli e mezzo regnarono quattro case, ventidue re, senza contare i transitorii dominii di Lodovico re d’Ungheria, del papa Innocenzo IV, di Giacomo di Aragona e di Carlo VIII; ritenga che per pochi anni di pace si tollerarono lunghi anni di guerra; che per travagli sì grandi avanzò la civiltà; che in tanti mutamenti fu osservato essere vizio de’ Napoletani la incostanza politica, ossia l’odio continuo del presente, e ’l continuo desiderio di nuovo stato: cagioni ed effetti delle sue miserie.
II. Quando Federigo, ultimo degli Aragonesi, combattuto dal re di Francia, tradito dal re di Spagna suo zio, fuggì d’Ialia, i due re fortunati, nel dividere l’usurpato regno, per luoghitenenti ed eserciti combatterono: Consalvo il gran capitano restò vincitore; il regno intero cadde a Ferdinando il Cattolico, e sotto forma di provincia fu da vicerè governato. Cominciò il governo vicereale che per due secoli e trent’anni afflisse i nostri popoli. Primo de’ vicerè fu lo stesso Consalvo.
Mutarono gli ordini politici. Per magistrato novello, detto consiglio collaterale, gli antichi magistrati decaddero di autorità e di grido, la grandezza de ministri dello stato scemò, gli ufiziali della reggia restarono di solo nome, l’esercito sciolto; l’armata serva dell’armata e del commercio spagnuolo; la finanza esattrice risedeva nel regno, e fuori la dispensiera di danaro e di benefizii. I feudatarii abbassati da che senz’armi, i nobili avviliti nel consorzio di nuovi principi e duchi per titoli comprati. I seguaci di parte angioina, benchè tornati per accordo di pace agli antichi possessi, ricevevano poco e tardi; erano spogliate le parti sveva e aragonese: ghibellini e guelfi al modo stesso travagliati. La superbia di Roma rinvigoriva; tutto andò al peggio.
E così passarono, ora più ora meno infelici, due secoli di servitù provinciale sino a Filippo V e Carlo VI dei quali dirò tra poco. Imperarono in quel tempo sette re della casa di Spagna, da Ferdinando il Cattolico a Carlo II; e travagliarono in vario modo e principi e regno trenta romani pontefici da Alessandro VI a Clemente XI. Si ebbe gran numero di vicerè, de’ quali alcun buono, molti tristi, parecchi pessimi. Il dominio della casa austriaca spagnuola finì per la morte di Carlo II nell’anno 1700; ed în quello ha termine la storia di Pietro Giannone, uomo egregio, molto laudato, e pur maggiore di merito che di fama. Ed io, non che presuma di paragonarmi a quell’alto e sfortunato ingegno, come nemmeno raccomandarmi per simiglianza di sventure, ma solamente per congiungere ai termini di quella istoria i principii della mia fatica, dirò più largamente le cose del vicereale governo dal 1700 al 34, cominciamento al regno di Carlo; desiderandomi lettori già dotti ne’ libri del Giannone, così che mi basti rammentare talvolta de’ vecchi tempi quanto sia necessario alla intelligenza dei fatti che descriverò.
III. Al finire del 1700 Filippo V ascese al trono di Spagna e a’ dominii di quella corona per testamento del morto re Carlo II. Ma contrastando il trono a Filippo l’imperatore Leopoldo, si apprestavano gli eserciti a decidere la gran lite. Il vicerè in Napoli Medinaceli gridò re Filippo V: il popolo vi fu indifferente; i nobili amanti dell’Austria, avversi alla casa di Francia, un figlio della quale, duca di Angiò, era Filippo, si addolorarono. Ma venne a consolarli di speranze la guerra di Lombardia dove gli eserciti imperiali erano più fortunati, e il capitano principe Eugenio riempiva del suo nome e delle sue geste i discorsi d’Italia. Fu quindi spedito all’imperatore Leopoldo don Giuseppe Capece, ambasciatore secreto della nobiltà napoletana, la quale, promettendo levare il popolo, esigeva da Cesare per patti: spedir solleciti ajuti d’armi, mutare lo stato da provincia a regno libero, dargli re, Carlo arciduca. Mantenere i privilegi acconsentiti da passati príncipi, fondare un senato di cittadini consigliero negli affari di regno, sostenere le antiche ragioni della nobiltà, concedere nuovi titoli e terre a’ congiurati. E ciò concordato, tornò in Napoli a riferire quelle pratiche, e ad ordire la non facile impresa.
IV. Vennero nel tempo stesso, fingendo cagioni oneste, don Girolamo Capece e ’l signor Sassinet da Roma; don Iacopo Gambacorta principe di Macchia da Barcellona; il Capece colonnello nelle milizie di Cesare, il Sassinet segretario dell’ambasciata imperiale presso il papa, il Gambacorta giovine pronto, loquace, povero, ambizioso, con le qualità più eminenti di congiurato, per lo che fu capo e diede alla congiura il suo nome di Macchia (1701). Era il mezzo di settembre quando, computate le opere e i tempi, si prefisse primo giorno della impresa il dì 6 di ottobre. Uccidere il vicerè, occupare i castelli della città gridar re il principe Carlo figlio dell’imperatore Leopoldo. opprimere le poche spensierate milizie spagnuole, reggere lo stato sino all’arrivo dei promessi da Cesare soccorsi d’armi, furono i disegni della congiura. I congiurati (quasi tutta la nobiltà del regno) divisero le cure e i pericoli della impresa.
Ma nuovi avvenimenti ruppero le dimore, Lettere del cardinal Grimani ambasciatore di Cesare a Roma, scritte ad un congiurato, e per avviso del duca di Uzeda, ivi ministro di Filippo V. intercette dal vicerè, gli rilevarono esservi congiura, lasciandone oscure le fila e lo stato. Perciò di ogni cosa sospettoso vegliava l’interno della casa, mutava le usanze di vita, radunava le sue poche milizie, spargeva esploratori tra’ nobili e nel popolo: compose e concitò la giunta degl’inconfidenti a punire, fece imprigionare il padre Vigliena teatino, fuggì il padre Torres gesuita, trepidavano d’ambe le parti i ministri del governo e i congiurati.
Questi alfine, o confidenti nella propria potenza, o sforzati dalle male venture a precipitare le mosse. levaronsi a tumulto il 23 di settembre. Non poterono uccidere il vicerè (morte concertata col cocchiere di lui e due schiavi) perchè quegli non uscì come soleva in carrozza: investirono il Castelnuovo e lo trovarono chiuso e guardato: le prime speranze della congiura fallarono. Ma dopo quelle mosse irrevocabili, trascinati dalle necessità del presente, confidando nella immensa forza di popolo sfrenato, andarono con bandiera di Cesare gridando il nuovo re, accrescendo il tumulto, atterrando le immagini di Filippo, ergendo quelle di Carlo, arringando la plebe nelle piazze, promettendo abbondanza e, secondo gli usi dispotici del tempo, impunità, favori e privilegi. Ne’ quali moti que’ nobili congiurati, per accrescersi potenza o per giovanile superbia, si chiamavano de’ nuovi titoli di principi e duchi patteggiati con Cesare.
Il dottore, Saverio Pansuti, altiero, dotto, facondo, congiurato e nella congiura eletto del popolo, salito sopra poggiuolo della piazza del mercato, popolosa e facile alle novità, chiamò col cenno le genti ad ascoltarlo: disse ch’egli era il nuovo Eletto, rammentò i mali del governo di Spagna, ingrandiva le speranze dell’impero di Cesare, magnificava le forze della congiura, prometteva doni e mercedi, pregava il popolo si unisse a’ nobili. Finita l’aringa, un uomo tra quelle genti, canuto di vecchiezza e plebeo, con voce alta parlò in questi sensi.
“Voi, Eletto, e voi, popolo, ascoltate. Sono molti anni che il mal governo spagnuolo fu da noi scosso, movendoci Masaniello popolano, Stettero i nobili o contra noi o in disparte, e spesso vennero ad aringare (come ora il nuovo Eletto) per ricondurci alla servitù, chiamandola quiete. Io, giovinetto, seguitai le parti del popolo, vidi le fraudi de’ signori, le tradigioni del governo, le morti date a miei parenti ed amici. Io vecchio ora che parlo, e assennato dal tempo, credo che in questa congiura di nobili debba il popolo abbandonarli. come nella congiura di Masaniello fu da nobili abbandonato. Udite già gli assunti nomi di principe di Piombino, principe di Salerno, conte dî Nola; e aspettatevi tanti altri ancora ignoti, ma che tutti sarebbero sopra noi nuovi tiranni. Io mi parto da questo luogo: mi seguirà chi presta fede ai miei detti.” Restò vuota la piazza: il primo oratore tornò confuso.
Ma pure molti della più bassa plebe e del contado, non per amore di fazione ma per avidità di guadagni, rinforzarono i congiurati; e nel tumulto andavano spogliando le case, ed necidendo alla cieca uomini d’ogni parte: alle quali opere malvage, parecchi uomini della nobiltà, cospiratori ancor essi, o aderenti ma non palesi, ripararonsi ai castelli da milizie spagnuole guardati; altri fuggirono la sconvolta città, altri munirono le case di sbarre e armigeri. Scemavano la potenza della impresa le sfrenatezze della plebe e l’avvedimento de’ grandi: tal che il principe di Macchia per editto minacciò pena di morte così a’ predoni quanto a coloro tra’ nobili che indugiassero oltre un giorno ad ajutare le parti del re Carlo. L’editto disperante agli uni, estremo agli altri, nocque in doppio modo alla congiura.
Così che il vicerè, vedendo freddo il popolo, i nobili divisi, i congiurati pochi e ormai timidi, fece sbarcare nel terzo dì le ciurme delle galere spagnuole ancorate nel porto; e formate a schiera con le milizie, le spinse dal Castelnuovo contro i ribelli accampati dietro certe sbarre in alcuni posti della città: mentre i castelli, ad offendere e spaventare, facevano romore continuo di artiglieria. La torre di Santa Chiara, occupata dai congiurati per innalzarvi la bandiera d’Austria, spiare dall’alto nella città, e sonare a doppio le campane, fu subito espugnata; gli aliri posti assaltati e presi. Si dispersero i difensori: il Macchia ed altri fuggirono; Sassinet e Sangro furono prigioni: abbassata e vilipesa la bandiera di Carlo, si rialzarono le immagini e le insegne di Filippo. Nulla rimase della tentata ribellione, fuorchè la memoria, ii danno e i soprastanti pericoli.
Di fatti, richiamato il Medinaceli, venne da Sicilia vicerè il duca di Ascalona. A don Carlo di Sangro, colonnello di Cesare, fu mozzato il capo nella piazza del Castelnuovo; altri congiurati finirono della stessa morte; altri spietatamente uccisi nelle carceri. Sassinet, però che segretario di ambasciata, fu mandato in Francia prigione: molti languivano nelle catene, i beni di tutti furono incamerati, crebbero i rigori, le pene, i supplizii per tutte le colpe sopra tutte le classi de’ cittadini. Al quale spettacolo e terrore il popolo si sdegnò del governo, e sentì pentimento d’essere mancato alla congiura de’ nobili, come suole agli nomini: fallire e pentirsi.
V. (1702) Saputa dal re Filippo quello congiura, misurata la mole de corsi pericoli, incerte ancora le guerre d’Ttalia e di Spagna,
è volle per liberalità e clemenza calmare gli odii della ribellione e de’ castighi. Imbarcato perciò a Barcellona, venne in Napoli nel giugno del 1702, e fu ricevuto con le festevoli accoglienze che usano le genti oppresse a coloro in cui sperano. Il popolo non ottenne quel che più bramava, ritenere il suo re, da maggiori destini chiamato nelle Spagne; ma conseguì la larga mercede alle amorevoli dimostrazioni, però che il re abolì molle taglie, donò molti milioni di ducati dovuti al fisco, rimise le passate colpe di maestà, diede titoli a’ nobili di sua parte, sempre mostrandosi co’ soggetti benigno e piacevole. Si assembrarono il clero, i baroni, gli eletti per decretare, in segno di universale gratitudine, un dono al re di trecento mila ducati, e lo innalzamento della sua statua equestre in bronzo nella piazza maggiore della città. Ma i progressi dell’esercito d’Austria in Lombardia obbligarono Filippo, dopo due mesi di gradevole soggiorno, a partire di Napoli per pigliare il freno degli eserciti gallispani che fronteggiavano il fortunato Eugenio di Savoja. Lasciò vicerè lo stesso Ascalona.
VI. Nell’anno 1705, trapassò l’imperalore Leopoldo, e gli suecesse Giuseppe, suo primo figlio. Non perciò rallentarono i furori della doppia guerra in Alemagna e in Italia: sì che l’Ascalona spediva soldati, navi, e denaro in ajuto di Spagna; straziando per leve d’uomini e di tributi gli afflitti popoli. L’amore per Filippo dechinava, e n’era cagione l’acerbità de’ suoi ministri. Così stando le cose nel 1707, il principe Eugenio, disfatti nella Lombardia gli eserciti gallispani, spedì sopra Napoli, per le vie di Tivoli e Palestrina, cinque mila fanti e tre mila cavalieri tedeschi sotto l’impero del conte Daun. Il vicerè Ascalona, scarso di proprie forze, concitò i regnicoli che trovò, per avversione alla guerra e per tendenza alle novità di governo, schivi all’invito. Solamente il principe di Castiglione, don Tommaso d’Aquino, e ’l duca di Bisaccia, don Niccolò Pignatelli, con poche migliaja di armati, accamparono dietro al Garigliano, ed all'avanzarsi del Daun, tornarono in Napoli. Capua ed Aversa si diedero al vincitore; il duca di Ascalona riparò a Gaeta. L’avanguardo tedesco, retto dal conte di Martinitz, nominato da Cesare vicerè di Napoli, era in punto di marciare ostilmente; quando legati di pace gli andarono incontro a presentare le chiavi della città, non vinta, ma vogliosa del nuovo impero. L’ingresso delle schiere cesaree fu trionfale; il popolo alzò voci di plauso al vincitore, e furioso, qual suole nelle allegrezze, atterrata la statua poco innanzi eretta di Filippo V, rotta in pezzi, la gettò nel mare. Pochi giorni appresso cederono i tre castelli della città; il presidio di Castelnuovo, ufiziali e soldati spagnuoli e napoletani, passò agli stipendii del nuovo principe, non vergognando della incostanza.
Il principe di Castiglione, o non ancora sentisse morte le speranze, o (che più l’onora) si conservasse fedele alle sventure della sua bandiera, con mille cavalli riparavasi nelle Puglie; ma trovato munito dal nemico il passo di Avellino, deviò per Salerno. Più numerosa cavalleria tedesca lo inseguiva; le sue genti lo abbandonavano; con pochi resti de’ mille fu prigione. Potendo quegli esempii su tutto il regno, si arresero al general Veizeel gli Abruzzi, che il duca d’Atri vanamente incitava alla guerra, ed indi a poco la fortezza di Pescara; la sola Gaeta, rinforzata delle galere del duca di Tursi, faceva mostra di resistere lungamente.
Stretta di assedio che il conte Daun dirigeva, e aperta, non finito il settembre, una breccia, gli assalitori vi montavano, e gli assediati andavano fuggendo in mal ordine dietro un argine alzato giorni innanzi per compenso de’ rotti muri: la debilità del luogo, la paura de’ difensori, l’impeto degli assalti, la fortuna portando i Tedeschi oltre la fossa e la trinciera, entrarono nella costernata città e vi fecero stragi e rapine. L’Ascalona e pochi altri riparati nella piccola torre di Orlando, la cederono il dì seguente per solo patto di vita, e vennero in Napoli prigioni: erano, tra i più chiari, oltre il vicerè, il duca di Bisaccia e ’l principe di Cellamare, uomini poco innanzi autorevoli e primi nel regno, valorosi nelle battaglie, nobilissimi di sangue. favoriti sempre dalla fortuna; oggi avviliti e prigioni di barbaro straniero. La plebe, dietro quella misera truppa di cattivi, offendeva l’Ascalona rammentando le esercitate crudeltà nella congiura di Macchia; e più spietata e codarda volgeva le ingiurie a’ due nobili napoletani che soli o tra pochi mantennero nelle sventure la giurata fede a Filippo. 11 dominio di Cesare si stabili nel regno; e chiamato in Germania il conte di Marlinitz, restò vicerè il conte Daun.
VII. Subito attese a ricuperare le fortezze (dette Presidii) della Toscana. che soldati spagnuoli guardavano. Al general Vetzeel, colà spedito con buona schiera, si renderono Santo Stefano ed Orbitello: indi per più gravi travagli di guerra, Porto Longone; e finalmente, nel 1712, Portercole. Chiamato il Daun a guerreggiare in Lombardia, gli succede ne! viceregno il cardinale Vincenzo Grimani veneto.
Era finita per Napoli la guerra; ma la occupazione di Comacchio da’ soldati cesarei, la intimazione di Cesare al duca parmigiano di tenersi feudatario non più del papa, ma dell’impero, e infine il divieto al regno di pagare le tasse consuete al pontefice, mossero Clemente XI ad assoldare venti mila uomini d’arme sotto il conte Ferdinando Marsili, bolognese, ed accamparli nelle terre di Bologna, Ferrara e Comacchio. Ciò visto, il Daun partivasi dalla Lombardia verso quella schiera, ed in Napoli si adunavano altre forze contro Roma. L’imperatore Giuseppe non voleva contese col papa, ma intendeva per quegli atti di guerra forzarlo a riconoscere sovrano di Spagna Carlo, suo fratello. Perciò il Daun, procedendo contro que’ campi, proponeva accordi al pontefice, il quale, alle risposte audace e saldo, mostrava confidare nella guerra. Strano perciò vedere un felice capo di eserciti invocar la pace, ed un papa le armi.
Alle ostinate ripulse procedendo le genti tedesche, presero con poca guerra Bondeno e Cento, circondarono Ferrara e Forte-Urbano; e, imprigionata parte delle milizie papali; fugati i resti, stanziarono ad Imola e Faenza. Clemente, solto quelle sventure, è alle peggiori che minacciava l’esercito mosso da Napoli, piegò lo sdegno e, non più pregato, pregando accordi, accettò patti e pubblici e secreti, per i quali tutte le voglie del vincitore si appagavano. Fu vera pace negli atti scritti e nella mente degli uomini, ma tregua e inganno nell’animo del pontefice; il quale aspettava opportunità di rompere quegli accordi, che, non ratificati dalla coscienza, parevano a lui leggi di forza, durabili quanto la necessità.
VIII. Morto in Napoli, nel 1710, il cardinal Grimani, venne vicerè il conte Carlo Borromeo, milanese. E nel seguente anno trapassò l’imperatore Giuseppe, al quale succedè Carlo, fratello di lui, terzo di quel nome nelle contrastate Spagne, quarto nella Germania e nel reame di Napoli. Durò altri due anni la guerra che fu detta di successione, ma dipoi la pace di Utrecht venne a rallegrare le travagliate genti (1713). Ciò che importò di quegli accordi alla nostra istoria fu il mantenimento del regno di Napoli a Carlo V, e la cessione del regno della Sicilia al duca di Savoja, Vittorio Amedeo. E pure importa sapere, per i futuri destini di questi due regni, che la corona delle Spagne si fermò in Filippo V.
Poco appresso alla pace di Utrecht, il re Vittorio andò a Palermo per entrare al possesso del regno, e godere gli omaggi e ’l nome nuovo di re. Giunto nell’ottobre, e lietamente accolto da’ popoli, ebbe il dominio del regno dal marchese de Los Balbases, vicerè per Filippo V: e coronati con la moglie nel seguente dicembre, tornarono in Piemonte, lasciando l’isola, presidiata e obbediente, a governo del vicerè Annibale Maffei mirandolese.
Ma nella pace di Utrecht non essendo chiamato l’imperatore Carlo VI (così che in tutto l’anno 1713 durò la guerra in Spagna, in Italia, nelle Fiandre) abbisognò nuova pace che si fermò in Rastadt l’anno 1714; per la quale l’imperatore teneva la Fiandra, lo stato di Milano, la Sardegna, il regno di Napoli e i Presidii della Toscana. Il conte Daun ritornò in Napoli vicerè. Pareva stabile quella quiete, però che le ambizioni de’ re potenti erano soddisfatte, quelle de’ deboli principi disperate: quando tre anni appresso, nel 1717, senza motivo di guerra, senza cartello, senza contrasto, poderosa armata spagnuola occupò la Sardegna. Dopo la universale maraviglia si apprestavano armi muove in Germania ed in Francia; ma lo stesso naviglio di Spagna, improvvisamente assaltando la Sicilia, prese Palermo, fugatone il vicerè di Amedeo; espugnò Catania, bloccò Messina, Trapani, Melazzo. Reggeva tanta guerra il marchese di Leede, nato Fiammingo, generale di Filippo V.
Si collegarono in Londra nel 1718, contro la Spagna, infida e ingorda di reami, l’Impero, il Piemonte, la Francia e la Inghilterra; e per patti, allora secreti, assalirono gli eserciti e le armate spagnuole in varie parti. Molte navi inglesi con soldati di Cesare ancorarono nel porto di Messina; oltre dieci migliaja di Napoletani e Tedeschi accamparono a Reggio, intendendo a liberare la cittadella di Messina e ‘l forte di San Salvatore dall’assedio che stringeva l’intrepido Leede. In due battaglie navali ebbe piena vittoria l’ammiraglio inglese Bing su lo spagnuolo Castagnedo; così che molte navi furono prese, altre affondate, poche fugate o disperse. La città di Messina, benchè dagli Spagnuoli posseduta, era investita; i campi spagnuoli minacciati: ma quel Fiammingo, assediato ed assediatore, provvedendo quando alle offese quando al difendersi, espugna le due fortezze, e, innanzi agli occhi del vincitore Bing e de’ campi cesarei, avventuroso innalza sopra quelle rocche la bandiera di Spagna. Lasciata la città ben munita, corre all’assedio di Melazzo.
(1720) Altre armate, altre schiere nemiche alla Spagna arrivano in Sicilia: è presa per esse Palermo, liberata Melazzo, ricuperata Messina: i popoli che parteggiavano per il fortunato Leede, oggi, multata sorte, parteggiano per Cesare: tutto va in peggio. Il generale spagnuolo, sospettando le sventure estreme, preparava l’abbandono dell’isola. La Spagna, travagliata in altre guerre, ormai non eguale a’ potentissimi suoi contrarii, accetta per pace i secreti accordi dell’alleanza nemica, e riceve piccolo e futuro premio contro i danni gravi e presenti della guerra. La Sicilia per quella pace fu data a Cesare: il re Amedeo n’ebbe, ricompensa povera, la Sardegna: ebbe Filippo V la successione a’ ducati di Parma, Piacenza e Toscana. I principi ancora viventi di que’ paesi, il papa pretendente al dominio di Parma, e ‘l re Amedeo restarono scontenti di que’ patti: ma in povertà di stato null’altro poterono che lamenti e proteste. Il generale Leede imbarcò per la Spagna le sue genti e cinque cento dell’isola che volontarii si spatriarono; però che rimasti fedeli alla parte spagnuola temevano lo sdegno e la vendetta del vincitore. Misera sorte di chi s’intrigò nelle contese de’ re, e meritata se lo fece non a sostegno di massime civili, ma per ambizione o guadagno.
Le due Sicilie si unirono sotto l’impero di Carlo VI, che nominò vicerè nell’isola il duca di Monteleone, ed in Napoli il conte Gallas dopo il conte Daun richiamato. Morto il Gallas, gli succede il cardinale di Scrotembach. E poichè nell’anno 1721 morì Clemente XI e fu eletto Innocenzo XIII, il nuovo papa, vedendo declinata la fortuna e la potenza di Filippo V, non dubitò di concedere al felice Carlo VI la domandata investitura de’ due regni. A questo Innocenzo nell’anno 1724, Benedetto XIII successe,
IX. In dieci anni, dal 1720 al 30, non avvenne in Napoli cose memorabili, fuorchè tremuoti, eruzioni volcaniche, diluvii e altre meteore distruggitrici. Ma nella vicina Sicilia, l’anno 1724, fatto atroce apportò tanto spavento al regno, che io credo mio debito il narrarlo a fine che resti saldo nella memoria di chi leggerà; e i Napoletani si confermino nell’odio giusto alla inquisizione, oggidì che per l’alleanza dell’impero assoluto al sacerdozio, la superstizione, la ipocrisia, la falsa venerazione dell’antichità spingono, verso tempi e costumi abborriti, e vedesi quel tremendo ufizio, chiamato santo, risorgere in non pochi luoghi d’Italia, tacito ancora e discreto, ma per tornare, se fortuna lo ajuta, sanguinario e crudele quanto ne tristi secoli di universale ignoranza.
Andarono soggetti al santo-uffizio, l’anno 1699, frà Romualdo laico agostiniano, e suora Geltrude bizzoca di san Benedetto: quegli per quietismo, molinismo; eresia; questa per orgoglio, vanità temerità, ipocrisia. Ambo folli, però che il frate, con le molte sentenze contrarie a dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricever nngeli messaggieri da Dio, parlar con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura e santa, avere inteso dalla vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del santo-uffizio avevano disputato più volte con quei miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano delirii ed eresie. Chiusi nelle prigioni, la donna per 15 anni, il frate per 18 (attesochè gli altri sette li passò a peniteaza ne’ conventi di san Domenico) tollerarono i martorii più acerbi, la tortura, il ftagello, il digiuno, la sete; e alla per fine giunse il sospirato momento del supplicio. Avvegnachè gl’inquisitori condannarono entrambo alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albaracin stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore della Spagna; dopo di che il devoto imperatore Carlo VI comandò che quelle condanne fossero eseguite con la pompa dell’atto-di-fede. Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, la dolcezza, la mansuetudine, la benignità de’ santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi le malvagità, la irreligione, la ostinatezza de’ due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della sacrosanta cattolica religione, e spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de’ cristiani.
Il dì 6 di aprile di quell’anno 1724, nella piazza di Sant’Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e da’ lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale ascendevasi per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo; altari da luogo in luogo, e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emblemi di religione. Questo era per gl’inquisitori; le altre logge per il vicerè, l’arcivescovo, il senato; e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città: il terreno per il popolo. A’ primi albori le campane sonavano a penitenza: poi mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite, che traversando le vie della città, fatto giro intorno alla croce, si schierarono all'assegnato luogo. Popolata la piazza sin dalla prima luce, riempivano le tribune genti che a corpi o spicciolate, con abiti di gala, venivano al sacrifizio, era pieno lo spettacolo; si attendevano le vittime.
Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti cuoprirono le tribune, così che la scena preparata a mestizia mutò ad allegrezza. Fra quali tripudii giunse prima la misera Geltrude, legata sopra carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d’inferno. Convojavano il carro, tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati, molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro, cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domenicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per il frate Romualdo: ed allora gl inquisitori sederono nella magnifica ordinata tribuna.
Compiute le formalità, bandito ad alla voce l’ostinato proponimento de’ colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì al palco; e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiottate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive intorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch’esse intrise nel catrame, e partirono. La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano intorno e sotto i piedi le finmme, cadde col coperchio del rogo, e scomparso il corpo, rimasero a’ sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme, il fumo, che andavano ad oscurare l’alta croce di Cristo svergognata. Così frà Romualdo morì nell’altro rogo, dopo aver visto il martirio della compagna. Tra gli spettatori notavasi un drappello sordido, mesto, di ventisei prigioni del sant’uffizio. voluti presenti alla cerimonia: soli, fra tutti, che piangessero di que’ casi, perciocchè gli altri, sia viltà o ignoranza, o religion falsa, o empia superstizione, applaudivano l’infame olocausto. Erano i tre inquisitori frati spagnuoli: degli allegri assistenti non dirò i nomi, però che i nepoti, assai migliori degli avi, arrossirebbero; ma sono in altre carte registrati; che raramente le pubbliche virtù, più raramente i falli rimangono nascosti. Descrisse quell’atto in grosso volume Antonio Mongitore; e dal dire e dalle sentenze si palesò divoto e partigiano del santouffizio: egli lodato per altre opere a soprattutto per la biblioteca siciliana, chiaro mostrò che la dolcezza delle lettere umane era stata in lui vinta dagli errori del tempo, e dalla intolleranza del suo stato: era canonico della cattedrale.
X. L’anno 1730 nuovi moti di guerra si palesarono; giacchè per le secrete pratiche di Hannover, la Francia, la Spagna e la Inghilterra apprestavano eserciti ed armate, e l’imperatore Carlo VI, avvisato di que’ disegni, spediva nuove milizie ad afforzare gli stati di Milano e delle Sicilie. In quell’anno istesso, per la morte di Benedetto XIII, ascese al papato Clemente XII. E si udì il famoso re Vittorio Amedeo rinunziare il regno a suo figlio Carlo Emanuele, per andare privato nel castello di Chambery. Anni avanti, maggior re, Filippo V, aveva pur fatta cessione del regno per vivere divotamente, ei diceva, nel castello di Sant’Idelfonso; ma dopo otto mesi, per la morte del figlio Luigi, ripigliata la corona, regnò come prima infingardo e doppio. Così Amedeo, presto fastidito del ritiro di Chambery, volea tornare all’impero; ma il figlio re gli si oppose, ed indi a poco lo mandò prigione al castello di Rivoli, poscia a quello di Moncalieri, dove, guardato, morì miseramente, negatogli di vedere gli amici, il figlio istesso, la moglie.
XI. (1732-35) Dopo due anni di pratiche ed apparecchi venne in Italia l’infante di Spagna don Carlo, per mostrarsi a’ popoli di Toscana, Parma e Piacenza, suoi futuri soggetti, facendosi nella reggia spagnuola memorabili cerimonie di congedo; avvegnachè nel giorno della partita stando il re Filippo e la regina Elisabetta seduti in trono, e tutta la corte assistente, l’infante don Carlo, com’era costume di quella casa e come voleva figliale rispetto, s’inginocchiò innanzi al padre, il quale con la destra gli segnò ampia croce sul capo, e messolo in piede gli cinse spada ricchissima d’oro e di gemme, dicendo: “È la stessa che Luigi XIV mio avo mi pose al fianco quando m’inviò a conquistare questi regni di Spagna: porti a te, senza i lunghi travagli della guerra, fortuna intera.” E baciato su la gota, lo accommiatò. Poco di poi eserciti poderosi di Francia scesero per cinque strade in Italia, dal vecchio maresciallo di Villars; e rinovando guerra nella Lombardia ebbero successi felici. Ciò visto, molte navi spagnuole sciolte dai porti di Livorno e Longone, ed un esercito radunato negli stati di Parma e di Toscana, guidato dall’infante per nome o impero, e dal conte di Montemar per consiglio, si avviarono nemichevolmente verso Napoli. La quale impresa, come origine del novello stato, narrerò nel seguente capo, qui bastando accennare che non ancora finito il mezzo dell’anno 1735, tutte le terre e tutti i popoli delle due Sicilie stavano sotto il re Carlo Borbone.
XII. Le cose riferite de’ passati tempi risguardano al dominio di questi regni; palleggiati di casa in casa regnante per guerre e conquiste. E se qui fermassi il racconto, null’altro avrei rappresenato che violenze de’ grandi, sofferenze di popoli, vicissitudini di fortuna; cose note sazievolmente a’ lettori. Sarà miglior pregio descrivere fra tanti scambiamenti d’impero il cammino della civiltà, ovvero le leggi, i magistrati, la finanza, l’amministrazione, la milizia, le condizioni dei feudi, lo stato della Chiesa: nè già da principio al fine, materia che soperchierebbe lo scopo dell’opera e le forze dello scrittore, ma quali erano l’anno 1734, quando Carlo Borbone venne al trono delle Sicilie.
Nella caduta dell’imperio di Roma decaddero le sue leggi; si ebbero leggi scritte da’ Longobardi. Vinti costoro da’ Normanni, rimasero quelle leggi più autorevoli perchè durate sotto stirpe nemica e vincitrice. Prima sparse, furono poi composte in libro; ma non isperì chi legge in esso (una copia se ne conserva negli archivii della Trinità della Cava) trovarvi distinte le materie legislative, essendo l’ordinare de’ codici scienza moderna. Le leggi di Roma restate in quella età valide per il clero, sapienza e tradizione per i dotti, non avevano forza nello stato, perciocchè il re comandava, sentenziavano i giudici, le ragioni dei cittadini si dispensavano secondo il libro longobardo.
E benchè di credito scemasse quel codice poi che le Pandette di Giustiniano furono lette e disputate nelle scuole d’Italia, reggeva pure sempre accresciuto dalle leggi normanne: trentanove di Ruggiero, ventuna di Guglielmo I, tre del II, tutte col nome di Costituzioni. Passato il regno agli Svevi, Federigo volle che le sue leggi con le normanne, disposte in libro e chiamate dal suo nome costituzioni di Federigo II, si promulgassero. E quindi crebbe la mole delle leggi scritte co’ capitoli della stirpe angioina, con le prammatiche degli Aragonesi. Divenuto il regno provincia spagnuola e poi tedesca, molte leggi col nome istesso di prammatiche furono date da’ re di Spagna , dagl’imperatori di Germania, e da’ loro vicerè. Fra tanto scambiarsi di dominii e di codici, alcune città si governavano per consuetudini.
E perciò cominciando a regnare Carlo Borbone, undici legislazioni, o da decreti di principe, o da leggi non rivocate, autorità di uso reggevano il regno: ed erano: l’antica romana, la longobarda, la normanna, la sveva, l’angioina, l’aragonese, l’austriaca spagnuola, l’austriaca tedesca, la feudale, la ecclesiastica la quale governava le moltissime persone e gli sterminati possessi della Chiesa, la greca nelle consuetudini di Napoli, Amalfi, Gaeta, ed altre città un tempo rette da uffiziali dell’impero di Oriente; così come le consuetudini di Bari e di altre terre traevano principio dalle concessioni longobarde. Le molte legislazioni s’impedivano, mancava guida o imperio alla ragione de’ cittadini, al giudizio dei magistrati.
Un giudice in ogni comunità, un tribunale in ogni provincia, tre nelle città, un consiglio detto collaterale presso il vicerè, altro consiglio chiamato d’italia o supremo presso del re in Ispagna quando i re spagnuoli dominavano, o in Germania quando imperavano i Tedeschi, erano i magistrati del regno. Non bastando alla procedura i riti di Giovanna II, suppliva l’uso, e più spesso l’arbitrio del vicerè: non essendo ben definito il potere de’ magistrati, la dubbietà delle competenze si risolveva dal comando regio: e le materie giudiziario avviluppandosi alle amministrative, il diritto e ‘l potere, il magistrato e ’l governo soventi volte si confondevano. Finalmente, per la ignoranza di quella età, i soggetti credendosi legittimi servi, e i reggitori stimandosi non ingiusti a soperchiare, ne derivava doppio eccesso di servitù e d’impero: con deformità più manifesta ne’ processi e ne’ giudizii. Crearono gli enunciati disordini curia disordinata e malvagia. Qualunque della plebe con toga in dosso dicevasi avvocato, ed era ammesso a difendere i diritti o le persone de’ cittadini: e però che all’esercizio di quel mestiere pieno di guadagni non si richiedevano studii, esami. pratiche, lauree, moltiplicava tuttodì la infesta gente de’ curiali.
XIII. Ora dirò della finanza, parte assai principale di governo, che oggi vorrebbe sottoporsi a regole e guidarsi con filosofiche dottrine, tal che mantenesse la potenza allo stato e la prosperità del vivere civile: ma ne’ tempi de’ quali compongo le istorie, era uso cieco e violento di forza, senza ordine, o misura, o giustizia; rovinoso a’ privati, non profittevole all’universale, S’imponevano tributi a tutte le proprietà, a tutte le consumazioni, a qualunque segno di possesso, alle vesti, al vitto, alla vita, senza misura o senno, solamente mirando all’effetto maggiore delle imposte. Sotto i Normanni e gli Svevi (rammento cose note, ma necessarie) ne’ regni meno rei di Guglielmo il Buono, di Federigo II e di Manfredi congregandosi a parlamento la baronìa, il clero, i maggiori di ogni città, si statuivano le somme da pagarsi al fisco; ma quelle pratiche civili, già decadute sotto gli Angioini ed Aragonesi, cessarono affatto nell’avaro governo vicereale, che a ragione temeva le adunanze degli uomini e de’ pensieri: o se talvolta i reggitori commettevano a’ Seggi della città di proporre le nuove taglie, era scaltrezza per evitare i pericoli e l’onta dell’odiosa legge. Poste tutte le gravezze, nè però satollata l’avidità o provveduto a’ bisogni, si venne a’ partiti estremi, sperdendo i beni del demanio regio, dando a prezzo i titoli di nobiltà e le magistrature, infeudando le città più cospicue, ipotecando le future entrate del fisco, o alienandole come quelle dette con voce spagnuola arrendamenti.
XIV. Non meno della finanza era mal provvista l’amministrazione de’ beni e delle entrate comunali, che per le costituzioni di Federigo II, perciò sin da tempi antichissimi, affidavasi ad un sindaco e due eletti, scelti dal popolo in così largo parlamento che non altri erano esclusi dal votare fuorchè le donne, i fanciulli, i debitori della comunità, gl’infami per condanna o per mestiero. Si adunava in certo giorno di estate nella piazza, e si facevano le scelte per gride, avvenendo di raro che bisognasse imborsar più nomi per conoscere il preferito. Libertà, che non eguale alle altre regole di governo e superiore a’ costumi del popolo, trasmodava in licenza e tumulti. Due sole amministrazioni si conoscevano, di municipio e di regno: le innumerevoli relazioni di municipio a municipio, a circondario, a distretto, a provincia, erano trasandate o provvedute per singolari arbitrarie ordinanze. L’amministrazione del regno non avendo codice che desse moto, norma o ritegno alla suprema volontà, mancava quell’andar necessario per leggi che è certo cammino e progresso alla civiltà. Perciò le opere pubbliche erano poche, volgendosi a profitto dell’erario il denaro, che ben regolato regno spende per comune utilità: le sole nuove fondazioni erano di conventi, di chiese, di altri edifizii religiosi, ovvero monumenti di regio fasto. Quindi le arti, poche e meschine: una la strada, quella di Roma; piccolo e servo il traffico di mare cogli esterni, nullo quello di terra, i fiumi traboccanti, i boschi cresciuti a selvatiche foreste, l’agricoltura come primitiva, la pastorizia vagante, il popolo misero e dicrescente.
Solamente per circolo inesplicabile dell’umano intelletto, risorgevano fra tanta civile miseria le lettere e le scienze, nè già per cura del governo, che in questa come nelle altre utili opere stava ozioso ed avverso, ma per accidentale (se non da Dio provveduto) simultaneo vivere d’uomini ingegnosissimi. Domenico Aulisio, Pietro Giannone, Gaetano Argento, Giovan Vincenzo Gravina, Nicola Capasso, Niccolò Cirillo e tanti che saria lungo a nominarli, nati al finire del secolo XVII, vivevano ne’ primi decenni del secolo seguente come luce della loro età e dell’avvenire. E viveva Giovan Battista Vico, miracolo di sapienza e di fama postuma, però che da nessuno pienamente inteso, da tutti ammirato, e coll’andar degli anni meglio scoperto e più accresciuto di onore, dimostra che in lui era forse volontaria l’oscurità, o che le sentenze del suo libro aspettano per palesarsi altri tempi ed ordine di studii più confacente alle dottrine di quello ingegno.
XV. Assai peggiori delle istituzioni civili erano le militari. Si usavano per levar soldati tutti i modi illegittimi: i gaggi, la seduzione, la scelta da’ condannati o dai prigionieri, la presa de vagabondi, l’arbitrario comando de’ baroni; il solo mezzo giusto della sorte non era usato. I pessimi delle città erano quindi eletti al più nobile uffizio dei cittadini, e si mandavano per guerre lontane in Italia o più sovente in Ispagna, dove con abito spagnuolo, sotto non propria insegna, per nome e gloria d’altri combattevano. Napoli intorpidiva in servitù scioperata, i Napoletani stavano in guerra continua ed ingloriosa. Non erano nello interno ordini di milizia; milizie straniere guardavano il paese, e le nostre in terra straniera ohbedivano alle non proprie ordinanze: le arti di guerra imparate altrove non erano utili a noi; e ’l sangue e i sudori delle nostre genti non facevano la gloria nostra. Cosi che mancavano ordini, usi, esercizii, tradizione, fama, sentimento di milizia: e questo nome onorevole negli altri stati era per Napoli doloroso ed abborrito.
XVI. La stessa feudalità era caduta di onore. Io dirò in miglior luogo come ella venne a noi, quanto crebbe; come per le consuetudini feudali e le costituzioni de principi disposte in libro, la servitù de’ vassalli si legittimò; quali furono le venture della feudalità ne’ regni angioini e svevi, e quanta la superbia di lei contro i re aragonesi: qui basta rammentare che precipitò di tanta altezza nel governo de’ vicerè; nè già per leggi o studio di abbassarla, ma per propria corruzione e per esiziale natura di que’ governi. I baroni non più guerrieri, né sostegni o pericolo de’ loro re non curanti le opere ammirate di generosa nobiltà, oziosi e prepotenti ne’ castelli, si godevano tirannide sopra vassalli avviliti. E i vicerè avari vendevano feudi, titoli, preminenze; innalzavano al baronaggio i plebei purchè ricchi; involgavano la dignità feudale. Perciò, all’arrivo del re Carlo Borbone, i feudatari, potenti quanto innanzi per leggi, erano, per se stessi, vili, corrotti, odiati e temuti; non come si temono le grandezze ma le malvagità.
XVII. Rimane a dire della Chiesa. Chi scrivesse con verità ed ampiezza le vite ed opere de pontefici, distenderebbe la storia civile della Italia; tanto si legano al pontificato le guerre, le paci, gli sconvolgimenti e mutamenti di stato, la civiltà rattenuta o retrospinta. E per dir solamente del nostro regno, le brighe de’ pontefici arrestarono, poi spensero il bene civile che faceva la stirpe sveva: i pontefici doppiarono i mali della stirpe angioina: i pontefici alimentarono le guerre domestiche sotto i re aragonesi. Niccolò III congiurò net vespro siciliano: Innocenzo VIII concertava la ribellione e la guerra baronale contro Ferdinando ed Alfonso: Alessandro VI non disdegnava di praticare con Bajazet, imperatore de’ Turchi, per dar travagli ai regni cristiani delle Sicilie: i pontefici nel lungo corso del viceregno concitavano a discordia ora i reggitori ora i soggetti, come giovasse meglio alle pretensioni sterminate della Chiesa.
E poichè natura delle cose o provvedimento divino è il precipitare ai mali che ad altri si arrecano, furono que’ pontefici quanto più malevoli tanto più tribolati ed infelici. Grandi sventure tollerò il papato in que’ secoli: appena ristoravasi dalle divisioni e scandali dello scisma, che seguirono le dottrine di Lutero e la riforma; le guerre infelici, la prigionia di Clemente VIT, gli atti del concilio di Trento non in tutto accettati dai re cristiani; la bolla di Cœna Domini rifiutata, la così detta monarchia di Sicilia rinvigorita, le rivoluzioni di Napoli per la inquisizione, il discacciamento de’ nunzii, l’abolizione della nunziatura: ed in breve la scoperta ribellione delle potestà civili e delle opinioni all’imperio della Chiesa.
E più scendeva la pontificale alterigia se nuovi frati e smisurate ricchezze non si facevano sostegni al declinare. Mancando di que’ tempi perfino il catasto, rimangono ignote molte notizie importanti all’istoria: gioverebbe conoscere il numero degli ecclesiastici e la quantità de’ loro possessi, per misurare quanto il sacerdozio potesse in quel popolo; ma le praticate ricerche ed il lungo studio non sono bastati al bisogno, percioccchè gli scrittori del tempo, se divoti alla Chiesa, mentivano per vergogna le mal tolte ricchezze; o se contrarii, per acerescere lo scandalo, le accrescevano. Tra le opposte sentenze io dirò le conghietture più probabili. Nel solo stato di Napoli erano gli ecclesiastici intorno a centododici mila, cioè, arcivescovi 22, vescovi 116, preti 56,500, frati 31.800, monache 23.600. E perciò in uno stato di quattro milioni di abitanti erano gli ecclesiastici nella popolazione come il 28 nel 1000, eccesso dannevole alla morale perchè di celibi, alla umanità perchè troppi, alla industria e ricchezza publica perché oziosi. Nella sola città di Napoli se ne alimentavano 16,500.
In quanto ai beni, gli autori più circospetti gli estimarono, escluso il demanio regio, due terze parti dei beni del paese; ed altri scrittori, che pur si dicevano meglio informati, affermano che delle cinque parti quattro ne godeva la Chiesa: sentenze l’una e l’altra maggiori del vero.
All’arrivo del re Carlo Borbone la sede apostolica pretendeva sopra i re e di regni arrogantemente come a’ tempi di Gregorio VII: ma, scema di moral potenza, sostenevasi, come ho detto, per gran numero di ecclesiastici e smisurate ricchezza; appoggi mondani, solamente saldi tra viziose generazioni.
XVIII. Stringerò in poche sentenze le materie discorse in questo capo. Era la Chiesa tuttavia potente di forze temporali; le credenze de’ popoli alla religione, ferme o accresciute; a’ ministri di lei ed al pontefice, addebolite. La feudalità intera, i feudatarii spregevoli, la milizia nulla, l’amministrazione insidiosa ed erronea. La finanza spacciata, povera nel presente, peggio per l’avvenire; i codici confusi, la curia vasta, intrigante, corrotta; il popolo schiavo di molti errori, avverso al caduto governo, bramoso di meglio. Perciò, bisogni, opinioni, speranze, novità d’impero, interesse di nuovo re, genio di secolo, tutto invitava alle riforme.
CAPO SECONDO.
Conquista delle Sicilie dall’infante Carlo Borbone.
XIX. Carlo nacque di Filippo V e di Elisabetta Farnese, l’anno 1716, nella reggia di Spagna fortunata e superba, in secolo di guerre e di conquiste. Primo nato ma di nozze seconde, non avea regno. L’altiera genitrice che mal pativa la minor fortuna de’ figli suoi, potente per ingegno sopra lo stato ed il re, ardita nelle sventure, pieghevole alla mala sorte, ottenne al suo infante per pronte guerre ed opportune paci la ducal corona di Toscana e di Parma. E nel 1733, a motivo o pretesto di dare un re alla Polonia, sollevate le speranze di lei, mosse gli eserciti e le armate per conquistar le Sicilie. Il giovine Carlo godeva in Parma i piaceri di regno, quando lettere patenti di Filippo, segrete della regina, lo avvisarono di nuovi disegni, e de’ nuovi mezzi potenti di successo. La Spagna, la Francia, il re di Sardegna erano collegati contro l’Impero: poderoso esercito francese, retto da Bervik, passava il Reno; altri Franco-Sardi sotto Villars scendevano in Lombardia: fanti spagnuoli sbarcavano in Genova, e cavalieri e cavalli andavano per terra ad Antibo; forte armata e numerosa dominava i mari dell’Italia: le forze spagnuole sarebbero dirette dal conte di Montemar, ma, per fama e dignità del nome, sotto il supremo impero dell’infante don Carlo. Erano speranze di quella impresa vincere i cesarei oltre il Reno, cacciarli di Lombardia, conquistar le Sicilie: «Le quali, alzate a regno libero (scriveva la madre al figlio) saran tue. Va dunque, e vinci: la più bella corona d’Italia ti attende.»
Era Carlo in quella età (17 anni) che più possono le ambizioni innocenti; figlio di re proclive alla guerra e di regina inisaziabile d’imperii e di grandezze, avido di maggior signoria che i ducati di Toscana e di Parma, ajutato all’impresa ma copertamente da papa Clemente XII, non dubitava delle sue ragioni sopra le Sicilie per lo antico dominio de’ re di Spagna, e ’l più recente del padre; impietosiva de’ popoli siciliani, che nella reggia di Filippo si dicevano più del vero travagliati dal governo di Cesare, Perciò ragioni, religione, pietà, proprio interesse, lo spingevano a quella impresa. Il buono ingegno, ch’ebbe nascendo, gli era stato tarpato dagli errori lella corte: aveva per natura cuor buono, senno maggiore della età, sentimento di giustizia è di carità verso i soggetti, temperanza, desiderio di grandezza, cortesia nei discorsi: piacevole di viso, robusto e grande di persona, inclinato agli esercizii di forza ed alle arti della milizia.
XX. Mentre le sehiere spagnuole si adunavano ne’ campi di Siena e di Arezzo, ed il navilio di Spagna trasportava soldati, cavalli, artiglierie, l’Infante convocò in Parma i generali più ilustri per fermare i consigli alla spedizione di Napoli. Poscia, nominata una reggenza, e promulgate le ordinanze per buon governo di quegli stati, si partì secondato da’ voti del popolo e da tutte Je specie della felicità. Rivide Firenze, visitò il cadente ed ultimo gran duca mediceo Gian Gastone, traversò Siena ed Arezzo, rassegnò in Perugia, nel marzo di quell’anno 1734, tutte le forze che gli obbedivano; sedicimila fanti e cinquemila cavalieri, genti de’ regni della Spagna, d’Italia e di Francia, le reggeva in guerra Montemar; e militavano, fra i più chiari, un duca di Bervik del sangue de’ re Britanni, il conte di Marsillac francese, molti grandi della Spagna, e ’l duca d’Eboli, il principe Caracciolo Torella, don Niccolò di Sangro, napoletani. L’infante don Carlo in quella rassegna, seduto, intorno era circondato di numerosa corte, splendida per ricche vesti ed insegne: vi si notavano il conte di Santo-Stefano già precettore, ora consigliero dell’Infante, il principe Corsini nipote al papa, il conte di Charny di sangue regio, cento altri, almeno, duchi e baroni: e fra loro, con semplice vestimento e modestia toscana, Bernardo Tanucci, l’anno innanzi avvocato in Pisa e professore di giuspubblico, ingraziatosi a Carlo per la eccellenza nelle arti sue, nominato auditore dell’esercito spagnuolo, e negli affari civili di regno consigliero gradito. I suoi futuri successi mi traggono a dire ch’egli nacque in Stia, piccola terra del Casentino, da poveri genitori, l’anno 1698; dotato d’ingegno da natura e dagli studii accresciuto, libero pensatore de tempi suoi, quando era libertà contrastare alle pretensioni papali. Così egli in Pisa; e quale poi fosse in Napoli, sollevato a primo dei ministri di Carlo dirò a suo luogo.
Dopo la rassegna di Perugia, l’esercito mandato verso Napoli fu negli stati pontificii accolto, mantenuto ed onorato: legati del papa lo precedevano, altri stavano nè campi, altri presso di Carlo: ma la corte romana, sebbene închinasse alle felicità di Spagna, conoscendo le mutabilità della sorte, velava que’ favori co’ ministri di Cesare. L’istesso Montemar sospettando che squadre imperiali venissero improvvise dietro alle sue colonne, fermò retroguardo fortissimo, e procedeva in tale ordinanza da volgere sopra ogni fronte le maggiori sue forze.
XXI. AI grido che l’esercito di Spagna si avanzava contro Napoli, le nuove speranze del popolo, i timori de’ ministri di Cesare, gli apparati, le provvidenze agitarono il regno. Era vicerè Giulio Visconti, e comandava le milizie il conte Traun; i quali non potendo dissimulare il pericolo, sperarono di attenuarne gli effetti, palesandolo: il vicerè con editto bandi la guerra; e convocando nella reggia gli eletti delle piazze, rivelò del nemico le speranze, i mezzi, il disegno; quindi il disegno, i mezzi, le speranze proprie; le fortezze munite, i presidii poderosi, le schiere attese da Sicilia, schiere maggiori da Alemagna, un esercito di venti mila imperiali guidati dall’animoso maresciallo Merey alle spalle dell’oste spagnuola, l’amore de popoli per Cesare, gli ajuti divini per giusta causa: e poi pregava gli eletti operassero col governo, accrescendo l’annona, mantenendo fida la plebe, pagando al fisco il promesso donativo di ducati seicento mila. Furono le risposte umili, confidenti; e, come è costume de’ rappresentanti di popolo scontento, promettitrici ne’ pericoli presenti di soccorsi lontani.
Altro consiglio convocò il vicerè per la guerra. Differivano le opinioni del conte Traun e del generale Caraffa, Napoletano agli stipendi di Cesare. Voleva il Traun spartire le milizie nelle fortezze, obbligare il nemico a molti assedii, e contrastando per parti di esercito e per luoghi divisi, allungare la guerra e aspettare gli ajuti di Alemagna. Voleva più animosamente il Caraffa menomare i presidii di Pescara, Capua, Gaeta, Santelmo; vuotare ed abbattere le altre fortezze o castelli, comporre esercito che bastasse a fronteggiare il nemico, ed aspettare il tempo de soccorsi volteggiando all’aperto e scansando le diffinitive battaglie, se non quando per argomenti di guerra fosse certa la vittoria. Vinse il parere del Traun: presidiate copiosamente le fortezze, i castelli alzato campo forte per trinciere e batterie nelle strette di Mignano, pregato a Cesare di sollecitare i soccorsi. Venticinquemila Tedeschi nelle due Sicilie si spicciolarono contro all’esercito unito di Carlo, men poderoso per numero, e senza gli ajuti de’ luoghi e de’ munimenti.
Nel tempo stesso il vicerè mandò vicarii nelle province per levar gente d’armi, accumular denari e vettovaglie, provvedere alla difesa del regno facendo guerra in ogni città o borgo: furono vicarii i primi tra i nobili. Compose oltracciò la guardia civile nella città capo, e nelle maggiori del reame; formò un reggimento di Napoletani volontarii o ingaggiati per cura e spese del duca di Monteleone Pignatelli; e alla fine chiamando alla milizia i prigioni e i fuggiaschi rei di delitti, pose le armi in mano a’ regnicoli o buoni o tristi.
Continua presunzione delle tirannidi! volere i soggetti, schiavi a servirle, eroi a difenderle; scordando che la natura eterna delle cose, presto o tardi, nella persona o nella discendenza, a prezzo di dominii o di sangue, fa scontare a’ tiranni le praticate crudeltà sopra i popoli.
Le cose fin qui comandate dal Visconti erano inopportune o non bastevoli, ma oneste: seguirono le peggiori. Alcuni tra nobili, che ne’ consigli avevano parlato liberamente a pro dello stato, furono per suo volere, senza giudizio, senza esame, come ad innocenti si usa, confinati nella Germania: molto denaro privato deposto ne’ banchi o ne tribunali per liti civili, fu incamerato dal fisco: la città, minacciata, sborsò ducati centocinquantamila. E fra tante violenze pubbliche riuscivano più odiose le cortesie agli ecclesiastici: pregati a soccorrere il governo, chi poco diede, chi tutto negò senza patir forza o rimprovero. La viceregina, ed era inferma, si partì con la famiglia cercando ricovero in Roma. Gli archivii della monarchia furono mandati per sicurezza in Gaeta e Terracina. Il vicerè, egli stesso, faceva segreti apparecchi di lasciar la città. Fra tante sollecitudini passavano i giorni.
XXII. L’esercito spagnuolo procedendo traversò gli stati di Roma senza che l’Infante entrasse in città, pregato dal pontefice ad evitargli contese cogli ambasciatori di Cesare: e per la via di Valmontone e Frosinone toccava quasi la frontiera del regno, Ma prima ch’ei giungesse, altre armi sue posero il piede nelle terre di Napoli. Il conte Clavico ammiraglio dell’armata spagnuola, salpata da’ porti di Longone e di Livorno, arrivò con mostra potentissima di navi avanti alle isole di Procida e d’Ischia le quali si arresero; però che poco innanzi, per provvido consiglio del governo, erano state quelle isole, impossibili a difendere, sguarnite di presidii. Gl’isolani, accolto lietamente il vincitore, giurarono fedeltà all’Infante. Le navi spagnuole, scorrendo e combattendo lungo i lidi della città, accrebbero, secondo il variar delle parti, le speranze o i timori.
Cominciando le pratiche fra i Napoletani e gli uffiziali di quelle navi, si sparsero in gran copia nella città gli editti di Filippo V e di Carlo. Diceva Filippo aver prefissa la impresa delle Sicilie per amore de’ popoli oppressi dalla durezza ed avarizia tedesca; ricordare gli antichi festevoli accoglimenti; credere (fra le contrarie apparenze o le necessità del governarsi) stabile a lui la fedeltà de soggetti, e, se mutata, perdonare i falli e i tradimenti, confermare i privilegi alla città ed al reame, promettere d’ingrandirli; abolire le gravezze del governo tedesco, scemar le altre; reggere lo stato da padre; sperare ne’ popoli ubbidienza ed amore di figli. Nelle promesse di Filippo giurava Carlo, e soggiungeva che le discipline ecclesiastiche durerebbero con le stesse buone regole di governo, e che nessun altro tribunale sarebbe stato aggiunto a’ presenti. Così svaniva i sospetti dell’abborrita inquisizione, e secondava gl’interessi della numerosa classe de’ curiali. L’editto di Filippo era del 7 di febbrajo dal Pardo; quello del figlio del 14 di marzo da Civita-Castellana.
L’esercito spagnuolo, passata senza contrasto la frontiera del Liri, stette un giorno ad Aquino, tre a san Germano. Gli Alemanni, fermate le idee della guerra, attendevano alle sole fortezze o castelli, accrescendone le armi, le vettovaglie, i presidii: il conte Traun con cinquemila soldati teneva le trinciere di Mignano: il vieerè, tirando dallo stato nuovi denari, aspettava con tormentosa pazienza gli avvenimenti futuri. Quello che seguì nella notte del 30 di marzo accelerò la fortuna dell’esercito spagnuolo, i precipizii dell’altro. Montanari di Sesto, piccola terra, esperti delle foreste soprastanti a Mignano, offrirono al duca d’Eboli, capo di quattromila Spagnuoli, di condurli sicuri e inosservati al fianco ed alle spalle delle linee tedesche. Accettata l’offerta, promesse le mercedi, minacciate le pene, grudilero gli Spagnuoli al disegnato luogo; e ne avvisarono il conte di Montemar, acciò ad ora prestabilita fosse assalito il campo nemico alla fronte, al fianco, alle spalle: il cannone di Montemar darebbe segno di muovere al duca d’Eboli. Ma una vedetta di Alemanni scoprendo quelle genti, nunzia frettolosa riferì al Traun i luoghi, i campi e il numero dei nemici maggiore del vero. Il generale tedesco che credeva inaccessibili que’ monti, ora, per nuovi esploratori, accertato delle narrate cose, disfece il campo, chiodò le gravi artiglierie, bruciò i carretti, e nella notte trasse le schiere dentro la fortezza di Capua, abbandonando, ne’ disordini del fuggire, altri cannoni, bagagli ed attrezzi che furono preda del duca d’Eboli, il quale ai primi albori, viste le trincee deserte, discese dal colle e mandò al duce supremo il lieto avviso. Al vedere il conte Traun fortiticarsi a Mignano senza rendere impenetrabili le soprastanti foreste, e lasciar libera la via degli Abruzzi per Venafro, poco guardata Sessa, nulla Mondragone: e nell’opposta parte al vedere il conte Montemar trasandare le quattro facili strade e disporre l’esercito ad assaltare la fronte del campo, convien dire che il nome di buon capitano era più facile ne’ tempi addietro che ne’ presenti.
Divolgate in Napoli ed accresciute dalla fama e dall’amor di parte le venture di Mignano, e rassicurata la insolenza plebea, stando l’armata spagnuola sempre a mostra della città, e le piazze delle navi piene di soldati e d’insegne, il vicerè, conoscendo ch’era pericolo il più restare, si partì al declinare del giorno 3 di aprile con gli Alemanni suoi, e soldati ministri; da fuggitivi però, che senza i consueti onori e senza editto, per le vie meno popolose della città, verso Avellino, e di là verso Puglia. Alla città senza capo e senza difesa provvidero i magistrati e le milizie civili.
XXIII. L’Infante. dopo sei giornate di cammino, pervenne a Maddaloni con tardità ch’era consiglio per dare alla fama spazio di pubblicare la buona disciplina dell’esercito, le liberalità del nuovo principe. La regina Elisabetta, ricca dei freschi tesori venuti dal Messico, ne aveva data parte all’Infante per l’acquisto di Napoli: ed egli, magnifico, gli spargeva largamente nei popoli: pagava le vettovaglie, faceva doni, limosine, benignità frequenti; e, come usava quel tempo, dava spesso a gettare nella moltitudine monete a pugni. Entrando nella città di Maddaloni fu incontrato da numeroso drappello di nobili napoletani, concorsi a fargli guardia di onore. Sopraggiunsero gli Eletti di Napoli, deputati a presentare le chiavi, sperargli felicità, promettere fede ed obbedienza: conchiudendo l’aringa col dimandare confermazione de’ privilegi della città. Carlo, in idioma spagnuolo, per sè e per il padre re delle Spagne, li confermò. Non poco diversi da’ presenti erano que tempi: oggi a signor nuovo si chiederebbe leggi, giustizia, eguaglianza civile; il nome di privilegio faria spavento, la primazia di una città o di un ceto produrrebbe tumulti: la storia che scrivo spiegherà le cagioni de’ mutati desiderii. L’Infante nel resto del giorno, in presenza del popolo, attese ad uccidere colombi che nelle torri del magnifico ducal palagio nidificavano: come in Alife e in san Germano passò giorni alla caccia; non potendo le sollecitudini della guerra, o le cure di regno distorlo da quei passionato diletto, il quale, invecchiato, gl’indurò il cuore, macchiò parecchie fiate le virtù di buon principe, e pur talvolta lo espose a pericolo della vita.
Il dì seguente, 10 di aprile, trasferì le stanze da Maddaloni ad Aversa, e per consiglio provvide alla guerra ed al regno. Fece suo luogotenente il conte di Charny per gli ordini civili della città e delle province; volle che i tribunali, per le agitazioni della guerra inoperosi, tornassero alle cure della giustizia. Mandò con sei mila soldati il conte Marsillac ad occupar la città, disbarcare le artiglierie per gli assedii, assediare Baja e tre forti della città, stando il quarto (il Carmine) senza presidio, a porte schiuse. Altre squadre accampò nelle pianure di Sessa per impedire a’ presidii di Capua e Gaeta di comunicare insieme e, correndo il paese, vettovagliarsi, E finalmente mosse contro le Puglie la scelta dell’esercito a combattere il vicerè, che avendo unite alle proprie schiere quelle del generale Caraffa e del principe Pignatelli, ed altre venute da Sicilia, altre da Trieste, campeggiava le province con otto mila soldati. Ma il duca d’Eboli, capo degli Spagnuoli, procedeva lentamente per aspettare la espugnazione de’ castelli della città, e così, minorati gl’impacci, aver pronte allure squadre ai suoi bisogni.
Il forte di Baja, dopo breve assedio aperta la breccia, si arrese il 23 di aprile; il castello Santelmo il 25; il castello dell’Ovo il 2 di maggio: il Nuovo (sol perehè gli assalitori nel mezzo dell’assedio, mutata idea, investirono altra fronte) resistè più lungamente; ma pure il 6 di maggio abbassò le porte. I presidii de’ quattro castelli furono prigioni; poche morti soffrì l’esercito spagnuolo e poco danno, ricompensato largamente dalle abbondanti provvigioni quivi trovate e dalle valide artiglierie, che subito volse agli assedii delle maggiori fortezze. Cotesti castelli quando furono edificati, utili secondo il tempo, avevano le condizioni convenienti alle armi di quella antichità ed alla scienza comune di guerra. Oggi sono a perdita d’uomini e di provvigioni, cittadelle contro del popolo, ricovero ed ardire alla tirannide. Ingrandire il piccolo castello di Santelmo tanto che alloggiasse forte presidio di tremila soldati, e demolire i tre castelli della città, sol che restassero batterie difenditrici del porto, sarà il senno di futuro governo quando in altra età i reggitori di Napoli non temeranno le ribellioni, guardati da leggi, giustizia e discipline.
XXIV. Resa libera la città di ogni segno del passato dominio, l’Infante il 10 di maggio vi si portò con pompa regio, tra esultanze straordinarie del popolo, però ch’erano grandi le universali speranze, e ’l tesoriere spargeva nelle vie della città monete in copia di argento e d’oro. Egli entrava nel mattino per la porta Capuana; ma, volendo prima rendere a Dio grazie de successi, scese nella chiesa suburbana di san Francesco e restò in quel monistero di frati sino alle quattro ore dopo il mezzodi: quando, montato sopra destriero, con abiti e giojelli ricchissimi, venne in città, e’ furono prime cure sue visitare il duomo, ricevere dalla mano del cardinal Pignatelli la ecclesiastica benedizione, assistere divotamente alle sacre usate cerimonie, e fregiar la statua di san Gennaro con preziosa collana di rubini e diamanti. Compiuto nel duomo il sacro rito, continuò il cammino sino alla reggia; e passando innanzi alle carceri della vicaria e di san Giacomo, ricevute le chiavi in segno di sovranità, comandò aprir le porte per mandar liberi i prigioni: insensata grandezza! La città fu in festa; le milizie schierate nelle strade, o poste in guardia della reggia, erano urbane: i fuochi di allegrezza e le luminarie durarono tutta la notte.
Ma il giubilo de’ cittadini non dissipava i timori di guerra. Si combatteva nella Lombardia, la vicina e ricca Sicilia fruttava a Cesare, un esercito d’imperiali campeggiava le Puglie, le maggiori fortezze del regno guardate da numerosi presidii e da capitani onorati difendevano la bandiera e il dominio dell’Impero: abbondanti rinforzi sperava il vicerè, e già seimila Croati si dicevano in punto di arrivare a Manfredonia: i popoli, ora partigiani de’ Borboni, muterebbero con la fortuna. Erano prospere a Carlo le condizioni di regno, non certe. Perciò il conte Montemar, visitati e stretti i blocchi di Capua e di Gaeta, marciò con nuove schiere verso Puglia, ed unendosi al duca d’Eboli compose un esercito di dodici mila soldati, fanti e cavalieri, ajutati da molte navi che radevano i lidi, ora più lente ora più celeri come in terra l’esercito. E l’Infante nel tempo stesso, adoperando arti civili, chiamò con editto tutti i baroni del regno a giurar fede al nuovo impero; prefisse i tempi, minacciò le pene a’ trasgressori. E giorni appresso, il 15 di giugno dell’anno 1734, fece pubblico il decreto di Filippo V che cedeva le sue ragioni antiche e nuove su le Sicilie, unite in regno libero, a Carlo suo figliuolo, nato dalle felici nozze con Elisabetta Farnese, il qual nuovo re si fece chiamare Carlo per la grazia di Dio re delle due Sicilie e di Gerusalemme, infante di Spagna, duca di Parma, Piacenza e Castro, gran principe ereditario della Toscana. E disegnò le armi, annestando alle nazionali delle due Sicilie tre gigli d’oro per la casa di Spagna, sei di azzurro per la Farnese, e sei palle rosse per quella de’ Medici. Si ripeterono le feste civili, le ecclesiastiche, e il re ne aggiunse altra popolare, la coccagna, macchina vasta raffigurante gli Orti Esperidi, abbondanti di grasce donate alla avidità e destrezza di popolari; perciocchè i luoghi erano aperti, ma intrigati, e la presa difficile. Carlo dall’alto della reggia giovenilmente godeva i piacevoli accidenti della festa, quando la macchina mal congegnata, caricata di genti, repentinamente in una parte precipitò, tirando nelle rovine i soprastanti e opprimendo i sottoposti. Molti morirono, furono i feriti a centinaja; la piazza si spopolò: Carlo con decreto vietò simili feste all’avvenire.
XXV. Primo atto del sovrano potere fu il creare Bernardo Tanucci ministro per la giustizia. All’arrivo in Puglia dell’esercito spagnuolo, il vicerè intimidito e veramente inutile alla guerra montò in nave e partì seco traendo il general Caraffa, accusato dal conte Traun, e chiamato a Vienna dall’imperatore per patir biasimo e pene; mercede indegna al buon consiglio dato e non accolto. Il principe Belmonte restò capo degli Alemanni, ottomila soldati, avventicci più che ordinati, varii di patria e di lingua, nuovi la più parte alla disciplina e alla guerra. Il qual Belmonte, dopo aver campeggiate la Basilicata e le Puglie, pose le stanze in Bari per più comodo vivere, non per avvedimento di guerra; avvegnachè nessun’opera forte aggiunse alle mura di quella città, ed all’apparire de’ contrarii, lasciato in Bari piccolo presidio, accampò l’esercito in Bitonto, città più forte per più saldi ripari e per munito castello e lunghe linee di fossi e muri nella campagna; lavoro di agricoltura, utile non di meno alle difese. Pose nella città milacinquecento soldati, manco atti alle battaglie; schierò le altre genti dietro i muri e i fossi della campagna, accampò la cavalleria su la diritta dell’esercito, ridusse a castelli due monasteri collocati acconciamente alle ali estreme della sua linea. E ciò fatto, altese gli assalti del nemico.
Il quale volse anch’egli le sue colonne da Bari a Bitonto, avendo schiere maggiori usate alla guerra, cavalleria doppia della contraria ed artiglierie copiose. Giunto a vista degli Alemanni, accampò; e nel seguente mattino; 25 maggio di quell’anno 1734, spiegò le ordinanze, soperchiando la fronte nemica, e ponendo fanti contro fanti, cavalli contro cavalli, ed altra cavalleria, di che abbondava, su l’ala diritta per correre la campagna e per gli eventi. Tentò gli Alemanni con poche genti; e trovata resistenza, retrocede confusamente, sperando che il nemico, fatto ardito, uscisse dai ripari ad inseguirlo: ma poi che le simulazioni non ingannarono il Belmonte, Montemar sperò vittoria dall’aperta forza; e movendo i fanti, spingendo i cavalli, accendendo le artiglierie, fece suonare ad assalto i tamburi e le trombe. Alle quali viste trepidarono i cavalieri alemanni; e dopo breve ondeggiare ruppero in fuga disordinatamente verso Bari, fuorchè il colonnello Villani con due cento Usseri che, pure fuggendo ma ordinato, prese il cammino degli Abruzzi e si ricoverò in Pescara, La partenza de’ cavalieri, non attesa e così celere che parve diserzione non fuga, sbalordì le altre schiere; e per fino il generale Belmonte ed il principe Strongoli, altro generale agli stipendii di Cesare, lasciato il campo seguirono i fuggitivi. La vittoria di Montemar fu certa e chiara; chè se la guerra due altre ore durò per combattimenti singolari, inutili ed ingloriosi, fu solamente perchè mancava nel campo di Cesare chi ordinasse di arrendersi. Furono espugnati i due conventi, si diedero nello stesso giorno la città e il castello di Bitonto, si diede al dì vegnente la città di Bari: mille degli Alemanni morti o feriti, prigione il resto; preda del vincitore armi, attrezzi, bagagli; e suo trofeo ventitrè stendardi. Perdè l’esercito spagnuolo trecento morti o feriti, e furono prezzo della conquista di un regno e della gloria che ne colse il conte di Montemar, meno per sua virtù che per gli errori del nemico.
Doveva il Belmonte far sua base gli Abruzzi, liberi di Spagnuoli, con la ben munita fortezza di Pescara ed i forti castelli d’Aquila e Civitella: doveva ne’ due mesi che oziosamente vagò per le Puglie, preparare i campi a combattere: doveva, così indugiando, instruire e agguerrire i soldati venuti di Croazia, per dar tempo a’ promessi ajuti di Alemagna; o, quando in tutto fosse stata avversa la sorte, dovea combattere sotto le mura di Pescara, sostenuto da una fortezza, da un presidio e dal fiume. Se a’ maestri di guerra fosse dato lo scegliere le parti del Montemar o del Belmonte, nessuno forse prenderebbe quelle che furono vincitrici; e perciò venne al Belmonte mala fama, non meritata, d’infedeltà, come calunnia spargeva; ben dovuta d’ignoranza. Caddero senza guerra, per il solo romore della battaglia di Bitonto, i castelli delle Puglie, eccetto Brindisi e Lecce. Buona schiera di Spagnuoli si avviò per gli Abruzzi; Montemar con le altre squadre tornò in Napoli; dei prigionieri alemanni tremilacinquecento passarono agli stipendii di Carlo; nuovi soccorsi d’uomini, di navi e d’armi venivano di Spagna e di Toscana. I principii di regno erano tuttodì più felici, e perciò nuove feste nella città. Giunto il Montemar, andò alla reggia, ed il re, sedendo a tavola di stato pubblica, siccome era costume, fece col piglio liete accoglienze al vincitore, il quale, decoroso e modesto, rispondeva con gl’inchini alle grazie. Ed allora Carlo in idioma spagouolo dimandò (come si usa quando manca subbietto al discorso) Che nuove abbiamo, Montemar? E quegli: «Che i vostri nemici han dovuto cedere alle vostre armi; che tutti, o estinti o prigioni, onorano la vittoria; che le vostre schiere combatterono con egual valore, ma furono più invidiate le Vallone.» I circostanti, maravigliando il debole richiedere del re, ammirarono il bel rispondere del conte. Al quale nel seguente giorno il re diede premii, onori, titolo di duca, e comando perpetuo del Castelnuovo. Dipoi fece alzare nel campo di Bitonto salda piramide, scrivendo nel marma la felicità della battaglia, sotto qual re, con quali armi, per qual capitano: monumento che, dopo i racconti della istoria, rimane segno di superbia non di virtù.
Cederono alle armi spagnuole, l’un dietro l’altro, tutti i castelli del regno; e le piccole guernigioni alemanne passarono a servir Carlo. L’isola di Lipari, minacciata da navi spagnuole, accettò lieta il nuovo dominio. Le sole maggiori fortezze, Pescara, Capua, Gaeta, resistevano. Ma il di 29 di luglio Pescara capitolò: le sue fortificazioni, benchè del genere moderno, difettano nella giacitura, nel rilievo, nelia mancanza di opere esteriori; e sebben tali resisterono a lungo assedio, nè il generale Torres abbassò la bandiera imperiale prima che fosse aperta larga breccia e tanto agevole da uscir per essa con la guernigione: onore che ottenne in mercede di virtù, sempre dal mondo, e vieppiù da nemici ammirata in guerra. Oltre alle riferite cose, un’altra di quello assedio è memorabile.
XXVI. E quasi ne’ medesimi giorni, a 6’ di agosto, la fortezza di Gaeta si arrese. Giova nelle storie presenti andar ripigliando alcune vecchie memorie, ehe senza tai ricordi rimarrebbero peregrine erudizioni di poche menti. Le prime mura di quella città furono alzate, come dice antica tradizione, da’ Trojani; ed Enea le diede nome dal nome della sua nutrice ivi sepolta. Subito crebbe d’uomini e di ricchezze, e non capendo nelle prime mura, si allargò in altre più vaste, Alfonso di Aragona vi alzò un castello, Carlo V, veduta la forza del luogo e l’ampio porto sicuro a’ legni di commercio e di guerra, fece chiudere la città di muri a fortezza: e ne’ succedenti tempi ogni nuovo re volle aggiugnervi opera o nome: tal che nel 1734, quando l’assediarono gli Spagnuoli, era poco men d’oggi e tale qual io la descrivo. Siede su di un promontorio che finisce un istmo nel mar Tirreno: il promontorio per tre lati s’immerge in mare, il quarto scende a ripida e stretta pendice che poi si allarga, fra i due lidi dell’istimo, sempre in pianura finchè non convalli co’ monti di Castellona e d’Itri. Nella cima del promontorio è torre antichissima detta di Orlando: le mura della fortezza seguono la china del terreno, e però vanno a serra ed a scaglioni a toccare d’ambe le parti l’ultime sponde, formando bastioni, cortine, angoli sporgenti, angoli entranti, così che ogni punto è difeso: vi ha la scienza moderna, non le regole, però che le impediva la natura del luogo. Non direi perfette quelle opere, nè spregevoli, e si richiede buono ingegno a difenderle o ad espugnarle. Nella fronte di terra una seconda cinta sta innanzi della prima, e due fossi, due cammini coperti, varie piazze d’armi la muniscono. In due soli punti sono più facili le rovine; nella così detta cittadella (il castello di Alfonso) e nel bastione della breccia che ha preso nome dalle sue sventure: da cinta, quanta ne resta, è tagliata nel duro sasso calcare.
Allorchè il blocco della fortezza mutò in assedio erano in essa mille Alemanni e cinquecento Napoletani del battaglione che il duca di Monteleone formò: nessuni o pochi artiglieri, così che i Napoletani, per natura destri, furono esercitati a maneggiare il cannone: abbondavano armi, attrezzi, provvigioni di guerra e vettovaglie. E dall’opposta parte il duca di Liria dirigeva le offese con sedicimila Spagnuoli, navi da guerra, armi, macchine, mezzi soperchianti; e però aperta in breve tempo la trinciera di assedio, procedendo per cammini coperti verso le mura, alzò parecchie batterie di cannoni e mortari da percuotere in breccia la cittadella, e controbattere i cannoni della fortezza. Avanzavano gli approcci, quando il duca Montemar venne ad accelerarne il fine ed a godere della vittoria; e poco più tardi, per le ragioni medesime e per fama di guerra, vi andò il re Carlo. Dopo il suo arrivo, moltiplicati i fuochi, cominciata la breccia e arrecato per le bombe danno e spavento alla città, il conte di Tattembach governatore della fortezza, in consiglio de’ capi del presidio propose di arrenderla, ma fu da’ minori contrastato. Misera ed umile condizione di un comandante di fortezza vedere alcun altro degli assediati di sè più lento a desiderare gli accordi. Contrastanti le opinioni, e aggiunte al dechinare delle difese le discordie, sopravvenne la necessità di darsi prigionieri al nemico, e tutto cedere della fortezza. Pochi d’ambe le parti vi morirono; nulla si operò che fosse degno d’istoria. E dopo ciò, in tutto il reame, la sola fortezza di Capua strettamente bloccata alzava la bandiera di Cesare, stando su gli Alemanni il conte di Traun, su gli Spagnuoli il conte Marsillac, tra loro amici e in altre guerre compagni o contrarii, prigioniero l’uno dell’altro, sbattuti dalla fortuna in varii casi, ma sempre in petto benevoglienti.
XXVII. Le presenti felicità di Carlo crescevano per le vittorie de’ Gallo-Sardi nella Lombardia, e per la rara costanza de’ potentati europei agli accordi contro l’Austria. La battaglia di Parma quasi disfece l’esercito alemanno in Italia; il principe Eugenio non bastava con poche genti a fronteggiare sul Reno gli eserciti potenti di Bervik e d’Asfeld; l’Inghilterra e la Olanda duravano nella neutralità; il Corpo Germanico dava pochi e mal sicuri ajuti all’Impero; la Russia, benchè amica, terminava i pensieri e la guerra nella Polonia. Il re Carlo, vistosi potente e sicuro, preparando l’impresa i di Sicilia, si volse alle cure interne dello stato; prese giuramento dagli eletti della città; raffermò per editti e religioni i giuramenti della baronia, e compose il ministero, il consiglio e la corte de’ più grandi per nome, nobiltà e ricchezze. Provvide le magistrature: accolse benignamente que’ vicarii di Cesare spediti dal vicerè nelle province, mandò vicarii suoi, nobili anch’essi e venerati: rimise molte colpe; consultò i seggi circa le gravezze da togliere. Favoriva la nobiltà per naturale propensione d’animo regio, e perchè, non ancora surto il terzo stato, nobili e plebe componevano il popolo. Dal qual favore proveniva pubblico bene, perciocchè i baroni grati a que’ benefizi, o allettati dalle grandezze della reggia o lusingati dalle ambizioni venivano in città, alleggerendo di loro i vassalli ed imparando costumi e forme di miglior civiltà. Ma vennero a bruttare le beneficenze di Carlo il sospetto e la intemperanza. Erano nella città pochi partigiani di Cesare (come ne ingenera qualunque impero), deboli, spregevoli, desideranti le vittorie di quella parte, ed ingannando, più che altri, le speranze proprie con falsi racconti di guerra e di politica. Scherniti per lungo tempo dalla fortuna, scemando di numero e di audacia, perdevansi nelle disperazioni e nel nulla; ma dalle felicità reso più molle l’orecchio de’ governanti e più superbo il cuore, formarono parecchie giunte, una nella città, altre nelle province, chiamate d'inconfidenza, destinate a punire per processi secreti e giudizii arbitrari i nemici del trono; disegnando con quell’alto nome alcuni miseri, e facendo di vuote speranze o sterili sospiri nemicizia e reità di stato. Della giunta di Napoli era giudice tra molti Bernardo Tanuccci, sconvenevole officio al grado e al nome, ma le prime ambizioni sono cieche.
T seggi della città, invitati, come indietro ho detto, e adunati a consiglio per proporre l’abolizione di alcune imposte, grati a Carlo ed ambiziosi, pur confessando il non soffribile peso delle presenti taglie pregavano a mantenerle; e di più a gradire gli universali sforzi nel donativo che offrivano di un milione di ducati. Così veniva frodato il comun bene dagli affetti ed interessi di quel solo ceto che mal rappresentava L’intero reame: avvegnachè il re per i bisogni della vicina spedizione di Sicilia, rendè grazie al consiglio, confermò le taglie, accettò il dono; e poco appresso que’ medesimi seggi imposero alla nazione gravezze nuove. I quali falli, troppe volte ripetuti ora da’ senati, ora da’ consigli de’ re, ora da’ ministri, generarono nel popolo il desiderio di tal cosa che fosse efficace nell’avvenire ad impedirli. E questo mi è piaciuto accennare su gli inizii della mia fatica per far procedere insieme co’ fatti la dimostrazione che i sociali sconvolgimenti sempre muovono da remote cagioni, crescono inosservati, e si palesano quando sono irrevocabili. Dimostrerà questa istoria (se la vita e le forze basteranno a’ concetti) che le opinioni, i bisogni, le opere, le rivoluzioni de’ Napoletani furono effetti necessarii delle presenti vicissitudini; e che la sapienza di governo consiste nel discernere in ogni tempo il vero stato di un popolo, non confidando in certe false specie di libertà o di obbedienza.
XXVIII. L’impresa di Sicilia fu stabilita e apprestata. Era in quell’isola vicerè per lo Impero il marchese Rubbi; e però che l’idea della guerra (contrastare al nemico per assedii) era comune ai due regni, reggeva la cittadella e i forti di Messina il principe di Lobkowitz, la fortezza di Siracusa il marchese Orsini di Roma, quella di Trapani il generale Carrera: pochi Alemanni guardavano il castello di Palermo e gli altri dell’isola. Il popolo ubbidiente a Cesare, desiderava Carlo per consueta voglia di novità e perchè l’odio a Tedeschi è antico e giusto nelle genti d’Italia. Era l’esercito spagnuolo pronto a muovere di quattordicimila soldati, fornito di artiglierie e di altri strumenti di campo e di assedio; molte navi correrebbero i mari dell’isola; duce supremo e vicerè per Carlo sarebbe il duca Montemar; duci minori, il conte di Marsillac ed il marchese di Grazia Reale; i popoli si speravano amici, la fortuna seconda. L’armata salpò da’ porti di Napoli e Baja il 23 di agosto di quell’anno 1734. A mezzo corso divisa, Montemar volse le prue a Palermo, Marsillac a Messina. Quando in Palermo si scoperse il navilio di Spagna, il vicerè imbarcò per Malta; i Tedeschi si chiusero nel castello; e il popolo, sciolto da’ freni della fedeltà e del timore, tumultuava: ma gli amici della quiete correvano armati per la sicurezza della città, ed il Comune inviò deputati al Montemar. unici di obbedienza e di allegrezza. Egli preceduto dagli editti di Carlo, sbarcato il dì 29 al porto di Solanto, entrò in Palermo nel vegnente giorno trionfalmente, Così a Messina, viste le navi spagnuole, il principe di Lobkowitz desertò due castelli per accrescere le forze della cittadella e del castello Gonzaga, che soli volea difendere. La città liberata del presidio tedesco si diede vogliosa alla Spagna. Furono poco appresso le principali fortezze assediate o bloccate, gli altri forti per minacce o con poca guerra ceduti, tutta l’isola occupata per armi o per editti. E pubblicando la fama gl’irreparabili danni patiti dall’Impero in Napoli, in Lombardia, in Germania, i Siciliani piegando alla certa fortuna. il dominio di Carlo si stabili sollecito ed universale.
Mentre in Sicilia si guerreggiava, cadde la fortezza di Capua. Gli Spagnuoli sempre minacciando assediarla, stringevano solamente il blocco; certi che presto mancherebbero le vettovaglie al numeroso presidio. Il conte Traun, più volte uscito da’ muri alla campagna, uccisi molti nemici, molti presi, guastò parte delle linee che circondavano la fortezza: ma non potendo predar viveri, le sue condizioni peggioravano; e le valorose geste, belle in campo, tornavano inutili alle difese. E però il di 24 di novembre Capua cedè, per patti onorevoli al vinto: i commissarii spagnuoli trovarono nella fortezza armi, macchine, polveri abbondantissime; i magazzini di vettovaglie affatto vuoti, gli ospedali pieni; sì che al conte Traun per quelle perdite crebbe nome di buon guerriero. Andava il presidio, cinquemila e cento soldati, a’ porti dell’Adriatico, indi a Trieste; ma nell’uscire dalla fortezza e nel cammino più che duemila Tedeschi passarono a Carlo, che di tutti gli eserciti europei sono quelli più facili a mutar bandiera; indizio di domestica servitù, effetto di milizie levate non per coscrizione o sorte, ma per comando ed arbitrio.
II duca Montemar chiamato alla guerra di Lombardia, partì di Sicilia, lasciando per le sue veci il marchese di Grazia Reale. Caddero indi a poco la cittadella di Messina (era caduto il forte Gonzaga) e le fortezze di Siracusa e di Trapani. Nulla fu memorabile in quegli assedii per arte, nè per valore; due soli fatti nella espugnazione di Siracusa attestano la semplicità de’ tempi. Ferveva l’assedio; il generale della fortezza, bramando un giorno di tregua per ristaurare nell’interno le trincere e rinfrancare i soldati, mandò allo Spagnuolo dicendo: «Il generale Orsini, ammirato delle arti e della eccellenza spagnuola nel condurre gli assedii, aver brama di vedere per istudio le opere loro; dimandarne il permesso. Se gliel concederete, sospenderemo le offese per quel poco d’ora che il generale sarà fuori della fortezza.» Que’ detti lusingarono l’alterezza spagnuola, tanto che la prudenza mancò; e, fatta tregua, l’Orsini, uscito, vide e lodò la grandezza delle opere; poi convitato dal generale contrario, lodando e rallegrandolo protrasse la dimora fino alla notte. Ricominciate le offese, continuavano ne’ seguenti giorni: una bomba del campo spagnuolo caduta e fermatasi nella stanza dove il generale Orsini riposato desinava, fu cagione, che, vista imminente la morte, egli in animo votasse alla santa protettrice della città, se dal pericolo campava, rendere la fortezza. La bomba non iscoppiò; la fortezza fu resa. L’ultimo della guerra fu in Trapani. E poichè le rocche de’ Presidii della Toscana erano passate alle armi di Spagna, la conquista de’ due regni al cominciare del luglio del 1735 fu compiuta. Nelle descritte guerre molti Napoletani e Siciliani seguirono le parti di Cesare o di Carlo, gli uni agli altri nemici; miseria di genti serve, divise di interessi e di voglie.
XXIX. Quando non ancora era compiuta la guerra di Sicilia, Carlo si avviò per quell’isola, e traversando il Principato Ulteriore, le Puglie, parte di Basilicata e le Calabrie, spargeva regalmente le ricchezze di America mandate a lui dalla madre. Più che due mesi e mezzo, aspettando che la cittadella di Messina si arrendesse, viaggiò nel regno, troppo dedito alla caccia per la quale i boschi si preparavano con grandi spese. Cacciando una volta presso a Rosarno, colto da stemperata pioggia, si riparò in povero tugurio, e trovando giovine donna or ora sgravata volle che il bambino portasse il nome di Carlo; si fece suo patrigno; donò di cento doppie d’oro la madre; assegnò al fanciullo ducati venticinque al mese finchè in età di sette anni venisse alla reggia. Lo scrittore che ciò narra, e che pur di mille vanità empiè le sue memorie, trovò meno degno di ricordanza il nome, il seguito e la fine dell’avventuroso fanciullo. Nella marina di Palmi sopra splendida nave Carlo imbarcò per Messina; e ’l principe Ruffo, che per baronale ambizione lo sperava in Scilla suo feudo, deluso in quella speranza, compose altra specie di corteggio. Innumerevoli barche ornate de’ segni di festa e di pace andarono incontro alla nave del re, e disposte a semicerchio lo accompagnavano. In cinque gondole meglio adornate non vedevi che donne le più belle di quella città, dove le donne son belle, gajamente vestite, quali di loro affaticandosi liete a remi, quali governando il timone, e le altre sonando istromenti e cantando a cadenze versi di allegrezza e presagi di comun bene. Lusinghe imitatrici della favola, che non però guastavano il cuore di Carlo, in tanta giovinezza temperato e severo, Con quel corteggio arrivò a Messina dove altre feste si fecero.
Due mesi appresso andò a Palermo per via di mare, giacchè il proponimento di andar per terra fu distolto dall’asprezza de’ luoghi, deserti di abitatori e selvaggi. Dopo magnifica entrata, Carlo l’ultimo giorno di maggio convocò nel duomo i tre Bracci o ceti del parlamento (il baronale, l’ecclesiastico, il demaniale), e tutti i notabili per nobiltà o grado: ed egli venuto in chiesa, e compiuti divotamente i riti sacri, montò sul trono, e ad alta voce (tenendo ferma la mano su i libri del Vangelo) giurò di mantenere i diritti del popolo, le ragioni del parlamento, i privilegi delle città: e, soddisfatto al debito di re, invitò i presenti a giurare obbedienza e fede al suo imperio. Tutti giurarono; il sacro patto fra i soggetti ed il re fu statuito in presenza del popolo e di Dio. Finita la cerimonia, si preparò per il terzo giorno nella chiesa istessa l’unzione e coronazione di Carlo che fu simile alle precedenti di altri diciotto re coronati in quel tempio, ma più magnifica per pompa e ricchezza, perciocchè la corona pesante diciannove once (cinque di gemme, quattordici d’oro e di argento) costava un milione e quattrocento quarantamila ducati. Fece coniare in abbondanza monete d’oro, le onze, e di argento le mezze-pezze, col motto: Fausto coronationis anno, che i tesorieri per tutto il cammino dalla chiesa alla reggia gettavano a pioggia nel popolo. Ciò fu il 3 di giugno dell’anno 1735. Quatiro giorni diede ancora alle pubbliche feste, e nel quinto, il re sopra ricchissima nave, seguitato da gran numero di altri legni, fece spiegar le vele per Napoli, dove approdò il giorno 12 tra le accoglienze universali e feste tanto prolungate che volsero in sazietà e fastidio. Quelle finite, cominciarono al re le cure di pace.
CAPO TERZO.
Governo di Carlo dopo assicurata la conquista sino allo vittoria di Velletri.
XXX. Non potrò esporre il governo di Carlo per successione di tempi e di cagioni, sì che la narrazione trapassi continuata di cosa in cosa, però che le leggi di lui dipendendo talora da intenzione di pubblico bene, più spesso da occasioni o dal volere de’ suoi genitori, o dall’esempio di Spagna, non erano simiglianti le cause, non unico e permanente il consiglio: ogni parte dello stato fu mossa nel corso intero del suo regnare per infinite prammatiche o dispacci senza legamento e senz’altra mira che di reggere secondo i casi, e d’imperare. Mi sarà dunque necessità rappresentare in complesso le sue riforme, onde apparisca nelle condizioni e nella civiltà de’ soggetti quanta parte si dovesse alla scienza e alla mente de’ reggitori.
Essendo il disordine maggiore ne’ codici e nei magistrati, doveva essere prima opera di Carlo comporre novello codice che togliesse dalla napoletana giurisprudenza l’ingombero di undici legislazioni: ma facendo alla spicciolata, ei ne diede una dodicesima, più adatta invero alle circostanze del popolo, ma imperfetta e incompiuta quanto le precedenti. Non osò abbattere i trovati errori: la feudalità, la nobiltà, le pretensioni del clero, i privilegi delle città, erano intoppi attorno a’ quali si aggiravano i provvedimenti per restringere o confinare i mali pubblici, che maggior sapienza o ardire avrebbe distrutti. Vero è che l’ingegno della nostra età usato alle sovversioni degl’imperii ed a’ maravigliosi fatti della civiltà, misurando il passato con le ampiezze del presente, dice mediocri le geste ch’erano grandi ne’ secoli decorsi: così come la posterità, leggendo le nostre istorie, e vedendo facili a lei i successi contro a’ quali questa età vanamente cozzò, dirà infingardi e timidi noi, che pure in politica peccammo di volere e osar troppo.
La giurisprudenza civile non mutò. Le leggi criminali variarono; ma dettate ad occasioni, e nello sdegno per delitti più frequenti o più crudeli, non serbavano le convenienti proporzioni, così che mancava la giusta e sapiente scala delle pene. Il procedimento civile di poco migliorò, erano sempre confuse le competenze, e sempre necessaria a sciorre i dubbii l’autorità del principe: i ministri aggiunti, i rimedii legali, tutti gli arbitrii del vicereale governo duravano. Il supremo consiglio d’Italia fu abolito: il collegio Collaterale cangiò in consiglio di stato: gli altri magistrati rimasero come innanzi, perchè il re aveva giurato non mutarli. Di nulla migliorò il procedimento criminale; restando in uso ii processo inquisitorio, gli scrivani, la tortura, la tassazione degl’indizii, le sentenze arbitrarie, il comando del principe.
I difetti che ho toccato, e che in più opportuno luogo descriverò, cagionarono che i delitti nel regno di Carlo fossero molti ed atroci: nella sola città di Napoli numerava il censo giudiziario trenta mila ladri: gli omicidii, le scorrerie, i furti violenti abbondavano nelle province, gli avvelenamenti nella città, tanto che il re creò un magistrato, la Giunta de Veleni, per discoprirli e punirli. Prevalevano in quel delitto le donne, bastandovi la malvagità de’ deboli; come piace alla nequizia de’ forti l’atrocità scoperta.
XXXI. Tali erano i codici. Carlo per paci e trattati con lontani regni ben provvide al commercio. Fermò concordia con l’impero ottomano; e per essa e per la riputazione del re cessarono le nemicizie co’ Barbareschi. Fece nuovi patti di commercio e navigazione con la Svevia, la Danimarca, la Olanda: è gli antichi rinovò con la Spagna, la Francia, la Inghilterra. Nominò tanti consoli quante erano le vie del nostro commercio; raccogliendo in una legge le regole del consolato, cioè podestà e diritti verso i nazionali, obblighi è ragioni verso gli esteri. Formò un tribunale di commercio, di otto giudici (tre magistrati, tre baroni esercitati alle materie commerciali, due commercianti) e di un presidente scelto tra i primi della nobiltà: il qual tribunale rivedeva in appello le sentenze de’ consoli, decideva le gravi quistioni di commercio, e perchè inappellabile, era detto supremo. Fece leggi per i fallimenti tanto severe che si direbbero tiranniche, se non attestassero le fraudi enormi e la corruzione de’ commercianti. Altro magistrato col nome di Deputazione di Sanità vegliava a’ contagi, a’ lazzeretti, a’ pericoli della salute pubblica per leggi tanto sagge quanto dava la scienza di quei tempi. Se dunque in un libro fossero state con ordine registrate le disposizioni legislative che sparsamente si leggono in molti dispacci e prammatiche, avremmo avulo un codice di commercio, pieno, finito, e ’l vanto di precorrere di mezzo secolo gli altri stati d’Europa. Carlo fondò anche un collegio detto Nautico; e per esso fu migliorata e prescritta la costruzione delle navi, formato il corpo de piloti, istruiti gli artefici e i marinari. E, come allro mezzo di commercio e d’industria, chiamò gli Ebrei; tollerati ne’ passati secoli, poi molestati dalla ignoranza della plebe, indi scacciati per decreto di Carlo V. L’editto di Carlo Borbone era umano ed esemplare: concedeva sicurtà, libera professione di coscienza, libero commercio, diritti di cittadini, domicilio prefisso nella città non ad oltraggio come in altri regni cristiani ma per più comoda e libera dimora. Ne vennero in gran numero, con grandi ricchezze, poi dirà questa istoria quali sorti ebbero e qual fine.
L’effetto delle riferite leggi fu sollecito; però che i nostri porti si frequentavano da navi straniere, e i nostri mercati da merci, ma la bandiera napoletana poco navigava ne’ mari altrui per gli errori della nostra interna amministrazione. Le mercanzie nostre erano i frutti della terra che l’annona serrava e marciva nelle canove: ogni vento, ogni meteora facevano temere scarsezza di alcun prodotto; e s’impediva uscire le biade, gli olii, il vino, sole materie che ci abbondino. Era dunque necessità sostenere il nostro commercio col danaro; ed il governo, ciò visto, e credendo alle fallacie della bilancia commerciale, giudicò dannoso il traffico esterno, e valevole a ristorarsene gravar la entrata delle merci con dazii esorbitanti, che registrò in alcune ordinanze dette tariffe doganali. Ignorava che tali dazii si pagano da’ consumatori; ma presto vide crescere il prezzo delle cose; venir più caro il vivere, scemare i valori produttivi, dechinare l’industria, scadere le ricchezze.
XXXII. Fra le descritte cure, Carlo, nell’anno 1738, strinse matrimonio con Amalia Walburga figlia di Federico Augusto re di Polonia, giovinetta che non compiva quindici anni, modesta, e di costumi pura e devota. Riverita nel viaggio per la Germania, venerata dalle corti d’Italia, giunse a Portella, nostro confine, dove incontrossi al re sotto magnifico padiglione fra pompe a lei nuove. Rallegrava i due sposi gioventù di entrambo, regno felice, cuor pio, sacro nodo, piaceri vicini ed innocenti: ella riverente e lieta inchinò il re, che sollecitò a rilevarla, col nome di sposa e di regina la strinse al seno. Venuti nella città il 22 di giugno, differirono la cerimonia dell’ingresso al 2 di luglio. Nel qual giorno Carlo instituì l’ordine cavalleresco di San Gennaro, che ha per insegna la croce terminata nelle punte da gigli, e in mezzo d’essa la immagine del santo in abito vescovile, col libro del vangelo, le ampolle del martirio, e ’l motto, In sanguine fœdus: pende la croce da una fascia di color rosso. Il re è gran-maestro; sessanta i cavalieri scelti per antica nobiltà e presente grandezza. Sono statuti dell’ ordine: Portar fede alla cristiana cattolica religione; serbare al re inviolabile fedeltà; udir la messa ogni dì; comunicarsi nel giorno del precetto e nel festivo del santo; far celebrare, alla morte di un cavaliere dell’ordine, solenne messa, e recitare l’uffizio de’ morti, e prendere la comunione; frequentare la cappella del santo; non fare, non accettare disfide a duello. E dipoi Benedetto XIV aggiunse per ogni cavaliere l’assoluzione piena de’ peccati, la successiva continua remissione nei dì miracolosi del santo tre volte l’anno, le plenarie indulgenze alla visita di tre chiese o altari; qualche dispensa dalle discipline del magro. Statuti e concessioni più convenienti a congreghe devote che ad ordine cavalleresco.
Poco prima dell’ordine di San Gennaro era stato fondato l’ordine militare di San Carlo, designando la stella, gli statuti, le vesti, gli uffici. Non però furono eletti i cavalieri, nè allora nè mai più; e non si vide l’ordine figurato nello scudo della corona. Io non ho saputo se la dimenticanza nascesse da ragione di stato o da incostanza, veramente insolita, di Carlo.
Questo re, pio di coscienza e di pratiche, inchinava in quel tempo alla Chiesa così per suo talento come per arte di governo. E poichè le ecclesiastiche riforme sono le opere più onorevoli e sorprendenti di lui, uopo è che io le descriva dal principio alla fine. Non è già incredulo re, o re largo di coscienza che abbassi la pontificale superbia: ma l’infante don Carlo che nella chiesa di Bari, vestendo abito canonicale, offizia tra canonici nel coro, che vestito d’umile sacco lava nella chiesa de’ Pellegrini i piedi al povero; che serve a messa per acquistarne le indulgenze; che ogni anno modella e compone di sue mani le figure e La capanna del natale di Cristo; che crede alla santità vivente del padre Pepe gesuita e del padre Rocco domenicano, frati scaltri ed ambiziosi.
XXXIII. Ho detto innanzi, che il pontefice Clemente XII temporeggiò fra le parti spagnuola ed alemanna, finchè incerta pendeva la fortuna, aspettando per favorire il favorito da lei. L’anno 1735, nel dì solenne di san Pietro, Carlo, già conquistatore sicuro e possessore delle due Sicilie, tutte le fortezze espugnate, sparite le insegne dell’impero, preparata la sua coronazione nella metropoli di Palermo, spedì ambasciatore al pontefice il duca Sforza Cesarini con la chinea e la somma di settemila ducati d’oro. tributo de’ re di Napoli. Il giorno stesso il principe di Santa-Croce ministro imperiale, offrì al pontefice il medesimo censo. La quale gara di obbedienza era finezza de’ due re per ottenere, in argomento delle proprie ragioni sul contrastato regno, il suffragio del papa. Ma la guerra d’Italia era viva e dubbiosa; la chinea dell’infante una novità, quella di Cesare un uso: non potevasi accettar la prima senzat pontificale manifesto, bastava per la seconda il silenzio; e fu accettata. Carlo ne sentì sdegno.
E poco appresso scoppiò in Roma tumulto contro gli uffiziali spagnuoli e napoletani, che mandati ad ingaggiar uomini per la milizia, e caduti in odio, furono minacciati, offesi, percossi, forzati a nascondersi dalla inferocita plebe, il tumulto si estese a Velletri dove altri ingaggiatori e soldati di Napoli stanziavano: e a tal si giunse nelle due città che in Roma sbarrate cinque porte, si custodirono le altre con a doppie guardie popolari; ed in Velletri munita la città, barricate le strade, armata sotto sedici capitani la milizia urbana, si disposero gli animi alla guerra. Delle quali cose informato Carlo, rivocò da Roma i suoi ministri, scacciò di Napoli i ministri del papa: il ministro di Spagna uscì di Roma; il nunzio, poco prima partito per le Spagne, avvisato che non sarebbe ricevuto in quegli stati, si fermò a Bajona. Tutte le apparenze furono di nemicizia. E frattanto i soldati cacciati da Velletri si formarono in ordinanza, ed assaltata e presa la mal guardata città, uccisero alcuni del popolo, imprigionarono maggior numero, disarmarono tutti, ed imposero taglia, come a città vinta, di ccudi quarantamila. Passano ad Ostia; saccheggiano le botteghe, incendiano le capanne de’ miseri fabbricatori di sale: e subito prorompendo a Palestrina le perdonano, per sedicimila scudi, il saccheggio. E peggio facevano, se Carlo, non per arrestare quelle licenze ma per segno di maggiore nemicizia verso Roma, non avesse comandato a quelle schiere di abbandonare le terre del papa, traendo seco i prigionieri di Velletri e le armi tolte.
Il pontefice ricorse a’ sovrani della Francia e dell’Austria: ma il primo schermi all’inchiesta; il secondo, rammentati al papa i mancamenti fatti all’Impero, pure offeriva di spedire a Roma numerose forze a difesa dell’apostolica sede. Clemente rifiutò l’offerta, e chinandosi all’umiltà delle preghiere, mitigò gli animi de’ Borboni; i prigionieri di Velletri e tre Romani trasteverini, capi del tumulto, chiesti dal governo di Napoli e qua venuti, dopo non breve pena di carcere e pubblica mostra di pentimento, furono per grazia del re lasciati liberi; ma le armi ritenute. Lo sdegno in Carlo rimase piuttosto ammorzato che spento.
E però il ministro Tanucci e parecchi Napoletani di alto ingegno crederono acconcio il tempo a ravvivare le ragioni dello stato e del re: l’abate Genovesi, benchè in molta giovinezza, chiaro per lettere e per virtù, dopo aver dimostrato quanta ricchezza le persone della Chiesa, povere per voti, consumavano, propose riforme giuste, pie, generose. Altri altro proposero; e la stessa città, per suppliche al re, pregava d’imporre sopra i beni e sudditi ecclesiastici le taglie comuni, e convertire in moneta i preziosi metalli che soperchiavano al culto di nostra santa ed umile religione. Mosso da tante voci ed argomenti, Carlo mandò a Roma suo legato monsignor Galliani, uomo di nobile ingegno e libero quanto i tempi comportavano, il quale esponesse al pontefice le richieste o pretensioni del re: Nominare a’ vescovadi e benefizii de’ suoi regni; dare anch’egli, come i re potenti della cristianità, esclusione di un nome nel conclave; ridurre a minor numero i conventi di frati e monache; imporre alcuno impedimento agli acquisti, ed alcuna libertà a’ beni chiamati delle manimorte; cessasse la giurisdizione de’ nunzii, il tribunale della nunziatura si chiudesse.
Il papa dubbioso e addolorato delle dimande, chiamò congregazione di cardinali, che tutte le rigettò come contrario alle antiche ragioni della santa sede. L’ambasciatore non chetò; ma crescendo in pretensioni, chiese l’adempimento del decreto di Onorio II a pro di Ruggiero, però che da Ruggiero discendeva Carlo, e da Onorio Clemente. Rammentò altre concessioni di antichi pontefici ad antichi re delle Sicilie: mentre al bel dire del Galliani assistevano la potenza de’ Borboni, la fortona di Carlo, la decrepitezza di Clemente e ’l desiderio di giovare al suo nipote Corsini ch’era in corte di Napoli, vago di andare vicerè nella Sicilia, e forse pieno di più alte speranze. Per i quali rispetti promise la investitura de’ conquistati regni al re Carlo, e concesse la berretta cardinalizia all’infante di Spagna don Luigi. Lo sdegno de’ due re fu placato, monsignor Gonzaga, nunzio trattenuto a Bajona, andò accetto a Madrid; e per la investitura di Carlo fu prefisso il 12 di maggio di quell’anno 1738.
XXXIV. Nel qual giorno il cardinale Trojano Acquaviva, ambasciatore del re, con seguito di feudatarii napoletani e spagnuoli andò al Quirinale, dove il pontefice nello maggior pompa, circondato da’ cardinali, arcivescovi e vescovi, fece leggere la bolla d’investitura conforme alle antiche, dicendolo Carlo VII, perché settimo re di Napoli con quel nome. Ma, fosse politica o vaghezza, Carlo non appose il numero, e si chiamò negli editti e ne’ trattati come innanzi della investitura. Quietati gli sdegni col pontefice, monsignor Simonetti ritirato in Nola tornò nunzio nella città: ed i ministri di Vienna fecero delle avvenute cose rimostranze al pontefice che, accorto, non diede orecchio, vedendo inchinare la fortuna all’altra parte; e volendo distogliere il re dalle pretensioni esposte dal Galliani, pericolose alla dominazione ed alle ricchezze del papato, concedette in dono al re la bolla della crociata, precetto che per danari assolve da’ precetti del magro.
XXXV. Scordate col passar del tempo le scambievoli blandizie della concordia, Carlo, dicendo che i trattati ed usi antichi non più convenivano al suo popolo, propose al papa novello concordato; e Clemente il concedeva, quando, lui morto nel 1739, successe al pontificato Benedetto XIV, cardinale Lambertini. Si sospesero le pratiche; ed alla fine per dimande ripetute di Carlo il papa nominò suo legato il cardinale Gonzaga; il re, il cardinale Acquaviva e lo stesso monsignor Galliani arcivescovo di Tessalonica, i quali convenuti il 2 di giugno del 1741, fermarono i patti del concordato che poco appresso, ratificati da due principi, divennero leggi e regole di stato e di coscienza. Il reame di Napoli era veramente sconcertato da’ diritti baronali e dalle immunità della Chiesa: quanto Carlo provvedesse a’ primi dirò a suo luogo; furono le seconde principal motivo al concordato. Si tolleravano tre specie d’immunità, reali, locali, personali. Per le reali le proprietà della Chiesa nulla pagavano de’ pesi pubblici; altre proprietà di natura laicale andavano confuse alle ecclesiastiche, e molte franchige, molti favori godevano le terre e le case dei ministri e delle persone della Chiesa: cosicchè le ricchezze, l’avarizia, il numero, l’ardimento dei clero secolare e regolare facevano che la finanza, solamente sostenuta da poche terre e pochi cittadini, fosse stretta e cadente. Finchè durò la guerra, ora la prudenza de’ baroni, più spesso i doni della regina di Spagna, e sempre i consigli estremi e i prodotti forzati della necessità coprivano la povertà del fisco: ma finite le sollecitudini e le venture della conquista, languiva lo stato, e le stesse vicereali gravezze non bastavano; tanto più che sopravvennero le spese di numerosa splendida corte, è i cresciuti bisogni pubblici per l’avanzata civiltà.
Le immunità locali erano degli asili. Dava asilo a’ rei ogni chiesa, ogni cappella, i conventi, gli orti loro e i giardini, le case, le botteghe, i forni che avevano muro comune o toccanti con la chiesa, le case de’ parrochi. Così che in tanta copia di protettori edifizii trovavansi gli asili sempre a fianco al delitto, guardati da vescovi o cherici, e dal furore della plebe che difendeva quelle ribalderie come religioni. Ugual danno veniva alla giustizia dalle immunità personali; però che al numero già troppo de’ cherici si univano le squadre armate de’ vescovi, gl’infimi impiegati alle giurisdizioni ecclesiastiche. gli esattori delle decime, i servi, i coabitanti, le stesse (un tempo) concubine de’ preti.
La corte di Roma per amore di Carlo e per buon consiglio di serbarsi amico re fortunato e vicino, concordò che scemassero le tre specie di immunità. Gli antichi beni della Chiesa d’allora innanzi pagassero la metà de’ tributi comuni; i nuovi acquisti l’intero: il censo dello stato separasse dal patrimonio del clero le proprietà laicali confuse in esso per malizia o errore; le franchige fossero ridotte; i favori d’uso rivocati. Si ristringesse alle chiese l’asilo, che rimarrà per pochi falli e leggieri. Definito lo stato ecclesiastico e ridotte le immunità personali, la giurisdizione vescovile fosse circoscritta; la secolare di altrettanto ampliata: accresciute le difficoltà per le ordinazioni e le discipline de’ cherici a ristrignere il numero de’ preti. Un tribunale chiamato misto (perchè di giudici ecclesiastici e laici) decidesse le controversie che nascessero del concordato.
Le speranze de’ sapienti e de’ liberi pensatori furono in parte appagate, in parte deluse. Della investitura, della chinea, de’ donativi, de’ benefizii sul patrimonio ecclesiastico, de’ vescovadi da ridurre, de’ preti e frati da minorare, della piena abolizione degli asili, come del foro ecclesiastico e delle immunità, e, per dirla in breve, de’ maggiori interessi della monarchia non si fece parola nei patti o nelle conferenze del trattato. Abbondava l’animo a’ negoziatori napolitani; mancava la speranza del successo. Lo stesso popolo, lo stesso Carlo re, que’ medesimi che traevano benefizio dall’assoluta libertà, ignoranti o divoti, non la bramavano.
XXXVI. Il concordato diede motivo e principio a più grandi riforme: il governo interpretando, estendendo, e talora soprausando que’ patti, ordinò la giurisdizione laicale; restrinse le ordinazioni de’ preti a dieci per mille anime; negò effetto alle bolle papali non accettate dal re; impedì nuovi acquisti; bandi impotenti le censure dei vescovi. se i regnicoli vi incorressero per adempimento di leggi o di comandi del principe. Tutte o presso che tutte le contese erano decise a pro de laici, tutte le licenze del clero punite. Due padri di alto grado nell’ordine loro si opposero in causa di asilo al giudice del luogo; Carlo, fatti estrarre per forza dalla chiesa i rifugiati, sfrattò dalla provincia ignominiosamente i due frati. Devota famiglia di Abruzzo ergè chiesa in voto al santo patrono dell città; e poichè legge di Carlo vietava fondar nuove chiese senza regia permissione, comandò che quella fosse data ad uso civile o abbattuta: ma zelo di religione non permettendo alla pia famiglia mutar destino all’edifizio, fu per pubblico esempio demolita. Negò licenza di fondar nuovi collegi di gesuiti; e per le troppe insistenze e superbia dell’ordine, rammentando il voto di povertà, gli proibì con legge i nuovi acquisti. Simili provvidenze erano continue: e però debbe dirsi a pregio di Carlo che nelle relazioni con la Chiesa, egli prima per trattati o per leggi tolse gl’impedimenti alla civiltà, e poi per opere agevolò il sentiero a novelli progressi.
XXXVII. Per trarre giovamento da’ patti del concordato su le immunità reali, bisognava conoscere appunto i possessi della Chiesa, e similmente de’ feudi, delle comunità, de’ pii luoghi laicali, delle pubbliche fondazioni. La statistica, oggi sì chiara, era ignota in que’ tempi; ma una specie di lei (che necessariamente sorge, benchè informe, ne’ principii di ogni civiltà) si offre alla mente de’ reggitori tostochè vogliano governare un popolo non più co’ modi della prepotente ignoranza, cioè segreto ed arbitrio, ma con le regole della giustizia e la coscienza di bene operare. Tal era l’animo del re Carlo e del suo ministro: i benefizii del loro governo, poichè mancavano la scienza e le dottrine, nascevano da istinto e da amore: siccome i mali, dagli errori del tempo e dalla strettezza del loro intendimento. Era Carlo ignorante, poco meno il Tanucci, entrambo, insufficienti ad anticipare la futura civiltà, coltivavano la presente e ne spandevano i doni e le regole. Oggi tal re, tal ministro, posti a governare nazioni, le farebbero grandi o felici. E però, che la scienza amministrativa di allora era il catasto, essi l’ordinarono, introducendovi molte parti di statistica universale.
Posando l’opera su le volontarie rivelazioni, i semplici, gli onesti palesavano il vero; gli scaltri mentivano: fu mirabile sincerità ne’ migliori dello stato e negli ultimi del popolo; come le discordanze e le menzogne ne’ curiali, ne’ cherici, ne i baroni. I privilegi di alcune città mantenuti per gli editti di Filippo V e dello stesso Carlo; le terre feudali soggette alle proprie leggi: alcune immunità della Chiesa riconosciute nel concordato, impedivano la celerità del lavoro: ma essendo salda e continua L’opera del governo, il catasto fu compiuto, e comunque imperfetto triplicò la entrata pubblica, diede alcun ristoro alla classe più misera de’ cittadini; molte passate fraudi rivelò, molte per lo avvenire impedì. E più sarebbe stato il benefizio, se il Tanucci o Carlo intendevano le regole della finanza; fu mantenuto il testatico, la sola vita era cagion di tributo, si tolleravano gravezze alle spese ed all’entrate, molte rendite di doppio aspetto doppiamente pagavano al fisco, molte altre sfuggivano alle imposte, pagavano le arti e i mestieri, non pagavano le professioni dette nobili, come di medico, di avvocato, di giudice, per astuzia e brighe di costoro. Gli arrendamenti, specie di dazii indiretti, disordinavano le private industrie; quello del tabacco, vietando la coltivazione libera della pianta, per piccolo finanziero guadagno distruggeva gran frutto delle nostre terre. E non fa maraviglia che la finanza fosse mal regolata nel 1740, se a’ dì nostri in nessuno stato de’ più civili si vede ordinata del tutto con le regole della scienza e dell’utile universale. Frattanto il concordato, il catasto, il senno di Carlo, la parsimonia del Tanucci, fecero contento il popolo e così copioso l’erario, che soperchiando a’ bisogni bastasse a monumenti di grandezza.
XXXVIII. Ma però che breve o interrotta suole essere la felicità di un regno, sorse nuova guerra, e per essa nuovi pericoli e maggiori spese. Sin dall’anno 1737 era morto Gian-Gastone gran duca di Toscana, ultimo della casa Medicea, e spenta in lui la invilita famiglia. Filippo V e Carlo re di Napoli si chiamarono eredi al trono di Toscana; nudo titolo che non mosse alla guerra gli altri re pretendenti. Ma tre anni appresso, nel 1740, morto l’imperatore Carlo VI, si ridestò la sopita ambizione di Filippo V agli stati di Milano, Parma e Piacenza. Elisabetta sua moglie, accendeva gl’impeti del re per insazietà d’impero e per dare un trono al secondo figlio don Filippo. Era quel re di Spagna infingordo, crudelmente divoto, trascurante di governo, vario, timido, sospettoso; ma cupido di trattar la guerra per ministri. Perciò collegarsi co’ nemici della regina di Ungheria Maria Teresa figlia del morto imperatore Carlo VI, apprestare eserciti, spedirne in Italia, comandare al figlio re di Napoli di unire alle schiere spagnuole quante più potesse de’ suoi reamî, armare e muovere numeroso navilio, spandere editti, empire del grido di guerra l’Italia e l’Europa, furono concetti di un giorno, opere di breve tempo.
Gli eserciti spagnuoli retti dal duca di Montemar e dodici mila Napoletani dal duca di Castropignano si unirono a Pesaro sotto il sommo impero del Montemar. Alemanni e Savojardi, tumultuariamente radunati nella Lombardia, comandati dal conte di Lobkowitz andarono incontro al nemico. Benchè uguali le forze, uguali speranze, incerte le fortune delle due parti, pure gli Alemanni andavano arditamente, gli Spagnuoli si arrestarono a Castelfranco. E però che il duca di Modena si era accostato alle parti di Spagna, fu presa da Lobkowitz la sua città, occupata Reggio, espugnata Mirandola, ridotte Sesto e Monte-Alfonso: poco restava del ducato; e ’l Montemar, timido e lento, non soccorreva l’infelice alleato; è quasi in presenza numerando i colpi del nemico, stava come spettatore delle rovine. Alfin mosse come fuggitivo d’innanzi a Lobkowitz.
XXXIX. In quel tempo navilio inglese che il commodoro Marteen dirigeva entrò nel golfo di Napoli; e non facendo i consueti saluti a porto amico, spedì ambasciatore che ad un ministro di Carlo disse: «La gran Brettagna confederata dell’Austria, nemica della Spagna, propone al governo delle Sicilie neutralità nelle guerre d’Italia: se il re l’accetta, richiami le squadre napoletane dall’esercito di Montemar: se la rifiuta, si apparecchi a pronta guerra, però che l’armata bordeggiante nel golfo al primo segno bombarderà la città. Due ore si danno al re per iscegliere.» E per la esatta misura del tempo cavò di tasca l’oriuolo e disse l’ora.
Era la città senza difese di trinciere o di presidio; il porto, la darsena, la reggia non muniti, non guardati, il popolo costernato. Mancava il tempo alle opere ed al consiglio; non era militare la corte, erano timidi i ministri; e perciò turbato il senno de consiglieri tumultuariamente chiamati da Carlo, fu accettata la neutralità; e per lettere che il superbo araldo legger volle, fu comandato al duca di Castropignano di tornare con l’esercito nel regno. Altre lettere segrete narravano al Montemar i dolenti fatti di Napoli; e fogli e ambasciatori ne informarono le corti di Francia e di Spagna, e l’infante don Filippo che guerreggiava nel Milanese contro gli eserciti savojardi e tedeschi. Scomparve nel giorno istesso della fermata neutralità il navilio inglese. Carlo, tardi provvedendo alla difesa della città, fortificò il porto, alzò trinciere e batterie intorno al golfo, le munì di cannoni e soldati. E ripensando alla patita ingiuria, vedendo suscitate contro Italia le ambizioni di tutti i principi, dubbio il fine della guerra, vacillante la fede, non mai certo il sacramento di alcun re, sperò assicurare la sua corona e la quiete del regno con volgere allarmi le proprie ricchezze, le nuove entrate del fisco, le passioni e gl’interessi del popolo. Ristaurò molte navi, altre fece a nuovo; fondò fabbrica di cannoni, archibugi, macchine di guerre: coscrisse novello esercito per province, affidandone i primi officii a’ suoi soggetti; radunò armi e munizioni. Così preparato, mirando alle cose d’Italia, modesto e giusto reggeva lo stato.
Il duca di Montemar menomato degli ajuli di Napoli divenne più timoroso verso il nemico, più veloce a ritrarsi, e ’l suo re incolpandogli le sventure di quella guerra, lo ricovò e il tenne disfavorito e lontano venti leghe dalla reggia e dalla città. Il conte di Gages, di maggior fama ed animo, venne capitano agli Spaznuoli: gli animò, li mosse, combattè più volte o vincente o perdente; ma, non pari di numero al nemico, li ridusse nel territorio di Napoli dietro al Tronto. Il fortunato Lobkowitz accampò sull’altra sponda, minaccioso così per le ordinanze dell’esercito; come per gli editti della Sua regina.
La quale, ambiziosa come donna, credeva certa la conquista del reame per la novità del re, le poche milizie non usate alla guerra, ed il mobile ingegno de’ Napoletani; mentre dalle sue parti esercito grosso e vincitore, capitano felice, gran numero di partigiani nel popolo. Più incitavano l’animo regio e femminile i ministri di lei nella corte di Roma, e alquanti Napoletani esuli volontarii o discacciati dal governo di Carlo, uomini (conforme vuole il loro stato) poveri, speranzosi, promettitori di larghi ajuti e di congiure; instigatori alla guerra contro la patria per brama di ritorno e di vendetta, Maria Teresa, regina di Ungheria, imperatrice de’ Romani, prometteva per editto a’ popoli delle Sicilie disgravare i tributi, confermare gli antichi privilegi, altri conferirne, discacciare l’avara riprovata setta degli Ebrei, disserrare le prigioni, concedere impunità, premii, mercedi, accrescere l’annona, scemare i prezzi del vitto: e dopo ciò, vantando gli affetti del popolo alla casa di Cesare, veniva tentando le ambizioni de’ grandi, la incostanza della plebe; e simulando secreti accordi per inanimire le sue parti e insospettire il governo.
XL. E sì che il re informato di que’ fatti, adunò congresso nella reggia, ed esponendo la naturale alleanza con la Spagna, ma la fermata neutralità con l’Inghilterra, il desiderio e il bisogno di pace, ma le presenti necessità di guerra, il pericolo di muovere l’esercito, il pericolo di tenerlo ozioso, la scarsezza dell’erario, ma il danno certo di alimentare due eserciti stranieri e veder le province devastate per accampamenti e per battaglie, la fedeltà de’ popoli e la incostanza dell’umano ingegno e della fortuna, tali cose ed altre rammentando e contrapponendo, dimandava consiglio. Raro avviene nelle numerose adunanze la uniformità de’ voti, e più raro che qualche sentenza vile o timida non trovi chi la dica e chi la secondi. La guerra era meno dannosa della pace, lo starsi ozioso aspettando gli eventi era certa servitù della Spagna o dell’impero: e frattanto le opinioni del congresso pendevano per non so quale religiosa osservanza della neutralità: e ’l buon Carlo per amor di quiete, aspettando favori dal tempo e dalla sorte, irresoluto ed incerto sperdeva i giorni; quando lettere di Filippo e di Elisabetta suoi genitori, rimproveratolo di quella incertezza e tardanza, numerati i pericoli, mostrato ad esempio l’animo dell’infonte Filippo nelle ostinate guerre di Lombardia, ricordate le geste della casa, lo incitavano all’armi ed alla guerra.
Ed allora Carlo, rimosse le dubbiezze, nè più attesi i paurosi consigli del duca Montallegre (cortigiano piacevole nella reggia, sennato e valente a’ negozii di pace, non atto e non inchinato alle milizie, buon consigliero nella quiete, pessimo ne’ pericoli de’ regni) adunò e mosse le schiere, prima promulgando un editto che diceva: «La neutralità promessa all’Inghilterra offendeva gl’interessi della mia casa, gli affetti della mia famiglia, il bene del mio popolo, il debito e la dignità di re; ed io la promisi per evitare all’amata allora sprovvista città il bombardamento e i danni minacciati da un’armata inglese venuta nel golfo e nel porto improvvisamente nemica. Ma comunque acerba quella promessa e comunque data, perchè di re, fu mantenuta: rivocai l’esercito combattente sul Po; gli eserciti di mio padre, menomati di quello ajuto, pericolarono: i porti furono chiusi alle navi spagnuole, il commercio impedito, negati i soccorsi, e per la opposta parte tutto concesso alla bandiera della Inghilterra. Mercede a tanti danni e dolori, ricompensa di tanta fede, poderoso esercito tedesco secondato da navi inglesi, fingendo d’inseguire poche i schiere spagnuole, sta per valicare il Tronto, portar guerra negli stati di Napoli, e, se vincesse, scacciarne il re. La neutralità è dunque rotta, e rotta per essi. Io, con le forze de’ miei regni, con la giustizia della mostra causa, e co’ soccorsi che prego da Dio, andrò a confondere quegl’iniqui disegni.»
Il re medesimo volea guidare in Abruzzo venti mila soldati per unirli a que’ di Spagna, constituire una reggenza per governo dello stato, ricoverare in Gaeta la giovine sposa e la bambina di poco nata. Pubblicati gli editti e gli apparati, fu grande spavento e dolore nel popolo: cinque eletti della città, mentre la moltitudine stava mesta ed affollata nella piazza della reggia, pregarono a Carlo non disertasse il regal palagio del nome de’ Borboni: lasciasse la regina e la infanta alla fede del popolo, custoditrice più valida che i muri di Gaeta. Ma quegli, riferite le grazie, non mutò consiglio, dicendo chè in aperta città il solo timore di nemico assalto, e lo zelo medesimo delle guardie e de’ cittadini farebbero pericolo a donna incinta. Confidava nella fedeltà universale: e tanto che in quel giorno farebbe liberi tutti quei tristi e miseri tenuti prigioni per delitti di inconfidenza, partigiani di que’ Tedeschi ch’egli andava a combattere con l’armi. Usano i re tiranni imprigionare ne’ pericoli fino gl’innocenti: Carlo i rei. Le quali magnanimità divolgate produssero nel popolo tanto amore e tanto zelo che pareva famiglia, non stato. La nobiltà, dopo di aver manifestato il suo disdegno all’imperatrice regina, perchè osava tentare la sua fedeltà, con foglio scritto e per deputati rinnovò a Carlo i giuramenti: i rappresentanti della città dando al re trecento mila ducati per sostegno della guerra, promisero vettovaglie quante bisognassero agli eserciti, finchè la guerra durava; e la plebe a crocchi, a moltitudini andava gridando per la città voci augurii di felicità e di onore. Tra quali fortunati presagi la regal famiglia partì, la regina con la infanta per Gaeta, il re per gli Abruzzi dove raggiungerebbe le sue schiere.
XLI. Prima ch’elle si unissero all’esercito spagnuolo; il generale tedesco Broun con potente mano di fanti e cavalieri, passato il Tronto, campeggiava quelle estreme parti degli Abruzzi, e tuttodì le schiere combattevano: non temporeggiando, però che Broun aspettava l’esercito di Lobkowitz, e ’l conte di Gages quello di Carlo. Avvenne in quel tempo fatto singolare e memorabile. Un Napoletano, soldato agli stipendii spagnuoli nel reggimento dragoni, lasciato solo dai suoi compagni fuggitivi, cadde in mezzo a’ nemici: piccolo drappello di cavalieri ungheresi: veduto il suo peggio se restava a cavallo, discese, e snudata la spada, scitica per ordinanza di quel reggimento, combattè con tanta felicità e valore che uccise sette de’ nemici, altri ferì, altri fugò, sì che rimasto vincitore nel campo, raccolse le spoglia ostili, e bagnato di sangue proprio e di altrui tornò al campo spagnuolo dove, deponendo ai piedi del conte di Gages sette armi vinte, n’ebbe dalle squadre alta lode, e dal Conte duecento monete d’oro che l’onoratissimo soîdato spartì a’ commilitoni, null’altro serbando della impresa che la memoria.
Avanzavano sul Tronto per opposte strade Lobkowitz e Carlo. Vi giunsero, ed ognuno d’essi rassegnò le sue schiere, Lobkowitz, già chiaro per le geste di Boemia, reggeva ventimila fanti, seimila cavalieri; succedevano gli stormi di Transilvani, Illirici, Croati, usciti dalle loro foreste per comando della regina, e, sotto specie di guerrieri, predatori e ladroni; quindi altre truppe di fuggitivi, disertori e ladroni che guerreggiando a modo libero e leggero, erano chiamate centurie sciolte; compievano quell’esercito duemila cavalieri ungheresi che, volontarii ed arditi, a modo de’ Parti, campeggiavano vasto paese, infestavano le strade, predavano viveri, armi ed uomini, esploravano i campi e le mosse. Era dunque l’esercito tedesco forte almeno di trentacinquemila combattenti, ma la fama e la prudenza de’ capi aggrandiva il numero e la possanza. Carlo teneva il sommo impero sopra Spagnuoli e Napoletani. Erano i primi undici reggimenti di fanti, tre squadre di cavalieri, cinquecento cavalleggieri, trecento guardie a cavallo del duca di Modena, che profugo da’ suoi stati e fedele alla causa di Spagna militava sotto il conte di Gages; erano quelle guardie Ungheri la più parte passati per diserrzione agli stipendii spagnuoli; messi perciò dalla mala fortuna o dal malo ingegno nella disperata vicenda di vincere o morire. Compiva l’esercito spagnuolo (ventimila soldati) un reggimento di fanti catalani, leggieri di vesti e d’armi, atti alle imboscate, celeri a’ movimenti, sprezzatori del nemico e della morte. Il conte dGages guidava le dette schiere, usate alla guerra ma stanche. I Napoletani rassegnavano ventidue reggimenti di fanti, cinque squadroni di cavalleria (diecinovemila soldati); il duca di Castropignano n’era il capo. Cinque reggimenti erano nuovi; tutto il resto agguerito, sia in Italia sotto Montemar e l’infante Filippo, sia negli assedii delle fortezze delle due Sicilie, o per fino in Affrica presso Orano contro le ferocissime nazioni dei Mori.
Le artiglierîe d’ambe le parti abbondavano: soperchiavano nell’esercito di Carlo le macchine di guerra dirette dal conte Gazola piacentino, chiaro per matematiche dottrine e per ingegno; molte navi inglesi obbedivano a Lobkowitz, le proprie navi a Carlo. Prevaleva per numero l’esercito borboniano, per grido l’alemanno, Questo accampava in due linee lungo la sinistra riva del Tronto, ed aveva innanzi, come ho detto altrove, ardita mano di cavalieri e fanti che, menati dal generale Broun, campeggiavano pazzamente la diritta del fiume. Qui stavano in prima linea le squadre spagnuole, ed in seconda ed in riserva le napoletane. Il re aveva poste fe sue stanze in Castel-di-Sangro. Era il verno al declinare, Lobkowitz aspettava i tumulti del regno, e Carlo i benefizii del tempo, cioè scarsezza di viveri nel campo nemico, malattie, discordie. Stavano gli eserciti come in riposo.
XLII. Ma Lobkowitz, spinto dalle persuasioni del conte Thun ambasciatore di Cesare in Roma (vescovo caldo di guerra, capo delle infelici trame del regno) e necessitato da’ comandi della sua regina, ruppe le dimore e si apprestò agli assalti. L’entrata per gli Abruzzi era difficile perchè rotte le vie, i monti coperti di neve, povero il paese, il nemico in presenza. Preferendo le strade per Ceperano e Valmontone, memorabili nelle passate conquiste di Napoli, chiamò a sè il Broun, e, abbandonate le regioni del Tronto, si avviò verso Roma. Carlo il sapeva innanzi per lettere del cardinale Acquaviva suo legato presso l’apostolica sede; il quale, scaltro e largo ne’ doni, era informato de’ disegni de’ Cesarei dapoi che trovò nella casa del Thun chi gli tradisse i segreti del suo signore. Partito l’esercito alemanno, mosse quello del re, il primo per le molte vie dell’Umbria, il secondo per Celano e Venafro. Le apparenze della guerra mutarono, però che sembrando fuggitivi gli Alemanni, tanto animo si alzò ne’ contrarii, che allegri e tumulluanti dimandavano a Carlo di combattere. Procedendo gli eserciti secondo i proprii disegni, il conte Lobkowitz fece in Roma ingresso ambizioso, quasi trionfale, perciocchè il papa è la plebe lo accolsero come felice in Italia, e come già incontrastabile conquistatore dei vicini reami delle Sicilie; tanto l’aspetto grande e feroce dei suoi Germani, il vestito barbarico, il parlar nuovo, parevano segni e promesse di vittoria. Ma non così certo era il capitano che lento e cauto s’inoltrava, così che potè Carlo giugnere alla frontiera e, trasandando i rispetti di pusillanime coscienza e le domande o preghiere del pontefice, guidar le schiere nelle terre papali. Alcuni drappelli ungheresi, altri borboniani esplorando il cammino volteggiavano; raramente o non mai combattevano.
Stando il re con buona parte dell’esercito su la strada di Valmontone seppe dalle sue vedette vicino e potente il nemico; non erano gli ordini disposti a battaglia; non arrivate le artiglierie, le strade per recente pioggia difficili, il terreno impraticabile. Ma più potendo la necessità del presente, apprestata una fronte a trattenere gli Alemanni, sollecitava le altre schiere e le artiglierie; quando impetuoso temporale arrestò gli uni; e Carlo, in quel mezzo, volgendo cammino, ridusse gli altri tamultuariamente a Velletri, contento di accampare in luogo forte, e al nuovo giorno prender consiglio dalle posizioni del nemico e dagli eventi. Ed agli albori del nuovo di, mandate intorno ke scolte, collocò l’esercito in ordinanza; e udito che il nemico avanzava, dispose l’animo suo e de’ suoi a combattere. Apparvero sopra i monti le prime armi Alemanne; ed altre ad altre succedendo, l’oste intera si spiegò in linea. Ma Lobkowitz, numerate dall’alto le schiere nemiche, vista l’asprezza del terreno, pensando che la cavalleria, suo maggior nerbo, non potrebbe operare fra quelle valli, sentì venir manco l’ardire e pose le sue genti a campo, munito di artiglierie, impedimenti e trinciere, Il re seguì l’esempio. Quella terra poco innanzi designata per dar battaglia, videsi coperta di accampamenti; e tornò lenta la guerra, sperando, come da principio, Lobkowitz ne’ tumulti, Carlo nel tempo.
XLIII. La città di Velletri siede in cima di un colle, intorno al quale scende il terreno in ripide pendici, coltivate ad oliveti e vigne. Nel fondo di ogni valle, che sono tre, scorre piccolo torrente: e poi le convalli verso il settentrione e l’occidente, salendo più ardite per succedenti rupi e montagne, hanno termine al monte Artemisio, quattro miglia, o più, lontano da Velletri. Il campo di Carlo aveva il corno destro incontro al detto monte, il sinistro verso la porta che dicono Romana, il centro nella città: la fronte del campo era guardata più che munita: poco indietro a lei, sul colle de’ Cappuccini, stavano disposte a parco militare macchine, artiglierie; ed accampate molte squadre per soccorso e sostegno della prima fronte: campi minori succedevano, sia per guardia di alcun luogo, sia per comoda stanza dei soldati; così ordinate le cose che in breve tempo e per segni tutto l’esercito sarebbe in armi. Una fonte perenne che abbelliva la piazza della città e rallegrava gli abitanti mancò perchè il nemico, rompendo i canali, deviò l’acqua; ed il campo scarsamente ne aveva, con fatica e per guerra, da piccola vena scavata nel fondo di una valle, tre miglia lontano dalla città. Le vettovaglie abbondavano, provvedendole a Carlo largamente l’amore de’ soggetti.
L’esercito contrario accampato negli opposti monti spiava tutta l’oste del re, numerava gli uomini, le armi, stava coperto dalle montuosità del terreno: abbondava d’acqua, scarseggiava di viveri, benchè Roma ed altre città fruttassero a lui. Le posizioni più valide non vantaggiavano Lobkowitz, che per assaltare il campo nemico dovea portar le schiere nel fondo delle valli dominate da esercito più forte, Scelse altri modi: avanzando, come negli assedii, stringeva il nemico e lo molestava per colpi vicini di moschetto e cannone: scacciò da un colle, distante cinquecento passi dalla città, un reggimento spagnuolo che vi stava a campo; e munì quel luogo di trinciere e di guardie. Continui ed improvvisi assalti nel giorno, nella notte, toglievano riposo alle nostre genti. Sperava Lobkowitz che il re, vedendo i suoi travagliati da presso, pazienti alle offese, inabili ad offendere, levasse il campo; e antivedeva lietamente tutti i mali che al nemico avverrebbero, ritirandosi d’innanzi ad esercito vicino e soprastante.
XLIV. Gli stessi pericoli vide Carlo; e radunato sollecito consiglio, il conte di Gages propose ed esegui fatto ardito e memorabile. Nella notte, con quattromila soldati, per vie deserte cautamente marciò, così che giunse a’ primi albori sopra il monte Artemisio. Mille soldati lo guardavano; ma per vino, per sonno e per natural negligenza, dono lunga sicurtà, giacendo sprovveduti, un sol momento gli scoperse al nemico e gli oppresse: il capo fu preso nella tenda; altro uffiziale maggiore, desto e sollecito, resistè: ma vinto dal numero e spossato dalle ferite fu prigione, e morì: pochi nel tumulto fuggendo, andarono nunzii a Lobkowitz degl infelici successi, Si levò in armi tutto il campo alemanno; ma già dal campo di Carlo altre schiere movevano; ed il de Gages discendendo dall’Artemisio, espugnava Monte-Spino, faceva nuovi prigioni, predava artiglierie e vettovaglie. Tanta paura e disordine, e mancar di consiglio ne’ capi, di obbedienza ne soggetti, entrò nel campo de’ Cesariani, che a stormi e a truppe fuggivano verso Roma; e in Roma istessa, sentite le agitazioni, chiuse le porte, si credeva certo e vicino l’arrivo de’ due eserciti, il vinto e il vincitore.
Ma i pensieri del conte di Gages si limitavano all’Artemisio, e però preso, munito, lasciatolo in guardia di buon presidio, tornò a’ suoi pago e gonfio della impresa, superbo di prigioni, ricco di prede. In quella età più faceva l’ingegno che la scienza di guerra; i vasti ordinamenti erano rari a’ capitani di esercito, fuorchè a pochi privilegiati da natura a’ quali è istinto il sapere. Se il Gages era a dì nostri, per sole imparate regole facea succedere alla prima schiera la seconda, che fosse ajuto nelle sventure o rinforzo ne’ successi della battaglia: a segni convenuti, tutto l’esercito di Carlo attaccava la fronte del campo alemanno: scendeva de Gages da’ monti, ed assalendo a rovescio i posti nemici, gl’incalzava e spingeva gli uni su gli altri: quello era l’ultimo giorno della guerra. Ma poichè la vittoria si arrestò a mezzo corso, potè Lobkowilz raffrenare le paure, contenere i fuggitivi, ripigliare il Monte-Spino, riordinarsi. E per avere perduto il monte Artemisio tutte le posizioni degli Alemanni piegarono verso l’ala diritta del campo; il qual movimento fu cagione ed appoggio a maggior fatto.
Tornato uno e l’altro esercito all’usata lentezza, gli Alemanni per l’estranio clima infermavano, per penurie scontentavansi, per ingenila ribalderia desertavano; si assottigliava l’esercito. Premevano il cuore al conte Lobkowitz i danni dell’Artemisio, la mala fama che ne correva fra le sue genti e in Italia, i recenti fatti che svergognavano i vanti: ma in quel tempo il vescoro Thun accertava pronta nel regno la ribellione, sol che l’ajutassero poche forze; e la imperatrice mandava da Vienna comandi audaci ed altieri. Sì che Lobkowitz scrisse all’ammiraglio inglese, minacciasse Gaeta, e incitando i popoli, corresse le marine del regno: spedì nuovamente negli Abruzzi alcuna sua schiera, piccola di numero; ardita, che alzasse grido di vittoria, animasse i ribelli, devastasse le terre, uccidesse i fedeli a Carlo: mezzi nefandi. Sperava che il re alle mosse del regno accorrendo con buona parte dell’esercito, indebolisse il campo di Velletri; ma svanì quelle speranze l’amor de’ soggetti, che si tenne saldo e più crebbe.
XLV. Fece Lobkowitz altra pruova. Il campo di Carlo aveva debole l’ala sinistra; nella quale come lontana dal nemico e non mai turbata in quella guerra per assalti o timori, stavano i presidii, quasi in pace, negligenti: e benchè i Cesariani, dopo i fatti dell’Artemisio si fossero avvicinati a quella parte, non erano però cresciute le guardie, nè la vigilanza. Surse voce, come spesso in guerra, senz’autore, senza principio, che gli Alemanni attaccherebbero per sorpresa la sinistra del campo: non fu creduta. Ma Lobkowitz il dì 8 di agosto dell’anno 1744, chiamati a consiglio i primi e più animosi dell’esercito, disse. «Invano sperammo tumulti ne’ reami di Carlo, e scoramento, diserzioni, penurie ne suoi campi. Noi abbiamo incontro esercito forte e felice: scemano i nostri soldati per morte, infermità, e fughe. L’indugio è contro noi: a noi non resta che impresa egregia o vergognoso ritorno in Lombardia. Tenendo certa la vostra scelta, io vi espongo la impresa. Il nemico mal custodisce la sinistra del campo; il luogo debole per natura non è munito dall’arte; pochi lo guardano, e per lungo non mai turbato riposo giacciono nella notte spensierati e ubbriachi. Molte vie nella pendice della valle menano a quel punto, ed altrettante guide, non compre, amiche, ho già in pronto. Per vecchia rovinata muraglia è facile ingresso; è, appena entrati, libero cammino alla città, agli accampamenti, alla casa del re. Udite. Una colonna de’ migliori soldati, taciti dietro le guide marciando nella notte, entrando per il rotto muro, trafitte nel sonno le guardie, proceda nella città, uccidendo nel silenzio soldati e cittadini. E quando i vigili o i fuggenti abbiano destata l’oste nemica, i nostri, facendo subita mutazione, con grida, incendii, distruzioni e spavento, non lascino agli assalti nè tempo nè consiglio. Una mano più eletta entri in casa del re, e lo prenda; vadano gli altri ai campi, a’ parchi, distruggendo e fugando. Schiere nostre maggiori assaltino al tempo stesso il destro lato delle nemiche linee; i rimanenti si tengan pronti a’ soccorsi o alla vittoria. Se va felice l’impresa, noi compiremo in una notte i travagli della guerra: se manca, tornando alle trinciere, saremo al dì seguente, come oggi siamo, presti agli eventi ed a’ consigli. Questo io volgeva in mente (bramoso di vendetta) da quel giorno in cui perdemmo l’Artemisio: oggi io propongo a voi: risolvete.»
Tutti applaudirono; gli uni come forti, gli altri per apparire. Furono assegnate le parti: a’ generali Novali e Broun, assalire con sei mila soldati la sinistra del campo; al generale Lobkowitz, con nove mila, la diritta; al generale maggiore del campo tenere in armi e pronte le rimanenti forze: i segni, i motti di riconoscenza e d’incontro furon fermati. Giunge la notte del 10 all’11 di agosto; in sè chiudeva i destini del regno; e partono con le preparate colonne (pena la morte a chi alzasse grido, voce, o romor d’armi) Novati e Lobkowitz: il resto dell’esercito sta vegliante: Novati arriva, entra nel campo di Velletri, uccide, opprime, e inavvertito prosiegue. Un reggimento irlandese, militante per la Spagna, poco indietro accampato, è sorpreso, in parte ucciso; ma quel che rimane, destatosi, combattè: il romor della pugna e i fuggitivi avvisano il campo; e allora gli Alemanni udendo i tamburi de’ nemici e le trombe sonare allarme, si manifestano con le grida, e com’era già comandato, fracassano, ardono, abbattono una porta (quella chiamata di Napoli), entrano, e corrono la città. Appena l’alba chiariva il ciclo.
Carlo, che in casa Ginetti dormiva, è desto dalle guardie; si copre in fretta di vesti, cinge la spada, e per gli orti della casa riparasi nel campo dei Cappuccini. Fuggono il duca di Modena, l’ambasciatore di Francia, il conte Mariani sopra cavallo, (però che giaceva in letto d’infermità), il duca d’Atri nudo tra gl’incendii della casa: tutto è scompiglio in quella prim’ora. I paesani piangenti pregano pietà dal vincitore che spietato gli uccide e ruba. Molti soldati della nostra parte combattono dalle finestre. dai tetti; altri si accolgono in qualche piazza della città, e facendo mano resistono; altri con l’armi aprono un varco: molte particolari o sventure o virtù restano ignote: cadde moribondo combattendo tra’ primi Niccolò Sanseverino, fratello al principe di Bisignano: il colonnello Macdonal, chiaro nelle passate guerre, montato sopra un cavallo, grande egli stesso della persona, fermatosi nella piazza maggiore della città, alzato il braccio e la spada. grida ai soldali che disordinatamente fuggivano «Compagni, a me; unitevi, seguitemi,» E in questo dire una palla di archibugio tedesco troncò di lui la vita, il comando, e l’esempio. Altri ufiziali maggiori, altri capitani, tutti da prodi, morirono: ma infine per tante morti, prigionia e fuga, la città rimase deserta de’ nostri, in potere al nemico.
XLVI. Lobkowitz avvisato da’segni e dal romore di guerra de’ venturosi assalti del Novati, attacca il monto Artemisio e lo espugna; poscia il secondo e ’l terzo campo, e li fuga; combatteva la fortuna cogli Alemanni. Ma Carlo nel monte de’ Cappuccini, schierando in fretta i soldati, e passandoli a rassegna, va tra le fila dicendo «Ricordate il vostro re e la vostra virtù: se voi sarete costanti all’onore ed all’ohbedienza, vinceremo.» Manda il conte di Gages incontro a Lobkowitz; pone il duca di Castropignano contro al Novati; tiene in serbo altre squadre. Il Gages più forte del nemico, lo trattiene su i monti: Castropignano avanza verso Velletri e non incontra, come credeva, le colonne nemiche, perchè andavano spicciolate nella città, mosse da cupidigia e da libidine. I Borboniani si rincorarono; la legione Campana, or ora coscritta, è prima sotto de Gages alla vendetta ed alle venture; Castropignano, che lentamente avanzava, riceve nuovi stimoli e nuove forze dal re che in quel giorno tutte le laudi meritò di esperto e prode capitano. Ognuna delle nostre colonne procede e vince, sono ripigliati i campi e l’Artemisio, entra Castropignano în città, lo sbigottimento già nostro scende in cuore al nemico, il disordine e la fortuna mutano luogo, tornano vinti i vincitori. Degli Alemanni il duca Andreassi, capitano di forte numerosa schiera, fu gravemente ferito; il generale Novati fu preso mentre nelle stanze del duca di Modena stavasi a ragunare fogli ed argenti; due mila Tedeschi furono uccisi; il general Broun, in riserva fuori della città, veduta la sconfitta, saputa da’ fuggiti la prigionia del Novati, la strage, le rovine delle proprie genti, non attese il nemico e si riparò nelle antiche trinciere. Così Lobkowitz, lasciati sul terreno uomini, bandiere, artiglieri, tornò al campo; e se la incertezza delle strade o dell’animo non avesse rallentato il cammino del conte di Gages, e nel vallo fossero entrati co’ fuggitivi i vincenti, poco esercito restava a Lobkowitz, e nessuna speranza di futura guerra.
Il nemico era già in ordinanza dietro a’ ripari, e molti de’ suoi reggimenti non avevano combattuto. Tutti i soldati di Carlo erano stanchi dal difendersi, dall’assalire, dalle tempeste del mattino, dalle incertezze del giorno, dalle stesse fatiche della vittoria. Sonava l’ora nona, e della prima luce si combatteva; e benchè gli eserciti tornassero a campi medesimi, i Borboniani avean vinto. Pertanto il re fece suonare a raccolta, e comandò che le schiere della prima fronte attendassero nelle antiche posizioni. Si computarono i danni, gli acquisti; tre mila soldati di Borboniani, poco manco degli Alemanni, morti o feriti; di bandiere e di artiglierie, la perdita eguale d’ambo le parti; il grido e ’)lsentimento della vittoria per Carlo. Il quale al dì seguente rendè grazie all’esercito, lodando gli Spagnuoli del valor pari all’antico, e i Napoletani di avere agguagliato i forti della guerra. Distribuì onori e danari, chiese a’ soggetti, ed ottenne assai più della inchiesta, uomini, cavalli, vesti ed argento. Richiamò dall’Abruzzo il duca di Lavello con la sua schiera, giacchè gli Alemanni n’erano stati scacciati; sentì arrivati nel porto di Gaeta muovi reggimenti spagnuoli, che favoriti dal vento e dalla fortuna, traversando inavvertiti la flotta inglese, venivano in pochi giorni da Barcellona. Frattanto istruito da’ passati pericoli munì più fortemente l’ala sinistra ed ogni altra parte del campo, sì che dopo la battaglia tornò Carlo più potente nella forza degli eserciti, nella mente degli uomini.
XLVII. Di altrettanto indebolì la possanza, l’animo e la fama di Lobkowitz; l’ultima pruova infelice; i capi dell’esercito, come suole nelle avversità, contumaci; le penurie accresciute, i cavalli cadenti, gli uomini infermi o svogliati, imminente l’autunno; e per la guerra sventurata o varia di Lombardia, mancate le speranze di soccorso. Pur non moveva per non dar mostra di timidezza e per aspettare dal tempo e dal caso non preveduti favori. Così restò tutto l’ottobre; ma nella prima notte del novembre, tacito ed ordinato, avendo simulate nel giorno le apparenze di ferma dimora, e nella notte istessa i fuochi, le ascolte, le pattuglie, le voci de’ campi, celeremente ritrasse l’esercito verso il Tevere e lo valicò sopra due ponti, il Milvio ed un altro di barche in breve tempo costrutto. Nel vegnente mattino il re, veduta la fuga del nemico, lo inseguì; ma il timore sempre più celere della speranza fece giungere i Borboniani al fiume, quando gli Alemanni già su L’altra sponda rompevano i ponti, con tanta prestezza e tanta guardia che furono compiute le rovine sotto gli occhi dell’esercito nemico. Lobkowitz proseguì la ritirata. Carlo si fermò a Roma per rendere culto al pontefice, vedere le grandezze della città santa, e partire l’esercito in due; l’uno che sotto de Gages infestasse gli Alemanni, altro che seco tornasse nel reame. I Romani applaudirono al re con più giusti onori che prima a Lobkowitz.
Il re, partito di Roma, incontrò sul confine l’amata regina, e rimasti un giorno a Gaeta, entrarono in Napoli dove la vera gioja e gli affetti scambievoli stavano in petto e sul viso al re ed a’ soggetti. Quegli sapeva di avere adempiute le parti di capitano e di principe; sentivano i popoli di aver fornito a’ doveri di cittadini e di sudditi, ne’ quali sentimenti (sconosciuti agli schiavi e a’ tiranni) risiede la felicità dell’impero e perfino qualche dolcezza della obbedienza. Non dirò le feste, perchè il re ne vietò le pompa; era festa lo spettacolo e ’l contento di un regno salvato non tanto dalla possanza degli eserciti che dall’amore de’ popoli.
CAPO QUARTO.
Seguito e fine del regno di Carlo.
XLVIII. Dopo i fatti di Velletri e di Lombardia parve a Carlo ed al mondo assicurata la casa dei Borboni nel regno delle Sicilie. Il re tornando alle cure di pace, volle far pago il naturale desiderio di grandezza ne’ pubblici monumenti; alcuni, anche fra le incertezze della fortuna e le angustie dell’erario, ne aveva cominciati o compiuti; altri ne fece nelle maggiori felicità, e più ne immaginava quando passò al trono delle Spagne. Io dirò i più degni. Sono opere di Carlo il molo, la strada Marinella, quella di Mergellina, e tra l’una è l’altra l’edifizio della Immacolata. Tutto quel lido, sovente rotto dal mare, abitato da misera gente, lordo, insalubre, fu trasformato in istrada e passeggio bellissimo; delizia degli abitanti, ornamento della città.
Andando il re con la regina a Castellammare sopra gondola, e ritornando per terra, nell’iterata vista s’invaghirono dell’amena contrada di Portici; e Carlo udendo che l’aria vi era salubre, la caccia (di quaglie) due volte l’anno abbondantissima, il vicino mare pescoso, comandò farvisi una villa, e ad uno di corte che rammentava essere quella contrada soggiacente al Vesuvio, con animo sereno replicò: «Ci penseranno Iddio, Maria Immacolata e san Gennaro.» L’architetto Canovari diede il disegno e l’eseguì.
Quasi nel tempo stesso volle il re che si alzasse altra villa sul colle vicino alla città, detto Capodimonte; sol dal sentire che in quel luogo abbondano nell’agosto i piccoli uccelli beccafichi. Parecchie opere di quel monarca ebbero principio dalla soperchia passione della caccia; ma se più nobili obietti lo avessero mosso, le arti, la custodia delle frontiere, il commercio, quelle immense spese sarebbero state più degne di buon principe, più benedette da’ popoli. Del palazzo di Capodimonte diede l’idea l’architetto Medrano. A mezzo dell’opera, trovandosi fondato l’edifizio sopra grotte vastissime scavate in antico per tirarne pietre di tufo e lapilli, furono necessarie ad impedir la rovina immense moli sotterranee, La spesa ivi sepolta, fu tre volte doppia dell’apparente, il re ne prese tedio; non vi era strada rotabile che menasse a quel luogo, ed il pensiero di aprirla fu trasandato; lo stesso palagio restò incompiuto. A chi lo vede dalla città pare monumento antico, però che le fabbriche interrotte rendono aspetti di rovine. Venne poi tempo, come narrerò, che l’incompiuto edifizio piacque ad altri re.
XLIX. E volle Carlo che si ergesse un teatro, avendone allora la città pochi e sconci; e, per aggiungere alla magnificenza la maraviglia, comandò che fosse il più ampio teatro di Europa, fabbricato nel minor tempo possibile all’arte. Avutone il disegno dal Medrano, diede carico della esecuzione ad un tal Angelo Carasale nato di plebe, alzato in fama per ingegno di architettura e per opere ardite e stupende. Egli scelse il luogo presso alla reggia, abbattè molte case, aggiunse vasto terreno, acciò, aperto il palco scenico, si vedessero in distanza le maravigliose rappresentazioni di battaglie, cocchi e cavalli. Cominciò l’opera nel marzo, fini nell’ottobre del 1737, e il dì 4 di novembre, giorno del nome di Carlo, fu data la prima scenica rappresentanza. L’interno del teatro era coperto di cristalli a specchio, e gl’infiniti lumi ripercossi rendevano tanta luce quanta la favola ne finge dell’Olimpo. Un palco vasto ed ornatissimo era per la casa regia; il re entrando nella sala, maravigliando L’opera grande e bellissima, battè le mani all’architetto, mentre plausi del popolo onoravano il re, cagione prima di quella magnificenza.
In mezzo all’universale allegrezza il re fece chiamare il Carasale, e pubblicamente lodandolo dell’opera, gli appoggiò la mano su la spalla come segno di protezione e di benevolenza; e quegli, non per natura modesto ma riverente, con gli atti e con le parole rendeva grazie alle grazie del re. Dopo le quali cose il re disse che le mura del teatro toccando alle mura della reggia sarebbe stato maggior comodo della regal famiglia passare dall’uno all’altro edifizio per cammino interno. L’architetto abbassò gli occhi, e Carlo soggiungendo «ci penseremo» lo accommiatò, Finita la rappresentanza, il re su l’escire dal palco trovò il Carasale che lo pregava di rendersi alla reggia per l’interno passaggio da lui bramato. In tre ore, abbattendo mura grossissime, formando ponti e scale di travi e legni, coprendo di tappeti ed arazzi le ruvidezze del lavoro, con panneggi, cristalli e lumi, l’architetto fece bello e scenico quel cammino; spettacolo quasi dirci più del primo lieto è magico per il re.
Il teatro ch’ebbe nome di San Carlo, il passeggio interiore, il merito, la fortuna del Carasale furono subietto per molti giorni a’ racconti della reggia e della città. Laudi funeste; però che l’invidiato architetto, richiesto de’ conti, non soddisfacendo ai ragionieri, fu minacciato di carcere. Andò a corte, parlò al re, rammentò le grazie sovrane, il plauso del popolo, la bellezza dell’opera; rappresentò nella sua povertà le prove di onesta vita; e partì lieto scorgendo nel viso del re alcun segno di benevolenza. Ma così non era, perciocchè doppiarono le inchieste del magistrato; e poco appresso il Carasale, menato nella fortezza di Santelmo, fu chiuso in prigione dove campò ne’ primi mesi per gli stentati ajuti della famiglia, e poi dell’amaro pane del fisco. Restò nel carcere alcuni anni e vi morì: i suoi figli si perderono nella povertà; e nulla rimarrebbe del nome Carosale ai dì nostri, se la eccellenza e le meraviglie dell’opera non ravvivassero nella memoria l’artefice infelice.
L. Carlo fece costruire parecchie strade ed un bel ponte sul Volturno presso a Venafro: le quali opere, sebben fatte per lo stesso amore della caccia sì ch’ebbero nome strade di caccia, pure apportavano alcun benefizio a’ paesi e alle terre circostanti. Frattanto mancavano le strade più utili al regno; era difficile e pericoloso andare (e a cavallo) in Calabria, poco manco in Abruzzo; la strada di Puglia fatta sino a Bovino, luogo di regia caccia, fu trascurata nel resto delle tre province; non vi erano vie provinciali o comunali, tanto per difetto di strade regie, quanto per fraudi ed errori delle interne amministrazioni. Tutto il bello, il grande, il magnifico delle opere «di Carlo stava intorno alla città.
Migliorò l’edilizio de’ regii studii. Alzò da fondamenti con disegno dell’architetto cavaliere Fuga il reale albergo de poveri, aperto a tutti i poveri del regno. Carlo non vide l’opera finita, ma già vi si adunavano poveri a migliaja di ambo i sessi, giovanetti sperduti o miseri, o vagabondi; e molte arti utili e nuove. Dirò ne succedenti libri quanto fossero migliorate le discipline del luogo, e come l’edifizio fu compiuto; ma la prima e maggior gloria è di Carlo.
Il quale, poco appresso, volendo emulare il fasto degli avi ne’ castelli di Versailles e Santo Ildefonso, ed alzare palagio magnifico più sicuro che la reggia dal Vesuvio e dalle offese di nemico potente in mare, elesse il piano di Caserta, quattordici miglia lontano dalla città. Un’antica terra dello stesso nome, Casa-Erta, fondata da’ Longobardi, serba sul vicino monte, tra vaste rovine, pochi edifizii abitati da piccolo numero d’uomini, i quali antepongono a’ comodi ed alle grandezze della nuova città i rottami dell’antica patria. Morti od invecchiati i maggiori architetti, Carasale in carcere, e nel reame nessun altro pari al concetto, Carlo fece venire di Roma Luigi Vanvitelli napoletano, chiaro e primo in Italia per altre opere. Fu il palagio fondato sopra base di 415,939 piedi parigini quadrati, si alzò di 106 piedi; colonne magnifiche, archi massicci, statue colossali, marmi intagliati adornano le facce dell’edifizio; in cima del quale, sopra il timpano del frontispizio, mirasi la statua di Carlo, equestre, in bronzo.
L’interno di quella reggia racchiude marmi preziosi, statue e dipinture de’ più famosi scultori e pittori di quella età, legni intagliati, lavori di stucco, cristalli, vernici, pavimenti di marmo, di mosaico, e di altre rare o pietre o terre. E dirò in breve che quel solo edifizio rappresenta l’ingegno di tutte le arti del suo tempo. Piazze e parchi lo circondano per tre lati, innanzi al quarto si stende giardino vastissimo, magnifico per obelischi, statue, scale di marmo, fontane copiosissime e figurate. Un fiume cadente a precipizio, quindi a scaglioni, e infine dilatato in lago, e disperso in ruscelli, si vede scendere dal contrapposto monte; il monte istesso è un giardino a modo inglese, che accoppia alle grandezze veramente regie dell’arte i favori di tiepido clima, terra ubertosa, primavera continua.
L’acqua raccolta in fiume viene dal monte Taburno per acquidotto di 27 miglia, traversando le montagne Tifatine e tre larghe valli; così che scorre per canali cavati nel seno delle rupi, o sospesa sopra ponti altissimi e saldi; il ponte nella valle di Maddaloni, lungo 1618 piedi, sopra pilastri grossi 32 piedi, per ire ordini arcati s’innalza piedi 178. E perciò, se non parlassero le scolpite pietre e le memorie, quell’opera sarebbe creduta della grandezza e dell’ ardimento di Roma. Le acque di Caserta, dopo che hanno irrigato quelle terre, abbelliti gli orti e la reggia. corrono coperte e si congiungono alle acque di Carmignano per venire in Napoli copiose a’ bisogni di tanta città.
LI. Annovero fra le opere più fortunate di Carlo gli scavi di Ercolano e di Pompei; e poichè dovrò dire di città distrutte dal vicino vulcano, accennerò prima le due più grandi eruzioni avvenute sotto quel re, e le magnanime sue provvidenze a soccorrere le travagliate genti. La prima eruzione fu nell’anno 1738, disastrosa per abbondanti ceneri vomitate dal monte, alzate in forma di pino sino alle nuvole, trasportate dal vento in paesi lontani, là discese, e per piogge e propria natura assodate e impietrite. La fertilità di ampie regioni fu mutata in deserti; e più devastate le città delle due Torri, Sarno, Palma, Ottajano, Nola, Avellino, Ariano. L’altra eruzione dell’anno 1750, più fiera per tremuoti e distruggimenti, coprì di lava borghi, villaggi, terreni feracissimi e colli. Il re, l’una e l’altra volta, rimise i tributi delle terre danneggiate o gli scemò; diede soccorsi, fece doni. Nel tempo della eruzione del 38 agitandosi le quistioni giurisdizionali tra ’l re e ’l papa, i frati e i preti della città susurravano agli orecchi del popolo, quel flagello esser messaggio di Dio ai ministri di Carlo, acciò desistessero da tribolare la Chiesa e i sacerdoti. Ma il volcano quietò, serenò il cielo, i timori svanirono, le contese col papa seguitarono.
LII. Di Ercolano sono favolose le origini, di Pompei oscure, due città della Campania floridissime a’ tempi di Tito Vespasiano, quando per tremenda eruzione (descritta dal giovine Plinio) Ercolano fu coperta da lava, Pompei oppressa da vomitate ceneri e lapilli, poi sotterrata dalle materie che le acque a torrente vi trasportarono; furono però varie le cagioni ma una rovina in un giorno disfece le due città. Spenta con gli uomini viventi la memoria de’ luoghi, si cercava indarno dov’erano poste quelle moli superbe; così che dall’anno 79 dell’era di Cristo restò ignota la città di Ercolano sino al 1738, quella di Pompei sino al 1750.
Fu casuale lo scoprimento, avvegnachè scavando pozzi o fossi, traendone marmi finissimi e lavorati, e giugnendo in sotterranei chiamati allora caverne, poi conosciuti per fori, tempii e teatri, si dubitò che fossero in que’ luoghi città sepolte. Il re disse di pubblica ragione quelle rovine; e facendo in esse scavare, ne trasse tanta ricchezza di anticaglie che oggi il museo borbonico è dei primi di Europa. Fra le rarità ercolanesi sono i papiri avvolti a rotolo, ne’ quali erano scritte dottrine greche. incarbonati dal volcano: ma l’arte ha trovato modo di svolgere in piano quelle carte, e leggere in alcuna parte lo scritto. Poco di quella prima città fu diseppellito, trovandosi coperta di basalto massiccio e della bella città di Resina; così che bisognerebbe abbattere questa vivente per mettere in luce l’altra già morta. Pompei coperta di terre vegetabili e di lapillo si andava largamente scoprendo, e ne uscivano cose preziose di antico. Carlo che spesso vi assisteva, vide una volta un globo di forma ovale (lapilli e ceneri addensati) duro come pietra e di peso maggiore delle apparenti materie che lo componevano. Lavorò egli stesso parecchi giorni ad aprirlo, traendone monete di vario metallo; ed infine, quasi al centro del globo, un anello d’oro figurato di maschere, che in mercede della durata fatica si pose al dito. Dirò altrove, ad onore di lui, qual uso facesse dell’anello. Non è della presente istoria descrivere le cose mirabili delle due città: altri scritti dimostrano quanto abbiano accresciuto alla finezza delle arti ed alla cognizione dell’antichità.
In molte camere del nuovo palazzo di Portici furono disposte quelle anticaglie; e nel tempo stesso fu instituita un’accademia ercolanense, che per filosofia e per istoria le illustrasse. Altre accademie sursero a’ tempi di quel re. La università degli studii migliorò per lezioni utili aggiunte alle troppe di materia forense e teologica le quali ingomberavano l’insegnamento. Avvantaggiarono i collegi; rimasero i seminarii con le discipline medesime, sconoscendo i vescovi ogni autorità civile, amanti di non mutare dal vecchio. Ma per quanto Carlo facesse a pro delle scienze o lettere, la istruzione non era comune; sorgevano uomini egregi di mezzo all’ignoranza pubblica.
LIII. Altri provvedimenti di Carlo degni di lode o di biasimo non sono da tacere. Minacciò ed offese di gravi pene i contraventori alle ordinanze per le reggie cacce. Introdusse ne’ suoi regni il giuoco del lotto, invenzione di talento avaro e prepotente. Confinò, poi spense la peste di Messina. Restrinse in un quartiere della città le meretrici, ordinando che fossero vegliate, visitate nella persona, punite delle colpe inseparabili da quella turpe condizione. Prima permise per il lucro di quarantamila ducati all’anno i giuochi pubblici di carte o dadi; poi gli abolì. Riprovò e proscrisse la setta de’ liberi muratori per impulsi delle corti di Francia e di Roma; ma nessuno de’ soggetti fu castigato, però che governo saggio e giusto vieta le società secrete, le impedisce, le scioglie e le dispregia. Scacciò gli Ebrei, quei medesimi sette anni prima venuti in Napoli per sua chiamata e con sue promesse; il popolo mal tollerava quelle genti; il gesuita padre Pepe sosteneva la popolare ignoranza e pregava il re, al quale aveva facile accesso, di cacciar dal suo regno cristiano i discendenti de’ crocifissori di Cristo; un altro frate di san Francesco, venerato per opinione di santità dalla regina, le disse un giorno con voce sicura da profeta, ch’ella non avrebbe prole maschile finchè gli Ebrei stessero in regno. Furono espulsi. La bassezza di quella nazione si nobilita della sua combattuta costanza alle sue fedi, virtà d’ogni civiltà; ma la intolleranza ne’ cristiani non ha scusa, non ha sembianza di alcun pregio; è avanzo ed argomento di barbarie antica, più vituperevole per noi che osiamo chiamarci più civili della terra. La plebe di Napoli fu allegra del bando dei Giudei.
LIV. La qual plebe, mesi avanti, tumultuò per sospetto che segretamente s’introducesse l’abborrito tribunale della inquisizione, e dirò come. La potenza del papa rinvigoriva per le guerre d’Italia, varie di fortuna, incerte di successo, e per la desiderata amicizia de’ re combattenti. Egli in quell’anno canonizzò cinque santi, fondò nuov’ordine monastico, i cherici-scalzi, ed invitò il cardinale Spinelli arcivescovo di Napoli ad introdurre inosservatamente il tribunale del santo-uffizio; il pontefice era Benedetto XIV, uno de’ più lodati. L’arcivescovo nominò i consultori, i notai; formò sigillo proprio per i processi; preparò carceri; vi chiuse parecchi per materia di fede, e a due di loro fece eseguire la cerimonia dell’abjura. Imbaldanzito da que’ primi passi, dal silenzio del popolo, dagli elogi del pontefice e dalla religione di Carlo, fece scrivere in pietra ed esporre all’ingresso della casa, «santo uffizio.»
È noto per le nostre istorie quanto i Napoletani abominassero quel nome; e le guerre intestine perciò mosse o sostenute; e le spedite ambascerie ai re lontani; e l’ottenuta o pattovita franchigia; comunque a prezzo di ubbidienza e di tributi. Miracolo a dire! il popolo credente, superstizioso, ignorante, al semplice sospetto d’inquisizione levasi a tumulto, sconosce e minaccia l’autorità del principe, assedia e vince nelle proprie stanze numerose milizie; nè già l’infima plebe per cieca insania come suole o per amor di tumulti; nè il solo miglior ceto per sapienza e libertà; ma tutti i ceti, tutte le condizioni, gli uomini molli della città, gli uomini semplici delle campagne, unanimi e solleciti come instinto comune li movesse. Ed oggi quello istesso popolo che voleva il bando degli Ebrei, che accoglieva ed arricchiva î nuovi cherici-scalzi, che a gran prezzo comprava gli ossi e le reliquie de’ cinque nuovi santi, veduto il cartello nel palazzo arcivescovile, mormora, si commuove, minaccia di morte due cardinali; e prorompeva in disordini maggiori, se il re (veramente per le querele dell’eletto del popolo, e ’l ricordo delle violate antiche leggi e de’ recenti patti e giuramenti) non avesse con editto riprovato il procedere dell’arcivescovo, abbassato e spezzato il cartello, rivocata la segreta eccelesiastica giurisdizione, e tornata, com’cera innanzi, manifesta e legale. Il cardinale Landi, spedito dal pontefice a pregare il re che moderasse i rigori dell’editto, nulla ottenne; e minacciato dalla plebe affrettò il ritorno. L’arcivescovo Spinelli fu costretto dall’odio pubblico a rinunziare il seggio arcivescovile e lasciar la città. L’editto di Carlo, tutto scritto in marmo. fu solennemente murato in san Lorenzo, casa del comune. Il popolo assistente, soddisfatto e lieto, con gridi e schiamazzi da plebe, donò al re trentamila ducati.
LV. Durava frattanto la guerra di Lombardia, e buona schiera di Napoli, fin dopo i fatti di Velletri, accompagnava l’esercito spagnuolo. Per tutto l’anno 1745 la fortuna fu varia; ma nel seguente si fece avversa ai Borboniani, che investiti e scacciati si ritiravano verso Genova, ricca ed amica. La Magra, ingrossata per distemperate piogge, ritartava la formazione di un ponte, e formatolo ruppe e trasportò. Il nemico avanzava, i Borboniani tra lui e il fiume raddoppiando fatica, siccome il caso voleva, congegnarono altro ponte e lo passavano in fretta, quando sopraggiunti gli Alemanni, impedirono ed uccidevano le ultime file. Finalmente i nostri, pugnando, giunsero all’altra sponda; ed allora degli eserciti mutate le speranze e le cure, gli Spagnuoli volendo rompere il ponte, gli Alemanni serbarlo per passar all’altra riva, si combatteva dalle due parti con incerta fortuna. Nel qual mezzo un sergente napoletano, gigante di persona e di forza, con quattro de’ suoi avanza baldanzosamente sul ponte, e rompono con le scuri, sotto gli occhi e le offese del nemico il mezzo della macchina; ma perciò che operavano a precipizio, e quella si aprì alquanto prima delle speranze, restarono i cinque guastatori verso il nemico, sì che certo appariva la prigionia loro o la morte. Ma il sergente lanciando sull’amica sponda la scure e l’armi, si gettò nel fiume; gli altri quattro imitarono l’esempio, e tutti nuotando tornarono salvi ed onorati al proprio campo. Ebbero i soldati larga mercede; il sergente fu alzato da Carlo a capitano. Simil valore ad Orazio, soldato di repubblica , diede eterna rinomanza; i moderni storici di monarchia trascurarono il nome del generoso campione.
Continuando la ritirata de’ Borboniani e la prosperità de’ contrarii, Genova da’ primi abbandonata, fu presa dagli altri, e peggiori sorti si preparavano, quando il disperato ardire della città mutò le condizioni della guerra d’Italia. A me non spetta, e me ne duole, discorrere i maravigliosi fatti del popolo genovese contro le agguerrite schiere alemanne; chè raro avviene a chi scrive istorie d’Italia narrare il trionfo degli oppressi sopra i tiranni; come di ordinario sono le parti de’ suoi mesti racconti, la miseria de vinti, la felicità degli oppressori. Non così nella città di Genova l’anno 1746, allorchè tollerate tutte le ingiurie, tutti i danni, e non però satollata la feroce avarizia e l’arroganza de’ Tedeschi, per leggero caso, e per un sasso vibrato da mano di fanciullo, prima la plebe, poscia il popolo ed infine il senato si alzarono a vendetta ed a guerra con tanto ardore è felicità che scacciarono vinti ed avviliti il generale Botta (per cordoglio d’Italia, Italiano) e molte migliaja di Tedeschi. Genova si chiuse ed armò; mancarono agli Alemanni gli ajuti di ricca e forte città; crebbe a loro il numero de’ nemici; mutarono i disegni della guerra. La Francia, la Spagna, il re di Napoli mandarono ambasciatori, soldati e danaro alla eroica città; la quale ordinò molte schiere per sua difesa ed ajuto a’ collegati. La guerra del seguente anno si sperava felice a’ Borboni.
LVI. Se non che la improvvisa morte di Filippo V, e la mente ancora non palese del successore Ferdinando VI, tenevano sospesi gli animi e gli apparati. Ma il nuovo re delle Spagne, comunque desiderasse la pace, disse, che seguirebbe le imprese del padre: spedi nell’Italia nuove milizie, confermò la guerra. Scrisse a Carlo lettere affettuose. La regina madrigna, nulla perdendo di ricchezza o rispetto, scese di potenza, ed andò a vivere privatamente in un castello distante dalla reggia.
Con varia sorte durò la guerra ancora due anni, così che per sette anni si tollerarono morti e danni infiniti, senza veruna di quelle estremità che menano alla pace volontaria o forzata; si scontravano i nemici e combattevano. Era ignota nel tempo del quale scrivo la scienza che oggi chiamano Strategia, ossia muovere l’esercito lontano dalle offese e dal guardo del nemico per giugnere a certo punto determinato dalle ragioni della guerra, e debellare senza contrasto schiere, fortezze, o città, conservare le proprie basi e linee, occupare le linee o le basi dell’oste contraria. Chè se i maggiori capitani de’ secoli scorsi, e ‘l contemporaneo principe Eugenio di Savoja ne usarono alcune parti, venne da genio naturale e sublime, non da sapere. Avvegnachè Federico II di Prussia fu primo ad ampliare quelle pratiche, le quali compiute ed ordinate da Bonaparte, esposte dal generale Jomini e dal principe d’Austria, divennero dottrina e talento delle scuole; ma l’usarle ne’ campi è raro ingegno di capitano. Per la strategia sono più rare le battaglie, meno importanti le fortezze, corte le guerre,
Ma nel 1748 altre necessità costringevano a finire la guerra; la stanchezza de’ governi, la diminuita forza degli eserciti, la spacciata finanza, e pur direi la misera condizione de’ popoli se di questa si tenesse conto ne’ consigli de’ re e nei computamenti della politica: mezzo milione di nomini avea consumati la guerra, sette mila navi mercantili predate, mezza Germania, mezza Italia, e molto delle Fiandre, campeggiate e spogliate; innumerabili fortezze conquassate, città distrutte. I re contrarii bramarono la pace, e adunato congresso di ministri in Aquisgrana, se ne fermarono i preliminari che a’ 18 di ottobre di quell’anno; per le ratificazioni de’ re guerreggianti, divennero patti di pace durevole. Io riferirò le sole cose che riguardavano a permanenti dominii dell’Italia. Tutti gli stati tornassero come innanzi la guerra: il re di Sardegna possedesse Vigevano e parte del Pavese e del contado di Anghiera, secondo i trattati di Vormazia: il duca di Modena riavesse gli stati suoi d’Italia. ’l prezzo de’ feudi per la guerra perduti in Ungheria: don Filippo, infante di Spagna, secondo nato di Filippo V da Elisabetta Farnese, avesse i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla; ma da rendere a’ presenti possessori quando mai don Filippo morisse senza figli e ’l re di Napoli ascendesse al trono delle Spagne: la repubblica di Genova rimanesse qual era. Delle Sicilie non facendo parola, restavano confermate al re Carlo. Di guerra così lunga e sanguinosa due sole geste rimangono perpetuate nella storia; e non sono battaglie vinte, o valore o felicità de capitani, ma virtù civili de’ popoli, cioè la fedeltà e gli sforzi dei Napoletani a sostegno del proprio re, e l’impeto mirabile de’ Genovesi ad abbattere la tirannide di gente inumana e straniera.
Rimanendo in Italia non leggero sospetto di future contese per il dominio della Toscana tra ’l imperatore Francesco e ’l re di Napoli, prevenne le guerre il pensiero di doppio matrimonio che facesse col tempo regina delle due Sicilie una figliuola della casa d’Austria, e gran duchessa di Toscana una principessa di Napoli; allora semplici proposte, più tardi effettuate. Altra controversia per l’isola di Malta surse e cadde, come brevemente dirò. Dopo la perdita di Rodi Carlo V diede a’ cavalieri rodinni l’isola di Malta in feudo del regno delle due Sicilie, al cui re dovesse l’ordine in ogni anno, per segno di tributo, mandare un falco, ed alle vacanze della sede vescovile proporre, per la scelta di uno, tre candidati. mostre di vassallaggio, per duecento e più anni trasandate, Carlo rinvigorire; ma opponendosi il gran maestro dell’ordine, fu rotto il commercio con Malta, le commende sequestrate nelle due Sicilie. Il gran maestro invocò l’autorità e l’opera del papa, che scrisse lettere preghevoli al re, il quale per esse concedette il rinovamento del commercio, la liberazione delle commende, tutti gli atti di pace; ma ritenne ed autenticò a sè ed a’ successori le antiche ragioni su l’isola.
LVII. Si confortarono per tante pacificazioni le genti di Europa, ed il re più intese alle nazionali riforme. Stando nell’animo di lui e nella mente del suo ministro Tanucci l’abbassamento della feudalità, con prammatica del 1738 aveva tolte a’ baroni molte potestà, che poi riconcedè nel 1744 a ricompensa de’ servigi nella guerra di quell’anno. Col passare del tempo intiepidiva la improvvida gratitudine, ma sino alla pace di Aquisgrana non si arrischiava di scontentare la parte più potente dello stato. Ed oltracciò i redditi baronali benchè di non giusta o di strana origine erano sì tenacemente intrinsecati nelle consuetudini, che annientarli sarebbe apparsa ingiustizia per fino a coloro che ne avrebbero goduto, Perciò il re e il Tanucci, non toccando agl’interessi de’ baroni, terre, entrate, diritti e proventi, ne depressero l’autorità; e rivocando molte giurisdizioni, soggettando ad appello le sentenze de’ giudici baronali, diminuendo il numero degli armigeri, prescrivendo regole a punirli, snervarono il mero e misto imperio principale istromento della baronale tirannide. Poco appresso furono abolite parecchie servitù personali, quindi per legge stabilito di non mai concedere nelle nuove o rinovate investiture de’ feudi la criminale giurisdizione. Si dichiararono con altra legge incancellabili dal tempo le ragioni delle comunità sopra le terre feudali, si concitarono i litigi; e i giudici stando nella città sotto gli occhi del re, lontani della potenza de baroni, in mezzo a secolo di franchige, sentenziavano raro o non mai a danno de’ comuni. Alle quali giustizie Carlo unì le arti di governo, invitando i maggiori baroni alla corte, e trattenendoli per lusso e vanità. E poichè i maggiori dimoravano nella città, i minori seguivano per ambizione l’esempio. I feudi restarono sgombrati de’ suoi baroni; le squadre di armigeri, di custodia e potenza de’ signori, divenute peso e fastidio, sminuirono; respiravano le province; la città capo del regno, assai popolosa, più cresceva; le case de grandi per soperchio lusso e l’abbandono delle proprie terre, impoverivano; danni non però eguali al beneficio della depressa feudalità. Mutando in parte i sentimenti del popolo, furono i baroni meno riveriti, la feudalità meno legittima, e a poco a poco si aprirono le strade a maggiori successi. Era immensa quella mole che sebbene cadde (come dirò a suo luogo) nell’anno 1810 per opera de’ succedenti re, il merito della prima scossa è di Carlo.
Era tempo felice a’ sudditi ed al re; le oppressioni vicereali dimenticate, le baronali alleggerite, certa la pace, avventurosa di molta prole la reggia, il vivere abbondante, le opinioni de’ reggitori e del popolo concordi. Piccolo numero di sapienti amanti di patria e di novità era unito al governo, però che le riforme di Carlo giovavano alle libertà universali, ed il passaggio della monarchia da feudale ad assoluta vedevasi come età necessaria della vita delle nazioni. Lo studio perciò de’ re, l’interesse de’ popoli, le speranze dei novatori miravano e correvano al punto istesso. Solo il clero e i baroni avevano scopo diverso; ma quello mordeya segretamente il freno aspettando l’opportunità di spezzarlo, e questi per ignavia e vuota superbia si rallegravano de’ titoli e fregi di nobiltà che il re largamente dispensava.
LVIII. Ma le sollecitudini di lui come degli altri re del passato secolo creavano nella società un nuovo ceto, quello che raccogliendo le spoglie de’ ceti depressi ne acquistava le ragioni o le ricchezze, e lo chiamerò Terzo-Stato come si chiamava in Francia dove più presto ebbe nome, e dove interposto tra gli ottimati e la plebe divenne popolo; parte potentissima delle nazioni, operatrice in Europa de’ rivolgimenti della età nostra, fondatrice delle costituzioni de’ regni. Prima delle riforme, baroni e preti avevano ricchezze, comando, giurisdizione, amministrazione de’ beni comuni e della giustizia, tutte le membra del potere; l’infima condizione non aveva altro che pesi ed obbedienza. Dopo le riforme, i grandi radunati nella città e nella reggia, pervenuti al grado che vedevano nella fortuna, desiderosi di mantenersi in quella eminenza, sperando titoli, onori, aura di corte, tenevano a gloria l’ozio superbo, ed a vile l’ambizione dell’operare. Ed il popolo che prima spensierato e solamente bramoso di vita facile, nulla pretendeva al governo dello stato, vide possibilità d’innalzarsi. Coloro tra i grandi che per male venture scendevano, o per amor di guadagno e per indole operosa abbandonavano gli ozii del primo stato, e coloro del popolo che per industria e virtù salivano, gli uni è gli altri ingrossavano il terzo-stato. Il quale perciò, sempre attivo e crescente, possedeva gli elementi veri della forza politica: numero e movimento. Così il terzo-stato viene, per la natura della società, compagno e strumento della monarchia nel passaggio di lei da feudale ad assoluta.
Essendo il terzo-stato possente quanto ho descritto, importa investigare qual genere di persone raccogliesse in Napoli le spoglie baronali ed ecclesiastiche; perciocchè la natura e gl’interessi degli uomini che lo composero si vedranno divenire a poco a poco natura interessi del governo. Qui rammento che le ricchezze di que’ due ceti furono tocche leggermente dalla finanza, e che le riforme di Carlo risguardavano le giurisdizioni: il foro ecclesiastico scemò di autorità e di credito; furono gli asili presso che tolti; molti giudizii criminali o civili de’ cherici passarono alla curia secolare; le liti ne’ feudi, le liti feudali erano giudicate da magistrati regii; il foro di corte, il foro della nobilità ebbero minore potenza. Tutte le perdite di due ceti divennero altrettanti acquisti della curia comune; e però che in essa, come ho detto innanzi, entrava facilmente la plebe, la composizione del terzo-stato fu di curiali. Gli offizii, l’autorità, i guadagni vennero in loro mani; il re pigliava dalla curia i consiglieri, i ministri; l’ingegno forense diventò arte politica; le opere del governo nelle vicissitudini di regno presero indole e sembianze curiali.
Sono i curiali timidi ne’ pericoli, vili nelle sventure, plaudenti ad ogni potere, fiduciosi delle astuzie del proprio ingegno, usati a difendere le opinioni più assurde, fortunati nelle discordie, emuli tra loro per mestiere, spesso contrarii, sempre amici. Il genere della costoro eloquenza è tra noi cagione d’altri disordini: le difese sono parlate, lo scritto raramente accompagna la parola; persuadere i giudici, convincerli o commuoverli, trarre alla sua parte gli ascoltatori, creare a suo pro la opinione del maggior numero, momentanea quanto basti a vincere, sono i pregi del discorso; finito il quale si obbliano le cose dette, e sol rimane il guadagno ed il vanto della vittoria, tanto maggiori quanto più ingiusti. Da ciò veniva che della esagerazione o della menzogna, fuggenti con la voce, non vergognavano gli avvocati; e che i razionamenti semplici e puri della giurisprudenza si mutavano in aringhe popolari e seduttrici, ed il foro in tribuna. Mali al certo per la giustizia e per i costumi, ma rovina e peste nelle politiche trattazioni e ne rivolgimenti civili, quando bisognerebbe ragione, verità, freno alla plebe, temperanza di parti; ed invece prevalgono la briga, il mendacio, la licenza, indi l’origine de’ mali pubblici.
Se le riforme di Carlo, più vaste, avessero inteso non solamente alla Chiesa ed a’ feudi, ma ben anche alle milizie, al commercio, alla divisione de’ possessi, così che fossero entrati nel terzo stato militari, commercianti e possidenti, le condizioni del regno sarebbero state diverse. Ma quelle riforme partivano dal Tanucci, spinto da due sole comunque generose passioni, contro la feudalità, contro il papismo. Gretto d’animo e curiale egli stesso, trascurava le milizie credendole nella pace inutile peso allo stato, e confidando la corona del suo signore alle parentele di Spagna e di Francia, ed alle nuove che andava rannodando con la casa d’Austria e co’ principi della Italia; ignorante di economia politica, di finanza, di amministrazione, avido di potere, e, come straniero, più amante del re che dello stato. La buona fama ch’egli ebbe gli derivò dalle resistenze a’ pontefici, dallo scuotere la feudalità, dall’onesto vivere, da’ piacevoli costumi, e sopra tutto dalla lunga pace del regno, benigna velatrice degli errori de’ governanti.
I vizii del terzo-stato passarono nel governo, e divennero artifiziata natura del popolo; quindi leggi dispotiche, finte paci, promesse menzognere, e certo gergo di argomenti o parole sostituito alle sentenze immutabili del dovere e della giustizia. Sono dottrine curiali que’ trattati nulli perchè di necessità; que’ giuramenti mancati perchè non assentiti dalla coscienza; que’ patti concordati coi soggetti e non tenuti perchè il re non patteggia co’ vassalli; quel chiamare occupazione la conquista, ribellione quella che fu legittima obbedienza de’ popoli: e le Lante altre sovversioni del vero e del giusto udite e patite a’ dì nostri. E qui, anticipando i tempi. accennerò com’anche per fatti susseguenti si manifesti la verità del mio discorso. Dall’anno 1806 al 1815, per le buone leggi de’ due re francesi e le divise proprietà della chiesa e de’ feudi, crescendo il terzo-stato dei nuovi possidenti, l’autorità de’ curiali minorò. E dopo quel tempo i moti della nazione napoletana hanno secondato i meglio appresi interessi del popolo, che sono: sicurtà de’ possessi e delle persone, leggi, consulte pubbliche, adunanze nazionali, stabilità del presente, guarentigia dell’avvenire. Questi medesimi, ora che scrivo, desiderii segreti e sfortunati, saranno col maturare del tempo manifesti e felici; se non so quale rivoltamento politico non cangia in altro il terzo-stato del regno. ritorno alla storia di Carlo.
LIX. A’ tempi del quale i curiali non appieno esperti delle nuove foro forze, arrecavano piccolo e non avvertito danno, godeva il re, godevano i soggetti regno di pace, allorchè venne a rompere le speranze di maggiore felicità la morte di Ferdinando VI re di Spagna, che, senza prole, lasciò il trono vacuo a Carlo di Napoli. Appena saputo l’avvenimento, i ministri spagnuoli gridarono Carlo re di quel reame, ed in suo nome reggevano. Delle quali cose per celeri messi avvisato il re, nominò reggente per la Spagna la regina Elisabetta sua madre che stavasi, come ho detto, ritirata in un suo castello, ma non deposto il regio ingegno e le vaste speranze di gloria e di comando. Per la successione a suoi reami, essendo per lui necessità il provveder subito a quella di Napoli e trasmetterla, sentivasi agitato da doppio affetto, avvegnachè numerosa prole, sei maschi e due femmine, moglie ancora giovine rallegravano la reggia; ma il primo nato, già in età di dodici anni, era infermo di corpo, scemo di mente, inetto a’ negozii, e per fino a’ diletti della vita, disperato di guarigione. Contendevano perciò nell’animo del padre rompere la successione di natura, pubblicare al mondo la imbecillità del figliuolo, ovvero affidare la maggior corona e la discendenza ad uomo stolido e cadente. Vinse la ragione di stato. Chiamò i baroni, i magistrati, i ministri, gli ambasciatori delle corti, i medici più dotti, questi esaminatori del principe Filippo, gli altri assistenti o testimonii. La imbecillità del povero infante fu descritta ed autenticata in solenne foglio, che il re quasi piangente comandò si leggesse al congresso.
Escluso Filippo, succedeva nella Spagna il secondo nato Carlo Antonio, e nelle Sicilie il terzo, Ferdinando; il quale robusto di persona, facile d’ingegno, aveva scorsi otto anni di vita, così che il re fissò in mente una reggenza per il governo del regno, e nel dì 6 di ottobre di quell’anno 1759, tenendo intorno a sè la moglie e i figli, presenti gli ambasciatori, i ministri, i destinati alla reggenza, gli eletti della città, i primi tra’ baroni, fece leggere un atto che diceva: Lui appellato dalla Provvidenza al trono della Spagna e delle Indie, rinunziare la corona di Napoli ad uno de’ figli, dovendo le due monarchie per gli accordi europei restar divise ed indipendenti. Aver destinato (poichè Filippo suo primo figlio era inabile al regno) Carlo, il secondo, a succedergli nella Spagna, e il terzo nato, Ferdinando, a’ reami delle Sicilie. Emancipar questo, cedergli le sue ragioni al trono, comandare a’ popoli di obbedirlo come re. Dare un consiglio di reggenza al re fanciullo sino all’età maggiore, ch’ei prefiniva sedici anni compiuti. La successione al trono delle Sicilie dovere andare per maschi primogeniti; tutti i casi previsti, tutte le regole stabilite. Spenta la linea maschile, sì diretta e sì collaterale, dover succedere le femmine con l’ordine dell’età; spenta la linea femminile, tornar la corona al re di Spagna, perchè la cedesse libera e indipendente al secondo nato de’ suoi figli. Pregare da Dio prosperità a questi popoli, sperare durabili le provvidenze di quell’atto, e premiare le sue fatiche di re da pace lunghissima. Ciò detto, si volse al figliuolo Ferdinando, lo benedisse, gl’insinuò l’amore de’ soggetti, la fede alla religione, la giustizia, la mansuetudine, e snudando la spada (quella stessa che Luigi XIV diede a Filippo V, e questi a Carlo) ponendola in mano del nuovo re, e dandogli per la prima volta nome di maestà, tienla, disse, per difesa della tua religione e de’ tuoi soggetti. Segnarono l’atto riferito di sopra Carlo, poi Ferdinando. Gli stranieri presenti riconobbero il novello re, e que’ del regno gli giurarono fede. Carlo, nominata la reggenza, prescrisse ch’ella governerebbe, partito lui per le Spagne. Ripetè i voti di comune felicità, e uscì lodato e benedetto.
LX. Si apprestò nel giorno medesimo a partire. Aveva registrato i conti del suo regno, e lasciati al figlio precetti e ricordi, non invero ingegnosi ma prudenti e benigni. Nulla portò seco della corona di Napoli, volendo descritte e consegnate al ministro del nuovo re le gemme, le ricchezze, i fregi della sovranità, e per fino l’anello che portava in dito da lui trovato negli scavi di Pompei, di nessun pregio per materia o lavoro, ma proprietà, egli diceva, dello stato; così che oggi lo mostrano nel museo non per maraviglia di antichità, ma in documento della modestia di Carlo. Nominò il precettore del giovine re; e gli raccomandò la vita dell’infante Filippo che lasciava nella reggia di Napoli. Dispensò gradi, onori, doni, per mercede di fedeltà o di servizi. Nel giorno medesimo, prima che il sole dechinasse, entrò in nave con la moglie, due figliuole, e quattro infanti, sopra un navilio spagnuolo di 16 vascelli da guerra e molte fregate, salpato da’ porti del Ferol e di Cadice, arrivato in Napoli sul finire del settembre per servizio del re. La corte di Spagna in quel tempo era delle regnanti di Europa la più pomposa.
Assisterono al partire di Carlo tutti gli abitanti della città, però che le nostre case sotto cielo benigno essendo coperte non da tetti acuti o da piombi ma da piani terrazzi donde si scuopre l’amenissimo lido che stringe il golfo, quei che non capevano nel molo e ne’ due bracci del porto, miravano dall’alto delle case addolorati ed augurati al non più loro invidiato monarca. Le memorie del buon re, la sua grandezza e gli edifizii da lui fondati, visibili dalla città, la folla e ‘l silenzio dei riguardanti, erano cagioni e documenti della giusta universale mestizia: la quale (benchè durassero leggi, magistrati, natura e nome del governo) per lungo tempo non cessava nel popolo, quasi presago della tristezza de’ futuri regni.