Beniamino

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Perchè sono celibe Don Esteban

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BENIAMINO.


15. Perciò io ho lodato l’allegrezza,
conciossiachè l’uomo non abbia
altro bene sotto il sole.


Ecclesiaste, capo viii.



AA
ntignate e Verdello se sapessero che io scrivo questa veridica storia, si disputerebbero l’onore di aver dato i natali a Beniamino, e forse la belligera Treviglio si appresterebbe a sostenere una guerra per dimostrare, che Beniamino è nato all’ombra protettrice della sua gatta.

«Nota: La leggenda di questa gatta è antichissima, e dice che per causa di una gatta di marmo (perchè non un gatto?) i Trevigliesi e i Caravaggini ebbero a sostenere lunghe e sanguinose lotte, che finirono colla completa vittoria dei primi. A trofeo imperituro di una tanta conquista si vede anche oggi sulla piazza di Treviglio un bassorilievo, che rap[p. 204 modifica]presenta una gatta (o un gatto?) col motto seguente:

«Chiara qual secchia fui, con differenza
Ch’ebbe quella un Tassoni ed io son senza.»

Chiusa la nota mi domanderete come mai tanti paesi vorrebbero gareggiare nel chiamarsi patria di Beniamino, che alla fin fine non è nè Beniamino ebreo, nè Beniamino Franklin, nè alcun altro Beniamino celebre e conosciuto.

Ma io vi dirò, cari lettori, che in tutte le terre che si stendono dall’Adda all’Iseo solcate dal Serio, baciate dal Brembo, benedette da colli, da gelsi e da vigneti, insomma nel basso bergamasco, il mio eroe ebbe fama di ragazzo sveglio ed argutissimo fra quanti mai.

Primo alla scuola, primo in chiesa a servir messa, primo sul sagrato dopo i vesperi a giuocare ai birilli, primo a sparare i mortaretti nel giorno della fiera, primo a salire sull’albero della cuccagna e primo (ve lo confesso intanto che non mi sente) a ruzzolare schiamazzando in mezzo al prato.

Chi vuole che Beniamino fosse il suo nome di battesimo, chi vuole fosse un nomignolo appiccicato, perchè tutti lo amavano in paese.

La vecchia Marta, alla quale egli portava i panieri, reduce dal bucato, soleva esclamare dandogli uno scappellotto amichevole: Dio ti proteggerà, sei un buon figliuolo! [p. 205 modifica]

Beniamino era di carattere lieto, punto sentimentale e filosofo in modo sorprendente. Sentiva retto e onesto; che bisogno di ostentarlo?

Motteggiava volontieri; era amico dell’acqua santa senza inimicarsi il diavolo; l'anima gli premeva, ma il corpo non gli dava impaccio.

Casto, dopo tutto.

Le sue esigenze fisiche si limitavano ad una buona satolla di cacio pecorino e ad una risata schietta, che faceva funzione di alcool nel suo bicchiere di acqua pura.

Aveva quella specie di malizia ingenua, colore spiccatissimo del tipo bergamasco; ingegno, pronto e vivace se non profondo, buon cuore, tratto schietto, che riusciva alla bella prima simpatico.

La sua coltura giungeva fino a leggere correttamente lo stampato, i manoscritti no.

La somma la sapeva fare, alla condizione d’aver libere le dieci dita delle due mani. Cantava intonato con una bella voce di mezzo tenore; friggeva le uova alla perfezione; rattoppava da sè i proprii vestiti e per le capriole sull’erba non c’era un altro che l’uguagliasse.

Queste cognizioni svariate e incomplete lo rendevano gradito in società, ma non avevano mai saputo procurargli un impiego, motivo per cui un bel giorno di primavera, dopo avere zuffolato alla finestra «l’armata se ne va» e contemplate le rondini che si [p. 206 modifica]inseguivano tra il verde tenero dei cespugli, Beniamino prese una risoluzione.

Finchè erano vissuti i suoi genitori egli aveva sempre sentito parlare di un certo ragazzo, che sua madre aveva allattato, che era figlio di un salumaio di Milano, che si chiamava Robertino, aveva gli occhi neri e non voleva mai dormire nè giorno, nè notte.

La povertà estrema dei due vecchi li aveva trattenuti da una gita a Milano, ma la balia non poteva dimenticare il suo figliuoletto d’adozione e ne faceva tema di lunghi discorsi, di ricordi e di speranze.

Beniamino era nato qualche anno dopo e rammentava ancora una certa cuffietta a nastri azzurri, che aveva appartenuto a Robertino e che la balia non toccava senza prima lavarsi le mani. Se si mangiavano le castagne accanto al fuoco la buona donna non mancava di esclamare con un sospiro:

— Come piacevano a Robertino!

E Robertino, a proposito delle belle fragole rosse che lo facevano strillare allegramente. E Robertino, a proposito dei cavallucci di legno, che egli metteva in pezzi. E Robertino, a proposito di tutti i fanciulli di uno o due anni che guardavano estatici con due grandi occhioni su due guancie paffute.

C’era di che ingelosire Beniamino; ma Beniamino non era geloso; al contrario prese ad amare il suo incognito rivale, promettendo a sè stesso che un giorno o l’altro andrebbe a trovarlo. [p. 207 modifica]

Così passarono gli anni; la morte portò via la buona balia coi suoi rimpianti. Il vecchio marito la seguì. Beniamino restò solo.

Or ecco che cosa aveva pensato in quel mattino di primavera: Anderò a trovare Robertino!

Questa determinazione improvvisa non presentava quello che si dice una base solida di riuscita.

Conveniva anzitutto recarsi a Milano, cercare la bottega del salumaio, presentarsi, essere ricevuto.

E poi, esisteva ancora quel salumaio? E Robertino stesso, il bel fanciullo dagli occhi neri, chi sa cosa era diventato?

Beniamino non si fece illusioni su tutte queste difficoltà; capì di accingersi ad un’impresa irta di ostacoli e prese le sue misure.

La cameretta ch'egli abitava senza lusso non solo, ma anche senza mobili, raccomandò a una buona vicina onde i topi e le ragnatele non vi eleggessero troppo stabile domicilio. Prese la sua camicia di scorta, un fazzoletto e un paio di calze, unica superfluità del suo guardaroba. Pose la camicia e le calze entro il fazzoletto, annodò i quattro angoli e parve soddisfatto di quel leggiero bagaglio. Diede allora un’occhiatina all’ingiro. Il sole batteva rilucente sulle nude pareti, e milioni di pulviscoli d’oro scintillavano attraverso i suoi raggi, nel vano della finestra aperta.

Un odore giovanile di gelsi, di biancospino e di rabinia saliva dall’orto, misto al cinguettio delle rondini, al ronzare delle farfalle, allo stormire del vento tra le foglie novelline.

Il cielo azzurro rideva, ridevano i prati vestiti della [p. 208 modifica]prima erbetta, i grilli saltellavano sulla siepe, e la violetta fioriva profumando il margine dei ruscelli.

Anche il cuore di Beniamino balzava allegramente — egli aveva diciotto anni.

I suoi amici, che lo videro attraversare il paese col bagaglio sotto l’ascella, gli si fecero premurosi d’attorno.

Beniamino li abbracciò tutti ad uno ad uno.

Vi fu qualche occhio rosso e qualche voce piagnolosa osò mormorare:

— Perchè te ne vai, Beniamino? — ma Beniamino li consolò promettendo di ritornare — e ricco! — soggiunse facendo schioccare le dita della mano destra.

Tant’è, i suoi amici restarono malinconici e grulli, nè la domenica seguente vi fu alcuno che ardisse proporre i soliti schiamazzi sul sagrato della chiesa.

L’immagine di Beniamino era scolpita in tutti i cuori e la vecchia Marta recitando il rosario fece a parte questa clausola: per Beniamino!

Beniamino intanto viaggiava senza fretta e senza pericolo sulla barcaccia, che da Cassano d’Adda conduce lungo il Naviglio, a Milano.

Sono quindici o venti miglia e stette in viaggio l’intera notte — confortata da una tasca piena di ciliege, che egli spogliava di mano in mano gettando il nocciolo nel canale e seguendo con interesse i circoli dell’acqua percossa, che si inargentava al raggio della luna. [p. 209 modifica]

L’alba del domani, diffondendosi bianca e vaporosa sulle guglie del Duomo illuminò l’entrata di Beniamino nella capitale lombarda.

Che egli provasse o no quel senso di meraviglia naturale in tutti i campagnoli che si recano per la prima volta a Milano, la cronaca non dice.

Certo è che la sua fisonomia aperta e serena non mostrava ombra alcuna di titubanza: aveva la sua faccia solita, cioè: fronte un po’ stretta e fuggente, capelli irti piantati alla Bruto; occhi grigi, lucenti, adombrati in modo singolare di ingenuità e di malizia, naso camuso, bocca larghissima e bonaria, orecchie lunghe foggiate a padiglione, lineamenti mobilissimi, espressione cangiante su fondo perenne di giovialità.

Aveva scritta la sua origine bergamasca dalla punta dei capelli (e se mai capelli ebbero punta furono proprio quelli di Beniamino) ai chiodi delle sue scarpe (e se mai scarpe ebbero chiodi... capite quello che voglio dire).

Canticchiava un’arietta sbirciando tutte le botteghe di salumaio che gli sfilavano davanti.

Sua madre, buon’anima, gli aveva stampato in mente che i genitori di Robertino tenevano bottega su una certa piazza, vicino a una certa chiesa — un gradino, due vetrine, quattro barili di acciughe in sale, una ghirlanda di salsicciotti e sei limoni dietro i vetri completavano la descrizione.

Beniamino osservò con leggera inquietudine, che [p. 210 modifica]ognuna di quelle botteghe aveva gradini, acciughe, salsicciotti e limoni.

— Ma — pensò giudiziosamente il nostro avventuriere — la combinazione precisa della piazza e della chiesa sarà quella che mi leverà d’impiccio.

E così fu.

Giunto alla piazza di cui sapeva il nome, gli si parò subito davanti una bottega da salumaio, come si saranno usate ai tempi di S. Ambrogio e come se ne vede ancora qualche reliquia nei quartieri più popolari.

Una grossa comare, pettinata in bandò sotto una cuffia di tulle a nastri verdi, presiedeva al banco dignitosamente seduta su una poltrona di pelle, dava e riceveva i denari, mentre il marito serviva gli avventori, coadiuvato da due giovinotti in manica di camicia.

Beniamino si fece avanti.

— Lardo a te, bel ragazzo? — domandò uno dei giovinotti.

— Nossignore, voglio parlare col padrone.

Il padrone alzò gli occhi.

— Che vuoi?

— Io sono Beniamino Fenoglio.

Pronunciando il suo nome egli credeva di veder spalancarsi le braccia del salumaio e balzare in piedi la sua degna consorte. Ma non accadde nulla di tutto ciò; anzi il salumaio soggiunse:

— Chi sei?

Beniamino allora incominciò dalla genesi e si fece a descrivere i suoi vecchi genitori quando parlavano [p. 211 modifica]di Robertino; non dimenticò la cuffietta celeste e introdusse abilmente una parentesi relativa alle castagne.

Il salumaio ascoltava di malumore, ma in silenzio.

Beniamino non sapeva spiegarsi quel contegno, senonchè la dignitosa signora in bandò si coperse gli occhi con una mano e tendendo l’altra verso suo marito, col gesto tragico di una seconda donna quando canta «Mira o Norma» esclamò:

— Allontanalo, Giovanni, allontanalo! La sua vista riapre tutte le mie ferite.

Beniamino volle protestare, ma il salumaio trinciando in fretta uno spicchio di cacio avariato e rivolgendolo in un pezzo di carta glielo pose fra le mani, con questo accompagnamento di stretta finale:

— Vattene con Dio, Robertino non è più in casa nostra, lo abbiamo scacciato, è un discolo.

— Ah! la sfortuna di non aver succhiato il latte materno!... interruppe la degna signora slacciando i nastri verdi della sua cuffia.

Il salumaio vide questo sintomo allarmante che precorreva i vapori di sua moglie — prese senz’altro Beniamino per le spalle e lo pose fuori ripetendo:

— Vattene! Possa tu fare miglior fortuna di quello scapestrato.

— Ah il latte... il cattivo latte! — udì Beniamino mormorare dietro di lui, mentre il gradino fuggendogli sotto i piedi lo distese quant’era lungo sulla piazza. [p. 212 modifica]

Non posso affermare che baciando la terra il mio eroe esclamasse come Bruto: — Ti saluto o madre! — Ma forse il suo pensiero non era molto dissimile e, quello che è certo, si alzò prestamente col sorriso sulle labbra come nulla fosse.

Doveva ritornare al suo paese?

Per quel giorno la barcaccia non partiva più e Beniamino non pensò neppure alla strada ferrata.

D’altronde non gli dispiaceva, dacchè trovavasi in Milano, vedere un po’ cosa c’era di bello e prender nota dei costumi cittadini.

S’avviò dunque, senza fretta e senza pensieri, allo sbocco principale della piazza, guardando tutti i negozi, fermandosi prudentemente quando passava una carrozza, leggendo le insegne e accarezzando i cani che gli attraversavano le gambe.

In tal guisa si trovò, passato il mezzogiorno, su di una vasta, spianata dove case, alberi, teatri, un castello, un’arena, un mercato e un arco trionfale parevano gingilli da poppattola.

Beniamino fece sosta ammirato e domandò a qualcuno se da quel posto si vedeva l’Adda.

Gli fu risposto che no.

Beniamino tirò un sospiro, ma fece presto a consolarsi guardando una baracca di legno quasi totalmente coperta da un cartello, sul quale un artista incompreso aveva disegnato un uomo in pantaloni rosa e farsetto verde; quest’uomo teneva con ambe [p. 213 modifica]le mani, in attitudine di presentarlo al pubblico, il seguente avviso:

Cosmorama

sttorico — pitorico — gheografico

indelebile

con commodo per le signore

Vi si vedono

tutte le viddute del mondo

Cent. 10.

Ciò che colpì maggiormente Beniamino fu l’ultima frase: cent. 10.

Come! — egli pensò — per dieci centesimi quell’uomo garbato in pantaloni rosa mi mostrerà le meraviglie del suo cosmorama? ed io saprò senza spendere più di dieci centesimi, cosa vuol dire sttorico, pitorico, gheografico, indelebile?

La tentazione era forte per un bravo ragazzo smanioso d’istruirsi.

D’altronde egli trovavasi abbastanza ricco in quel momento, aveva ottantacinque centesimi, coi quali pensava bene di poter godersela un paio di giorni in città.

Spese dunque di buon animo un ottavo e mezzo della sua sostanza ed entrò nella misteriosa baracca.

Era tutta buia ed aveva cinque buchi luminosi, applicando l’occhio ai quali egli vide successivamente l’assedio di Costantinopoli, il terribile passo della Beresina, le piramidi d’Egitto, il Vesuvio e il passaggio degli Ebrei nel Mar Rosso.

Beniamino restò molto soddisfatto e chiese [p. 214 modifica]timidamente al padrone se poteva tornar a guardare, sempre per dieci centesimi.

Il permesso fu accordato tanto più facilmente in quanto che non c’era nessuno oltre lui nella baracca e potè anche approfittare di uno sgabello di legno messo là per commodo delle signore.

Dopo tre quarti d’ora di contemplazione Beniamino uscì ringraziando il proprietario e levandosi rispettosamente il cappello.

Solo quando fu lungi si pentì di non aver domandato spiegazioni intorno a quelle astruse parole di sttorico, pitorico, indelebile, gheografico. Ma concluse, onde mettersi il cuore in pace, cosa ch’egli apprezzava sopra tutto al mondo:

— Sarà per un’altra volta. Diamine! con dieci centesimi non potevo pretendere di più.

Il sole scintillava tutto gaio e festoso; erano circa le due.

Beniamino sedette su una panchina di marmo. Aveva fatto colazione all’alba col resto delle ciliegie e siccome le ciliege non furono da nessun igienista collocate fra i cibi tonici e sostanziosi, entrò in trattative col pezzo di cacio regalatogli dal salsicciaio — e gli disse press’a poco così:

— Tu non sei quel cacio pecorino a cui sono avvezzo e che mi tengo caro; ma perchè non costi nulla, e poichè non ho altro, e poichè tutto ciò che si può mangiare è buono — come diceva mio padre — gnaffe!

Beniamino era in festa per lo meno quanto il sole che scintillava sul suo capo; masticando lietamente [p. 215 modifica]co’ suoi trenta denti sani (quello del giudizio e della sapienza, inutili a parer mio, non gli erano spuntati) egli osservava che il cielo era così azzurro come al suo paese, ed egualmente ridenti gli alberi nella loro veste primaverile. Alcune formiche, uscendo di sotto la panchina, vennero a far provvista di briciole. Beniamino ritirò i piedi per paura di schiacciarne qualcuna.

Passò un poverello vecchio e colle gruccie, Beniamino si tolse di tasca un soldo e glielo diede. Il poverello lo guardò con meraviglia e riconoscenza insieme, e il nostro eroe, toccando colla mano i settanta centesimi che ancora gli rimanevano, ringraziò Dio di essere così ricco e di tenere nel suo panciotto una provvista di lieti momenti per il prossimo disgraziato — e ancora questo aggettivo lo adattò in senso molto traslato. — Egli era d’opinione che nessuna disgrazia fosse assoluta al mondo, nemmeno quella di cadere e fratturarsi una gamba, perchè restava l’altra.

Lode a te, Beniamino, filosofo semplice e profondo.

Mille seduzioni lo aspettavano ancora e altrettanti piaceri.

Senza muoversi dalla panchina, egli aveva assistito alle manovre di un drappello di soldati, ed ora li [p. 216 modifica]seguiva coll’occhio mentre entravano in castello, dondolando la testa in cadenza dei loro passi, e ripetendo con un lieve accento marziale: on! doi! Bel spettacolo!

Beniamino si fregò le mani pensando al momento che sarebbe soldato anche lui — e pinf e punf e zag e tac — non aveva mai ammazzato un coniglio, ma si propose di sterminare lui solo l’esercito nemico.

Tutto immerso in queste guerriere prospettive, sentì una grossa mano pesare sulla sua spalla e una voce gridargli:

— Quando la farete voi quella figura, giovinotto?

Beniamino si volse senza scomporsi, anzi guardando con tutta placidezza l’interlocutore e, visto ch’era un pezzo di granatiere dai lunghi baffi e dalla faccia vermiglia, rispose pronto:

— Ebbene, la faremo insieme, compar montagna.

— Tocca là! — Così mi piacciono i coscritti, esclamò il granatiere, prorompendo in una risata che rimbombò come un cannone nelle larghe pareti del suo diaframma.

Beniamino rise anche lui con un po’ più di moderazione — ed essendo per tal modo cresciute di un filo le loro reciproche esistenze, si fusero in una cordiale amicizia.

Non si erano mai visti prima d’allora, ma giurarono di star sempre amici e di aiutarsi a vicenda. [p. 217 modifica]

Il sole cominciava a tramontare e la vasta spianata animavasi di brigatelle giulive e di lieti crocchi seduti sull’erba nascente.

Beniamino pensò che se c’era qualche cosa più bello del giorno doveva essere certamente la sera — ed espresse questa opinione al suo nuovo camerata.

— Verissimo! e la notte più bella ancora, perchè si dorme e si sogna di essere re o papa, ma ad ogni modo l’istante presente, tieni a mente coscritto, è sempre il migliore.

Beniamino approvò con un cenno silenzioso del capo, perchè già la sua attenzione era rivolta altrove, divisa fra un pagliaccio che arringava il pubblico e una gran guantiera di zuccaro filato a cinque centesimi il pezzo.

— E poi, stammi attento. Se tu vuoi essere felice in questa vita, piglia il mondo come viene. Piove? e tu lavati la faccia; c’è sole? e tu fattela asciugare; siamo in pace? viva la pace; siamo in guerra? viva la guerra. Tant’è tanto, la ruota gira sempre.

Beniamino, continuando ad approvare, si era deciso per lo zuccaro filato; ne comperò due pezzetti offrendone uno al camerata, ma il camerata rifiutò e propose invece di fermarsi dal pagliaccio.

Salti mortali, esercizi sul trapezio, giuochi indiani, lotte, pantomime, magia bianca, musica di zuffoli e di timballi, un’intiera fantasmagoria passò davanti agli occhi meravigliati di Beniamino. [p. 218 modifica]

— Eh? che ne dici coscritto?

— Mi piacerebbe a fare il pagliaccio, rispose candidamente Beniamino.

Compar montagna uscì in una delle sue risate fragorose e domandò al giovinotto se voleva tenergli testa davanti a una bottiglia di birra.

Beniamino accettò, senza un pensiero al mondo dei quattrini che potevano restargli in tasca.

Bevette e rise col soldato ciarlando di molte piacevoli avventure finchè suonò l’ora della ritirata.

Questo per Beniamino fu un momento melanconico, ma lo rallegrò la promessa che gli fece il granatiere di trovarsi l’indomani al medesimo posto.

Si separarono con una poderosa stretta di mano e Beniamino restò solo sulla spianata del castello.

Era notte.

Le brigatelle avevano lasciato i prati erbosi e solo scorgevasi in lontananza qualche solitaria coppia che andava a smarrirsi fra gli alberi.

Beniamino domandò a sè stesso se non avrebbe dormito saporitamente su una di quelle panchine ombreggiate dagli ipocastani in fiore.

Non v’era dubbio ch’egli si sarebbe trovato per lo meno così bene come nel suo letto di foglia, e per di più il padiglione del cielo tutto azzurro e stellato.

Beniamino si coricò ponendo il fardello sotto il capo e il cappello sulla faccia.

Il suo amico granatiere gli aveva detto che dormendo si può sognare la corona e la tiara — egli, più modesto, sognava un campicello di belle rape pavonazze e stava appunto riempiendo il grembiale [p. 219 modifica]della vecchia Marta, quando fu svegliato da una ruvida scossa.

Due guardie di pubblica sicurezza erano ritte davanti a lui.

Beniamino si fregò gli occhi e una delle guardie gli domandò:

— Cosa fai qui?

— Dormo.

— E non ci hai il tuo letto?

— Sì, ma lontano.

— Come ti chiami?

— Beniamino Fenoglio.

— Che mestiere fai?

Beniamino ci pensò un pochetto e rispose:

— Nessuno.

— Quali sono i tuoi mezzi di sussistenza?

— I miei mezzi... i miei mezzi... alla fine, cosa importa a voi? Vi ho chiesto qualche cosa forse?

— Conduciamolo via, disse l’altra guardia prendendolo per un braccio.

— Piano; dove volete condurmi? Io sto bene qui, io!

— Ti accompagneremo al tuo domicilio, disse la prima guardia sghignazzando.

— Ma io non ho domicilio. Sono arrivato questa mattina da *** per cercare Robertino mio fratello di latte e suo padre il pizzicagnolo sull’angolo, con un gradino e quattro barili d’acciughe, mi ha cacciato via... [p. 220 modifica]

Durante questa perorazione che Beniamino faceva nel più schietto accento bergamasco, accompagnato da esclamazioni analoghe, un passeggero si era fermato a poca distanza prestando viva attenzione.

— Hai le tue carte in regola?

— Ecco, in fatto di carte non ho che la carta del cacio regalatomi stamane dal pizzicagnolo; l’ho conservata appunto perchè pensavo che mi sarebbe tornata utile.

— Andiamo, andiamo, esclamarono le due guardie d’accordo obbligandolo ad alzarsi.

Beniamino invece alzò la voce protestando che non voleva muoversi e la sarebbe finita male per lui se lo sconosciuto che stava in ascolto, non si fosse intromesso con queste parole:

— Lasciate libero questo ragazzo, rispondo io; lo conosco.

E tratto di tasca un biglietto, lo mostrò alle guardie.

— Va bene, ma non possiamo permettere che egli dorma qui.

— Lo conduco a casa mia, replicò lo sconosciuto — sono appunto la persona che egli cerca.

— Robertino! gridò il nostro eroe.

— Sì, Robertino!

E al raggio della luna egli vide sfavillare sorridenti e giulivi gli occhi neri di colui che aveva parlato.

Le due guardie si allontanarono. [p. 221 modifica]

— Ma siete proprio voi, domandò ancora Beniamino, osservando la lucida tuba che aveva surrogato la cuffietta celeste.

— E tu sei proprio Beniamino Fenoglio, il figlio della mia nutrice?

Si venne a più minuti particolari i quali stabilirono perfettamente l’identità dei due personaggi — e allora si abbracciarono con simultaneo trasporto.

Per Beniamino nulla era omai più positivo della sua fortuna sulla terra.

— Verrai a casa mia.

— Ma vostro padre mi ha scacciato.

— Da casa sua, — è un altro paio di maniche!

Beniamino ricordò le acerbe parole del salumaio e le riflessioni della sua dignitosa consorte sul latte cattivo; però non avrebbe osato far domanda, ma Roberto stesso continuò:

— A vent’anni, mentre studiavo a Pavia e mi preparavo una laurea di dottore, m’accade d’innamorarmi di una leggiadrissima fanciulla. L’amore, caro mio, è come il raffreddore — a volte piglia alla testa e guarisce subito, a volte si attacca allo stomaco e allora..... allora.... infine io l’ho sposata.

— Oh!

— Abbiamo trentasette anni in due, nessun mezzo di sussistenza, la collera de’ miei genitori che non vogliono vedermi, due camere sotto il tetto e ci adoriamo!

Beniamino si grattò la fronte e dopo aver pensato un bel pezzo che cosa poteva dire per consolare Robertino, esclamò: [p. 222 modifica]

— Perbacco!

Il futuro medico accettò la buona intenzione e conchiuse:

— Ti ho incontrato in tempo opportuno; tu mi puoi essere utilissimo aiutando la mia povera moglie nelle faccende domestiche, eh? Non abbiamo ancora potuto prendere una serva, ma alla fine babbo non sarà inflessibile e nel caso più disperato lavorerò. Incomincio già a dare qualche consulto gratis... per farmi un nome. Così ciarlando e camminando erano giunti davanti una casa di povero, ma onesto aspetto, come si dice.

Roberto aperse la porta e Beniamino lo seguì per centoquattordici gradini fino alla soglia di un uscio, sul quale, col lume in mano, una bionda e giovane fanciulla vestita di bianco, aspettava.

— Hai tardato, Roberto!

— È vero, amor mio, ma guarda, ho meco un compagno.

La sposina alzò il lume e incontrando la placida e bonaria fisionomia di Beniamino, col suo fardello in ispalla, sorrise ingenuamente.

— Entriamo: ti spiegherò tutto, disse Roberto togliendo il lume dalle mani della giovine donna e facendo a Beniamino gli onori dell’appartamento. Appartamento bizzarro e inverosimile, composto di due camere, che sarebbe difficile classificare, poichè rassomigliavono entrambe contemporaneamente ad una cucina e ad uno spogliatoio. [p. 223 modifica]

Vi si vedevano quadri pregevoli in cornici dorate e tende di cotone alle finestre; una poltroncina di velluto cremisi accanto a una sedia di paglia; un paiolo sotto un piccolo tavolo di mogano; due assicelle confitte nel muro, su una delle quali giaceva accuratamente ripiegato un vestito di seta lilla, e sull’altra ciottole, bicchieri e caffettiere.

Nella seconda camera un letto nuziale elegantemente intarsiato era coperto di un vecchio scialle ed aveva un solo guanciale.

Intanto che Roberto posava il lume sul tavolino di mogano, urtando col piede nel paiolo, Beniamino uomo d’ordine, osservava tutte queste incongruenze. La sposina se ne accorse, arrossì, e nascose prontamente sotto la sua bianca gonna uno scarpino ricamato... e bucato.

— Valentina mia cara, continuò Roberto facendo ruzzolare il paiolo — ecco un bravo ragazzo, che la Provvidenza ci ha mandato per i nostri meriti e per i nostri bisogni; è il figlio della mia nutrice; egli acconsente a rimanere con noi... non è vero Beniamino?

— Oh! sì, rispose Beniamino che già pensava al modo di allogare quel paiolo.

— Accudirà le nostre piccole faccende, il pranzo, le spese e terrà in ordine la casa, eh! Beniamino?

Beniamino fece un cenno di assentimento, mulinando quali idee potesse avere Roberto sull’ordine di una casa.

— E in quanto al salario, concluse il giovine medico, ti daremo quello che vuoi.

Valentina lo urtò dolcemente con un braccio susurrandogli che la cassa era vuota... [p. 224 modifica]

— Bazzecole! — un giorno o l’altro si riempirà, credi, mia gioia — e frattanto questo buon ragazzo, ci terrà compagnia; i suoi risparmi si accumuleranno e vi aggiungeremo gli interessi. Sei contento?

Così parlando aveva due occhi teneri e appassionati e col suo braccio passando dietro la vita di Valentina l’attirò graziosamente sul cuore.

Valentina si schermì additando Beniamino, ma l’ottimo ragazzo se ne stava carponi sotto il tavolo di mogano in cerca del paiolo.

I due sposini baciandosi come colombe entrarono nella loro camera e chiudendo l’uscio, immemori dell’universo, non pensarono più a Beniamino.

Beniamino uscendo di sotto il tavolo, e trovandosi solo, non ebbe che un solo pensiero. Lagnarsi? chiamare?

Oibò — non conoscete il mio eroe.

Egli prese due sedie, le pose una in fila all’altra di contro al muro, il suo fardello per guanciale, il tappeto del tavolo per coperta e felicissima notte! Riappiccò il sogno del campicello e delle rape pavonazze, nè questa volta fu interrotto da alcuno.

Svegliandosi all’alba egli vide il sole che entrava per la finestra illuminando le bizzarre suppellettili di quella camera, e rizzandosi sul duro letto, pensò:

— Benvenuto, o sole! Tu sei pur sempre risplendente, sia che posi i tuoi raggi sulle verdi colline del mio paese e sugli alberi, o sulle baracche o sui [p. 225 modifica]pagliacci o in questa malconcia cameretta, sul vestito lilla di Valentina!

E per prima cosa nascose il paiolo in un armadietto improvvisato con due coperchi di vecchie cassette. Poi si diede attorno in punta di piedi, per non svegliare i vicini e felici dormienti, a ravviare, a pulire, a mettere in mostra il bello e celare accortamente il brutto.

Divise la camera per metà. Da una parte collocò tutti gli utensili di cucina e di basso servizio; l’altra ridusse a un facsimile di tinello raggruppandovi quanto v’era di migliore in fatto di mobili.

Poi, colle mani dietro la schiena, contemplò l’opera sua giustamente orgoglioso e sorridente in viso; senonchè questo moto esterno di soddisfazione si confondeva con un moto interno, con una aspirazione prima vaga e indefinita, indi stringente e imperiosa verso quelle nebulose regioni, in cui, cinte da olezzanti vapori, dovevano in quell’ora uscire alla vista dei galantuomini affamati, centinaia di pani freschi.

Beniamino pose l’indice in tasca; vi restava appunto di che comperare un bel pane di mezza libbra e scendendo gaiamente le scale, le risalì quasi subito colla sua colazione sotto l’ascella.

Gli sposini dormivano ancora.

Beniamino, a cavalcioni della finestra, incominciò a sbocconcellare dando un’occhiata dentro all'opera delle sue mani e un’altra fuori al suo buon amico il sole, che innondava di raggi giulivi una lunga sfilata di tetti a tegoli rosa. [p. 226 modifica]

— O Dio! Beniamino, cosa direte di noi che ieri vi abbiamo lasciato a quel modo?

Il suono di questa blanda vocina fece discendere il nostro eroe dalla finestra e lo trasse a contemplare la sua giovane padroncina, che si alzava in quel punto tutta assonnata ancora, coi capelli svolazzanti in riccioli trattenuti a mala pena da un nastro azzurro.

— Ma io ho dormito egualmente, sa? rispose Beniamino con una crollatina di spalle piena di filosofica rassegnazione.

Valentina girò attorno i suoi begli occhi ed espresse meraviglia insieme e piacere del nuovo aspetto in cui trovava la camera.

— Siete molto abile, Beniamino! Io, a dir vero, non mi intendo molto di ordine domestico e poi (chinò le palpebre arrossendo) mi sento così poco bene!

Beniamino osservò allora che la vita di quell’amabile creatura era un po’ più voluminosa di quanto comportasse la sua eterea bellezza.

Arrossì anche lui, e dominato da un certo imbarazzo, si grattò l’orecchio, per darsi un contegno.

Comparve in quel momento Roberto, che gettò per primo un tenero sguardo alla sua sposa, quasi non si vedessero da una settimana, poi ammirò il lavoro di Beniamino, e tornando a guardare Valentina, esclamò:

— Siediti, amor mio: a stare sui due piedi potresti soffrire, hai dormito poco stanotte. [p. 227 modifica]

Beniamino a parte fece queste riflessioni: che cosa sarà poi quando dormono!

— Ora, continuò Roberto, incaricheremo questo bravo ragazzo di provvederci il pranzo. Sai tu cucinare un poco?

— Friggo le uova.

— Ebbene, siamo già avanzati, perchè Valentina ed io non vi riuscimmo mai. Vi sono uova in casa?

Beniamino che aveva gettato sottosopra tutta la camera, potè rispondere con conoscenza di causa:

— Non vi è che dello zuccaro, due mele e mezza dozzina di biscotti.

— Bisogna far spesa, allora.

Valentina tirò suo marito per la manica.

— So cosa vuoi dire, angelo, non abbiamo denari; ma non è una ragione che mi accheti lo stomaco. Mangerei volontieri una bistecca, e tu?

— Oh! io m’accontento de’ biscotti.

— No, no, Valentina, questo tuo sistema dietetico non è confacente allo stato in cui ti trovi: pensa che non sei sola, pensa a quel caro cherubino...

La giovinetta chiuse con un dito la bocca di Roberto, e Beniamino si soffiò il naso.

Fra padroni e servitori erano tutti ragazzi, e se nel piccolo appartamento regnava l’amore e l’armonia restava molto a desiderarsi in fatto di esperienza e di senno.

Roberto si assentava ad intervalli sperando sempre [p. 228 modifica]d’incontrare la fortuna per strada. Co’ suoi genitori si era umiliato in sulle prime, ma poi punto dai loro sdegnosi rifiuti ci metteva dell’amor proprio a far senza di loro.

Aveva credito presso i bottegai della contrada e in qualche circostanza speciale se l’era cavata vendendo gingilli, orologio e catena, ma i denari nou mettevano radice nelle sue tasche. Appena si trovava possessore di qualche lira veniva a casa carico di cioccolattini e di confetti per Valentina, di qualche bel nastro da recingere il suo bianco collo, di un fiore raro pe’ suoi capelli biondi.

Valentina tentava sgridarlo dicendogli che non avevano legna in cucina. Roberto l’abbracciava, la baciava e finivano quasi sempre coll’uscire insieme a prendere il sorbetto...

Beniamino, il più assennato dei tre, capì che a questo modo non si poteva andare avanti.

Occorreva una riforma: il bravo ragazzo ci si metteva piedi e mani per far economia; ma l’economia è possibile quando vi è qualche cosa da economizzare e tanto la dispensa come la cassa della giovane famigliola, somigliavano all’Arabia petrea.

— Padroncina, diss’egli un giorno infilando il paniere nel braccio, come si provvede oggi al pranzo?

— Ahimè! fece Valentina gettando un malinconico sguardo alle sue piccole scarpe bucate. Dio lo sa!

— Come, padroncina, non vi è proprio più nulla?

Ella pose sugli occhi il suo fazzolettino di battista e singhiozzò così pietosamente che Beniamino gettò a terra il paniere, tutto commosso e agitato. [p. 229 modifica]

— Ah! il mio povero bambino in che triste casa sta per nascere!

Beniamino cavò fuori anche lui il suo fazzoletto di cotone giallo e, asciugandosi due grosse lagrime, esclamò:

— Non la si disperi... no, dal fornaio abbiamo ancora credenza e dal macellaio con una buona parola...

— Sì, ma presto o tardi bisogna pagare.

— Presto o tardi verrà anche la fortuna, mia buona signora; ogni bambino porta il suo cestellino...

Il pudibondo ragazzo arrossì di quanto aveva detto, e infilato nuovamente il paniere, corse fuori dell’uscio.

Valentina piangeva facilmente, ma erano lagrime che non lasciavano solchi sulle sue guancie paffutelle; erano come la pioggia d’aprile cui attraversa folleggiando un raggio di sole.

Aveva della donna l’amore e della bambina tutte le graziette ingenue, le facili gioie, le creduli illusioni, la spensieratezza e l’inesperienza.

Aveva versato una bianca lagrima trasparente sulle riflessioni di Beniamino, ma ora sorrideva già ricamando un camiciolo e proponendosi di attaccarvi delle belle rosettine di nastro celeste.

— Guarda! guarda! esclamò giuliva, spiegandolo davanti a suo marito che entrava in quel punto; fagli un bacio!

— Al camiciolo, o a te?

— A entrambi.

E leggera come una rondinella si slanciò al collo di Roberto. [p. 230 modifica]

— Piano, mia vita, tu vuoi farti del male; pensa, se nascesse un gobbetto per causa tua?

— Quali idee! Il nostro piccino deve essere bello come un angelo; avrà i tuoi occhi.

— No, i tuoi.

— Il tuo naso.

— La tua bocca.

— Lo chiameremo Alfredo.

— O Edgardo.

— O Guido. E se fosse una bambina?

— Non è possibile (disse Roberto convinto).

— Davvero?

Pronunciando questo avverbio i grandi occhi di Valentina esprimevano una infantile meraviglia. Roberto l’allacciò nelle sue braccia.

— Gli faremo un bel abitino bianco guernito di pizzo.

— Sì, mia gioia.

— E una culla tutta foderata di raso come una bomboniera.

— Sì, mio amore.

— Con un velo sopra, per le mosche.

— Tutto quello che vuoi.

— E non lo metteremo in collegio, veh?

— No, certo.

— Nè permetteremo ch’egli faccia il soldato.

— Gli faremo dare un’educazione all’inglese.

— Benissimo, all’inglese; poi lo condurremo con noi a Londra per perfezionarsi. Che piacere! andare a Londra tutti e tre. Tu mi amerai sempre, non è vero Roberto? [p. 231 modifica]

— Me lo domandi?

— E saremo sempre felici?

Beniamino, che entrava colle provviste, interruppe la risposta che prometteva di essere molto interessante, ma è da credere che per l’indugio Valentina non l’abbia perduta.

Quando oltrepassa il mese senza pagamento, ogni bottegaio che si rispetta chiude la partita del credito, e di questa pregevole abitudine venne in conoscenza anche il nostro Beniamino; con quanto suo dolore potete immaginarvelo ora ch’egli si considerava della famiglia, e per Roberto e per Valentina si sarebbe fatto a pezzi.

Quello che è certo e che tutte le cronache concordano ad affermare, Beniamino non fu triste che un momento. Tornò a casa col paniere vuoto e sedette sul davanzale della finestra a meditare. — Questa di sedere sempre sulla finestra era una sua idea per risparmiare le sedie, e da ciò argomento che egli non soffrisse i capogiri.

Valentina bella come un amore aveva terminato allora di rattoppare con un sistema ingegnoso i buchi delle sue scarpine e indossato il vestito lilla, colle sue candide braccia ricinte di merletti, con un fiore nei capelli, col sorriso della giovinezza sulle labbra, usciva incontro a Roberto.

Beniamino la seguì collo sguardo mentre scendeva le scale, lasciando dietro a sè un profumo di viola che [p. 232 modifica]si sposava armoniosamente al fruscìo della sua gonna di seta.

— Sì, pensò Beniamino, ella ha bisogno di fiori, di nastri, di merletti per le sue bianche carni delicate; ha bisogno d’amore, di felicità, di spensieratezza e di lusso. Il cielo non sarà mai troppo azzurro per riflettere i suoi limpidi occhi e Roberto non spenderà mai troppo per adornare la sua testina di Madonna; ma intanto come farò io a darle da mangiare oggi?

Un’ispirazione improvvisa attraversò la mente di Beniamino.

Con due salti fu in istrada, entrò franco nel negozio di pizzicagnolo, e disse alla padrona:

— Sono qui per saldare il conto.

— Alla buon’ora, vado a cercare il libretto.

— Arrestatevi un momento... Dio come siete pallida.

— Io?... fece la pizzicagnola, impallidendo davvero.

— Ma sì; non vi ho mai veduta a questo modo... egli è che...

— Che cosa?

— No, no, non dico nulla, non voglio spaventarvi.

— Mi fate tremare.

— Davvero, tremate? — e sentite anche una specie di sudore freddo?

— Credo.

— O Gesù mio! — gridò Beniamino alzando gli occhi al cielo. [p. 233 modifica]

— Insomma volete spiegarvi?

— Pur troppo il mio padrone non si inganna, i sintomi sono infallibili.

— Parlerete una volta?

— Signora, non andate in collera — io sono già tutto agitato — il mio padrone ch’è medico, come sapete, mi ha detto che stanotte vi furono due casi di colera qui in contrada.

— Misericordia! — urlò la pizzicagnola cacciandosi le mani nei capelli.

— Zitta, per il vostro bene; se vi fate scorgere, al menomo indizio verranno a prendervi.

— Ma mi sento male!

— L’ho detto io! si capiva alla ciera; non dite niente a nessuno. Vi manderò il mio padrone, che possiede un rimedio infallibile e vi guarirà in poche ore.

— Siate benedetto!

A questo punto del dialogo Beniamino finse di avere una gran fretta, e:

— O povero me! come si è fatto tardi; ho l’arrosto sul fuoco che mi piglierà il bruciaticcio.

— Andate, andate pure; i conti li aggiusteremo un altro giorno e ricordatevi di mandarmi il dottore.

— Va bene; egli è che volevo prendere un po’ di presciutto e quattro braciole.

— Prendete pure.

Beniamino frugò precipitosamente nelle tasche.

— Eh tralasciate, faremo una nota sola, ma per carità mandatemi il dottore.

Beniamino intascò presciutto e braciole, giurando che il dottore sarebbe venuto subito. [p. 234 modifica]

Roberto che aveva fatto onore al pranzo imbandito da Beniamino senza preoccuparsi da qual parte gli fosse venuto, osservò che il bravo ragazzo mesceva un non so che in una certa bottiglia misteriosa:

— O, cosa ci prepari adesso?

— Nulla, nulla, è un po’ di legno quassio per purgarmi.

— Ma il quassio non purga.

— Volevo dire per rinfrescarmi.

— Nemmeno. È uno stimolante per l’appetito.

— Appunto, per l’appetito, non trovavo la parola.

Roberto non ebbe nulla a ridire, e Beniamino turando accuratamente la bottiglia si recò dalla pizzicagnola.

— E così? come state?

— Non c’è malaccio, ma ancor non vidi il nostro dottore.

Beniamino si compose una fisionomia grave, abbassando la voce rispose:

— Il mio padrone è un uomo pieno di delicatezza; una sua visita con questo panico che corre, vi screditerebbe il negozio — i vicini non mancherebbero di parlarne e se la terribile parola venisse mai pronunciata...

— Mi fate paura!

— Non c’è di che, rassicuratevi. Egli vi ha guardata attraverso i cristalli e mi incarica di dirvi che i sintomi non sono allarmanti. [p. 235 modifica]

— Però...

— Però, ecco qua, mi ha consegnato questo rimedio — ne berrete un bicchiere al giorno, mangiate come al solito e state allegra. Non parlate a nessuno di questa medicina perchè è un segreto.

— Vergine santa! e come potrò ringraziare il vostro padrone?

— Egli non accetta ringraziamenti, è la modestia personificata.

— E quanto costa almeno...

— Nulla, siete una provveditrice della casa; il mio padrone ha l’abitudine di considerare i suoi fornitori come membri della famiglia.

— Che il cielo ne lo rimuneri! Quando passa, voglio uscire ed assicurarlo della mia riconoscenza.

— Guardatevene bene! Il salumaio qui rimpetto ha già un odio accanito coi miei padroni perchè non si servono da lui, piglierebbe pretesto di ciarle e di malevoli propositi. State quieta, bevete il decotto e non pensate ad altro.

— Oh! lasciatevi vedere presto, bravo giovinetto, il mio negozio è a vostra disposizione — non fatemi torto.

— Mi rivedrete senza dubbio, cara signora, anzi preparatemi per domani una buona lingua affumicata.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Beniamino quella notte tardò un poco a pigliar sonno sul suo letto di sedie a ridosso del muro, perchè pensava alla burla fatta, ridendone tra sè e rallegrandosi di aver prolungato le risorse della giovine famigliola. [p. 236 modifica]

Il gran giorno si avvicinava.

Valentina non usciva più che appoggiata al braccio di suo marito.

Roberto era in estasi ed ella sorrideva dolcemente e malinconicamente come sogliono le sposine alla vigilia del grande avvenimento.

Qualche volta ella diceva:

— Che sarà di me, Roberto... se dovessi morire?

Roberto allora si gettava a suoi ginocchi, coprendole di baci le mani, e Beniamino in un angolo tirava fuori il suo fazzoletto giallo.

I bisogni crescevano e Roberto non era ricco che d'amore; invano chiamava barbari i suoi genitori, invano scongiurava Valentina a fidare in un miglior avvenire — il presente era brutto, l’avvenire molto buio.

— Beniamino, disse un giorno la sposina, non capisco perchè ci imbandisci sempre carne di maiale — procura di variare un poco — per la mia salute non è punto adatta.

Beniamino chinò la fronte come sotto un rimprovero meritato, e: Diavolo! — pensò — è un inconveniente che i pizzicagnoli non abbiano a vender polli o carne di vitello! Alla sera invece di coricarsi presto, come al solito, egli uscì.

La sera dopo uscì ancora, e il terzo giorno un bel pollo arrosto fumava sul deschetto dei due sposi. [p. 237 modifica]

— Vedi! esclamò Roberto giulivo, i fornitori non sono poi quella gente crudele che si immagina, essi hanno pazienza, non è vero, Beniamino?

— Oh sì! molta pazienza.

— Tu dici loro che li pagherò?

— Senza dubbio.

— Ed essi ti affidano tutto quello che vuoi!

— È la pura verità.

— Ah! — mormorò Valentina — sia ringraziato il cielo! Non potrei resistere se ci colpissero nuove disgrazie.

Intanto le assenze di Beniamino si prolungavano tutte le sere. Roberto ne fece l’osservazione dicendogli in tono amichevole:

— Birichino, cominci a svagarti, a lasciarti sedurre...

E l’onesto ragazzo si sforzava di assumere una fisonomia scapata, rispondendo con quanta malizia poteva:

— Eh! si sa, le tentazioni!...

Il fatto è, che egli aveva trovato modo di lavorare in un teatro accendendo i lumi, portando i tavoli e tirando le corde — guadagnava sessanta centesimi tutte le sere e così due volte per settimana Valentina, ebbe il pollo a pranzo.

Una volta — era il mese di luglio — il piccolo appartamento fu testimonio di un insolito andirivieni. Beniamino destato in fretta aveva visto Roberto [p. 238 modifica]affaccendarsi intorno a un paniere coll’intenzione di trasformarlo in una culla.

— È affar mio questo — disse il bravo ragazzo saltando in piedi — so bene cosa ci vuole per i bimbi appena nati!

E subito stese un cuscino ricoprendolo con una salvietta che doveva fare le veci di lenzuolo; intanto dalla camera vicina si udirono alcuni vagiti.

Beniamino diventò rosso come una melagrana spaccata; poco dopo si sentì abbracciare furiosamente. Era Roberto fuori di sè per la contentezza.

— Lo vedrai, lo vedrai! è un amore; ha gli occhi neri e i capelli biondi, ha il naso aquilino e la fronte piena d’intelligenza. C’è del genio in quella fronte! Mi ha guardato; certo capisce che sono il suo papà.

Beniamino ascoltava senza fiatare, persuasissimo che il neonato dovesse avere tutte le perfezioni immaginabili; quando si sentì in grado di metter fuori la voce e diminuito il rossore dell’emozione, chiese a Roberto di poterlo vedere.

— Adesso no; Valentina dorme, ed anche lui, ma più tardi te lo porterò qui e gli farai un bacio.

Beniamino all’idea di quel bacio saltò alto un metro e si riempì di zucchero le tasche.

— Trà, là, là, fa la nanna bambino! intanto che dormi scenderanno gli angeli del cielo a portare i confetti d’oro sulla tua culla; d’oro come i tuoi capelli, rosa come le tue guancine, tondi tondi come il [p. 239 modifica]tuo nasino... Dormi, bambino! Così cantava il nostro eroe, tenendosi in braccio con infinite precauzioni il figlio di Valentina, e, non contento di quella sua canzone improvvisata, volle aggiungervi il ritornello che cantano alla vigilia di Natale davanti al presepio:

Dormi, dormi, bel bambino.
                    Re divino.

Ma il bricconcello non dormiva; e spalancando due occhioni neri neri, e stendendo le manine, mostrava di chiedere ben altro.

La giovine madre riposava ancora. Roberto, che era uscito a prendere certe medicine, aveva raccomandato di non svegliarla.

Beniamino si accoccolò per terra e, tenendosi il bimbo sulle ginocchia, gli fece succhiare un pezzetto di zucchero.

Il bimbo succhiò, ma di addormentarsi non diè alcuna speranza.

Beniamino, dolce e paziente, come avesse sempre fatto la balia, incominciò a passeggiare, dondolandolo sulle braccia, e riprese la canzone:

— Trà, là, là... fa la nanna, bambino! e gli uccelletti del buon Dio verranno anch’essi a dormire sulla tua culla, sotto le loro ali azzurre, sotto le loro ali morbide, sotto le loro ali che ti accarezzeranno... Trà, là, là, bambino, dormi, piccino!

E il piccino a ridere, allungando le sue tenere braccia sulle guancie di Beniamino.

Qui mi faccio lecito di osservare che un bambino appena nato non ride di solito, ma Beniamino [p. 240 modifica]assicurò che quello rideva; e poichè lo disse Beniamino, io, storico fedele, non posso non ammetterlo.

— Dov’è mio figlio?

Furono le prime parole di Valentina appena desta, e Beniamino accorse tutto orgoglioso di poterle mostrare ch'erano già amici.

Valentina era un po’ pallida, ma pur sempre leggiadra, colla sua cuffietta rosa che tentava darle un’aria di donnina, mentre il suo sguardo ingenuamente infantile la smentiva.

Beniamino appressò la culla candida e coperta di una tenda di mussola, unico velo che egli avesse potuto trovare. Vi adagiò il bambino su un fianco, colla testa un po’ alta; gli stese le manine, gli coprì i piedi lo pose perfettamente rimpetto alla finestra onde non deviargli lo sguardo, e la giovine madre sorrideva, accompagnandolo con occhio amoroso.

Valentina era debole, delicata, eppoi tanto giovinetta!... Roberto non voleva assolutamente ch’ella si affaticasse, essendo già una fatica quella di allattare, e frattanto chi fasciava il bambino, chi lo cullava, chi lavava i pannicelli, chi cuoceva la pappa? — Beniamino.

Chi lo conduceva a spasso? Beniamino. Chi lo faceva tacere quando gridava? Beniamino, sempre Beniamino; pareva ch’egli avesse cento braccia e cento gambe per accudire a tutto, e lieto, giulivo, pronto alla celia. [p. 241 modifica]

Bisognava vederlo, quanti lazzi sapeva inventare! quante canzoni!

Naturalmente dovette smettere di uscire la sera, perchè la sua presenza in casa era quasi indispensabile; così vide scemarsi una fonte di piccolo, ma sicuro guadagno.

Roberto aveva scritto a suo padre, partecipandogli la nascita dell’erede, ma il fiero salumaio non si era degnato di rispondergli.

— Appena posso reggermi in piedi, diceva Valentina singhiozzando, andrò io a chiedere misericordia da quei tuoi barbari genitori.

— Tu non lo farai, Valentina, no, piuttosto la morte.

— Io sono la cagione del loro odio, a me spetta placarli.

— No, cuor mio, tu sei una vittima innocente del mio amore che ti ha travolta in una miserabile esistenza. Sono un disgraziato; non posso nemmeno dare del pane alla mia famiglia.

Quando Roberto si abbandonava così alla disperazione, Valentina asciugava prontamente le lagrime, tentava sorridere e lo accarezzava, facendogli coraggio.

— Abbi pazienza, vedrai, i tempi cambieranno, non la può durare sempre a questo modo!

E Beniamino rimestando con un cucchiaio di legno la pappa del bimbo, mormorava tra sè:

— Certo, così non la può durare! [p. 242 modifica]

Volge ora un periodo di tempo nel quale le dotte persone che si occuparono di tramandare ai posteri la storia di Beniamino, non sono tutte d’accordo.

Chi dice che la giovane famigliuola passò qualche mese in orribili strettezze; chi la vuole soccorsa, benchè debolmente, dal padre di Roberto. Qualcuno poi afferma che Beniamino si slanciò a invenzioni incredibili per procurare il pranzo di un giorno e la cena di una sera.

È dunque sotto completa irresponsabilità che narro il seguente fatto; i lettori giudicheranno se è possibile o no che Beniamino l’abbia compiuto. Dalla finestra, ove il nostro eroe soleva inalberarsi a esplorare l’orizzonte, si vedeva una porta bassa e oscura fiancheggiata da due cartelli che dondolavano al vento, e che rivoltandosi, non presentavano il più delle volte che un cartone greggio.

Evidentemente il proprietario non aveva mai pensato che si potesse assicurarli con un chiodo; epperò tutte le volte che passava si dava la briga di raddrizzarli.

Beniamino, che aveva osservato quell’armeggio, volle togliersi il gusto, gusto fin qui innocente, di leggere i volubili cartelli; ecco cosa dicevano:

Masini e Tumuli

proprietari industriali.

Sacchi da vendere, grandi e piccoli

a prezzi onesti.

[p. 243 modifica]

Ed ecco cosa saltò in mente a Beniamino, sempre secondo lo storico anonimo. Côlto un momento in cui la via era deserta, si alzò sulla punta dei piedi e col suo coltello da tasca raschiò le prime lettere al nome dei due soci, così che si leggeva:

Asini e muli

proprietari industriali.


con quel che segue.

Lo scandalo fu grande, vi si pose pronto rimedio, rinnovando le due sillabe. Ma il giorno dopo medesima farsa.

Il signor Tumuli era in viaggio, il signor Masini, uomo dal temperamento bilioso, strappò violentemente i cartelli e fattili riparare li attaccò mezzo metro più in alto.

Fatica sciupata; il signor Masini, alzando il naso, ebbe l’umiliazione di leggere ancora il brutto scherzo.

— Ah, se posso agguantare il burlone!... — Proprio a metà di questa frase, che minacciava di finire in una grossa bestemmia, gli comparve davanti Beniamino colla sua onesta faccia da provinciale e i suoi occhi tranquilli, specchio di un’anima pura.

Egli disse francamente e senza reticenze che dall’alto della sua specola aveva veduto il mariuolo che giuocava quei tiri un po’ troppo confidenziali; offrivasi per fare la guardia e prometteva che il mariuolo non sarebbe ritornato.

— Sei capace di bastonarlo ben bene? dimandò il signor Masini, che aveva sete di vendetta.

— Avrà da fare con me! [p. 244 modifica]

Beniamino pose tanta marziale energia in questa frase, che il suo amico d’un giorno, il sergente, l’avrebbe sonoramente approvato.

È duopo dirlo? I nomi rispettabili dei due soci tornarono a brillare senza sfregio sugli ondeggianti cartelli e Beniamino guadagnò cinque lire per il suo incomodo.

È vero? non è vero? me ne lavo le mani.

Altro fatto — e questo autentico — anzi bollato, poichè a volerli cercare si troverebbero ancora la citazione, il processo e tutti gli altri amminicoli legali.

Il portinaio di Roberto era un uomo burbero, calzolaio di professione e manesco per temperamento.

Beniamino lo sapeva, essendo già stato testimonio di qualche rissa più o meno incruenta, e fu per questo che un dopo pranzo, tra il chiaro e lo scuro, standosene egli alla solita finestra lasciò cadere in corte il piccolo cucchiaio di legno...

Il portinaio, approfittando degli ultimi barlumi del crepuscolo, lavorava fuori della sua tana. — Beniamino, che era sceso a cercare il cucchiaio, gli passava e gli ripassava davanti forse un po’ più di quanto comportasse il bisogno.

— Ehi! dico, fatevi un po’ più in là, non ho d’uopo di paravento.

A quest’apostrofe aggressiva il nostro eroe non rispose e continuò il fatto suo.

— Avete capito? — insistè il burbero Crispino. [p. 245 modifica]

— Cerco un cucchiaio.

— Non è una ragione per piantarsi davanti a me.

— Mi pianto dove mi fa comodo e, se trovo terreno buono, sono anche disposto a mettervi radice.

— Ed a prendere uno scappellotto, siete disposto?

— Un po’ meno che a darlo.

— Affemia! vi mostrerò quel che valgo! gridò il calzolaio alzandosi.

E Beniamino sempre pacifico:

— Valeste un solo quattrino io non vi compero certo.

— Ebbene questo te lo dò gratis!

Un pugno secco piombò sulle spalle del nostro eroe, che non si difese, ma continuò ad aizzare colla voce e colle beffe.

L’altro si infuriò per davvero e Beniamino incominciando a gridare, chiamò fuori mezzo il vicinato.

Una servetta che ammirava platonicamente i baffi nascenti di Beniamino, fu la prima a dare l’allarme.

Ben presto cinque o sei donne collegate in favore dell’innocenza (il portinaio brutto, vecchio e zoppo, doveva naturalmente rappresentare la colpa), protestarono a squarciagola che la era una vergogna, assalire un giovinotto inerme, e che se la continuava ancora sarebbero andate a chiamare le guardie. La lotta cessò; quando i due campioni si staccarono, ognuna delle femmine pietose potè osservare che Beniamino perdeva sangue da una ferita alla fronte. — Il calzolaio era incolume. Beniamino fu circondato, fasciato, consolato; la servetta approfittò della [p. 246 modifica]circostanza per prenderselo sotto il braccio e Beniamino lasciò fare con molta buona grazia.

Si constatò che il calzolaio teneva in mano un ferro del suo mestiere; tutte quelle cirenee andavano a gara per sostenere di aver veduto il colpo, era un modo qualunque per mettersi in iscena — la servetta soggiunse, che il povero giovinetto sembrava un agnello nelle branche del lupo... insomma, a farla corta, l’indomani Beniamino sporgeva querela contro l’aggressore; la ferita esisteva, i testimoni anche. — Il portinaio fu condannato a pagare quindici lire d’indennizzo; e Beniamino, mettendo dell’acqua ed aceto sulla sua ferita, calcolava per quanti giorni avrebbero bastato quelle quindici lire.

Il bambino intanto cresceva bello e gentile come la sua mamma. Beniamino lo conduceva spesso a prender aria — è la sua espressione — la giovine madre era tranquilla durante quelle assenze, perchè sapeva la sua creaturina in buone mani. Ma Beniamino, sempre fecondo di risorse, immaginò di dare uno scopo a quelle passeggiate e conciliare, se fosse possibile, il diletto coll’utile — massima che Beniamino non aveva imparata da Orazio, certamente!

Senza un progetto ben determinato, ma con una vaga speranza di buon successo, Beniamino portò un giorno il piccolo erede alla bottega del nonno salumaio; girellando intorno ai limoni, mostrando al bimbo le salsiccie, che disegnavano ghirlande e [p. 247 modifica]corone al disopra della maestosa signora in bandò, fece tanto che il piccino si pose a saltare, agitando le braccia e dando tutti i segni del massimo buon umore.

Era un angioletto, convien dirlo, con quei biondi riccioli che si inanellavano attornio alle sue guancie rosa, cogli occhioni neri e vivaci, colle manine paffute, colle bianche spalle rotonde seminude che uscivano da una nube di merletti...

La grave signora si degnò guardarlo sorridendo ed il nostro eroe passò il Rubicone di quella soglia facendosi una interna esortazione, che tradotta in latino somiglierebbe appunto a quella di Cesare: Alea jacta est.

— Mi pare di conoscere questo giovinotto! disse il salumaio, squadrando Beniamino.

— È probabile; sono venuto qui il primo giorno del mio arrivo a Milano; ora mi trovo collocato in una buona famiglia, sono contento; vorrebbe avere la compiacenza di darmi tre etti di burro?

La signora, vedendo che Beniamino scivolava con tanta accortezza sul loro primo incontro, lo prese in buona opinione ed ordinò di andare in cantina a prendere del burro fresco.

Intanto il fanciulletto, tendendo le manine con un vezzo tutto suo irresistibile, mirava a prendere i nastri verdi che abbellivano la cuffia della degna signora.

— È grazioso questo bambino! Quanti mesi ha?

— Nove mesi e sedici giorni. — Oh! è molto sviluppato.

— Non hanno che questo i vostri padroni? [p. 248 modifica]

Beniamino preparò il suo fazzoletto giallo, e rispose malinconicamente:

— Sono giovani sposi, poverini!

La moglie del salumaio, che si interessava naturalmente agli affari dei suoi avventori, soggiunse:

— Lo dite in un certo modo, come se l'essere giovani e sposi fosse una disgrazia.

— Eh! la è pur troppo, quando mancano i mezzi per la nascente famiglia, quando non si ha nè un amico, nè un parente...

— Ecco il burro — interruppe il salumaio.

Beniamino prese il burro e sporgendo il pargoletto attraverso il banco, gli disse:

— Fa un bacio alla signora!

L’autenticità di quel bacio può restar dubbia, ma è però vero che la faccia rugosa della matrona fu sfiorata dalle fresche guancie delicate — e che ella sorrise per la seconda volta.

Beniamino se non avesse tenuto con un braccio il fanciullo e coll’altro il burro, si sarebbe data un’allegra fregatina di mani.

Nei giorni seguenti le visite si rinnovarono.

L’austera salumaia, vinta dalle grazie innocenti del bambinello che forse le rammentavano i suoi begli anni andati, trovò per lui un palpito di tenerezza. Si abituò a vederlo, a vezzeggiarlo, a preparargli, sotto al grembiale, la sorpresa di un bel pasticcino caldo. Senza saperlo prendeva possesso delle sue [p. 249 modifica]prerogative di nonna, ed il bricconcello ne approfittava per esercitare su larga scala mille moine di malizietta nascente, mille adorabili capriccetti.

— Ed i suoi genitori? domandava spesso la salumaia.

A questa domanda aspettata, Beniamino non mancava mai di tirar fuori il suo fazzoletto che, applicato su ambedue gli occhi, otteneva un pieno successo di compassione.

— Povero bambino! disse una volta — è dunque sfortunato?

— Sfortunatissimo.

— Sua madre?

— È un angelo.

— Suo papà?

— Un bravo giovinotto, ma i suoi parenti lo hanno mandato via di casa e non vogliono più pensarci.

La matrona si morse le labbra, perchè l’allusione la toccava da vicino, e molto dignitosamente rispose:

— È da credere che se i suoi parenti hanno agito in questo modo, avranno le loro buone ragioni.

— Senza dubbio, rispose Beniamino in tono conciliante; senza dubbio, ma un puntiglio, una collera, uno sdegno possono durare eternamente? Davanti allo spettacolo di una famiglia in miseria, di una giovine sposa che piange, di un bambino...

A questo punto, meglio che le parole, giovò il bambino in questione, rizzato sul banco e barcollante ancora sulle sue piccole gambe grassottelle, talchè l’austera signora allungò le sue magre braccia per [p. 250 modifica]sostenerlo e, invece di sostenerlo, se lo strinse improvvisamente al petto.

— Ah! se Roberto avesse un figlio così...

Beniamino quel giorno divorò la strada; giungendo tutto sudato in alto dei centoquattordici gradini, depose il fanciullo sui ginocchi di Valentina, gridando: vittoria!

E siccome Valentina apriva meravigliata i suoi occhioni azzurri e Roberto accorrendo dalla vicina stanza domandò che cosa era avvenuto, fu d’uopo raccontar tutto.

Allora la giovine mammina balzò in piedi, prese il suo cappello che non era molto lontano, e tutta agitata disse a Roberto:

— Andiamo, andiamo.

— Dove, amor mio?

— Da tuo padre, da tua madre. Vedi? il Signore ci ha dato quest’angioletto perchè la pace ritorni fra noi.

— Sì, sì, appoggiò Beniamino.

— Andiamo, intanto che una buona ispirazione ha germogliato nel cuore di tua madre; ella ama già il nostro figliuoletto...; prendilo, Beniamino, seguici.

La risoluzione di Valentina parve così determinata e sicura che Roberto si lasciò condurre.

Cadeva la sera. La bottega del salumaio era deserta. Marito e moglie stavano dietro al banco in una malinconica solitudine. [p. 251 modifica]

Entrò primo Beniamino col fanciullo, seguivano Roberto e Valentina silenziosi, titubanti... Che serve far tante parole?

Il cherubino gettò le braccia al collo della nonna; la sposina, solo a mostrarsi colla sua pallida faccia gentile, conquistò il cuore del salumaio; Roberto abbracciò un po’ tutti e Beniamino, per non mostrarsi troppo commosso, girava gli occhi pieni di lagrime sulle acciughe salate.

La giornata finì allegramente, e chiuse la fase dei brutti giorni per la piccola famigliuola.

Il salumaio era molto ricco, tanto ricco, che l’anno dopo rinunciò il negozio; Roberto passato dottore, in armonia coi parenti, lieto nell’amore di una cara sposa, orgoglioso del piccolo prodigio che gli cresceva sotto gli occhi, si proclamò l’uomo più felice del mondo.

Piano però, e Beniamino? Chi più felice di lui? Tutto l'accaduto era opera sua e il suo bel cuore se ne rallegrava in segreto.

Roberto gli pagò i mesi arretrati, con una regalia per giunta, e Beniamino si trovò per tal modo straordinariamente ricco.

Davvero, tanti denari lo imbarazzavano; senonchè, visto che la sua presenza non era più necessaria, che Valentina aveva una cameriera e il piccino una bambinaia, pensò di tornare al suo paese.

Era partito una mattina di primavera, vi ritornò in [p. 252 modifica]un caldo meriggio d’autunno. I suoi compagni sparsi pei vigneti vendemmiavano cantando giulive canzoni, e lo accolsero con grida festose fra i grappoli d’uva matura.

Beniamino sedette sull’erba tiepida sotto i raggi del sole che tramontava, e ringraziò tacitamente Iddio che avea creato tante belle cose e tante buone persone.

Padrone di una casetta e di un campicello, amato, idolatrato da tutto il paese, egli trascorse la vita pacifica e serena.

Roberto veniva tutti gli anni a trovarlo in compagnia di Valentina e del fanciullo; questi erano certamente i più bei giorni per Beniamino, che rammentava allora, ridendo, le sue funzioni di cuoco, di cameriere, di balia; il bravo ragazzo non diceva altro, ma Valentina, additandolo a suo figlio, gli mormorava all’orecchio:

— Amalo, egli è stato l’angelo custode della tua culla!