Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Notizia

Notizia intorno alla vita di Pietro Colletta

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Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825 Libro I
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NOTIZIA


INTORNO ALLA VITA


DI


PIETRO COLLETTA.




Pietro Colletta nacque in Italia di onorata famiglia, a’ 23 di gennajo l’anno 1775. Educato agli studii, attese con molto ardore a quei delle matematiche, non trascurò gli altri, e presto, facendo suo ciò che gli somministravano le scuole, imparò assai bene il latino, credo per amor Tacito. L’idea del bello scrivere gli s'impresse modellata su quella solennità romana, che tanto al suo ingegno si confaceva. Ma sentire ed operare fu bisogno incessante di tutta la vita sua; a scrivere non pensava allora: l'animo bollente, il corpo fortissimo e un presentimento giovanile d’ambizione il trassero alla milizia, alla quale s'ascrisse nel 1796, cadetto nel corpo d'artiglieria.

Presto la milizia dovette mostrarsi in campo. Vide il Colletta nella guerra mossa contro a' Francesi l’anno 1798, prodigiosa l’imperizia del capo straniero, prodigiosa l’indisciplina de’ suoi compagni. Era nell’indole sua opporsi al costume, e con vigore inflessibile fare a rovescio di chi, operando, fiaccamente gustava ogni cosa. Notato per buone prove in quella guerra, ebbe grado d'ufiziale, ma disdegnava le prove inutili per l'altrui colpa, e Tacito gli tornava a mente. Sì fatto disdegno ebbe spesso dove [p. 2 modifica]esercitarsi, e poi lo dominò sempre. Entrati i Francesi in Napoli e mutato il governo a repubblica, il Colletta sperò meglio; amò quelle forme libere, amò gli onesti che primeggiavano in quel nuovo stato, ma più si accostò a quei pochi che in vano cercavano dargli consistenza co’ partiti risoluti e col vigore de’ fatti. Conobbe la vanità delle ciarle dotte e de’ vanti demagogici, e tosto fu involto nella rovina della repubblica. Chiuso nelle infami carceri insieme co’ più illustri di quella età, gli vide uno dopo l’altro andare al patibolo; nè avrebbe egli stesso scampato la vita, se una pietosa industria de’ suoi parenti non avesse compro per moneta e prodotto a suo discarico un falso attestato che ad altri simil nome attribuisce una ferita da lui riportata combattendo contro a’ regii. La tirannia paurosa e crudele, che allora insanguinava Napoli, non era indulgente altro che pe’ vili. Il nostro istorico l’ha descritta, ma di sè tacendo, siccome tacque, ogni volta ch’ei potesse, anche le cose maggiori; non ch’egli sentisse umilmente di se stesso, ma per non uscir da’ termini voluti all’istoria. E noi diremo semplicemente i fatti della sua vita, onde mostrar quanto sieno i suoi racconti autorevoli.

Cassato dalla milizia, si fece ingegnere civile, ed assisteva il disseccamento delle paludi dell’Ofanto, mentre il feroce Frà Diavolo, sgherro divenuto generale, teneva quelle province a nomo del re. Nel 1806, di nuovo i Francesi invasero Napoli; il nome del giovine Colletta era già chiaro tra gli amici dell’ordine e di migliori istituzioni, ed alla sua voce e all’esempio andò Napoli debitrice di quella guardia di cittadini armati a difesa di se stessi, che, unita spontaneamente in que’ pericoli, allora e più volte poi, salvò la città dalle furie della plebe. Riebbe dal re Giuseppe suo grado, militò sotto Gaeta e nelle fazioni di Calabria; e sperimentato in guerra difficile piacque al ministro Saliceti, che alla venuta di Gioacchino gli proponeva il Colletta siccome capace di cose maggiori. Quegli disegnava [p. 3 modifica]rassicurare e illustrare il nuovo suo regno con la conquista di Capri: l’impresa voleva esser preparata nel segreto. Il re, chiamato il Colletta, a lui solo diede il carico d’esplorare all’intorno le coste dell’isola, disegnare i luoghi allo sbarco e l’ordine dell’assalto, ed accomiatatolo gli disse: «Riuscite a bene, la vostra fortuna è fatta.» Capri fu espugnata sotto la condotta del prode Lamarque e per i consigli del Colletta. Questi, di nuovo ferito nell’assalto, salì a tenente colonnello e ufiziale di ordinanza presso al re stesso; le commissioni scabrose a lui si affidavano.

L’amministrazione di tutto il regno in quel tempo si riordinava a norme francesi, e co’ modi concitati della conquista. Amava Gioacchino preporre alle province chi unisse risolutezza militare e capacità civile: mandò il Colletta intendente della Calabria Ulteriore, provincia vastissima sicchè ora è divisa în due, e allora fra tutte la più difficile a mansuefarsi al nuovo incivilimento, avversa al nome ed agli ordini francesi, agitata dalle furie che la vicina Sicilia vi alimentava. Due anni egli dimorò nell’intendenza che risedeva in Monteleone, e furono que’ due anni egregio ammaestramento al futuro istorico, ond’egli ben penetrasse l’andamento delle cose amministrative, e in atto vedesse i motivi e i fomenti delle civili perturbazioni, gli umori dei popoli, le molle nascoste de’ governi, le forze e le debolezze degli stati, e di tutte queste cose materia svariata e ricchissima quella natura indefinibile de’ Napoletani. Promosse i buoni ordini con l’assiduità dell’opera, gli persuase con la parola, che in lui era efficacissima, e con l’esempio incorrotto. Accompagnò il re nella tentata impresa di Sicilia, e, a lui sempre accetto e contato già tra’ primi di quello stato, ne’ primi mesi dell’anno 1812, venne in Napoli, direttore dell’ufficio dei ponti e strade, col grado di generale.

Fu breve anche quell’uffizio: il rapido innalzarsi essendo a quel tempo facile, dal Colletta meritato. Ma in [p. 4 modifica]quindici mesi fece grandi opere, maggiori ne disegnò, lasciava di sè gran traccia. Per lui, la strada amenissima di Posilippo e quella magnifica del Campo di Marte crebbero delizie a Napoli. E mentre la capitale s’abbelliva, le province arricchivano. L’agricoltura e i commerci rianimati chiedevano nuove vie e nuova comodità di porti: e allora la grande strada di Calabria fu incominciata, altre aperte o tracciate; e a’ porti commerciali di tutto il regno, voleva il Colletta si provvedesse, scegliendo fra i troppi e cadenti gli emporii che meglio convenissero alla utilità generale, e questi rassicurando con opere sufficienti e durevoli, e a questi soli voltando quelle spese che prima tra molti con poco frutto si disperdevano. Aveva egli anche immaginato raccorre in una cassa comune le rendite de’ terreni pubblici, incolti per la maggior parte, o sommersi, e fatto e presentato al re plaudente, disegno vastissimo per i successivi buonificamenti, la distribuzione delle spese, la varia opportunità delle opere, la scelta de’ luoghi dove la nuova popolazione si agglomerasse, e i nomi persino dei villaggi e delle città che sorgerebbero, tolti, a onore di Gioacchino, da quei delle sue vittorie. Il grande pensiero cadde, perchè le guerre infelici lo impedirono, e poi la pace di tanti anni non valse a rieccitarlo. Ora, benchè i tempi torbidi, ma pieni di maggior vita e speranze, quel divisamento stesso, in quanto a’ parti, è riassunto, e dal governo di Napoli con bello e non imitato esempio alla discussione libera sottoposto, e le buonificazioni che allora dovevano di necessità farsi dall’erario dello stato, essere tutta cosa del principe; ora i cittadini da sè le prepararono associando per queste imprese, ed a grandi somme raccogliendo da tutto il regno i piccoli capitali, e la fiducia scambievole: progresso di civiltà che il Colletta invocava con voti caldissimi, e nell’animo sperava; che avrebbe lui vecchio rallegrato di quella maturità che i tempi serbavano a’ suoi concetti.

Nel 1813, passò dalla direzione de’ ponti e strade a quella [p. 5 modifica]del genio militare; nel 1814, fu consigliere di stato; nel 1815, combattè con lode e successo contro gli Austriaci al Panaro, sostenne per alcun tempo (e senza vergogna potea ricordarlo) le veci di maggior generale su tutto l’esercito, e quando ogni cosa fu perduta, andò per Gioacchino negoziatore a Casalanza di quella capitolazione ch’esser doveva pace. Nella quale stipulò per suo proprio conto nulla, per Gioacchino il poco ch’egli generoso avea chiesto, pel regno quanto i tempi comportavano. Uscì con fama intatta da quella pressochè universale contaminazione de’ più chiari nomi calunniati da’ potenti, dal mondo, dalla fortuna. Ma disperato per Napoli, per la Italia, ebbe in pensiero fuggire la patria per meglio servirla altrove.

Le qualità singolari di que’ tempi che per cinque anni suecederono, l’indole della dominazione del restaurato Ferdinando, il nostro autore le ha descritte con evidenza e sagacità mirabili nell’ottavo libro delle Storie. In esso vedrà il lettore quale dovesse in quei cinque anni essere il vivere del Colletta, quale il pensare. Sospetto siccome Murattiano, ma pure talvolta necessario, ebbe la conferma del suo grado; fu anche adoprato dal nuovo governo, comandò più tardi una divisione militare, quella che risedeva in Salerno. Cercato dal Medici, ministro allora potentissimo che volea parere senza parte perchè egli era senza coscienza, se gli accostò per alcun tempo; ma l’indole franca del Colletta e la subdola del Medici male potevano convenirsi; presto s’alienarono, quegli predicendo imminente una rivoluzione nel regno, questi, per furberia stolto, negando vederla perchè ripugnava a quei partiti che forse avrebbono potuto impedirla.

Scoppiò la rivoluzione antiveduta ma non promossa dal Colletta, accolta da lui con più amore che fiducia. Chiamato ai consigli frettolosi dello spaurito Ferdinando, consigliò sinceramente pel bene del regno. Tornato al comando del corpo del genio militare, non ebbe in que’ principii [p. 6 modifica]altro carico importante; e vedeva il nuovo stato, da perfide arti assalito e da invalida sapienza retto, aflievolire nelle imprevidenze d’una setta dal prevalere infiacchita, lasciata libera di se stessa a posta perch’ella di per sè precipitasse alla ruina. Dolevagli, e di quel dolore anche molt’anni dopo piangeva, che a lui non fosse dato afferrare con mano potente quelle forze dissolute, costrignerle a buon successo, fermare e consolidare la pubblica libertà, Ma l’autorità sua non gli dava bastante forza di partigiani in quei giorni allegri di spensieratezza; e quando i presuntuosi dominavano. Ben era cercato nei tempi della paura; e allora che la Sicilia, per guerra stolta e per condiscendenze intempestive, divenne invece di alleata, qual sempre ella dovrebb’essere, nemica pericolosa, v’andò il Colletta, per voto del parlamento, comandante generale delle armi napoletane, con tutta l’autorità di regio luogotenente. Mostrossi in Palermo severo a’ settarii, giusto verso i Siciliani; lasciò dopo due mesi composte le cose dell’isola, richiamato a Napoli nelle estreme fortune dello stato costituzionale. Nelle quali tardi conoscendosi l’invasione tedesca imminente e la necessità che stringeva di farsi forte alle difese, fu il Colletta prima aggiunto, poi sostituito al Parisi nel ministero della guerra. A’ 26 di febbrajo, egli assunse quel ministero; a’ 7 di marzo, si combattè a Rieti, ed a’ 23 Napoli era dei Tedeschi. Soccorso inutile poteva in tempo tanto breve prestare il Colletta a quella ruina portentosa, e per lunghe arti inevitabile. Ma ch’egli sempre virilmente operasse, ch’egli provvedesse alla guerra quanto la industria poteva, e ingegno e robusta carità di patria suggerivano, i suoi concittadini il conobbero, lo attesta il consenso de’ due principali operatori in quella guerra, concordi a lodarlo nelle memorie che l’uno contro dell’altro scrissero; si vide nell’odio pertinace di Francesco, e nella durezza dell’esilio ond’egli e suo padre lo punirono d’aver contrastato a’ tradimenti, esilio decenne che si terminò con abbreviata sua vita. [p. 7 modifica]

Entrati i Tedeschi in Napoli, v’entrò poco dopo il re Ferdinando e recò il Canosa. Quel re, quel ministro ed i monarchi di Europa all’uno ed all’altro consenzienti, erano presagio di vendetta contro a’ generosi. Primo d’ogni altro il Colletta, accerchiato una notte da stuolo tedesco, andò prigioniero in castel Sant’Elmo. Ivi per tre mesi ebbe a sostenere indegne minacce dall’esultante Canosa, e peggio forse gli sovrastava: ma quando alla consideratezza austriaca parve tempo di frenare quegli ubbriachi furori, levato di carcere senza forma di giudizio, andò con quattro de’ più illustri del parlamento e dell’esercito su nave armata di Tedeschi, insino a Trieste; di là con le apparenze di una quasi libertà o di benigna custodia, al confino assegnatogli Brünn di Moravia, a’ piedi di quello Spielberg dove con altra custodia tanti Italiani eran chiusi. La vista di quello Spielberg dovea bastare a rendergli incomportabile la stanza di Brünn. L’asprezza del clima, il desiderio incessante dell’infelice sua patria, le calunnie del governo, aggravavano su lui e danni e dolori. E allora la sanità gli cominciò a declinare, allora se gli manifestò quel morbo che lentamente doveva condurlo al sepolcro, ma che presto divenendo minaccioso, fece che, mutato il confino in esilio, dopo due anni gli fosse conceesso posarsi in Firenze, dov’egli giunse nel marzo del 1823.

Tale si fu il Colletta ne’ servigi dello stato, e tal premio n’ebbe. Escluso oramai per sempre da’ fatti civili, si volse a soccorrere più efficacemente all’Italia con l’opera delle lettere. Nel mesto confino di Moravia concepì, benchè imperfetta, l’idea della storia; a Firenze la imprese: gli otto anni che gli rimasero di vita bastarono appunto a compierla. Si pose all’opera sprovveduto di quelle agevolezze che l’uso e gli studii danno allo scrivere; nulla fuori che una coscienza interrotta gli avea rivelato sin allora le forze del suo ingegno altrove distratto.

Nell’anno 1815 aveva composto un racconto militare [p. 8 modifica]dell’ultima guerra che perdè Gioacchino. Ma come lavoro disadorno e meno accurato per lo stile, l’autore non intendeva pubblicarlo; servì più tardi di materiale alla storia Nel 1820, appena scoppiata la rivoluzione, due brevi scritture del Colletta uscite a stampa levarono qualche grido: l’una descriveva come quel moto nascesse, e in sei giorni la rivoluzione si compisse, argomento a giudicarla sanamente e a misurarne le forze. L’altra narrando gli ultimi fatti di Gioacchino, sfogava uno sdegno giusto, e smentiva un vanto e una calunnia del Medici che si gloriava d’avere chiamato quel re alla morte e andava insinuando, i più illustri Murattiani, iniquamente fedeli al nuovo signore, aver ministrato a quelle macchinazioni. Apparve in quel libricciuolo vigore di stile e sincerità di affetto; gli aggiunse più lunga fama l’ira implacabile che ne serbò il Medici dalla verità infamato e nelle sue arti avvilito. Forse alla fortuna di quello scritto ripensava il Colletta negli ozii dell’esilio.

Cominciò la storia da’ fatti contemporanei, Ma sovr’essi meditando, vide le ragioni di que’ fatti muovere da più lontane origini; e per dare pienezza all’istoria del regno napoletano volle principiare il racconto della conquista di Carlo III. La mole e la difficoltà dell’opera crescevano: l’ingegno potente e una ferrea volontà davangli fiducia di compierla degnamente. Ma l’arte non rispondeva come la mente dettava; e in sè conosceva l’uso della buona lingua scarso, e il gusto mal fermo tra le rimembranze della scuola e l’abito trascurato d’un secolo mal parlante. Si pose nell’animo soccorrere con la intensità dei tardi studii a ciò che tuttora gli mancava per manifestare pienamente l’innata potenza. E intanto sentivasi i giorni e la sanità fuggire, ed egli col corpo travagliato. e l’anima e la fortuna afflitte, e avendo insino allora vissuto una vita la quale doveva aver consumato tante forze, e lasciato dopo sè tanto disgusto; si pose di cinquant’anni a nuovo ad ingrato tirocinio, e potè ad un tempo scrivere con caldo animo, e in mezzo allo scrivere se [p. 9 modifica]stesso correggere, curando la lingua e l’arte che a lui gradatamente rendevansi famigliari. Il quale progresso de’ suoi studii a noi che il vedemmo apparve miracoloso; e per fatiche incredibili, e dopo tre copie tutte di sua mano, condusse la storia presso a quel grado di finitezza sul quale egli stesso avea fisso in animo fermarsi. Quando negli estremi giorni del suo vivere le forze del corpo, affatto prostrate, vietarongli ogni sforzo della mente, mancavano appena al decimo libro le ultime cure,

Di pochi scrittori l’effigie dell’animo è tanto scolpita nelle opere loro, come quella del Colletta è nelle Storie. In esse i pensieri di tutta la vita sua, e gli affetti e i dolori e le speranze compresse, e gli alti disegni, e una fiducia indomabile, e gli idoli tutti della mente. Scrivere per lui era operare: operare a senno suo pel bene d’Italia, sciolto da’ viluppi e dagli ostacoli che a lui nel maneggio delle pubbliche faccende impedivano di governarle secondo il suo libero giudizio. Amava le storie tanto più, parendogli in esse finalmente avere acquistato la padronanza del suo ingegno. Nel quale era affatto singolare e vie più mirabile a’ dì nostri una coerenza, un accordo di tutte le parti sue, una sintesi, per così dire, formatasi in lui dal poco vagare col pensiero sulle dottrine instabili e i mal fidati sistemi de’ teorici, avendo egli sempre più fatto che letto, e le cose da lui vedute in sè riflettendo, c senza soccorso d’altrui scienza a sè giudicandole con franca lealtà. I quali suoi modi lo ravvicinavano piuttosto agli esempi antichi che non alle forme più frequenti in questa civiltà nostra. A lui l’ingegno e le sventure insegnavano i tempi che corrono, ma pur gli mirava come estranio, e gli abiti del vivere come dello scrivere tenevano sempre in qualche parte d’un fare più antico. Quindi ne’ suoi concetti e nell’esporgli un certo costume insolito, un atteggiamento tutto suo; quindi anche molta efficacia a convincere ed a commuovere, perchè quel suo risoluto sentenziare sempr’era sincero, la persuasione forte, cd egli guardava unicamente a quella elevatezza che aveva [p. 10 modifica]nell’animo, e alla quale voleva gli altri condurre. Quella sicurezza che appare nel libro, era in ogni sua parola; quel non so che imperatorio ch’è nel suo stile, l’aveva egli da natura impresso nel volto, e in ogni suo portamento: era stile tutto suo, sincero, spontaneo, necessario, nè avrebb’egli mai potuto o scrivere o dir parola che in sè non portasse quella sua impronta. Facondo nella conversazione, dipingeva raccontando, con singolare evidenza, le immagini pronte, felicissime; l’affetto sentito.

Ebbe in Firenze famigliarità intrinseca e continua con due tra più celebrati scrittori d’Italia, è spesso con loro conferiva dell’opera sua, dandogli l’un d’essi consigli sapienti e di grande autorità muniti; e l’altro assistendolo con amore assiduo, e come di cosa propria, nella revisione a’ primi libri, e mostrandogli quelle avvertenze dell’arte della quale egli è maestro, ed era il Colletta digiuno a quel tempo. E questi aderiva ai consigli con deferenza mirabile in tanto suo ingegno, e faceva sue quelle avvertenze: sicuro dall’alterare mai, seguendole, la propria originalità. In quel lavoro di revisione non so, fra tanta bontà e sapienza, qual fosse più esemplare. A questi e ad un terzo suo amicissimo doveva una lettera, premessa alle Istorie, esporre l’intendimento ch’egli ebbe nella composizione, e manifestare alcuni pensieri suoi. Ma quello scritto rimase per morte incompiuto. Trovatolo in abbozzo tra lc sue carte, ci sembra rispondere, quanto per noi si poteva, alle intenzioni dell’autore pubblicando quelle parti che appajono più finite; confidiamo che i lettori ci sapranno grado d’aver loro conservate queste sue parole:

“..... Il narrare de’ suoi tempi scema fede a’ racconti per la opinione universale che lo storico di cose presenti, menato dagli odii e dagli amori, falsifica e svolge la verità. Ma la storia è testimonianza, lo storico dice cose viste o apprese da chi le vide; la condizione di contemporaneo, [p. 11 modifica]mediata o immediata, è indispensabile. È testimonianza ed è giudizio; e veramente nelle sentenze non è facile schivare le proprie passioni se non se a narratori d’animo freddo, macchine da racconto, pessimi tra gli scrittori, che non sentono nè fan sentire la turpitudine o la grandezza delle umane azioni. Se dunque una qualità dello storico va compagna d’un difetto, noi, addolorandoci delle imperfezioni di nostra natura, diamoci ad esaminare quali affezioni più nuocciano, come lo scrittore possa governarle, come il lettore discernere.

“.... Non tutti i fatti sono da istoria, nè v’ha guida, fuori che nel giudizio dello scrittore, per discernere i degni da’ non degni. Ne’ piccoli fatti la scelta è difficile e la fama dell’autore in pericolo: s’egli è moderato, sarà detto macro; e se abbondante, nojoso. Ed oltracciò non essendo nelle umane cose pieno bene, pieno male, ma l’uno all’altro misto e confuso, narrando degli nomini virtuosi alcun vizio, de’ viziosi alcuna virtù, delle buone dottrine alcun difetto, delle difettive alcun pregio, si deformano senza mentire î caratteri d’un nomo, d’un popolo, d’un’età. Della quale necessità gli scrittori passionati abusano, per onorare o fare oltraggio: lo scrittore di coscienza dà leggi alla scelta.

“..... Da chi, voi direte, fra gli storici lodati hai tolto lo stile? Da nessuno, chè nessuno al certo ho voluto imitare, sembrandomi necessario nello scrivere lo stile proprio, come nel camminare il proprio incesso, come la natura nella vita: gli sforzi d’imitazione affaticano chi sa e chi vede, sono servilità dell’ingegno. Solamente mi duole d’avere usato parecchie voci o modi che non erano de’ padri nostri, e me ne dolgo debitamente perchè il purgato scrivere custodisce l’idioma bellissimo, e rammenta dell’Italia tempi meno tristi. Ella, da gran tempo invasa da genti straniere, non ha suoi nè pensieri, nè geste; felice quando con la propria favella i fatti proprii narrava, ed a’ figli della mente dava [p. 12 modifica]suoi nomi. Ma chi oggi esponesse le nuove cose altrui con le voci antiche d’Italia, non sarebbe inteso, e rispingerebbe di tre secoli alcune dottrine, quelle specialmente della guerra e delle arti. E però, dove ho saputo rendere i pensieri d’oggidì con le parole che dicono pure, ho tenuto a peccato la entrata di parole novelle, niente curando l’uso contrario d’alcuni moderni scrittori e di quella plebe accidiosa che legge a volumi per giorno, ignorante de’ buoni studii, e non d’altro curiosa che di gazzette o di libri che scendono come torrenti per le valli delle Alpi. Ma se a que’ pensieri mancavano o non bastavano le antiche voci, ho adoperato le nuove che vennero co’ pensieri e si usano negli scritti correnti, e nel comune discorso. Avvegnachè volli dir pienamente quel ch’io pensava, e lasciare indizio di stile del mio tempo.

“....... Non ho aggiunto documenti ì quali dimostrino le cose affermate. Sono questi usati nelle memorie istoriche, e graditi, perchè in età di parti e d’opinioni si vuol credere agli argomenti più che a’ racconti. Ma le memorie istoriche non sono la istoria; esse narrano alcuni fatti, preparano i giudizi: la storia dimostra e giudica: quelle sono il processo degli avvenimenti sociali, questa è la sentenza; documentar quelle è facil opera, documentar questa è impossibile. Dovrei, per giustificare i miei dieci libri, addurre quanto per essi ho letto, visto, giudicato, citare dugento e più volumi, riferire mille discorsi e mille particolari accidenti, esporre giudizi innumerevoli. Erano altri gli uffici miei: cercare il vero e palesarlo. È libero al lettore credermi o no. Ma pensi che verità e fallacia han loro caratteri evidenti, e un libro vero si manifesta, e vieppiù s’è di storia contemporanea, la quale è accerchiata da testimonii parlanti; e stieno pure a guardia del silenzio la forza e i terrori de’ governi, le barriere degli stati, la persecuzione e i pericoli di chi scrive o narra. Ma se alcun lettore incredulo sospetti fallacia nel libro, faccia come l’autore ha fatto, legga in [p. 13 modifica]altri volumi, s’impolveri negli archivii, esamini, confronti, vegli le notti a scoprire il vero, gli consacri la fatica dei giorni, le dolcezze del vivere, la sanità. Non v’ha cosa non documentata ne’ miei dieci libri, e specialmente su le persone, intorno alle quali ogni giudizio discende innegabile da’ fatti ed argomenti. E chi è biasimato in essi o lodato meno del proprio estimare, ragioni con seco, e quando si senta susurro nel cuore che i narrati fatti sono veri e giusto il il biasimo o la scarsa lode, cuopra di modestia gli antichi falli, o per buone opere gli vinca, aspettando che la istoria già rivelatrice degli errori, esalti poi le virtù.

“Aspettando giudizio del pubblico sulla mia fatica, io medesimo l’ho giudicata, e dico a voi quali ne credo i pregi e i difetti. Nessun timore d’esporre il vero, nessuna speranza di premio materiale, brama bensì di onesta lode, ansietà di giovare all’Italia, fede buona e certa sono state guide al mio scrivere, e dov’elle si mostrano appare un pregio. Il novero de’ mancamenti è assai più lungo: qualche amore, qualche sdegno di che non avrò saputo mondarmi appieno, avessi cercato instancabilmente; ma sdegno del male, amor del bene, passioni per le cose non per gli uomini, perocchè di questi ho taciuto il male, se il dirlo non era necessità istorica, ho palesato il bene, comechè il racconto paresse ozioso ed inutile. E frattanto la doppia benevolenza non basterà; chi mi dirà nemico, e chi mi terrà invidioso, altri mi farà debito di non avere coperto i difetti della mia patria, magnificato le sue glorie, trasformato in fregio alcun vizio che simulava gli aspetti della virtù: non chiamata religione del giuramento antico il tradimento al nuovo, quiete la tirannide, libertà la sfrenatezza, ardore di bene la contumacia. Delle quali menzogne non ho voluto essere autore io che spero di contrapporre al morso de’ passionati il voto de’ giusti, e alle turbolenze del presente la calma dell’avvenire. Nè questa patria abbisogna di lusinghe, ma d’uno specchio verace che a lei ritragga la sua politica [p. 14 modifica]irrequietezza, il precipitoso consiglio nell’operare, la fiacchezza nel sostenere le cose operate, il facile sospetto, la maldicenza verso i maggiori, l’abbandono de’ compagni; e, dopo caduto per tanti errori l’innalzato edifizio, il vergognoso riposo, e spesso l’allegrezza sulle rovine. Ma lo stesso specchio ritrarrà la impazienza del popolo alle ingiustizie di governo, argomento di buono istinto e sprone alle imprese di civiltà; la facilità di intendersi, di muovere, di riuscire; la modestia nella vittoria, e la virtù sofferente sotto i flagelli della tirannide; l’indugio ai disegni virtuosi, non mai l’abbandono; e le armi pronte, l’ingegno desto, e il buon volere che ratto scoppia. E però i Napoletani appariranno facili ad imprendere, svogliati a mantenere, tristi ne’ precipizii; ma pieni dell’avvenire, speranza d’Italia, popolo che avvicenda costumi civilissimi e barbari. E questo importa dimostrare a quelle genti, acciò, non s’inebriando delle proprie lodi, non durino nel fallo del passato, nè rimproverate più che non si debbe ad infelici, credano sè deboli alle imprese e si addormentino come disperati prigionieri sulle catene

“..... Ascrivete voi a difetto l’avere io rammentato molta parte della storia di Francia? Oggi non v’ha uomo, per quanto svagato dagli studii, il quale ignori quella storia; ma era necessario mostrare i legamenti di que’ fatti ai nostri. E piacerà di rileggere le grandi geste che hanno operato la caduta e il risorgimento degli imperii, e dato nuovo talento a’ reggitori delle nazioni e muove speranze a’ popoli. Aggiugnete che molti fatti e giudizii rivelati a me stesso dal re Gioacchino, dal ministro Saliceti, dal convenzionale Cavaignac, da parecchi dell’esercito, differiscono in parte da’ libri comuni. E ciò risguardo a’ tempi nostri, ma che dirò io degli avvenire quando la storia di Francia sarà divenuta straniera erudizione, sicchè divisa da quella la storia di Napoli andranno ignote le cagioni di tante guerre e paci, di tante fortune nostre? Quindi a me sembrò che la [p. 15 modifica]narrazione de’ maggiori avvenimenti della Francia sarebbe a’ presenti grato ricordo e giovevole saputa a’ posteri.

“.... Mi resta un dubbio. Andando la civiltà rapidamente, molti miei voti o speranze o timori registrati nella Storia quando io scriveva, dall’anno 23 al 30, pronostici allora, oggi ch’è l’anno 31 sono avverati o svaniti; l’opera è tuttora in manoscritto: io, giovandomi delle succedute cose, doveva, o no, aggiustare le sentenze e rendere il mio giudizio maraviglioso come presago dell’avvenire? Avrei vergognato meco stesso della temerità, e con voi tre (quasi mia fama e mio universo) che avete letto in primo abbozzo i miei libri....”

La composizione delle Storie faceva al Colletta men duro l’esilio; sì ch’egli benediceva il cielo d’avergli ispirato quel pensiero, e al cielo chiedeva gli prolungasse la vita tanto che bastasse a compir l’opera e a vederla pubblicata, correndo volonterosamente incontro a’ pericoli di quella pubblicazione, La metà del voto fu sola esaudita, e Dio forse volle toglierlo nell’inferma vecchiezza a nuovi dolori. Piacevasi nel soggiorno di Toscana, spesso dimorando in villa, e nei mesi freddi cercando in Livorno un clima più somigliante al nativo. Contento nella mediocrità, viveva con parsimonia: chè dai tanti uffizii esercitati era uscito quasi povero; e i doni del re Gioacchino, rimasti senza difesa ne’ patti di Casalanza, il re Ferdinanndo li aveva ritolti, Ma stavano a ricompensa dell’onorata sua vita affetto caldo de’ buoni, e la riverenza in che era tenuto dall’universale; e negi affanni lo consolavano le cure pietose de’ parenti e le dolcezze dell’amicizia. Questi conforti non mai l’abbandonarono sino all’estremo suo fiato. Morì in Firenze agli 11 di novembre del 1831. Ebbe sepoltura in una cappelletta accanto alla villa Varamista, sulla via che da Firenze conduce a Pisa.