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LIBRO PRIMO — 1734. 33

Capasso, Niccolò Cirillo e tanti che saria lungo a nominarli, nati al finire del secolo XVII, vivevano ne’ primi decenni del secolo seguente come luce della loro età e dell’avvenire. E viveva Giovan Battista Vico, miracolo di sapienza e di fama postuma, però che da nessuno pienamente inteso, da tutti ammirato, e coll’andar degli anni meglio scoperto e più accresciuto di onore, dimostra che in lui era forse volontaria l’oscurità, o che le sentenze del suo libro aspettano per palesarsi altri tempi ed ordine di studii più confacente alle dottrine di quello ingegno.

XV. Assai peggiori delle istituzioni civili erano le militari. Si usavano per levar soldati tutti i modi illegittimi: i gaggi, la seduzione, la scelta da’ condannati o dai prigionieri, la presa de vagabondi, l’arbitrario comando de’ baroni; il solo mezzo giusto della sorte non era usato. I pessimi delle città erano quindi eletti al più nobile uffizio dei cittadini, e si mandavano per guerre lontane in Italia o più sovente in Ispagna, dove con abito spagnuolo, sotto non propria insegna, per nome e gloria d’altri combattevano. Napoli intorpidiva in servitù scioperata, i Napoletani stavano in guerra continua ed ingloriosa. Non erano nello interno ordini di milizia; milizie straniere guardavano il paese, e le nostre in terra straniera ohbedivano alle non proprie ordinanze: le arti di guerra imparate altrove non erano utili a noi; e ’l sangue e i sudori delle nostre genti non facevano la gloria nostra. Cosi che mancavano ordini, usi, esercizii, tradizione, fama, sentimento di milizia: e questo nome onorevole negli altri stati era per Napoli doloroso ed abborrito.

XVI. La stessa feudalità era caduta di onore. Io dirò in miglior luogo come ella venne a noi, quanto crebbe; come per le consuetudini feudali e le costituzioni de principi disposte in libro, la servitù de’ vassalli si legittimò; quali furono le venture della feudalità ne’ regni angioini e svevi, e quanta la superbia di lei contro i re aragonesi: qui basta rammentare che precipitò di tanta altezza nel governo de’ vicerè; nè già per leggi o studio di abbassarla, ma per propria corruzione e per esiziale natura di que’ governi. I baroni non più guerrieri, né sostegni o pericolo de’ loro re non curanti le opere ammirate di generosa nobiltà, oziosi e prepotenti ne’ castelli, si godevano tirannide sopra vassalli avviliti. E i vicerè avari vendevano feudi, titoli, preminenze; innalzavano al baronaggio i plebei purchè ricchi; involgavano la dignità feudale. Perciò, all’arrivo del re Carlo Borbone, i feudatari, potenti quanto innanzi per leggi, erano, per se stessi, vili, corrotti, odiati e temuti; non come si temono le grandezze ma le malvagità.

XVII. Rimane a dire della Chiesa. Chi scrivesse con verità ed ampiezza le vite ed opere de pontefici, distenderebbe la storia civile della Italia; tanto si legano al pontificato le guerre, le paci, gli scon-

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