Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XXXVII

Novella XXXVII - Odoardo III re d’Inghilterra ama la figliuola d’un suo soggetto, e la piglia per moglie
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[p. 89 modifica]E così fuor d’ogni speranza si trovò aver ricuperato il figliuolo ricco e ben maritato, ed anco la figliuola ben collocata. Fece Paolo levar i suoi e le robe da l’osteria, e tenne dui servidori per sè e agli altri sodisfece di maniera che si chiamarono contenti. Erano tutti pieni di gioia, eccetto Gerardo che pur averia voluto la Nicuola; pur a la fine se ne diede pace. I dui amanti con le mogli loro attesero a darsi buon tempo ed oggi anco se lo dànno.


Il Bandello a l’illustrissimo e reverendissimo signore del titolo dei santi Giovanni e Paolo monsignor Giorgio cardinale d’Armignacco


Essendo venuta la nuova de la morte d’Enrico di questo nome ottavo re d’Inghilterra, e leggendosi le lettere di cotal nuova a la presenza de la magnanima eroina madama Gostanza Rangona e Fregosa, si ragionò dopoi variamente, secondo che agli astanti occorreva, de l’azioni ed opere del morto re. Indi vi furono di quelli che ragionevolmente discorsero esser stato quell’isola come un praticello che varie erbe tanto buone quanto triste produce, perciò che leggendo l’istorie si vedrà quel paese aver produtto regi in arme, in cortesia e per integrità di vita eccellentissimi e veramente degni d’esser dai buoni scrittori a l’eternità de la memoria consacrati. Ce ne sono poi stati di quelli dei quali si può affermare ciò che di Annibale scrive il candidissimo istorico Livio, dicendo che tante sue vertuti, quante narrate aveva, vizii grandissimi agguagliavano. Ma io crederei poter veramente scrivere che in molti dei regi inglesi le sceleraggini loro di gran lunga avanzavano quelle poche buone parti che avevano, con ciò sia cosa che alcuni per le azioni loro si sono non rettori, prencipi e regi, ma fieri e crudelissimi tiranni dimostrati. E tra gli altri vituperosi ed abominevoli vizii di cui erano macchiati, bruttati e pieni, la crudeltà e la lussuria hanno tenuto il prencipato, perciò che ci sono stati di quelli che del sangue umano i più vaghi dimostri si sono e di quello aver più sete che non ha l’ape del timo. Quanti già ce ne furono che senza pietà alcuna e, che peggio è, senza cagione hanno spento [p. 90 modifica]la maggior parte de la nobiltà de l’isola, mozzando il capo a quel prencipe, suffocando quell’altro ed ogni dì ammazzandone crudelmente alcuno? Nè contenti di levarsi dinanzi dagli occhi quelli che nemici nomavano, i parenti del sangue proprio, zii, nipoti, fratelli hanno ancisi, mettendo i corpi loro per èsca di corbi, lupi ed avoltori. E non bastando a la barbara ed inumana crudeltà loro spegner i buoni, hanno essaltato uomini viziosissimi, tolti da l’infima feccia de la villa e fatti baroni e signori. Odoardo re, padre di quell’Odoardo che ebbe il re Giovanni di Francia prigione, fu uomo pessimo e di tanti vizii pieno che in lui, eccetto il nome del re, non era parte alcuna che un buono e dritto uomo potesse lodare. Egli miseramente fece tagliar la testa al duca di Lancastro suo zio, non per altro se non per compiacer ad un suo favorito, non meno di lui ribaldo e scelerato. Non molto dopoi volle che in un dì fossero decapitati ventidui dei principali signori e baroni inglesi. Ma Iddio ad esso Odoardo e al suo Ugo, sediziosissimo e pieno d’ogni sceleraggine, diede convenevol castigo, perchè il figliuol suo proprio lo mise e fe’ morire in prigione, ed Ugo fu dopo molti tormenti in un grandissimo fuoco arso. Questi, che il padre in carcere macerò, a simil morte pose la propria madre e ad un suo zio carnale il capo tagliò, consacrando il principio del suo regno con sì abominevoli sacrificii. Taccio quell’Enrico il quale, per dispogliar la Chiesa dei suoi beni temporali, lasciò ammazzar Tomaso arcivescovo di Conturbia, uomo di santissima ed approvata vita, onde poi fu astretto a render il reame d’Inghilterra tributario a la romana Chiesa. Simile a lui successe Giovanni suo figliuolo, il quale avendo usurpata la corona, che ad Artù figliuolo d’un suo maggior fratello apparteneva, quello, cavalcando di compagnia lungo il lito del mar Oceano, crudelissimamente con una mazza di ferro ammazzò e per cibo di quei mostri marini gettò ne l’onde. Nè di questo fratricidio contento, molti altri nobili ancise, e del regno cacciò quasi tutti i vescovi e prelati inglesi, perchè ai suoi disordinati appetiti consentir non volevano. In Aquitania anco, che egli possedeva, un gran numero di prelati ecclesiastici mandò in essiglio, rubando e spogliando le chiese. Si sa altresì che Riccardo re fece annegar il duca di Clocestre suo zio, essendo a Cales, in un vaso di malvagìa. Ma poco durò la sua tirannide, perchè Enrico settimo lo cacciò del regno, e combattendo fu ammazzato. Ora se io vorrò minutamente discorrere tutte le sceleratezze di tanti re passati, mi converrà far una lunga iliade e prima il tempo [p. 91 modifica]mi mancherà che la materia. Basti adunque di raccontar una parte di quello che si disse d’Enrico settimo, padre di questo Enrico ottavo il quale al presente è morto. Questo, cacciato del regno, si riparò prima a Francesco duca di Bretagna e poi a Carlo ottavo re di Francia, col favore ed aita del quale, che gente navi e danari gli diede, cacciò Riccardo re d’Inghilterra e de l’isola s’insignorì. Nè fu del sangue umano meno sitibondo degli altri, ed a Carlo ottavo ingratissimo si dimostrò. Così di lui e degli altri regi inglesi ragionandosi e tuttavia alcuna nuova crudeltà raccontandosi, messer Giulio Basso, dicendo che si deveva cangiar ragionamento, narrò una istoria avvenuta in Inghilterra ad uno dei re passati. Io che attentamente l’ascoltai, come fu finita, quella scrissi; e parendomi che non se le disconvenisse d’esser messa insieme con l’altre mie novelle, deliberai, come a tutte sempre ho fatto, di darle un padrone. Il perchè, sovvenutomi quanto voi quando eravate qui solevate, la vostra mercè, legger volentieri esse novelle, ho deliberato fare che questa che io ora ho descritto sia vostra e sotto il famoso e pieno d’ogni gloria vostro nome ardisca mostrarsi negli occhi e ne le mani del publico, supplicandovi, signor mio, a non sdegnarvi che io ardisca in sì picciola cosa com’è questa prevalermi del favor del vostro nome, che in vero, – non già che io non conosca la grandezza e sublimità de l’eccellente di voi grado, – che d’ogni grande ed onorato titolo è meritevolmente degno. Ma che altro poss’io darvi? Il campo del mio debole ingegno è così sterile che pochissime cose produce, e quelle poche son sì mal coltivate e sì basse e rozze che, per più non potere, convien ch’io doni ai signori miei e padroni di quei frutti che il mio asciutto terreno talora genera. E perchè voi tanto cortesemente degnaste per vostro servidore accettarmi, incolpate l’elezion vostra che in luogo mio un più fruttuoso servo elegger non volle. Sì che con quel graziosissimo core degnatevi prender questo mio picciol dono, con cui sì benignamente chiunque e voi ricorre raccoglier solete. E la vostra buona grazia, basciandovi le mani, mi raccomando, e prego Dio che faccia che ciò che già le mie muse di voi pronosticarono, tosto dal mondo si veggia e lungo tempo duri. State sano. [p. 92 modifica]

Odoardo terzo, re d’Inghilterra, ama la figliuola d’un suo soggetto e la piglia per moglie.


Avendo sentito i molti e varii ragionamenti che qui fatti si sono, a me pare che di questi regi d’Inghilterra, o siano de la Rosa bianca o siano de la rossa, venendo tutti d’un ceppo, si possa dire che quasi a tutti siano piacciute le donne altrui e tutti più sete abbiano avuto del sangue umano che non ebbe Crasso mai de l’oro. E quando degli altri non s’avesse cognizione alcuna, questo che al presente si dice esser morto n’ha sparso tanto, che veramente si può dire non esser stato in questa nostra età, nè tra’ cristiani nè tra’ barbari, prencipe alcuno o tiranno sì crudele che a par di lui non si reputi pietoso. Che un prencipe per mantenersi nel suo dominio occida chi cerca di cacciarnelo, non è cosa inusitata nè nuova, chè a dir il vero il regno non capisce dui. E se lecito mi fosse dire e mischiar le cose sacre in queste profane, io direi che il nostro signor Iddio non volle il superbo Lucifero in cielo poi che il misero ed ambizioso angelo pensò e lui d’agguagliarsi. Or, come dir si suole, a sangue freddo far ammazzar uno e, perchè alcuno non voglia a’ miei disordinati appetiti compiacere, anciderlo, che questo stia bene o sia lecito io non lo crederò già mai. Onde talora meco stesso mi vergogno, quando intendo alcuni sì facili a levar la vita agli uomini non per via di giustizia, ma solamente per sodisfar agli appetiti loro mal sani. Non ha già fatto così Solimano che oggi è imperador de’ turchi del quale ancora non si sa che abbia imitato il padre e gli avi suoi, che tutti son stati inclinati a far ammazzar questi e quelli, e spezialmente quelli del sangue loro Ottomanno; perciò che mai, che si sappia, ha fatto morir niuno per appetito, se non per giustizia o per servar l’ordine de la milizia. E pure è maumettano e son ventisette anni che regna. Mi dirà forse alcuno che ha fatto ammazzare Abraino bassà, suo gran favorito. Io ve ne dirò ciò che a Vinegia da uomini pratichi de la corte del turco se ne dice, i quali affermano che trovandosi Solimano mal servito da Abraino ne le guerre contra i persiani, non avendo essequito alcune commessioni che commesse gli aveva, deliberò levarselo dinanzi dagli occhi. Ma perchè al principio che Abraino fu in favore, Solimano gli aveva fatto un amplissimo salvocondutto e de la parola e fede [p. 93 modifica]sua non voleva mancare, più volte si consegliò con i suoi sacerdoti, i quali, – non so già io in quai leggi abbiano trovata questa decisione, – gli conchiusero che se mentre Abraino dormiva l’avesse fatto svenare, che non rompeva il salvocondutto. E certo è che, dormendo, lo sfortunato Abraino fu morto. Ora a me medesimo incresce andarmi tra tanti morti ravvolgendo, avendone voi altri tanti raccontati ed io altresì dettone alcuno. Perchè volendo omai lasciar queste cose malinconiche e piene di sangue e pianti, e quello dire per cui a parlar mosso mi sono, dirò solamente queste parole: che sì come agli Appii fu nativo d’esser nemici de la plebe romana ed agli Scipioni vincer in Affrica fu fatale, così mi pare che di questi regi inglesi sia proprio d’estinguer quelli del sangue loro e perseguitar la nobiltà e far macello d’uomini ecclesiastici e rubar i beni de le chiese. Venendo adunque al mio proposito, vi dico che Odoardo re d’Inghilterra, quello che fu sì aspro nemico al regno de la Francia, ebbe anco guerra grandissima con gli scocesi e molto gli travagliò, come ne le croniche inglesi si legge. Egli prese per moglie la figliuola del conte di Hainault, da la quale nacquero alcuni figliuoli e tra gli altri il primogenito che pur si nomò Odoardo, prencipe di Galles, giovine ne le cose militari molto famoso, che non guari lontano da Poittiers vinse il campo francese e prese prigione nel fatto d’arme il re Giovanni e lo mandò in Inghilterra al padre. Trovandosi adunque il re Odoardo aver guerra con gli scocesi, perchè Guglielmo Montaguto suo capitano ne la marca di Scozia fortificò Rosemburg e fece alcune belle imprese, gli donò il contado di Salberì e lo maritò onoratamente in una nobilissima giovane. Lo mandò poi in Fiandra in compagnia del conte di Suffort, ove tutti dui furono fatti prigionieri da’ francesi e menati e Parigi nel Lovere. In questo tempo gli scocesi assediarono il castello di Salberì, ove la contessa non si portò mica da giovanetta delicata e timida donna, ma si dimostrò esser una Camilla o una Pentesilea, perchè con tanta prudenza, animosità e fortezza governò i suoi soldati e di modo i nemici offese, che furono astretti, intendendo il re venir al soccorso del luogo, levarsi da l’assedio. Il re che già era partito da Varoich e veniva verso Salberì per combattere gli scocesi e far giornata con loro, udendo che erano andati via, fu per ritornar indietro; ma essendo avvertito de la gran batteria che gli scocesi avevano fatta al castello di Salberì, deliberò andarla a vedere. La contessa che Aelips aveva nome, de l’avvenimento del re avvertita, fatti i convenevoli preparamenti che in tanta brevità di tempo [p. 94 modifica]far si potevano, come intese il re al castello approssimarsi, subito gli andò incontra, avendo prima fatto aprire tutte le porte di quello. Ella era la più bella e leggiadra giovane di tutta l’isola, e quanto tutte l’altre donne di beltà sormontava, tanto anco era a ciascuna d’onestà e bellissimi costumi superiore. Come il re così bella la vide e sì riccamente abbigliata, accrescendo meravigliosamente gli ornamenti del capo e di tutta la persona le native bellezze de la donna, non gli parendo mai aver in vita sua veduta la più piacevole e bella cosa, incontinente di lei s’innamorò. Ella inchinatasi al suo re e volendogli con riverenza le mani basciare, egli non lo sofferse, anzi umanamente, a ciò che io amorosamente non dica, raccogliendola ne le braccia, quella basciò. Tutti quei baroni e signori che con altri gentiluomini erano col re, veduta sì incomparabil bellezza, restarono fuor di misura attoniti, e non donna mortale ma cosa divina pensarono di vedere. Ma più di tutti era il re d’estrema meraviglia pieno e non sapeva altrove rivoltar gli occhi, quando la donna che bella e soave parlatrice era, poi che ebbe fatta la riverenza al re, quello sommamente con accomodate parole ringraziò del soccorso che preparato aveva, dicendo che gli scocesi, come sentirono quello da Varoich esser partito, s’erano da l’assedio levati, non avendo avuto core d’aspettarlo. Ed insiememente de le cose alora occorse ragionando, entrarono dentro il castello con trionfo e festa. Mentre che il desinare s’apprestava, il re, che venuto era per veder le batterie fatte dagli scocesi, tanto si sentì da soverchio amor battuto ed aperta la via per gli occhi al core col folgorar dei begli occhi de la donna, che non trovava rimedio veruno da potersi riparare; anzi quanto più vi pensava tanto più la rovina si faceva maggiore, e d’ora in ora pareva che dai raggi di quei begli occhi si sentisse battere, nè altrove che a questo poteva rivolger l’animo. Egli s’era tutto solo appoggiato ad una finestra, a’ suoi amori pensando e cercando via di poter la benevoglienza de la donna acquistare. In questo ella che vide il re così solo e pensoso, riverentemente a lui accostatasi, gli disse: – Sire, perchè state voi' 'pensando tanto e in viso così malinconico vi mostrate? Egli è tempo che v’allegrate e che stiate in gioia e in festa, poi che senza romper lancia avete cacciati i vostri nemici, i quali si confessano vinti, poi che stati non sono osi d’aspettarvi. Sì che voi devete star di buona voglia ed allegrar con la lieta vista vostra i vostri soldati e tutto il popolo, che dal volto vostro dipende. E come potranno eglino rallegrarsi, veggendo che voi, che il capo loro sète, non gli mostrate [p. 95 modifica]buon viso? – Il re, sentendo la soavità di quella angelica voce ed ascoltando quanto diceva, deliberò di scoprir l’amor suo e render, se possibil era, pieghevole la donna ai suoi desii. Mirabilissime certamente e penetrevolissime sono le fiamme d’amore e molto varie, causando secondo la varietà loro, ove s’appigliano, diversi effetti. Vedi colui acceso d’ardentissimo amore, il quale giorno e notte altro mai non fa che lamentarsi che troppo penace è il fuoco ove egli ardendo miseramente si consuma, e se con gli amici e compagni si duole, ha un fiume di parole in bocca che di continovo correndo mai non s’asciuga. Ma come vede la sua donna e che delibera dirle quanto per lei è in mortal pena involto, trema come un fanciullo innanzi al maestro e diviene di tal modo muto che non può formar parola, e in questa maniera tacendo e ardendo consumerà mesi ed anni. Tuttavia costui, che così nel cospetto d’una donna trema e tace, non si moverebbe di passo per uno o dui uomini armati, ed innanzi a gran prencipi e regi non solamente bene, ma con audace e ferma voce le ragioni sue direbbe. Un altro poi in quel punto medesimo che s’innamora e che si sente per tutte le vene sparger il liquido, sottile e velenoso fuoco de l’amore, che in lui non lascia dramma che interamente non arda, tanto animoso diviene che, ogni volta che abbia occasione di parlar a la sua donna, tutte le sue passioni arditamente le scopre, e spesso il primo giorno del suo amore è anco il primo a manifestar le fiamme. E di questa sorte era il re Odoardo, il quale, poi che vide la contessa tacere, così con pietosa voce a quella disse, avendo gli occhi di lagrime colmi: – Ahi, cara dama mia, quanto sono i miei pensieri, misero me, lontani da quello che forse v’imaginate! – E questo dicendo, fu costretto a lasciar uscir dagli occhi alcune lagrimette. Poi disse: – Io ho un ardentissimo pensiero che fieramente mi molesta, nè è possibile che di cor me lo levi, e mi v’è nato dapoi che io son giunto qui, e non mi so risolvere. – Taceva la donna veggendo cotali maniere nel re, e non ardiva nè sapeva che dirsi, quando egli con un pietoso sospiro le disse: – Che dite voi, dama? non sapete voi darmi alcun compenso? – Ella, alquanto assicurata e il tutto pensando se non ciò che era: – Sire, – rispose, – io non saperei che rimedio darvi, non sapendo che male sia cotesto che tanto par che vi prema. Se state di mala voglia perchè il re di Scozia abbia danneggiato il paese nostro, il danno non è tale che meriti nel vero che un tanto personaggio se ne affligga, oltra che, la Dio mercè, voi sète in esser di poterne con doppio strazio pagar gli scocesi, come [p. 96 modifica]altre volte fatto avete. Sire, egli è tempo di venir a desinare e lasciar questi pensieri. – Il re alora fatto buon animo così le disse: – Ahi, dama mia cara, io mi sento di soverchia pena scoppiare il cor nel corpo, e sono sforzato, se vivere voglio, di manifestarvi il segreto de l’animo mio e scoprirvi la cagione del penace mio dolore, parendomi che a voi e a me non convenga che io altrui di questo faccia consapevole. Vi dico adunque che subito che io arrivai a Salberì e vidi l’incredibile e divina vostra bellezza, i saggi ed onesti modi, la grazia ed il valor vostro con l’altre doti che in voi risplendeno come gemma legata in biondo e terso oro, in quel punto medesimo mi sentii esser vostro prigionero, e in modo da questi divini raggi dei begli occhi vostri abbrusciarmi che io più non sono in mio potere, ma in tutto e per tutto dipendo da voi, di tal maniera che la vita e morte mia sono ne le vostre mani. Chè se io' 'conoscerò che vi piaccia di ricevermi per vostro ed aver di me compassione, io viverò il più lieto e il più gioioso uomo del mondo; ma se per mia mala sorte voi di questo mio amore schiva vi mostrarete, non degnando di porger soccorso a l’intensissima doglia che sensibilmente a poco a poco mi va come cera al fuoco consumando, io in breve finirò i giorni miei, chè tanto a me è possibile che io senza la grazia vostra viva, quanto può un uomo viver senza anima. – In questo finì il re il suo ragionamento, attendendo la risposta de la donna; la quale poi che vide che egli si taceva, tutta in sè raccolta, con grave ed onesto viso così gli rispose: – Se altri sire, che voi queste ragioni dette m’avesse, io so bene che risposta esser deverebbe la mia. Ma conoscendo che voi sollazzate e di me per modo di beffa vi prendete trastullo, e forse lo fate per tentarmi, vi dirò per ultimar questa pratica, che a me non pare che ragione alcuna voglia che un sì generoso ed alto prencipe come voi sète possa pensare, non che deliberar, di levarmi l’onor mio, che più che la vita caro esser mi deve. Non sarà anco che io creda già mai che voi teniate sì poco conto di mio padre e di mio marito, che per voi son prigioni in mano del re de la Francia, nostro mortal nemico. Certamente, sire, voi sareste molto poco prezzato se si sapesse questo vostro mal regolato desiderio, ed anco da me nulla mai guadagnareste, perchè io non ho pensato, e meno ora ci penso, di far vergogna al mio consorte, perchè la fede maritale, che quando egli mi sposò io gli promisi, intendo candida e pura conservare fin che starò in vita. E quando io pensassi di far simil vigliaccheria con chi si sia, a voi, sire, apparterrebbe, per la servitù [p. 97 modifica]di mio padre, di mio marito e di tutti i miei, agramente riprendermene e darmene conveniente castigo. Sì che, valoroso signore, che gli altri solete vincere e soggiogare, vincete e soggiogate voi stesso e levatevi queste disordinate e poco onorevoli voglie di core, e attendete a la conservazione ed agumentazione del regno. – La compagnia che era col re e vedeva questi stretti ragionamenti imaginava che essi parlassero de l’assedio e de la guerra passata. In questo venne il sescalco e disse il desinar esser presto. Il perchè il re andò e si pose a mensa, ma niente o molto poco mangiò, stando tutto pensoso e di mala voglia. Ogni volta poi che gli veniva in destro di poter vagheggiar la dama, le gettava l’ingordo ed appassionato occhio a dosso, e cercando rallentar le cocenti e vive fiamme che miseramente lo ardevano, tuttavia le faceva maggiori e, come l’augello preso al visco, più ne l’amorosa pania s’intricava. I baroni ed altri, che vedevano questo insolito contegno del re, forte se ne meravigliavano; al vero perciò non si seppero apporre già mai. Stette quel giorno il re a Salberì e considerò le batterie fatte dagli scocesi e con i suoi lungamente ne ragionò, avendo di continovo l’animo a le sagge risposte de la dama, le quali quanto più vere e più oneste le stimava, tanto più s’affliggeva e si disperava di poter conseguir l’intento suo, – chè tutto era fitto in questo, – di prender amorosamente piacer con lei. Egli nel vero è gran cosa che quasi tutti questi lascivi innamorati quando sono di brigata con i lor compagni, se punto hanno del civile e del galante, lodano sempre quelle donne le quali amano, levandole con onorate parole fin al terzo cielo, e mai non si straccano d’essaltarle e commendarle. Per l’ordinario poi avendole date tutte le lodi che loro occorreno, di beltà, leggiadria, gentilezza, modestia, accortezza, prudenza, di belle maniere ed umanità, la più sublime e rara vertù che più magnificamente lodando estolgono e cantando celebrar si sforzano, è quella in ogni donna non mai a pieno lodata pudicizia ed onestà. Questa vertù di tanto valore e di tanta stima è tenuta ne le donne, e tanto quelle fa riguardevoli e degne di vera ammirazione, che se avessero tutte le grazie e lodevoli parti che al sesso feminile si convengono e questa sola manchi loro, perdeno in tutto la riputazione e l’onore e divengono femine del volgo. Ora questi innamorati, ancora che ne le loro innamorate lodino tanto il prezioso tesoro de l’onestà, tuttavia però se in effetto conoscono quelle esser pudiche ne sentono un dispiacer grandissimo, e vorrebbero che con tutti gli altri fossero onestissime, rigide e severe, pur che [p. 98 modifica]eglino le trovassero pieghevoli, e ai disonesti appetiti che hanno, arrendevoli; onde non potendo conseguir il libidinoso lor desiderio, quel casto animo e pudica voluntà che prima lodar solevano e tanto commendare, chiamano crudeltà, fierezza e superbia. Cotal era il re Odoardo, il quale veggendo che la donna perseverava nel suo proposito ferma e punto a le di lui preghiere non si piegava, ma assai più ritrosa si discopriva, quella diceva esser una fiera tigre, una donna intrattabile e crudelissima. E non avendo tempo di far dimora a Salberì per altri affari che occorrevano, sperando ricoverar meglior occasione per dar compimento al fatto suo, il dì seguente per tempissimo levato si partì, e prendendo congedo da la dama pianamente le disse, pregandola, che meglio volesse pensar ai casi suoi e di lui aver pietà. Ella riverentemente gli rispose che pregava Dio che gli levasse quella fantasia di capo e gli desse vettoria contra i suoi nemici. Fu in questo mezzo liberato de la prigione il conte marito de la donna, il quale, o per disagio patito o che che se ne fosse cagione, in breve da gravissima infermità assalito, senza poter ricever compenso, se ne morì. E non avendo avuto figliuoli nè maschi nè femine da Aelips sua moglie, nè altro erede che gli succedesse, la contea di Salberì ritornò in mano del re. La donna, oltra modo dolente de la morte del marito, dopo alcuni giorni a la casa del padre, che Ricciardo conte di Varuccia era, si ridusse, il quale perchè era uno dei consiglieri del re abitava in Londra. Si guerreggiava in quei tempi ne la Bertagna, tra Carlo di Blois che fatto s’era duca di Bertagna, e la contessa di Monteforte già stata duchessa del paese. Il re di Francia favoriva Carlo di Blois suo cugino, e Odoardo a la contessa prestava ogni aita a lui possibile, avendo prima fatta tregua con gli scocesi. E per occasione di questa guerra egli alora dimorava in Londra, ove sapendo che Aelips s’era ridutta, pensò che ai suoi amori si potrebbe dar alcun ristoro. Era sempre stato il re con questo pensiero al core, nè altrove in modo alcuno rivolger lo poteva. La dama alora aveva da venticinque in ventisei anni, e tanto ben compariva in abito vedovile che nulla più. E come già s’è detto, ella era fuor di misura bella, e con l’estrema bellezza e leggiadria ed altre sue belle maniere aveva congiunta somma onestà; il che al re fu cagione un tempo d’amarissima vita ed a lei a la fine partorì, come intenderete, eterna gloria. Amando adunque il re più che mai e tutte quelle cose operando per lo cui mezzo la grazia e l’amor d’una donna si deve poter acquistare, [p. 99 modifica]e per tutto ciò a nessuna cosa profittevole del suo desiderio pervenendo, quasi che egli si disperava, e d’amare o non volendo o non potendo disciogliersi, nè morir sapeva nè lo star in vita punto gli giovava. Erano già più di nove mesi che egli infelicissimamente l’amava, e quantunque volte la vedeva, tutto di nuovo disio ardendo e quella sovra ogni creata cosa amando, non come suddita sua ma come unica del mondo imperatrice onorava e riveriva. Tuttavia egli in tanto si temperava e il freno de l’appetito teneva in mano, che quanto più poteva a tutti gli altri questo suo ferventissimo amore celava e teneva nascoso. Un solo suo fidatissimo cameriero aveva del tutto fatto consapevole, col quale spesse fiate de la donna e de la sua dura rigidezza ragionando, parevagli alquanto le sue amorose passioni alleggerire. Deve in effetto ogni amante esser segreto, perchè amore ricerca segretezza e fede, e non solamente esser parco di parole che possino altrui dare cognizione e indizio qual donna egli ami, ma esser anco molto discreto ne l’azioni sue, a ciò che le troppe passate che facesse dinanzi la casa di' 'quella, o gli spessi corteggiamenti con quelle disvolture e smanie spagnuolesche non dimostrino al volgo quello che si deve tener segretissimo. Io non voglio per ora ragionar di quelli che, subito che vedeno una donna che piaccia loro, cominciano con più cerimonie, che non si fanno in cappella a Roma, a corteggiarla, e così acconciamente si diportano che in meno d’una settimana tutta la città s’avvede che eglino hanno «l’intendimento» in quella donna. Questi tali, vada la donna a la chiesa, dietro a le pedate di lei correno, e notte e giorno le vestigie di quella non abbandonano già mai. In chiesa poi rimpetto di lei in cotal guisa si mettono, affisando gli occhi nel di lei volto, che pare che quivi intenti e in tutto trasformati sieno. Il medesimo contegno serbano su le feste, balli e giuochi, e per le strade con alti e focosi sospiri l’accompagnano in sì fatta maniera che la donna mai non può far un passo, che non abbia negli orecchi il suono noioso dei sospiri e negli occhi le mal composte maniere di questi sì galanti innamorati. Nè poi di queste publiche comedie contenti, dubitando forse che gli uomini non s’avvedano di ciò che fanno, vogliono ancora con le proprie parole fargli avveduti, perchè d’altro parlar non sanno in ogni luogo ove si trovano che de la lor signora. E par loro che debbiano esser tenuti da più, per far coteste sciocchezze. Ma Dio guardi tutte le donne che hanno del gentile da questi gloriosi sciemonniti, i quali sono dopoi sì saggi che se averanno una buona vista, la predicheranno [p. 100 modifica]per le piazze. Pensate poi ciò che farebbero, se alcuna segnalata grazia da le lor donne ricevessero. Io credo che manderebbero le trombe per ogni cantone di contrada per publicar questi lor amoracci. Ora secondo ch’io biasimo questi così sfacciati ed ammonisco le donne che da loro si guardino come da la peste, non è ch’io molto più non lodi coloro che segretamente amano e di tal guisa si governano che sanno far conoscere a le donne loro che le sono servidori, senza far le gride, senza empir l’aria di sospiri che par che abbiano un Mongibello in corpo, e senza far il volgo di cosa veruna accorto. E perchè sono alcuni che amando donna di grado non vogliono che questo amore sia a persona del mondo fatto palese, ma che ardendo e tacendo chi ama se ne stia, se per sè non ha via di scoprirsi a la donna amata; io sono di parer contrario e porto ferma openione che sia necessario che chi ama, o basso o alto, debbia aver un fidato compagno e non più, il quale sia segretario dei suoi pensieri, imperciò che a nessuno mai non fu dubio che spesse fiate chi ferventemente ama, di maniera gli occhi e la mente abbia abbagliati che, in molti casi che occorrer ponno, da per sè non si possa disbrigare e senza altrui aita consegliarsi. Certo è, se costui non ha chi lo consegli, che farà mille enormi errori, e tirato da la ceca passione strabocchevolmente le sue sfrenate voglie manderà ad essecuzione, e forse tal pazzia commetterà che Solomone acconciarla con tanto suo sapere non potrebbe. Ma se averà un amico che per lunga prova abbia esperimentato fedele e prudente, potrà nel costui petto liberamente ogni salma dei suoi pensieri ed ogni segreto del core scaricare e deporre. Onde l’amico, che da passione amorosa non ha velati gli occhi de l’intelletto, saperà senza periglio il tutto consegliare e mille rimedii opportuni secondo il bisogno ritroverà, che chi appassionato e nei lacci d’amore irretito si ritrova usar non sa. Come poi, se nei casi di fortuna avversa in mille fastidii involto l’amante dimora, che sprezzato si vede e che conosce indarno affaticarsi e la sua servitù non esser a la donna che segue cara; come, dico, potrà trovar rimedio ai suoi dolori e da se solo senza aita sollevarsi, se non ha con chi le passioni sue conferire e talora disputare qual via sia più sicura e che modo de’ tener per fermo? Chè un piacere ed una contentezza che l’amante abbia e non sappia a chi comunicarlo, non dà la metà di gioia che reca quello che con l’amico si partecipa: perchè questi contenti ed allegrezze che Amore a’ suoi seguaci dona e stanno in un solo petto rinchiusi, sono forte manchevoli di compìta [p. 101 modifica]gioia e deboli e freddi restano; ove quelli che al fido compagno sono manifestati, si fanno di continovo maggiori, e quantunque volte sono rammentati nuova sempre contentezza apportano. E ciò che io parlo de l’uomo, voglio anco credere che a la donna innamorata si convenga, essendo per l’ordinario tutte le donne di temperamento più debole e delicato degli uomini e naturalmente più compassionevoli e pietose e meno atte a sopportar le fiamme amorose se eccessive sono, amando elle, – perdonatemi, voi uomini, – più ferventemente e con più affezione di noi, e non sapendo tanto simulare e dissimulare come molti fanno, a cui par di trionfare quando questa e quella ingannano. Ma tornando a la nostra istoria, conosceva ciascuno per la inusitata vita che il re menava, che egli d’amor ardeva; ma cui amasse non fu chi pensar potesse, perciò che ei, per non lasciarsi intendere, a tutte le dame molto s’inchinava e tutte riveriva secondo che il grado loro meritava. Ma sovra tutte e molto più di tutte la bella Aelips era da lui riverita e adorata. Ella, che d’elevato ingegno ed accortissima era, s’avvide di leggero che il re per aver ben cangiato luogo non aveva mutato pensiero, e che in effetto egli era pur quello che in parole a Salberì s’era scoperto. Nondimeno nulla de l’amor di lui curando e dal casto suo proponimento punto non si smovendo, quando gli accadeva fargli onore e riverenza come a re e suo signore, a quello s’inchinava, mostrando perciò non so che nel viso che al re dava ad intendere che per acquistare e goder l’amor di lei egli indarno s’affaticava. Ma che! il re quanto più ella schifevole si dimostrava tanto più s’accendeva, e con più aperte dimostrazioni ed atti amorosi, sforzavasi farle chiaro ciò che appo lei era chiarissimo. Onde la saggia e leggiadra Aelips poi che vide il male del re farsi maggiore e andar di mal in peggio, per non dargli occasione di far cosa che a lei potesse biasimo recare, non avendo pur un minimo pensieruzzo di compiacergli, deliberò levar via tutte le vie che il re ad amarla potessero indurre. Cominciò adunque di rado uscir di casa e raro a la finestra anco si lasciava vedere, e quando andar fuori le bisognava, si vestiva molto bassamente, e tutte quelle strade e luoghi fuggiva ove le pareva poter esso re incontrare. Egli, non dopo molto di questa cosa avvedutosi e di soverchia amorosa doglia sentendosi morire, fu quasi vicino a usar la forza. Ma perchè chi è veramente innamorato mai non si dispera, anzi con ogni studio va sempre ricercando, come sagace cane l’orme de la fera, così egli quelle de la sua donna, e tanto di lei spia che pur alcun vestigio [p. 102 modifica]ne truova; fece egli tanto, e tanto ne investigò che poche volte Aelips di casa usciva che il quando e il luogo ove ella andava ei non sapesse; onde e tre e quattro volte giva ad incontrarla, pascendo almeno gli occhi de la suave e vaga vista di lei. Ella, come s’è detto, vestiva panni grossi, e, lasciati i soliti abbigliamenti, più de la monaca teneva che di donna secolare. Ma già la piaga era nel petto del re tanto a dentro profondata, che per allentare che la donna facesse, nulla di profitto al re si recava, perciò che, come veramente il nostro gentilissimo Petrarca dice,


piaga per allentar d’arco non scema.


Poi tanta era la nativa bellezza di Aelips che se bene si fosse vestita il più ruvido panno e vile del mondo, ella sempre bellissima si vedeva. Veggendo adunque il re che tanto far non poteva che ella volesse de l’amor di lui prender pietà, più volte dal suo fidato cameriero le fece parlare, promettendole tutto quello che ella sapesse a bocca chiedere, e facendole usar quelle amorevoli parole che in simili ambasciate si costumano dire. Ma ella, che nel casto suo proponimento era saldamente fermata, quelle medesime risposte diede al cameriero che al re, essendo a Salberì, date aveva. Puotè il cameriero tanto dire quanto volle, ed usar quanta mai' 'eloquenza ed arte di parlar avesse Demostene o Cicerone, che niuna buona risposta cavar ne puotè. E poi che il re questa durezza, che pur troppo ruvida gli sembrava, intese, ancor che infinita doglia ne sentisse, non pertanto restò egli che tre e quattro altre fiate non tentasse l’animo de la donna; ma il tutto fu opera gettata via, con ciò sia cosa che ella seco aveva deliberato prima morire che perder la sua onestà. Ora poi che vide il re che cosa ch’egli si facesse niente di profitto gli recava, anzi di giorno in giorno andava di mal in peggio, dubitò forte che il padre di lei fosse di cotanta durezza cagione, chè creder non poteva che in cor d’una donna giovane, tanta e sì fiera rigidezza albergar potesse già mai, se da alcuna persona d’autorità non era nodrita e conservata con assidui fomenti. Questa credenza era al re d’infinita malinconia e di supremo dispiacer cagione, perciò che una gran giustizia a chi ama è grave offesa; onde dopo varii pensieri e discorsi che tra sè fece, deliberando riserbar la forza da sezzo, entrò in openione, essendo da la concupiscenza accecato, al padre di lei liberamente parlare e con promesse, lusinghe ed accrescimento de lo stato tanto dir e fare, che per mezzo di quello divenisse de la figliuola possessore. Ecco a che cecità e a che enorme errore induce l’uomo, che da lui ingombrato si ritruova, questo concupiscibile e mal regolato amore, [p. 103 modifica]che gli fa credere esser cosa facil a persuader ad un padre che de la propria figliuola faccia mercanzia e, come se fosse una cavalcatura, quella presti a vettura. Egli ben pare che questi tali in tutto abbiano perduto l’uso de la ragione; chè se ben talvolta si ritrovano dei padri, ed assai più sovente de le madri, che sì da poco sono e sì ribaldi che le proprie figliuole vendeno a prezzo come beccai la carne al macello, non è perciò che da noi stessi non debbiamo arrossire ogni volta che pensiamo di volergli indurre a far una sì vituperosa sceleratezza, non che sfacciatamente di simil cosa parlar loro. Ben era il re Odoardo compitamente da ceco appetito ingombrato e fuor di sè, essendo d’animo voler del caso suo parlar col conte Ricciardo. Il perchè fatta cotal deliberazione e ben bene pensato e ripensato quanto devesse dire, il tutto communicò al suo fidato cameriero, domandandogli anco sovra questo il suo conseglio. Il cameriero che discreto ed avveduto giovine era, parendogli troppo fuor di ragione in simil materia voler usar l’opera del padre a corromper la figliuola, disse esser cosa mal fatta che al conte Ricciardo egli di questo fatto si scoprisse, anzi che da lui si deveva guardare più che da persona che si fosse. E quivi allegò di molte ragioni che a dir questo il movevano, mostrando d’aver ferma openione che mai il padre a sì fatta sceleraggine non consentirebbe. Ed avvenissene pure ciò che si volesse, affermava il cameriero parergli un troppo disonesto atto che egli al conte sì fatto caso richiedesse, che forse un giorno potrebbe alcuno strabocchevol errore partorire. Ma egli cantava a’ sordi. Il re, entrato in questa fantasia e parendogli esser il suo profitto, la volle per ogni modo metter in essecuzione. Era il conte Ricciardo uomo de la persona molto prode e ne l’arte militare assai famoso, la cui prodezza e valore poco innanzi ne le guerre guerreggiate in Guienna erano stati assai chiari, ed al profitto degli inglesi conferito assai. Egli sin da fanciullo s’era col padre del re nodrito ed in corte in buona stima lungo tempo dimorato e spesso posto ad essequir onorate imprese, de le quali sempre con buona fama riuscito era, onde generalmente in tutta l’isola ciascuno l’amava e riveriva. Deliberatosi adunque il re di parlargli e raccontargli i casi suoi e chiedergli aita, gli mandò dicendo che seco aveva da conferir cose di credenza. Il conte, udita l’ambasciata, subito al re ne venne, il quale tutto solo in un camerino segreto l’attendeva. Quivi giunto e per commissione del re l’uscio fermato e primieramente fattogli la debita riverenza, stava aspettando ciò che il re comandar gli volesse. [p. 104 modifica]Egli, che' 'sovra un lettucciuolo da campo se ne stava assiso, volle che il conte parimente sovra il medesimo lettuccio sedesse, e ben che egli per riverenza nol consentisse, a la fine pure per comandamento del re che così volle vi s’assise. Stette alquanto il re senza dir motto alcuno, e poi dopo molti sospiri che interrotti mandava fuori, con gli occhi di lagrime pregni, così a parlar incominciò: – Io qui, conte mio, ora v’ho fatto venire a cagione d’un mio importantissimo bisogno, che a me non meno importa che la vita propria. Nè so se mai in caso alcuno fortunevole che avvenuto mi sia, che pur molti avvenuti mi sono e perigliosi assai, io mi ritrovassi in tanto fastidio e tanto noioso affanno in quanto ora mi ritrovo, che da le mie passioni così combattuto e vinto mi sento che, se a quelle alcun compenso non è in breve dato, elle certissimamente a la più disperata morte che mai uomo facesse mi condurranno. Beato veramente dir si può colui che col freno de la ragione i sensi suoi governa, nè da le sfrenate voglie trasportar si lascia. E chi altrimenti fa giudicio, io tengo che non uomo, ma più tosto animale senza ragione si debbia dire, chè per questo solo siamo noi da le bestie differenti, imperò che elle tutto quello che fanno, tratte dal loro naturale istinto adoperano e mandano ad essecuzione, e seguitano in tutto l’appetito. Ma noi con la misura de la ragione possiamo e debbiamo l’azioni nostre misurare, e quello eleggere che più dritto e conforme al giusto ci pare. E se talora del destro e vero camino erriamo, la colpa pure è nostra, che invaghiti d’un apparente e falso diletto ci lasciamo al disordinato appetito fuor del buon sentiero e sicura via cavare, andando poi precipitosamente a dar del capo in profondi abissi. Misero me, e tre volte misero, che queste cose tutte veggio e comprendo, e conosco quanto strabocchevolmente fuor di strada l’appetito mio disordinato mi tiri, e non so nè posso ritrarmi e sul vero calle ritornare ed a questi folli pensieri volger le spalle! Dico «non posso» e dir deverei «non voglio»: anzi pur vorrei, ma sì innanzi mi sono da le mie passioni, dai miei appetiti e da le mie mal regolate voglie lasciato trasportare, e sì ho allentato il freno ai miei disconvenevoli disiri, che a me più ritrarlo non vaglio. Son io come uno che, tratto da la vaghezza di seguir una fera in un folto bosco, tanto va innanzi seguitando che poi non sa trovar il camino di ritornar indietro, anzi quanto più per dentro vi s’aggira, tanto più vi s’intrica e vi s’imbosca e dal vero camino s’allontana. Ora, comunque la cosa si sia, questo cotanto ve n’ho io, conte mio, detto, non perchè non veggia [p. 105 modifica]il grave error mio, ma perchè conoscendo voi che io più non sia mio nè più abbia la mia libertà in mano, di me vi caglia avendomi compassione, e pietà di me vi prenda. Chè e dir il vero, sì ne la pania degli sfrenati miei desii avviluppato mi sono, che quantunque io veggia il meglio, al peggiore nondimeno m’appiglio. Io, ahi lasso me! io che i nemici miei per mare e per terra così gloriosamente ho vinto; io che il nome inglese per tutta la Francia ho fatto di riverenza, d’onore e di tèma degno; da un voluntaroso e disordinato appetito mio mi sento in modo legato e vinto ed al basso messo, che più in poter mio non è di sciogliermi e rilevarmi. Questa vita mia, che più tosto morte si può chiamare, è così d’ogni angustia e mortal pena colma che l’albergo di tutti i mali son io e solo recettacolo d’ogni miseria. E quale scusazione al fallo mio si può ritrovare che vaglia? Certo se pur la vi si trovasse, ella saria molto frivola, debole e vana. Una sola n’ho, che essendo ancor giovine e vedovo, mi pare che il lasciarmi nei lacci amorosi irretire non mi si disconvenga. E poi che assai sforzato mi sono le redine ed il freno de le mie voglie ripigliar in me e che ogni mio sforzo è riuscito vano, altro rimedio a le mie mordaci pene non so più che sperimentare se non buttarmi, conte mio caro, ne le vostre braccia. Voi, la vostra mercè, al tempo di mio padre più e più volte in mille imprese che non meno' 'di periglio che di gloria avevano, e poco avanti in Scozia per me ed in Francia, abondevolmente il sangue vostro avete offerto e talora anco sparso. Voi, – e chi lo sa meglio di me? – in molti perigliosi casi, d’ottimo conseglio sovvenuto m’avete e mostratomi il dritto camino per condur l’imprese al più facil e desiato fine, nè una volta solo a farmi servigio e profitto vi sète ritroso o stracco mostrato già mai. E perchè da voi dunque non debbo in tanto mio bisogno sperar tutta quella aita che uomo da uomo aspettar possa? chi sarà colui che le sue parole mi neghi a favor mio spargere, se già a mio profitto il sangue ha sparso? Io, o conte, altro soccorso da voi non voglio che di parole, le quali se faranno quel frutto che io, se vorrete voi di buon cor servirmi, aspettar posso e sperare, vosco m’offero il mio reame partire e farvene tutta quella parte che più vi sarà a grado. E se forse ciò ch’io vi chiederò vi parrà troppo duro a mandarlo ad essecuzione, considerate, vi prego, che un servigio tanto è più gradito quanto con più difficultà si fa, quanta più fatica vi si dura e pena vi si mette, e quanto più di travaglio e di sconcio piglia colui che vuol l’amico suo servire. Pensate medesimamente quello che [p. 106 modifica]sia aver un re in abbandono, del quale ad ogni vostra voglia possiate prevalervi e disponer il tutto come più v’aggradirà. Voi avete quattro figliuoli maschi, nè a tutti onoratamente sodisfar potete, onde io v’impegno la fede mia che ai tre ultimi, di stato tale provederò, che mai non porteranno al maggiore invidia. Voi sapete pure com’io so gratificare chi mi serve. Pertanto, se a voi di ciò che da voi desidero parrà quello che a me pare, in breve vederete il frutto che ve ne seguirà; chè se io non sono stato agli altri ingrato, a voi meno sarò, ne le cui mani metto la vita e la morte mia. – In questo parlare il re da gravi singhiozzi subito impedito e da caldissime lagrime sovrapreso, non possendo più favellare, si tacque. Il conte, udite le parole del suo re che non mezzanamente amava, e le lagrime vedute che d’interna e gravissima passione facevano manifesta fede, nè di ciò sapendo la cagione, e il tutto se non quello per cui era domandato imaginandosi, da grandissima pietà commosso, al re sì larga proferta di se stesso, dei figliuoli e d’ogni suo avere fece, che far la maggiore era impossibile. – Comandatemi pure, – diceva egli, – o signor mio, ciò che volete ch’io faccia senza rispetto veruno, chè io vi giuro ed impegno la fede mia, a voi prima che ora per omaggio ubligata, che quanto questa mia lingua potrà, quanto l’ingegno e le forze mie varranno, voi sarete da me fedele e lealmente servito. Nè solamente di tai cose sono io ubligato a servirvi, ma bisognando sarò presto la vita mia metter a rischio di mille morti. – E chi sarebbe stato colui che ad un suo prencipe in simil caso risposto altrimenti avesse? e chi averebbe pensato che il re al conte Ricciardo, che conosceva esser cavaliero d’onore, devesse una cotal richiesta fare? Ma sovente nascono de le cose che sono fuor d’ogni credenza umana, come nel vero fu questa. Ora il re avendo sentito il parlar del conte, tinto il viso di mille colori ma tuttavia per amore divenuto audace, con voce perciò alquanto tremante, in questa forma gli disse: – La vostra Aelips, conte mio caro, è la sola cagione che me infinitamente contento e voi con tutta casa vostra può felice fare, perchè io assai più che la vita mia l’amo e de le sue divine bellezze sono in modo acceso che senza lei viver non posso. Pertanto, se desiderate di servirmi, se caro v’è ch’io viva, adoperatevi seco che ella degni d’amarmi ed abbia di me compassione. Nè crediate che io senza estremo cordoglio e vergogna infinita a sì leale e perfetto servidore ed amico, come sempre v’ho riputato e più che mai riputo, così fatto servigio richieda; ma scusimi appo voi amore, che può troppo più che nè voi nè [p. 107 modifica]io possiamo. Egli sì fattamente con le belle maniere de la vostra Aelips m’ha concio e sì fieramente levato fuor di me e in quella l’anima e il cor mio con ogni pensiero collocati, che senza lei non è possibile che io più viva. Assai sforzato mi sono, ed ogni ingegno adoperatovi e fatto tutto quello che a me è stato concesso, per scacciar questo amore e purgar sì pestifero veleno; ma ogni mia forza è riuscita vana e il mio sapere nulla m’ha giovato. Io che tutto il mondo vincer mi credeva, io che mille esserciti nulla stimava e in ballo mi pareva d’entrare quando ne le battaglie entrava, da una giovane donna, oimè, sono vinto e preso! Io che gloriosamente altrui ho superato, a me non so sovrastare! Non vi rammenta egli quante fiate voi e il duca di Lancastro detto m’avete, e talvolta anco garrito, che io troppo m’affaticava e che il tanto andar a la caccia di cervi, cinghiari ed altre fere mi potrebbe recar gran danno? Credete voi che io quelle fatiche, quei digiuni, quelle vigilie, e lo star al vento e la pioggia ed a l’algente verno a la neve ed al ghiaccio, facessi per mio piacere e che gran diletto sentissi tutto il dì correre come forsennato in su e in giù per valloni, colli e monti, e varcar questa e quell’acqua, senza prender riposo veruno? Io voleva, conte mio, col continovo cavalcare, con l’andar talvolta a piedi, con l’indefesso essercizio e col sofferir tanti disagi e strazii quanti tutto il dì sopportava, menando così faticosa e dura vita, domare e macerar questo mio fiero appetito, a fine che se io non spezzava o smagliava le fortissime catene di così fervente ed ostinato amore, alquanto pure le rallentasse, e se pace non mi si dava, ritrovassi almeno un poco di tregua. Ma a me pare che il tutto sia buttato via e che nulla mi giovi, anzi che questo mio vivace amore negli affanni cresca e divenga d’ora in ora maggiore. Io tanto ho di bene, io tanto mi riposo e vivo quanto la veggio o di lei parlo o penso. E insomma io sono ridutto a tale, poi che ella nè mie ambasciate vuol più udire nè risponder a mie lettere, che forza mi sarà o che io ne mora, o con vergogna o danno di tutta casa nostra a le mie così penaci, fiere e tormentose passioni truovi rimedio. Vorrei pure che il morire si tardasse più che si potesse e fosse la sezzaia cosa che a far s’avesse. Non vi sia adunque grave, conte mio, prender de la vita mia quella cura di cui vedete che io ho bisogno. Se ville, terre, castella, ufficii, tesoro, beneficii di chiesa o altro volete che in mio poter sia, eccovi la carta bianca di mia mano sottoscritta ed affermata del mio suggello. Andate e da uno dei miei segretarii fate scriverle su ciò che voi volete, chè [p. 108 modifica]il tutto non starà se non bene. – E in questo il foglio de la carta, che innanzi la venuta del conte apparecchiato aveva, gli pose in mano, e tutto da la bocca d’esso conte, con timido e palpitante core la risposta attendendo, pendente se ne stava. Il conte, intesa l’incivile e disonesta domanda del suo signore, tutto in viso arrossito, la carta gettò sovra il letto. Poi d’affanno, di meraviglia, di stupore ed anco d’onesto sdegno pieno, non sapendo a parlare snodar la lingua, a la fine in sè fermatosi, a l’aspettante ed appassionato re in cotal guisa rispose: – Male, o sire, nel termine in cui ora mi truovo, so io che dire, veggendomi a dui strettissimi e perigliosi passi ridutto, che pensando a far qualunque de l’una de le due cose che per l’animo mi vanno, non mi può essere se non di grandissimo periglio cagione. Legato a voi mi sono per vinculo de la mia fede, non esser cosa al mondo, quantunque dura e difficil sia, che io per vostro servigio e per salvezza vostra non faccia; il che mi sono risoluto e intendo di fare, perciò che prima vorrei morire che de la mia parola mancar già mai. Io a mia figliuola quanto richiesto m’avete tanto discoprirò, con quelle maniere che da voi ho inteso. Ben vi ricordo che pregar ne la posso, ma non sforzarla: basta che per bocca mia ella intenderà tutto l’animo vostro. Ma entrando in un altro ragionamento, vi dico che non poco di voi mi meraviglio e mi doglio. Siami lecito, signor mio, liberamente più tosto con voi sfogar l’aspro mio cordoglio che con altri aver cagione di querelarmi. Dogliomi senza fine che voi nel sangue mio, che in ogni' 'impresa a vostro servigio, onore e beneficio mai non fu di sè scarso, abbiate pensato tal villania commettere, ove da voi meritevol ed onesto guiderdone si deveva attendere. Ditemi: è questo quel premio che io e i miei figliuoli de la nostra servitù aspettar debbiamo? Almeno se del vostro dar non ci volete, se farci più grandi non vi piace, non ricercate di pigliarne l’onore ed in sempiterno vituperarci. E che devevamo noi peggio da un capitalissimo nostro nemico aspettare? Voi, sire, voi a mia figliuola l’onore, a me ogni contentezza ed ai miei figliuoli l’ardire di lasciarsi in publico vedere in un tratto rubate, e a tutta casa mia ogni sua gloria levar volete? voi tanto disonesta macchia ne la limpidezza e chiarezza del mio sangue di porre v’apparecchiate? voi così grand’errore di commetter vi deliberate, e volete che io de la mia total rovina il ministro sia e come sfacciato ruffiano meni mia figliuola al chiazzo? Pensate, sire, pensate che a voi appartiene, quando altri cercasse vituperarmi, di porvi in mia diffesa ed ogni aita e favore prestarmi. E se voi m’offenderete, [p. 109 modifica]ove potrò io per soccorso ricorrere? se la mano che sanar mi deverebbe è quella che m’impiaga, chi fia che compenso mi doni e la medicina su vi ponga? Perciò se di voi mi doglio e se di dolermi e di mandar le pietose voci sino al cielo giusta cagione mi date, giudicatelo voi, mettendo alquanto da parte il concupiscibil appetito e risguardando in viso la ragione, chè altro giudice che ’l vostro invitto e valoroso animo non ricerco. Da l’altro canto poi ho io grandissima meraviglia de’ casi vostri, pensando a le cose da voi dette, e tanto ne l’ho maggiore quanto che un altro forse non averebbe, perchè mi par meglio da la vostra fanciullezza insino a questi dì aver i vostri costumi conosciuti che alcun altro, e non essendomi paruto già mai che voi siate stato a’ piaceri amorosi soggetto, ma di continovo ne l’arme ed altri essercizii occupato, che ora siate d’Amore divenuto prigioniero, tanto nuovo e così strano mi pare che io non so quello che me ne dica. E se a me di ciò cadesse il ripigliarvene, io vi direi cose che vi farebbero uscir di voi; ma io lascio che il vostro pensiero ve le ponga innanzi. Sovvengavi, sire, ciò che essendo ancor giovinetto voi feste patir a Rugiero di Montemer, che la reina Isabella vostra madre e sorella di Carlo bello re di Francia governava; che non contento de la crudelissima morte che a lui fu data, essa vostra madre anco feste miseramente in prigione morire, e Dio sa se le sospizioni che di loro s’ebbero furono con fondamento. Perdonatemi, sire, se io tanto innanzi parlo, e considerate meglio i casi vostri. Non pensate voi che voi sète ancor armato ed in grandissime cure e sollecitudini involto, per l’apparecchio grande che fa il re di Francia per mare e per terra per vedere se egli potrà rendervi il contracambio de la sempre memoranda vettoria che de le sue genti, in mare e in Francia combattendo, Iddio v’ha donato? Ed ora che sète di giorno in giorno per passar il mare e prevenendo il nemico vostro assicurar le terre vostre de l’Aquitania, avete al lusinghevole amore dato luogo? voi a le fiamme nocive de l’amore avete aperto il petto e permettete che l’ossa e le midolle a poco a poco vi consumino? Ma dove è, signor mio, l’altezza del vostro sì chiaro, sottile e vertuoso ingegno? ov’è la cortesia, la magnanimità, con tante altre vostre doti che, aggiunte al valor vostro, ai nemici formidabile e spaventevole, agli amici amabile e ai soggetti riguardevole vi rendevano? Ciò poi che mi diceste ultimamente di voler fare se mia figliuola non vi compiace, non dirò io già mai che sia un atto di valoroso e vero re, ma ben potrò liberamente affermare esser viltà d’un pusillanimo e libidinoso uomo [p. 110 modifica]e atto di pessimo e crudelissimo tiranno. Ahi, sire, togliavi Dio simil pensier di capo, perciò che come voi cominciarete per vano appetito di libidine sforzar le donne dei sudditi vostri, questa isola non sarà più regno, ma si potrà veritevolmente chiamare un fiero bosco di ladroni e assassini;' 'chè dove non è giustizia, che cosa bella o buona si potrà dire che ci sia? Se voi potete con lusinghe, con promesse e con doni persuader a mia figliuola che pieghevole ai vostri appetiti si renda, io di lei mi potrò ben dolere come di giovine poco continente e non ricordevole de l’onestà dei suoi maggiori; ma di voi non saperò altro che dire se non che fatto avete come communemente gli uomini fanno, i quali tante donne cercano d’aver al piacer loro quante ponno, ond’ella resterà con vergogna, che per l’ordinario a simil impudiche donne rimane. Ora che poi mi dichiate che una donna abbia tanto imperio sovra voi quanto mi dite che Aelips v’ha, io creder non lo posso; ma son parole che ogni amante costuma dire per mostrar che ferventemente ama. Ma pensate un poco come questo sia convenevole: egli è pur fuor d’ogni convenevolezza e ragione che chi deve esser suddito sia superiore, ed ubidisca chi deve comandare. Questa, sire, è la costanza, questa è la fortezza, questo è il valor de l’animo e la sicurezza che i popoli d’Inghilterra da voi aspettar ponno, e viver con la mente riposata d’aver un valoroso e magnanimo re? Io dubito assai che la prudenza, la giustizia, la liberalità, l’umana e sì cortese cortesia, l’antivedere i futuri casi e provedergli, e quella indefessa e continova sollecitudine, con le quali quando eravamo nel paese de la Piccardia l’essercito vostro con tanta concordia governavate, che essendo di varie e diverse genti raunato, mai non vi fu una minima discordia, non siano più in voi; nè vi siano più quelle astuzie militari, che tanto onore già vi fecero e tanto profitto quanto si sa vi recarono. E che del tutto il peggio mi pare, è che voi conoscete l’error vostro e di bocca propria lo confessate, e nondimeno emendarlo non volete, anzi al fallo e peccato che è in voi andate ricercando di por un velo ed una apparenza d’onestà, e ritrovarla non sapete. Io, sire, amorevolmente vi ricordo che grandissima gloria acquistaste vincendo il re Filippo in mare, e tanta e sì numerosa sua armata, che quattrocento vele aveva, rompendo e dissipando, e mettendo l’assedio sugli occhi suoi a Tornai, città sì famosa, i cui popoli furono già di tanta stima e chiamati anticamente Nervii. Nè minor gloria vi fu vincendolo a Creci presso di Abenilla, ove dal canto di Francia morì il re di [p. 111 modifica]Boemia venuto in soccorso di Filippo, e molti baroni che lungo sarebbe a nome per nome raccontare vi morirono. Assai anco vi s’accrebbe d’onore per la presa di Cales e d’infinite altre imprese che fatte avete. Ma io vi dico, sire, che molto maggiore e più glorioso trionfo conseguirete vincendo voi medesimo, perciò che questa è la vera vittoria e che più d’onore apporta. Poco valse al magno Alessandro aver vinto tante provincie e debellati cotanti esserciti, e poi lasciarsi vincere e soggiogare da le proprie sue passioni; il che minore assai di Filippo suo padre lo fece, che a par del figliuolo tanti regni acquistati non aveva. Sì che, signor mio, vincete questo folle appetito e non vogliate con così disonesto atto ciò che gloriosamente acquistato avete perdere, e sì brutta macchia porre ne la limpidezza de la gloria vostra. Non crediate già che io tanto ve ne dica perchè non voglia quanto promesso v’ho d’essequire, chè intendo pienamente di farlo; ma de l’onor vostro assai più geloso essendo divenuto che voi non sète nè del vostro nè del mio, quello vi avviso e vi ricordo che mi par esser profittevole ed onore di voi. E se a voi stesso di voi non cale, a cui per Dio ne deverà calere? chi prenderà cura dei casi, vostri se voi di quelli e di voi medesimo cura non pigliate? Ma s’ingegno averete come io so che avete, da voi si penserà che un breve, disonesto e fuggitivo piacere con una donna per forza preso, può molto poco di gioia recare, che forse infinito danno apportarebbe. Da voi per me e per i miei figliuoli nè robe nè stato nè altro util voglio se non quanto la mia e loro servitù aver meritevolmente deve. Per questo tenetevi lo scritto vostro e datelo ad altri che,' 'pure che abbiano danari e gradi, non curano come si vengano. Io, per quanto potrò, non voglio mai che nè a me nè ai miei figliuoli nè ai miei discendenti sia gettata in occhio cosa alcuna che possa con ragione farci arrossire e mutar in viso di colore, chè ben sapete come si scherniscono e si mostrano a dito alcuni che da’ regi passati, per disonesti ufficii che fatto hanno, sono divenuti ricchi e grandi, che prima erano di bassa condizione ed ignobilissimi. Sovvengavi, sire, che non è molto che voi ad uno di costoro in faccia propria, essendo con l’essercito contra gli scocesi, rimproveraste che per esser stato ruffiano di vostro padre era di barbiero stato fatto conte, e che lo fareste ancora, se non cangiava vezzi, tornar a la barberia al suo antico mestiero. E con questo, sire, sarà il fine del mio lungo parlare, chiedendovi umilmente perdono se cosa ho detta che non vi piaccia, e supplicandovi il [p. 112 modifica]tutto a pigliar con quella affezione che io ho parlato. Così con vostro congedo me ne vado a casa a mia figliuola, e farò puntalmente quanto ricercato m’avete. – E non aspettando dal re altra risposta, del camerino uscito, si partì, assai e varie cose sovra i ragionamenti fatti pensando. Punsero sì amaramente le ragioni del conte l’appassionato ed infermo animo del re, che quasi fuor di se stesso non sapeva che dirsi; e tanto più il punsero e trafissero quanto che tanto ceco non era, che egli non vedesse che diceva la verità e che da affezionato, vero e fedelissimo servidore parlato gli aveva. Onde tra sè cominciò molto minutamente a considerar tutto il ragionamento fatto, e di modo cose assai dette lo premevano, che si trovò troppo mal contento che in simigliante caso fosse stato oso di ricercar per mezzo a conseguir il suo desiderio il padre de la sua innamorata, parendogli tuttavia che la sua richiesta fosse vituperosa e disonesta. Per questo quasi che si deliberò troncar questa pratica amorosa e in tutto da quella sciogliersi. Ma come pensava a la vaga bellezza e a quei bei modi e maniere d’Aelips, in un tratto si cangiava d’openione e tra sè diceva: – Ahi, lasso me! io mi conosco bene esser sciocco e mal avventuroso, se penso poter vivere e non amar costei. Io con tutte le forze mie e quelle del mio regno appresso, sarò bastante a lasciarla e levarmela del core? io presumo così di leggero da questo indissolubil nodo disciogliermi e da sì tenace e fervente amore districarmi? cotesto come sarà egli possibile già mai? – chi sarà che faccia ch’io non tenga eternamente Aelips per mia signora e mia soprana donna? Certo, che io mi creda, nessuno. Ella nacque per esser colei a cui devessi sempre star soggetto e lei sola e non altra amare. E se io conosco che altro far non potrei ancor ch’io volessi, e che quando io potessi non vorrei, a che più lambiccarmi il cervello? Io amo Aelips ed amerò sempre, avvengane mò ciò che si voglia. Il conte è suo padre ed ha parlato da padre, ed io non deveva seco scoprirmi. E che poi sarà? Io sono il re, nè gran cosa mi pare ch’io ami la figliuola d’un mio vassallo, nè sono il primo che questo abbia fatto, nè anco sarò l’ultimo. – Da l’altra parte con l’intepidirsi alquanto così fervente pensiero, entrava avanti alcun raggio di ragione che gli faceva veder il male e scandalo che di questo amore riuscir poteva, ed in parte rintuzzava l’animo sì acuto e disposto d’amare, di modo che variamente tra se stesso combattendo, ed ora pieno di speranza trovandosi e poi talora in tutto di speme privo, e d’uno in altro pensiero travarcando, e non parendogli possibile l’amor de la donna che sì [p. 113 modifica]ferventemente amava ammorzar già mai, deliberò in ultimo attender ciò che il conte con la figliuola operasse. Indi uscito del camerino, quantunque tutto mesto e di pensieri noiosi aggravato e pieno d’una mala contentezza fosse, si sforzò perciò tuttavia con una lieta faccia nasconder la passione che di dentro lo rodeva. Il conte, come fu dal re partito, al suo albergo diritto se n’andò, pensando e ripensando quanto il re gli aveva communicato. Essendo' 'giunto a casa ed in camera entrato, poi che cose assai ebbe tra sè discorse, sapendo la figliuola esser in casa e deliberato parlar con quella a lungo, la si fe’ domandare. Ella di subito, senza far dimora, al padre se ne venne. Volle alora il conte che la figliuola a lui dirimpetto sedesse, ed in questa guisa a ragionar seco cominciò: – Io porto ferma openione, figliuola mia carissima, che non poco de le cose che oggi da me sei per udire, che ora ti dirò, ti meraviglierai, e tanto più te ne meraviglierai e resterai d’estrema ammirazione piena, quanto che ragionevolmente ti parrà che a me punto non si convenisse far teco simil ufficio. Ma perchè sempre si deve di dui mali elegger il minore, io non dubito che tu come saggia, chè sin da la tua fanciullezza tale t’ho conosciuta, farai l’elezione che io medesimamente ho fatta. Io, figliuola, da che mi parve aver del bene e del male alcuna conoscenza essendo ancor garzone, e fin al presente, sempre più stima ho fatto de l’onore che de la vita, perciò che secondo l’openion mia, quale ella si sia, assai minor male è morir innocente senza macchia che viver disonoratamente e diventar la favola del volgo. Tu sai che cosa è a l’altrui imperio esser soggetto, ove bisogna molte fiate far il contrario di quanto s’ha ne l’animo, e attese le qualità dei tempi, secondo le voglie dei signori nuovo abito vestirsi. Ora ciò che io ti vo’ dire è che monsignor lo re oggi m’ha fatto chiamare, e quando dinanzi a lui stato sono, assai con caldissime preghiere m’ha pregato ed astretto che io in una cosa, che da me era per domandare e che la vita a lui importava, lo volessi servire, proferendomi tutto quello che io saperei a bocca chiedere che in suo poter fosse. Io, che nasciuto vassallo e servidore a questa corona sono, largamente la mia pura fede gli impegnai che tutto ciò che mi comandasse con ogni mio potere ad effetto manderei. Egli udendo la mia libera promessa, dopo molte parole accompagnate da sospiri e lagrime, a me si scoperse che sì fieramente e di tal modo è di te e de le tue bellezze invaghito, che senza il tuo amore egli a patto nessuno viver non puote. E chi, per Dio, si averebbe imaginato già mai che di simil faccenda il re [p. 114 modifica]parlato m’avesse? – Dopo questo il conte la lunga istoria dei ragionamenti tra il re e lui passati a parola per parola interamente disse, e soggiunse: – Tu vedi, figliuola, a che termine il mio largo e semplice promettere e la sfrenata voglia del re m’hanno ridutto. Al re ho detto che in mio potere è di pregarti, ma che sforzar non ti posso. Onde ti prego, e vaglia il prego mille, che tu voglia al re nostro signor compiacere. Fa stima, figliuola mia, di far un dono a tuo padre de la tua chiara onestà e pudicizia. La cosa in modo si farà che a tutti si terrà celata, oltra che sarai cagione che i tuoi fratelli diverranno i primi baroni di questa isola. Il tutto, figliuola, t’ho voluto dire per non mancar al re de la mia parola. Tu sei saggia, e se penserai a quanto t’ho detto, non dubito punto che farai elezione a te convenevole. – Così parlato, il conte si tacque. La giovane, mentre il padre le favellava, s’era di tal guisa in viso di vergogna arrossita e d’onestissimo sdegno in modo accesa, che chi veduta alora l’avesse l’averebbe senza parangone più vaga e più bella assai del solito giudicata. I suoi dui begli occhi parevano proprio due fulgentissime stelle, che scintillando i suoi ardenti raggi vibrassero. Le guance rassimigliavano due incarnate rose còlte d’aprile in quell’ora che il sole, sferzando fuor del Gange i suoi corsieri, comincia a poco a poco a rasciugar le rugiadose erbette e tutti i fiori e rose, dal notturno umore chiuse, aprire. E l’eburneo collo, le marmoree spalle ed il petto alabastrino, d’onesto vermiglio colore con natia e non fucata bellezza cosparsi, tale la mostravano quale fingono i poeti che Venere in Ida tra l’altre due dee al troiano pastore apparve, perchè più bella assai de l’usato si dimostrò a ciò che più leggermente le compagne di bellezza e di leggiadria sormontasse. Or poi che Aelips s’avvide il padre e suoi parlari' 'aver dato fine, che già s’era messo in silenzio, tutta sdegnosetta, la lingua dolcemente snodando e tra perle orientali e finissimi rubini le parole rompendo, in questa maniera la sua risposta cominciò, e disse: – Quanto di voi, padre, mi meravigli, avendo udito dirvi cosa che mai d’udir da voi non aspettava, se tutte le parti del corpo mio fossero lingue e tutte le lingue d’acciaio e la voce adamantina e indefessa, non credo io che bastassero ad esprimer la minima particella de la mia ammirazione. E invero ho io da meravigliarmi e dolermi insiememente di voi sempre mai, veggendo il poco conto che de l’onor mio tenete, chè quantunque a me possiate come a figliuola e serva vostra comandare, devevate perciò sapere e ridurvi a memoria che mai atto in me non vedeste nè parola o motto udiste, che a [p. 115 modifica]dirmi cosa meno che onesta vi devesse far baldanzoso. Ma ditemi: non vedete voi che mi pregate e quasi essortando mi suadete a far cosa, la quale se io avessi pure un minimo pensiero di essequire, da voi, se voi mi foste quell’onorato padre che esser devete, senza compassione alcuna esser svenata meritarei? Io, o padre, fin che era a Salberì conobbi che il re d’esser di me innamorato dimostrava, ed il medesimo in questa terra ho conosciuto, perciò che con vagheggiamenti tutto il giorno, con ambasciate e lettere più volte m’ha tentata, non mancando per via di larghissime promesse volermi corrompere. Ma il tutto niente gli ha giovato, perchè io, sempre che meco ha parlato o scrittomi o mandatomi messi, ho detto essermi più cara la mia onestà che la vita. A voi non volli io dir cosa alcuna circa questo affare, e meno a mia madre e miei fratelli, per non darvi occasione d’incrudelir contra il nostro re, sapendo esser, per simili accidenti, seguiti di molti scandali e de le città e dei regni distrutti. Ma lodato Iddio, che non era bisogno che io dubitassi di porvi l’arme in mano, poi che a così disonesto ufficio vi veggio cotanto pronto e sollecito! Tacqui dunque per men male, ed anco mi ritenni di non manifestar cosa alcuna, sperando pure che, veduta il re la mia incorruttibil e ferma onestà, devesse da così mal incominciata impresa levarsi e lasciare che io col mio casto proponimento da mia pari me ne vivessi. Per questo se ai giorni passati m’avete rade volte uscir di casa veduta ed avete visto come vilmente vestita mi sono, ad altro fine non ho fatto questo se non per fuggir quanto m’era possibile d’incontrarmi nel re, e che veggendo poi quanto io abbiettamente vestiva, pensasse che i miei pensieri in altro erano che in cose d’amore. Or perchè egli è ostinato ed io mai non sono per far volontariamente cosa che gli piaccia che disonesta sia, a ciò che sforzatamente, – che Dio non lo permetta! – di me non faccia il suo volere, io seguirò il vostro conseglio e di dui mali il minore eleggerò, me stessa prima occidendo che soffrir mai che sì gran macchia e tal vituperio d’onor mio sia veduto e per le strade sia come putta del re mostrata a dito. Mille volte ho sentito dire, e voi pur mò me lo diceste, che vie più de la vita deve l’onore esser stimato, e certo la vita senza onore è come una vituperosa ed infame morte. Tolga Iddio che io mai divenga bagascia di qualunque uomo al mondo sia, e che cosa in segreto faccia che, in publico poi manifestata, sia cagione di farmi cangiar di colore. Ditemi, padre: che onore sarebbe il vostro se io cosa meno che onesta operassi, quando per la città [p. 116 modifica]o a corte ve n’andate, che ovunque vi occorresse passare, udiste dal volgo dire: – Ecco il padre de la tale; ecco chi, per aver venduto la figliuola, di grado e ricchezze è cresciuto? – Credereste voi forse che così gran misfatto devesse restar occulto? E se gli uomini per tèma non ardissero aprir la bocca, chi terrebbe lor le mani che de le cedule non scrivessero e per le strade non spargessero ed attaccassero per tutti i cantoni de la città? Quando il re, per quello ch’io n’ho sentito dire, fece tagliar la testa a suo zio il milorto Cain e poco dopo a Rogier da Montemer, e morir la madre in' 'prigione, furono appiccati bollettini per le strade in vituperio d’esso re, ed ancor che egli fieramente se n’adirasse, ed alcuni facesse decapitare i quali sospettava esser quelli che gli scritti avessero fatto, non restavano per tutto questo molti che avevano voglia di dir mal di lui, che de l’altre scritture in diverse vie non seminassero. Pensate mò che di voi e di me si direbbero le più vituperose cose del mondo. Ma poniamo per caso che la cosa segreta rimanesse: non sapete voi che tutti gli uomini, e massimamente i signori, oggi una e dimane un’altra, secondo che l’appetito loro viene, ne vogliano? E lasciamo star l’offesa di Dio, che è pure la prima che innanzi agli occhi aver si deve, se creature razionali esser vogliamo e non bestie: che so io, poi che il re sarà di me sazio o che gli sia passato cotesto suo libidinoso appetito, che molto leggermente passar suole ed agghiacciarsi in tutti gli uomini per l’ordinario come hanno ottenuto l’intento loro, che egli tale non stimi che io sia quale voi fatta m’averete, cioè femina di chiazzo? Assicuratami poi e fattami certa che egli devesse lunga ed ardentissimamente amarmi, non debbo io pensare che questa pratica debbia aver una volta fine, secondo che sotto il lunar globo non ci è cosa che non abbia a finirsi? Sì che aggiratela pure su qual lato volete, chè io non ci veggio nulla di buono. Ben ci comprendo che io restarei il rimanente de la mia vita col viso fregiato d’altro che di perle e gemme, e mai più non ardirei lasciarmi veder in publico. A quello poi che diceste avergli impegnata la fede vostra, vi dico che quando voi la parola vostra gli ubligaste, molto male fu da voi in simil cosa la podestà del padre sovra i figliuoli considerata, non essendo eglino ubligati in cose che siano contra Dio ad ubidir loro, oltra che così disoneste promesse ed incestuose non sono valevoli, e de le cose malamente promesse la pattuita fede si deve rompere. Io confesso che figliuola vi sono ed ubligata, ogni volta che mi comandarete, ad ubidirvi, ma in casi [p. 117 modifica]leciti ed onesti. E vi ricordo anco, ben che meglio di me lo sappiate, che voi ed io e tutti gli altri che furono, sono e saranno, abbiamo un padre e signore, per quello che sovente fiate a valenti predicatori ed autorevoli sovra i pergami ne le chiese ho sentito affermare, a cui più siamo tenuti ad ubidire che ai padri carnali. Oltra di questo vi ricordo che non lece a qualunque persona, sia chi si voglia, far leggi nè editti che contradicano a le ordinazioni e leggi divine. Il perchè essendo voi in questa cosa così vituperosa, che mi essortate a fare, in tutto apertissimamente ribello di Dio, perchè volete ch’io vi ubidisca e più tosto non vi sia ribella e nemica mortale? Fate adunque altri pensieri, e se volete ch’io per padre mio vi tenga ed onori come i buon padri onorar si deveno, non siate per l’avvenir ardito mai più di simil viltà ricercarmi nè farmene un solo motto, perciò che io, a la croce di Dio, in presenza di tutto ’l mondo ve ne farò quell’onore che meritate. Ma non permetta Iddio che più a questo si venga. O quanto era meglio che voi aveste al re promesso e giurato più tosto di vostra mano con un coltello svenarmi che lasciarmi trascorrere in così abominevol fallo già mai! Questo stato vi fòra di più onore ed assai più agevole a fare, e senza dubio il re ed io ve ne averemmo da più tenuto e stimato, e il mondo, che la cagione intesa de la mia morte avesse, eternamente con verissime lodi vi averia levato al cielo. Sì che, per ultimar questi parlari che senza mio grandissimo sdegno esser non ponno e la cui rimembranza sempre mi sarà di fierissimo cordoglio cagione, questa è l’ultima e ferma mia risoluzione con maturo trascorso fatta, la quale terrete per verissima come il vangelo: che io più presta sono a lasciarmi uccidere e patir ogni supplizio e qual si possa pensar tormento, che mai consentire a cosa disonesta. E se per forza il re vorrà di me prendersi amorosamente trastullo, io farò bene che le sue e tutte l’altrui forze vane saranno, tenendo sempre ne la memoria che un bel morire tutta' 'la passata vita onora. – Conobbe il padre per la saggia e magnanima risposta de la figliuola il valore e la grandezza de l’animo che in lei erano, e tra sè le diede molte lodi e la benedì, assai da più tenendola che prima non faceva. E parendogli d’aver parlato più largamente ed assai più che non era convenevole ad un padre di parlar a la figliuola altro per alora dirle non volle; ma si levò da sedere e quella lasciò andar a far suoi bisogni. Pensato poi e pur assai tra sè considerato ciò che al re risponder devesse, a corte se n’andò e a lui disse: – Sire, non volendo [p. 118 modifica]io mancar di quanto v’ho promesso, vi giuro per quella fede che a Dio e a voi debbo, che io, giunto a casa, domandai Aelips in camera mia e le esposi la volontà vostra, essortandola a disporsi a compiacervi. Ma ella risolutissimamente, dopo molti ragionamenti fatti, m’ha risposto che prima è deliberata morire che mai cosa alcuna disonesta commettere. Nè altro n’ho io potuto cavare. Sapete che vi dissi che pregar la poteva, ma non già sforzarla; onde avendo essequito ciò che da voi imposto mi fu ed io m’ubligai di fare, come veramente ho fatto, con vostra buona grazia me n’anderò a far alcune mie bisogne a le mie castella. – Il re, concedendogli che se n’andasse, restò tutto fuor di sè, varie cose ne la mente ravvolgendo. Partì il conte di corte e il giorno seguente con i figliuoli suoi maschi se n’andò al suo contado, lasciando in Londra con parte de la famiglia la moglie e la figliuola. Egli si pensò senza venir in disgrazia del re, se possibil era, di questa pratica svilupparsi. La figliuola via condurre non volle per non sdegnar più il re di quello che era, ed anco a ciò che egli conoscesse che quella lasciava a sua discrezione, tenendo perciò per fermo che da lui non se le devesse usar violenza alcuna. Oltra questo, molto si confidava ne l’onestà e grandezza d’animo de la figliuola, la quale egli pensava che sì bene si saperebbe schermire, che con onore di tanto travaglio uscirebbe. Il re da l’altra parte non prima seppe il conte esser di Londra uscito ed aver Aelips lasciata, che tutto il fatto com’era s’imaginò; del che in tanta disperazione di questo suo amor venne, che ne fu per impazzire. Tutte le notti, ai giorni uguali, senza mai prender verun riposo conduceva; niente o poco mangiava, mai non rideva, sempre sospirava, e quanto gli era possibile, a la compagnia se stesso involando e solo in camera chiudendosi, ad altro mai non aveva l’animo che a la fierissima rigidezza de la sua donna, nomando la salda e costante onestà, rigidezza. Così fatta vita vivendo, cominciò a dar l’udienze per interprete, che prima tre volte la settimana publicamente a’ suoi sudditi soleva dare. E certo una de le lodevoli parti che abbia ogni vero prencipe, è esser facile ad udir le querele e supplicazioni dei suoi e intender ciò che si fa nel suo dominio. Nè si deve fidare così assolutamente nei suoi ministri, perciò che spesse fiate commettono molti errori e di grandissime ingiustizie, che se il signor fosse curioso di intender di che maniera lo stato suo si governa e che azioni son quelle dei rettori, essi governarebbero molto meglio e si guarderiano di commetter cosa che potesse esser ripresa. Il re adunque [p. 119 modifica]cascò in questo errore di non dar udienza quasi a persona. L’armeggiare, giostrare, bagordare ed andar a caccia, cose che gli erano sì grate, più non gli piacevano, e massimamente la caccia nel cui essercizio tanto soleva diportarsi; nè d’altri giuochi più prendeva diletto. Egli aveva sopra il Tamigi, fiume di Londra, un suo bellissimo giardino con un agiato e lieto palazzo che per andarvi a diporto aveva fabricato. E perchè andando da la corte al detto luogo, o vi s’andasse per terra o per acqua si navigasse, conveniva passar per scontro a la casa del conte Ricciardo, il re ogni dì, ora per il fiume ed ora per la contrada, dinanzi a quella casa, ove sapeva dimorare Aelips, faceva il suo camino, bramando di veder quella che sempre ne la mente assisa aveva. Avveniva perciò di rado che ella si vedesse, la quale se era a le finestre verso la strada o' 'suso una loggetta che dava la vista sovra il Tamigi, come s’accorgeva che il re venisse, subito a dentro si nascondeva; di che il re infinitamente s’attristava. E pur gli giovava aver le mura vedute ove la sua crudel e fiera donna stava. Ma perchè natura è dei fervidi amanti, quanto più loro è contesa la vista de la donna amata, quella tanto più desiderano e bramano vedere, il re che più desiava mirar Aelips che insignorirsi di Francia, quanto più si vedeva il vagheggiarla interdetto, tanto più s’affaticava ed ogni modo tentava che gli aggradisse per vederla. Per questo cominciò senza rispetto non solamente passarle dinanzi a la casa tre e quattro fiate il dì, e più e meno secondo che Amore il guidava, ma assai sovente fuor d’ogni proposito si metteva a passeggiar dinanzi a la casa, di modo che in breve a ciascuno fu chiaro l’amor del re, e quello, che a tutti celato era, a tutto il popolo scoperse. Indi divolgatosi poi tra’ piccioli e grandi questo innamoramento e da tutti intesa la durezza e crudeltà de la donna, che quasi più non si lasciava vedere nè a logge nè a finestre, generalmente ciascuno la donna biasimava, e chi d’una e chi d’un’altra cosa la incolpava, volendo tutti che ella al re in preda si fosse data. A tutti per lo più piace andar a le feste degli altri e star sui canti e balli, ma nessuno non vorrebbe cotesti bagordi in casa. Tutti vorrebbero che i lor signori stessero allegri e su l’amorosa vita, perciò che pare come il signore è innamorato, che tutti i sudditi suoi stiano in gioia e in festa, ma a nessuno aggradisce che in casa sua con le sue donne si treschi. Così averebbero voluto tutti gli inglesi che il re avesse ottenuto l’intento suo e si fosse dato buon tempo; ma a nessuno sarebbe [p. 120 modifica]stato caro che il re di moglie, figliuola, sorella od altra sua donna si fosse invaghito. Ora perseverando il re in far vita così acerba e travagliata, e meno per l’invitta ed inespugnabile pudicizia di Aelips sperando di giorno in giorno, divenne sì malinconico che più a selvaggia e boscareccia fera assembrava che ad uomo. Pertanto non solo la città di Londra ma tutta l’isola, che già di quest’amore era fatta consapevole, la costanza e casto proponimento de la donna aborriva e biasimava, essendo il volgo sempre più pronto a vituperare il bene che il male. Vi furono poi alcuni di corte che con messi ed ambasciate in favore del re la donna tentarono, parte lusingando e parte minacciando. Altri a la madre di lei a profitto del re caldamente parlarono, mostrandole il bene che ne seguirebbe se Aelips a far la voglia del re si disponeva, e per lo contrario quanto e qual danno soprastava se ella in tanta durezza si manteneva. Così chi ad un modo e chi ad un altro, s’ingegnava d’indur la madre a pregar la figliuola che il voler del re facesse, e la figliuola che, deposta tanta durezza, pieghevole si rendesse e non così schiva e cotanto a tal amore. Aelips, per cosa che detta o mostrata le fosse, dal suo proponimento già mai non si smosse nè piegò. E dubitando ella che forse il re un giorno non le facesse violenza, un acuto e tagliente coltello ebbe modo d’avere, il quale sotto i panni a cintola si mise, con animo, veggendosi far forza, prima che esser violata, ancider se stessa. La madre, che che se ne fosse cagione, stava così tra due, perciò che aperte l’orecchie a le larghe promesse ed offerte che da parte del re l’erano fatte, l’ambizione la combatteva, mostrandole se la figliuola diveniva del re amica, che ella sarebbe la prima donna e baronessa de l’isola. Il perchè entrando più volte con la figliuola in ragionamento e certe sue favole dicendo, si sforzava indurla che a tanti preghi del re s’arrendesse. Ma sempre ritrovò quella d’un medesimo tenore, più salda assai che un immobile e durissimo scoglio quando da le gonfiate e minacciose onde marine è combattuto. A la fine intendendo il re tutte le prove esser indarno fatte e che, se altra via non pigliava, egli era più lontano da mercato che mai, non sapeva ove dar del capo, non gli parendo usar la forza, ancor che di rapirla violentemente molte' 'fiate voglia ne gli venisse. Era questo suo amor sì chiaro ed appo tutti divolgato che per la corte a Londra d’altro non si parlava, di maniera che egli era venuto a tale che con qualunque persona ragionava, altro non faceva che cicalare de la durezza de la sua donna, pregando ciascuno che di conseglio ed aita gli sovvenisse. Io son sforzato far [p. 121 modifica]un poco di digressione e dir due parole che ora mi sovvengono. Se quei cortegiani che col re parlavano fossero stati veri uomini di corte, sarebbonsi sforzati di consegliar il lor re che da sì folle e vano amore si fosse ritirato, e con sì utile conseglio insiememente l’averebbero aitato. Furono già i cortegiani leali e costumati uomini e pieni di cortesia e d’ogni vertù dotati. Ma quelli che cortegiani oggidì si chiamano, – io parlo dei tristi e non dei buoni, – nessun’altra cosa hanno di corte se non che in corte vivono, e pur che di vestimenti si mostrino più degli altri in ordine e politi, par loro esser i primi uomini del mondo. Chè dove i veri e buoni cortegiani già si dilettavano de l’essercizio de l’arme, di quello de le lettere e de le altre vertù, e tutto il tempo spender in cortesie ed in por pace tra’ nemici e metter concordia tra i discordanti, facendo unire i disuniti; questi tutto il contrario fanno, e pur che facciano il «milite glorioso» con chi puote meno di loro, gli par esser grandi Tamberlani. Se i buoni cortegiani con l’essercizio si facevano agili, destri e prodi cavalieri, questi di cui io parlo, non d’essere, ma apparere con bella spada a lato si curano, tenendo più conto che si dica che vagliano assai, che valere. Esser letterati stimano quasi vergogna e dicono che lo studiare ed impallidire sui libri è cosa da dottori, preti e frati. Nondimeno sono così sfacciati e temerarii che se si ritrovano ove tra elevati ingegni si contrasti d’alcuna curiosa materia, così de le dottrine umane come de le divine, eglino, che pur vorrebbero apparer dotti, presontuosamente sono i primi con il lor sputar tondo a voler decidere il tutto, di modo che spesse volte dicono le maggior pappolate e le più inette ciancie che mai si sentissero, e vogliono che solamente a l’autorità del nome loro si creda, come se fossero Aristoteli e Platoni. Quello poi che non cape loro ne l’ignorante cervello, come impossibil cosa, sentir non vogliono. Cortesi sono di parole, ma gli effetti ritroverai tutti contrarii al dire, perciò che largamente ti prometteranno favorir le cose tue appo il signore e nulla ne faranno, perchè il tuo avversario averà lor donato molto più di quello che tu dato gli averai. Nè per questo sarà chi teco piatisca talora, più di te favorito, perchè secondo che tu ingannato sei, così l’altro beffato si truova. Basta a questi magri cortegiani che il volgo creda ch’eglino siano in grandissimo credito appo il prencipe e che da questi e quelli cavino danari. Ti prometteranno parlar al signore dei casi tuoi, e in tua presenza d’altri affari a l’orecchia gli parleranno, dandoti a credere che di te hanno favellato e tuttavia mille favole ti venderanno. Di questo numero fu [p. 122 modifica]Vetronio Turino appo d’Alessandro Severo imperador romano, il cui vizio, poi che fu scoperto e per astuzia d’esso Alessandro trovato più che vero, ebbe questo castigo che meritava, perciò che fu data la sentenza che Turino fosse legato ad un gran palo nel mezzo de la piazza e a torno al palo fosse di sarmenti e virgulti verdi acceso il fuoco, che rendesse oscurissimo e lento fumo che a poco a poco il misero Turino suffocasse. E mentre in tal tormento lo sfortunato stette, altro non fece mai un sergente di corte che gridare: – Col fumo Turino si fa morire, perchè il fumo ha venduto. – Onde in questo modo il vano e fumoso Turino di fumo morì. Se così a’ nostri tempi si facesse, sarebbero le corti in più stima che non sono, ed oltra il vender del fumo, che tanto non s’useria, non sarebbero i cortegiani sì facili a vender menzogne nè diverriano simil ai cani, mordendo e lacerando l’un l’altro, perciò che quando hanno l’orecchia del signore, vi so dire che cantano di bello, cicalando mal di questi e di quelli che per avventura sono megliori di loro. Ma l’invidia così gli agghiaccia che non ponno sofferire di veder uno che più di loro vaglia, dubitando che questo tale non entri in grazia del prence ed egli cada di grado. Se per sorte poi vedono il signore esser ingannato o in errore di qual si sia cosa, pur che il fatto non tocchi loro, non crediate che cerchino di sgannarlo: tutti vanno dietro a la voglia del padrone, avvengane o bene o male. E di questo n’è cagione la dapocaggine di molti che non hanno ardir di dir il vero; anzi se il signor dice sì, essi l’affermano, se dice no, eglino cantano il medesimo tuono, non avendo riguardo se cade ben o male ciò che dicono. Non voglio poi parlar di quei falconi da cucina, che per altro ne le corti non si riparano se non per seder a le ricche e grasse mense dei signori, non essendo buoni a far cosa alcuna, se non divorar ciò che ai prodi cavalieri e più vertuosi di loro si converrebbe. Almeno fossero per buffoni e parasiti nomati e non s’arrogassero nome di gentiluomo, facendo così poco onore a la civiltà e gentilezza. E quantunque tutti quelli che sotto lo stendardo de la cortegianeria voglion esser posti e poi da veri cortegiani non vivono, debbiano senza fine esser biasimati e la conversazion loro da tutti i buoni fuggita, nondimeno altrettanto biasimo mi pare che mertino i lor signori, che di tal maniera vivono che non vogliono che la verità si dica, anzi tengono coloro per belli e buoni che mai non gli contradicono. Questi tali poi son quelli che il tutto consegliano e dispongono con le lor aperte e false adulazioni, onde è nasciuto quel motto che alcuni usano dire: che « [p. 123 modifica]chi non sa adulare non può in corte stare». E nondimeno non è la maggior peste nè il più mortifero veleno in una corte de l’adulazione. Non mi piace nè anco che un cortegiano, per grande che sia, debba mai presumer di riprender il prence in publico ed a la presenza d’altri garrirlo. Bene affermo che ogni fedel servidore, se vede il suo signor esser in errore, deve con destrezza e riverenza, pigliato il tempo opportuno, ammonirlo e con dolce e bel modo farlo capace del vero. O quanto sarebbero più felici e fortunati i prencipi, se avessero chi loro liberamente mostrasse, di molte cose che fanno, il danno che ne segue, l’openione che ha il popolo di loro, ciò che si romoreggia di quelli ed il pessimo governo di molti ministri, che altro non curano che rubar il fisco e convertir il tutto in uso proprio. Se i prencipi queste cose intendessero, i lor dominii sarebbero eccellentemente governati. Non è già da dubitare che il signor e salvator nostro Giesu Cristo sapesse tutto ciò che di lui i popoli dicevano, perchè sapeva minutamente il tutto e niente gliene fu nè mai sarà occulto, e tuttavia egli non si sdegnò interrogar i suoi discepoli che cosa dicevano gli uomini di lui. E perchè credete voi che egli facesse sì fatta domanda? Non per altro, essendo ogni azion sua nostro documento, il fece egli, se non per dar ammaestramento a chi governa popoli e a tutti gli altri fedeli che debbiano esser solleciti d’intendere che openion s’ha di loro, a ciò che nel bene possano perseverare e dal male distorsi. E nel vero i prencipi poco bisogno d’altro hanno che d’aver persone integre, sincere e vertuose, che loro dicano la verità amorevolmente senza fuco ed ipocrisia. Di questi tali ne deverebbero appo loro sempre tenere e non voler far come molti fanno, che si credono del pruno far un melarancio, per non dire d’un asino un corsiero. Ma io son troppo vagato, perciò che da fanciullo fin ora avendo praticato in molte corti, assai ben so come far il più de le volte si suole. Ora vi dico che quei cortegiani che stavano appo il re Odoardo non erano de la buona scola, ma erano adulatori ed uomini di poco giudizio e pessima natura, perciò che senza pensar troppo a la fine de le cose tutti bandirono la croce contra il conte Ricciardo, moglie, figliuoli, figliuola, e chi più disse di male da più si tenne e pensò molto saggiamente aver parlato. Che forse quando il conte o i suoi figliuoli vi fossero stati presenti, molti di quelli averebbero tenuta la lingua ne la strozza e fra’ denti, e come proverbialmente si dice, messa la coda fra le gambe, e non sarebbero stati osi d’aprir bocca. Ora la conchiusione fu che la maggior parte di loro essortò il re a mandar per [p. 124 modifica]forza a pigliar Aelips e menarla al palazzo, e mal grado di lei far di lei ogni sua voluntà, dicendo che non stava bene che una femina devesse schernirsi del suo re e ai desiderii di quello non le convenisse mostrar' 'tanta schivezza. Vi furono ancora di quelli che venduto il pesce avevano, i quali s’offersero d’andar eglino in persona a prenderla, e non volendo ella di grado venire, tirarnela per i capegli. Il re che l’adirarsi da dovero a l’ultimo si serbava, non volendo ancor usar la forza, volle prima tentar l’animo de la madre d’essa Aelips e a lei mandò il suo fidato cameriero che del tutto era ottimamente instrutto. Il quale subito andò a ritrovar la contessa e dopo le convenevoli salutazioni le disse: – Il re nostro sire, signora contessa, molto affettuosamente vi saluta e per me vi fa intendere che egli ha fatto cosa a lui possibile, e forse più che non se gli conveniva, per acquistar la buona grazia e l’amor di vostra figliuola e far di modo che il tutto segretamente succedesse, per non venir a la bocca del volgo. Ora veggendo che a capo di questo suo desiderio venir non può per cosa che si faccia e fatta abbia, e che non trova compenso che giova se la forza non v’usa, vi manda dicendo che se voi non provederete ai casi vostri, operando che ei abbia l’intento suo, che siate sicura che a mal grado vostro vi farà, publicamente e con poco onore di tutti voi, levar la figliuola con mano armata di casa, e che dove deliberava esser amico al conte e a tutti e fargli del bene, che loro sarà nemicissimo. Egli farà conoscere che cosa sa fare quando egli è adirato e s’ha messo una openione in capo, e che si delibera voler alcuna cosa come ora è deliberato, parendoli che non debbia tutto il dì languire e lasciar che altri di lui si rida e gabbi. E con questo, signora contessa, a Dio vi lascio. – Ella, udita così insperata e fiera proposta, da tanto spavento fu sovrapresa, che già le pareva veder la figliuola esserle per i capegli innanzi gli occhi tirata fuori di casa, e straziata a brano a brano andar gridando a piena voce mercè. Onde tutta lagrimosa e tremante pregò caldissimamente il cameriero che in buona grazia del re la volesse raccomandare e supplicarlo a non voler correr così in furia a disonorar la casa del conte, che sempre gli era stato fedelissimo servidore. Poi gli disse che ella parlerebbe con la figliuola e che tanto farebbe che la persuaderia a compiacer al re. Con questa buona risposta partì il cameriero, e la contessa piangendo n’andò a la camera di Aelips, che suoi lavori faceva con le sue donzelle. Mandate fuor di camera la contessa tutte le donne, a lato di Aelips si assise, la quale levata s’era ad onorarla e riceverla, molto piena di meraviglia del lagrimar di [p. 125 modifica]quella. Fatta adunque la figliuola sedere, e dettole ciò che era venuto il cameriero del re a farle intendere, ultimamente, piangendo, così la contessa le disse: – Figliuola mia cara, già fu tempo che per vederti io tra le più belle donne di questo reame la più bella e sovra l’altre onestissima, che io mi teneva per una madre felicissima, facendomi a credere che per le tue rarissime doti a noi devesse onore e utilità venire. Ma io di gran lunga errata sono, e dubito pur assai che per distruzione ed universal rovina nostra tu sia nasciuta e, – che Dio nol voglia! – tu sia cagione de la morte di tutti noi. Or se tu volessi piegar alquanto la tua rigidezza e lasciarti governare, tutto il dolore e la tristezza nostra si convertirebbe in festa ed in gioia. Non sai tu, figliuola mia, che io più teneramente sovra gli altri miei figliuoli t’ho sempre amata, e ciò che da me di nascoso avesti quando il conte di Salberì, che Dio abbia in gloria, per moglie ti prese? Perchè adunque per amor mio questa tua durezza romper non vuoi e lasciarti a me governare, che madre, e madre amorevole, ti sono? Pensa che il re non solamente è di te innamorato, ma, quasi impazzito per la tua fiera crudeltà, sta molto male ed in periglio grandissimo de la vita si truova. Tutto il mondo sa che la tua ostinazione è cagion del male e de la discontentezza sua, di maniera che noi siamo in odio a chiunque la salute del re desidera, e tutti, eccetta tu, la bramano. Non ti sovviene esser molte fiate avvenuto che andando noi a messa e fuor per altri nostri bisogni, abbiamo da grandi' 'e piccioli udito dire molto mal di noi? – Ecco, – dicevano, – le beccaie del nostro re, ecco le micidiali donne che mai d’un buon viso non gli furono cortesi nè d’una piacevole parola. E vogliono fare le sante, e a l’ultimo, chi bene spiasse, si trovarebbe che un palafreniero di stalla od un barcaruolo le gode. Che venga il tuono e la saetta del cielo, che tutte l’arda e consumi! – Queste parole so io bene che tu hai sentito così come io, ed il cordoglio ed affanno che ne ho preso e tuttavia ne prendo, Dio per me te lo dica. Pertanto, figliuola mia carissima, con le braccia in croce ti priego che divenuta alquanto pieghevole a le mie preghiere, tu non voglia esser la rovina e distruzion nostra. Tu dèi sapere che i prencipi e regi, poi che hanno un lor suddito pregato a cui comandar ponno, e vedeno che i prieghi non vagliano ciò che deveriano valere, metteno mano a la forza e a mal grado di chi non vuole fanno con poco piacere dei soggetti tutto quello che gli aggrada. Il nostro re farà anco egli il medesimo, e già m’ha minacciato di farlo, di modo che quello che agiatamente e con segretezza far si poteva, sarà di tal sorte messo [p. 126 modifica]ad essecuzione che tutta l’isola, e la Francia appresso, con eterno nostro vituperio lo saperà, e di cosa che il re si faccia, non ti averà nè obligo nè grado, anzi con il disonore e le beffe ce ne restaremo. Sì che, figliuola mia, io ti prego che tu non voglia venire a questi passi. Pensa un poco come qui per casa siamo de la famiglia rimase streme, poi che tuo padre e tuoi fratelli quindi partirono, perciò che ognuno teme il furore del re. Non vedi che per tua cagione io quasi vedova restata sono? Tuo padre e tuoi fratelli sono iti fuori di Londra per non vedersi tanto scorno su gli occhi, come presaghi che qualche grande scandalo debbia avvenire. Il che certissimamente con vituperio e danno di tutti noi avverrà, se tu altro non fai di ciò che fin qui hai fatto. Quanto era meglio per noi che il primo dì che in vita ti pose fosse anco stato l’ultimo, o vero che io di parto fossi morta per non vedermi a questa ora in tanti travagli! Deh, perchè quando il conte di Salberì, uscito di prigione, morì, non fosti tu quella che in vece sua morisse! Io prego il nostro signor Iddio che di tanti affanni e travagli mi cavi, poi che tu disposta sei di perseverare in tanta durezza, e de la rovina di tutto il sangue tuo punto non ti cale. Non credi tu che io m’avveggia che tu brami la morte mia, figliuola crudele ed ingrata e molto poco cortese ed amorevole verso i tuoi parenti? E certamente io adesso morirei più che volentieri, conoscendo che minor pena mi saria morire che restar in questi penaci cordogli, i quali di continovo sento che il core con fierissime punture mi trafiggono. – Nè più puotè l’afflitta contessa dire, perciò che un fiero svenimento l’assalì e con tal estrema doglia le serrò il core e sì l’oppresse, che più morta che viva rassembrando cadette in grembo d’Aelips. Pareva la contessa in tutto passata a l’altra vita, sì era in viso pallida, fredda in ogni parte del corpo e senza movimento alcuno, di modo che le fere e i duri marmi averebbe a pietà commossi non che la figliuola. La quale come la vide da così strano e fiero accidente accorata, quella o morta o vicina a la morte giudicó, onde non puotè le lagrime contenere. Così amaramente piangendo e le vestimenta alquanto a l’afflitta madre allentando, quella pietosamente chiamava, e stropiccia [p. 127 modifica]cuore e con sì fiero accidente, che in lei di nuovo si spense ogni segno di vita; di maniera che bisognò che un’altra fiata se le usassero degli altri argomenti per farla ritornar in sè, il che non stette guari che avvenne. A questi sì pietosi accidenti non potè Alix tanto fare, che a mal suo grado le viscere per la materna pietà tutte non se le commovessero, e quella sua adamantina durezza in parte non divenisse molle, ed il suo duro rigore alquanto non rallentasse. Quell’animo invitto e quella sua si ferma voglia, da tanti altri assalti ed impedimenti indarno combattuta, a così pietoso caso della madre regger non potè; ma, vinta da interna compassione, Alix fece pensiero di levar i suoi fuor di travaglio. Il perchè, essendo già la contessa assai bene in sè rivenuta; e pur piangendo e sospirando, poichè di camera uscirono le serventi, Alix in questo modo alla madre parlò: Rasciugate le lagrime, madre mia, e più non v’affliggete, ma fate buon animo e confortatevi, che io son disposta e presta a far ciò che voi volete. Cessi Iddio che mai si dica, che io sia cagion a’ miei di cotanta pena, quanta voi mostrate di sofferire! Io non vo’ che mio padre e i miei fratelli per me si pongano a rischio di danno alcuno; perciocchè debbo con ogni mio sforzo provar il beneficio loro, e morir io, acciò che essi vivano. Ecco che io son presta d’andar con voi a ritrovare il re, acciò che noi due senza altrui mezzo facciamo i fatti nostri, che meglio di ciascuno gli faremo. Or via, non si perda tempo, nè più si pianga, ma diamo principio ad espedire ciò che è da fare. La madre, questa non aspettata ne sperata risposta udendo, fu di tanta gioia piena, che quasi creder non poteva d’aver le parole udite. E secondo che poco innanzi l’acerbità del dolore l’aveva di se fuori levata, quasi che l’istesso fu per far la soverchia gioia; onde, levate amendue le mani al cielo, di buon cuore ringraziò Iddio, che dato alla figliuola avesse cotal volere, come se Iddio fosse spiratole d’adulterii e fornicazioni. Oh quanto sciocchi sono assai spesso i miseri ed ignoranti mortali, che, dove pianger dovrebbono, ridono; e dove allegrarsi, s’attristano! Così faceva questa buona donna, che divenendo ruffiana della figliuola, si pensava di far un sacrificio a Dio. Abbracciata adunque quella teneramente, e di dolcezza lacrimando, più volte la baciò, e dal collo di lei non sapeva levarsi. Era appunto del mese di giugno, nell’ora che da merigge, per il caldo che fa, molti sogliono dormire. In quel tempo la contessa fece metter una barchetta ad ordine per andar per acqua al giardino del re, del quale già vi dissi, e dove allora egli s’era ridotto per starsi più solingo e senza strepito. Alix in [p. 128 modifica]questo mezzo se n’andò in camera sua, e senza altrimenti abbigliarsi più di quello che era, prese il suo tagliente coltello, e sotto le vesti ad una cintola l’appiccò; poi dinanzi a una imagine rappresentante la Reina del cielo, Madre di Dio e refugio dei tribolati, che nelle braccia teneva la figura del suo carissimo Figliuolino, si pose inginocchione, quella divotissimamente pregando che il suo Figliuolo le rendesse propizio, a fine che il suo casto proponimento mantener potesse: indi, piena di fiducia e di costanza, levata, all’aspettante madre, che il tutto aveva già fatto apprestare, se ne ritornò. Terminava l’orto della casa del conte Ricciardo sovra il Tamigi; ed una porta v’era, ove la barchetta dimorava. Quivi la contessa con Alix e con due donzelle discese, e tutte montarono in barca, che da due fanti era guidata; e giù a seconda per il fiume navigando, il picciolo legnetto arrivò alle sponde del giardino reale. Erano conce di modo le rive, che per una sola porta vi si poteva su salire; e tutto il resto di ognintorno era d’alte mura chiuso. Era la porta poco innanzi dal cameriere stata aperta, il quale era dell’amore del re consapevole, e quello nell’istessa ora aveva alla riva del fiume tutto solo accompagnato; che per meglio pensare ai suoi amori, s’era dai suoi cortegiani furtivamente levato, e non molto lontano sotto alcune fresche ombre suso erbucce odorifere assiso se ne stava. Il cameriere per iscontro l’aperta porta sotto arboscelli sedeva, si per goder il fresco dell’aria che dalle crispanti acque soavemente spirava, ed altresì perchè nessuno dentro entrasse. Ora essendo le donne giunte a quel luogo, smontarono sull’arena del fiume, ordinando ai barcaruoli che quindi con la barca non si movessero: salirono poi alquanti gradi, e dentro la porta entrarono. Come il cameriere le vide, e conobbe la contessa, forte si meravigliò; ma molto più di meraviglia lo prese, quando vide la bella Alix; onde fattosi loro incontra riverentemente ricevendole, quelle salutò, e le dimandò ciò che andavano facendo. Siamo, disse la contessa, venute a far riverenza a monsignor lo re nostro sire, come poco fa vi dissi che mi sforzerei di fare. Il cameriere, d’infinita allegrezza pieno, fatto i due fanti con il legno dentro un pelaghetto entrare, dove il re le sue barche serrate teneva, fermò la porta del giardino; e, ragionando con la contessa, al luogo ove il re sedeva, s’inviò. Il re stando allora, come già s’è detto, assiso all’ombra, ed alla crudeltà e rigidezza d’Alix pensando, ed insiememente con gli orchi dell’intelletto contemplando la vaga bellezza di quella, che a lui pareva pure la più bolla o miracolosa che mai veduta avesse nè sentita ricordare. [p. 129 modifica]tanto s’era ne’ suoi pensieri profondato, mille cose por la mente volgendo e rivolgendo, che a nessun’altra cosa poneva mente. Il cameriere tanto innanzi le donne condusse, che elle videro prima il re, che egli sentisse o vedesse loro. Allora il cameriere, rivoltato verso la bella Alix; eccovi, signora mia, disse, il vostro re, che certissimamente ad altro non pensa che a voi; ed ora chi non lo sturbasse, se ne staria così solo e pensoso tre o quattro ore: sì fieramente e nei lacci del vostro amore irretito! La giovane, di onesto sdegno accesa, si sentì per tutte le vene in quel punto correre il sangue più freddo che ghiaccio, ed in quel medesimo tempo tutta infiammarsi; il che le rese il volto più dell’usato bello, colorito e vago. Erano a meno di cinque passi sovra il re giunte, quando il fidato cameriere, fattosi innanzi a quello disse: Sire, ecco che la bella compagnia, e tanto da voi desiderata, viene a farvi riverenza. Il re, quasi da profondo sonno destato, alzò il capo; e conosciuta la contessa, forte si maraviglio della enula sua; e levatosi in piè, le disse: ben venga madama la contessa; e che buone novelle vi conducono a questa ora sì calda? Ella, allora fatta la debita reverenza, con tremante e bassa voce rispose: eccovi, monsignor mio, la vostra tanto desiata Alix, che pentita dalla sua durezza e schivezza, è venuta a farvi la convenevol riverenza, e star una pezza con voi, e tanto più o meno, quanto a voi piacerà. Egli come sentì che Alix con la madre era, e quella, che tra le donzelle sue vergognosa e sdegnosetta se ne stava, vide, restò di tanta gioia pieno, che in se stesso non capiva, nè mai tanto piacer gli pareva aver sentito; onde a quella, che i begli occhi a terra chini teneva, s’avvicinò, dicendole: ben venga la vita e l’anima mia: e quella, malgrado di lei, che ritrosa si mostrò, alla meglio che potè, baciata, la prese per mano. Chi potrebbe già mai dire la grandissima soddisfazione e gioia inestimabile del re, e l’estrema mala contentezza e noia infinita di Alix? Al re parea essere in paradiso, e nuotar in un ampio mar di contentezza: ed alla giovane sembrava esser nell’inferno immersa in quel penace fuoco. Ora veggendo il re che ella, tutta tremante e vergognosa, aveva a sè ritirata la mano, e che d’una sola parola non gli aveva fatto motto, pensò che per la presenza della madre, donzelle e cameriere, ella così ritrosa se ne stesse. Il perchè, presa la contessa per mano, e dettole che le donne facesse seguire, verso le sue stanze ei prese il cammino,, e così per le strade segrete tutti pervennero dentro la camera reale. Era di modo il giardino col palazzo situalo, che per vie segrete poteva il re al fiume discendere ed [p. 130 modifica]in camera tornarsene, senza esser da persona veduto, se non da quelli che egli seco conduceva. Essendo adunque tutti in camera, il re alla contessa disse: Madama, con vostra buonagrazia, la signora Alix ed io entreremo per ragionar insieme in questo camerino; e presa quella per la mano, molto cortesemente l’invitò che quivi entro seco entrasse. Alix, tutta vergognosa, fatto un animo da lione, v’entrò; e il re come entro la vide, l’uscio del camerino col chiavistello fermò. Non ebbe il re la porta più tosto chiusa, che Alix, acciò che egli non le facesse violenza, dinanzi a lui inginocchiatasi con ferma voce ed altero animo gli disse: Sire, nuovo istinto dinanzi a voi m’ha condotta, ove io già mai a questo modo venir non credeva: ma deliberata di levarmi la seccaggine dei vostri messi ed ambasciate, e soddisfar ai parenti miei, che da voi corrotti, tutto il dì m’esortavano a compiacervi, ove mi dovevano prima strangolare; e nell’animo mio deliberata cio chè di me intendo di fare, qui sono presta ad ubbidire ai vostri comandamenti: ma prima che che io nella total vostra libertà mi ponga, e che voi prendiate di me quel diletto che tanto mostrato avete amare, voglio per esperienza certificarmi, se l’amor vostro verso me è sì fervente, come per tante lettere m’avete scritto e più volte mandato a dire. E se così è, come volete ch’io creda, voi mi farete una picciola grazia, che a voi sarà molto facile a fare, ed a me apporterà il maggior contento, che io mai sperar nè aver possa. Se poi ciò ch’io vi richiederò, forse vi paresse duro e grave a metter in esecuzione, voglio da voi intender se lo farete o no, altrimenti non sperate che io, mentre avrò fiato in corpo, sia mai di cosa alcuna per compiacervi. Sovvengavi, sire, di quello che già a Salisbury mi diceste, e poi scrittomi e fatto intendere, che sapendo voi di farmi cosa grata, non v’avrei tanto saputo comandare, quanto da voi subito in effetto sarebbe stato messo. Ora io non vi comando (che questo presumer mai non debbo) ma bene umilmente vi piego e supplico, che degniate darmi la parola e fede vostra di far ciò ch’io vi supplicherò, e ricordatevi che parola di re mentir non deve, nè esser vana. Il re che mentre ella parlava, le teneva gli occhi fisi dentro il bel viso, e a lui pareva senza paragone più bella e più leggiadra, che mai veduta l’avesse, sentendosi ora sì caldamente da quella bocca pregare da cui egli un amoroso bacio tanto bramava, non che una picciola grazia, ma tutto il regno le avrebbe promesso. Il perchè chiamato Iddio e tutti i santi e sante del paradiso per testimoni a quanto dirle e prometterle voleva, in questa forma le rispose: [p. 131 modifica]unica mia, da me infinitamente e sovra ogni creata cosa amata signora, poichè voi, la vostra mercè, degnaste venir qui in casa nostra, e mi chiedete che prima che io di voi il mio voler adempia, una grazia vi faccia, io son presto a compiacervi, e vi giuro per il battesimo che ho in capo, e per quanto amore vi porto (che maggior fede darvi non posso), che tutto quello che mi ricercherete ch’io faccia, senza scusazione alcuna farò; con questo che non mi comandiate ch’io non v’ami nè vi sia, come sono e perpetuamente sarò, leal e fedel servidore; che cotesta cosa, ancora che ve la promettessi, e con mille e mille sagramenti affermassi, osservarsela non potrei già mai; perciocchè se senza anima l’uomo può vivere, io potrei non amarvi; e prima ogni impossibil cosa sarebbe, ch’io non v’amassi. Chiedete adunque animosamente ciò che vi piace, ch’io ed il reame mio siamo in vostro potere. E se io già mai penserò non attenervi ciò che mi domanderete, essendo in poter mio, o d’uomo che sia nel mio reame, io priego divotamente Iddio che del principe di Galles Odoardo, mio primogenito, e degli altri miei figliuoli, o di cosa ch’io mi desideri, contezza alcuna già mai non mi dia. La bella Alix allora, ancor che fosse invitata a levar su, non volle; ma inginocchiata com’era, la mano del re onestamente presa, così gli disse: ed io, sire, baciandovi la real mano, di questa grazia che mi fate, senza fine vi ringrazio, e vi resto obbligatissima; onde confidandomi della real vostra parola, come debbo, il dono, che io quanto la mia vita bramo, vi richiederò. Il re, che in effetto era tocco del buon amore, e che più amava Alix che le pupille degli occhi propri, di nuovo strettissimamente le giurò, che senza froda o inganno veruno, realmente farebbe il tutto che ella domandasse. In questo ella cavò fuori il tagliente coltello, che più di due palmi aveva di ferro; e caldissime lacrime spargendo, che le belle e rosate guance le rigavano, pietosamente al re, che tutto era pieno di stupore e meraviglia, disse: Sire, il dono ch’io vi chieggo, e voi obbligato vi siete di farmi. e questo; che io con tutto cuore vi prego ed affettuosamente supplico che il mio onore tor non mi vogliate; ma prima con la spada vostra vi piaccia tormi questa caduca vita e frale, acciò che se fin al presente vivuta da pari mia senza biasimo sono, da pari mia anco onoratamente muoia. Se questa grazia da voi impetro, che prima mi sveniate che levarmi l’onore, io prego il nostro Signore Iddio che sempre felice vi conservi, e vi doni il compimento perfetto d’ogni disio; altrimenti io faccio voto a Dio, e di cuore vi prometto che non mi attendendo la promessa, [p. 132 modifica]io me stessa con questo acutissimo coltello anciderò; nè permetterò mai, fin che avrò lena, che per forza io sia violata. Pensate, sire, che ciò che da me ricercate, potete da mille e mille altre bellissime donne ottenere senza difficoltà alcuna; perciocchè di grado elle vi compiaceranno, ove io fermissimamente deliberata mi sono, prima di voler perder la vita, che perder l’onore e la fama. E che piacer sarà il vostro, conoscendo voi chiaramente, quando per forza pigliaste di me ciò che mostrate desiderare, che solo il corpo mio avrete in balia, e non l’animo nè la volontà mia, che sempre vi faranno resistenza, anzi odio vi porteranno quel poco tempo ch’io viverò, e di continovo chiameranno vendetta a Dio centra voi? Ma non permetta la divina bontà che voi mi facciate forza. Pensate, sire, pensate che il vostro libidinoso diletto passerà come nebbia al vento, lasciandovi sempre un pentimento ed un mordace verme al cuore dell’oltraggio vituperoso per forza a me fatto, che non cesserà mai di rodervi e tormentarvi. Medesimamente l’abominabile onta che mi farete, e la obbrobriosa ignominia che nella limpidezza della mia onestà porrete, con l’immatura mia morte che ne seguirà, apporteranno eterno biasimo ed infamia perpetua al nome vostro. Nè crediate che solamente la fama di questo misfatto debba serrarsi nei termini dell’Inghilterra ed isole circonvicine; ma passando l’Oceano, per tutta Europa, anzi nell’universo con altissimo grido farà nota la dislealtà e crudeltà d’un sì gran prencipe come voi siete; e nei futuri secoli a quelli che dopo noi verranno, anderà agumentando il vostro disonore, tenendovi disonoratamente vivo in bocca delle genti. Un atomo di tempo questa vostra gioia appena occuperà, ove l’infamia in ogni luogo abitato e in ogni tempo sarà predicata: nò solo sarete biasimato voi, ma i vostri discendenti macchiati ne resteranno. Volete che si dica che io, nata di nobilissimo e generoso sangue, di schiatta antica e senza riprensione alcuna, i cui parenti, avi e bisavi per la corona dell’Inghilterra tante volte hanno sparso il sangue, sia da voi sforzata e fatta bagascia? Non vi rammenta egli quanti voi puniti avete, che d’accordo sono stati adulteri? Ed ora volete voi nell’error cascare, che già sì acerbamente castigaste? Ricordatevi che mio marito è nei servigi vostri morto, che tanto fedele e leale v’era; e certo, così morto com’è, a Dio contra voi chiamerà giustizia. Questo adunque è il guiderdone che voi apparecchiate di dargli: e la ricompensa delle sue fatiche, se vivo fosse, potria aspettare? Ma pervenir alla conchiusione, ora, signor mio, una delle due cose fate: o voi m’osservate ciò che [p. 133 modifica]per fede e sacramento vi siete obbligato d’osservarmi, o non mi rubate quello che, quando involato me l’avrete, mai più, con quanta forza e tesoro abbiate, restituir non mi potrete. Qualunque di queste due cose Facciate, io resto da voi tanto ben soddisfatta, quanto dir si possa. Che pensate, sire? che mirate? O attenetemi là promessa, o sfoderata la spada, ancidetemi. Ecco la gola, ecco il petto: che tardate? E così dicendo, intrepidamente la bianchissima e bella gola col marmoreo petto al re stendendo lo pregava dolcemente che la svenasse. Egli fuor di sè, a sì fiero e pietoso spettacolo era fatto immobile; onde ella, che avrebbe potuto spezzar un monte di metallo in quell’atto di pietà tutto pieno di compassione, poichè ebbe finito di dire, si lasciò, come una penitente Maddalena innanzi a Cristo, dinanzi ai piedi del re cascare, non mai perciò abbandonando il coltello; e quelli di calde lagrime bagnando, attendeva, o la desiderata risposta dal re, o con invitto e sicuro animo la morte. Stette esso re buona pezza senza far motto nessuno, varie cose tra se ravvolgendo; e da mille pensieri combattuto, irresoluto dimorava, non cessando in questo mezzo Alix di pregarlo che una delle due cose facesse. Alla fine, considerata il re la costanza, la fermezza ed il valore della sua donna, che egli più che se stesso amava e fermissima opinione tenendo che pochissime si sarebbero cosi da bene ritrovate, e che d’ogni onore e riverenza ella era degna, con un focoso sospiro la mano porgendole, pietosamente le disse: Levatevi su, signora mia, e di me punto non dubitate che io altro da voi mai più voglia, se non quel cotanto che vi piacerà. Tolga Iddio da me che quella donna, cui io a par del cuor mio, anzi più assai amo, ancida: perciocchè chiunque quella molestare, non che svenar volesse, io come nemico mio mortale strozzar vorrei. Levatevi su, per Dio! Signora mia, levatevi. Rimanga questo tagliente, e nel vero, a mio parere, avventuroso coltello nelle mani vostre, verissimo testimonio a Dio ed agli uomini della vostra onestissima ed invitta castità; il cui pudico cospetto amor terrestre e lascivo non potendo sofferire pieno di scorno e vergogna e via da me fuggito, ed a sincero e vero amore ha dato luogo. Se io per il passato i miei nemici ho saputo vincere, ora mostrerò che me stesso vincendo, e i disonesti miei voleri affrenando, so alle mie voglie soprastare, e far di me e degli appetiti miei ciò ch’io voglio. Quello mo che nell’animo mi capa, e sia deliberato di fare, e di corto per metterlo ad effetto, voi con vostra, così giovami di credere, somma contentezza, e forse con non minor meraviglia, tosto con l’aiuto di Dio [p. 134 modifica]vedrete; il che anco con mia inestimabil soddisfazione si farà. Nè per ora altro da voi voglio che un onestissimo bacio, per arra di quello che tosto il mondo con meraviglia vedrà, e senza dubbio loderà. Baciata che il re ebbe con gran piacere Alix, egli aprì la porta del camerino, e fece entrar la contessa, il cameriere e le donzelle. Se tutti, veggendo Alix lagrimosa con quell'ignudo coltello in mano, di meraviglia e di stupore pieni restarono, non è da meravigliare, non sapendo ciò che il caso importasse. Come furono entrati, impose il re al cameriere che in camera facesse raunar tutti i cortegiani e gentiluomini ch’erano in palazzo; il che in brevissimo tempo fu eseguito. Era quivi tra gli altri il vescovo di Eborace, uomo di grandissimi maneggi e di singoiar dottrina, con l’ammiraglio del mare. V'era anco il primo segretario del re. Questi tre col cameriere volle il re che nel camerino entrassero e non altri, essendo nella camera di molti baroni e signori. Restarono il vescovo e gli altri due pieni d’ammirazione grandissima, là dentro veggendo la contessa con la figliuola, che il coltello per commissione del re teneva in mano, non essendole perciò le lagrime asciutte. E sospesi d’animo, aspettavano di veder che cosa fosse questa; e non si potendo a modo veruno imaginare il vero di cotal meraviglioso spettacolo, tacevano. Era già fermata la porta del camerino, e quelli che in camera restarono, aspettavano d’intender a qual fine chiamati fossero. Il re aveva pensato alla presenza di tutti far ciò che poi fece; ma cangiato d’opinione, non volle altri testimoni che quelli del camerino. Quivi egli puntualmente narrò tutta l’istoria del suo amore, e ciò che con Alix allora gli era successo; e commendata senza fine la divina onestà ed animo costante di quella, e l’invitta fermezza del casto di lei proponimento mai a pieno non lodato, e quella con parole esaltata sovra quante mai pudiche furono, a lei rivolto; con lieto viso umanamente disse: Madama Alix, quando a voi piaccia tornar per vostro legittimo sposo, io sono qui presto per sposarvi per mia vera e legittima moglie. In questo caso nè a voi nè a me bisogna consiglio nè istruzione dell’importanza nella cosa; perciocchè voi per esperienza già sapete che vincolo e nodo sia ad una donna l'aver marito, essendo stata maritata; ed io altresì so che peso è trovarsi moglie a lato, quando la donna è fastidiosa. Ma sia come si voglia, se voi volete me, ed io voglio voi. La giovane, di contentezza infinita e di gioiosa meraviglia ripiena, non sapeva formar parola. La contessa, così insperata ed alta novella sentendo, tutta gongolava, e quasi era per risponder in vece della [p. 135 modifica]figliuola, e dir di sì; quando il re un’altra fiata quelle stesse parole ad Alix replicò. Ella allora, fatto un riverente inchino, veggendo il re parlar sul saldo, modestamente rispose che di lui era serva, e che quantunque si conoscesse non doversperare nè presumere d’aver un re per marito; nondimeno, volendo egli così, ella era pronta ad ubbidire. E voi, monsignor di Eborace, soggiunse il re, dite le consuete parole che s’usano negli sposalizi; onde all’interrogazione del prelato, dicendo tutti due di sì, il re cavatosi un prezioso anello di dito, con quello la sua cara Alix sposò: e baciatala amorosamente, le disse: Madama, voi siete la reina d’Inghilterra, ed io per ora vi dono di provigione ogni anno trenta mila angelotti, e questo cofano che qui è, pieno d’oro e di gemme; e la chiave è questa che vi do. Essendo poi decaduta la duchea di Lancastro al fisco reale, quella vi dono, e voglio che liberamente sia vostra, e che ne possiate disporre, donare e vendere come v’aggradirà. Rivolto poi al segretario, gli comandò che alla reina di queste donazioni facesse un amplissimo decreto: indi ordino che questo matrimonio senza sua licenza non si divolgasse; e fatti entrar nella via segreta quelli che seco erano, egli con la reina rimaso, il matrimonio seco consumò, raccogliendo parte del frutto del suo lungo e ferventissimo amore con piacer indicibile. Poi con lei sceso nella via segreta, ove il vescovo e gli altri erano, senza esser da persona visti, lietamente accompagnarono la nuova reina alla barca. Restò il re con i suoi, e le donne a casa se n’andarono, lodando e ringraziando la bella reina Iddio, che ai suoi travagli sì lieto fine e tanto alta ricompensa aveva donato. La madre, che la figliuola, per farla putta, al re condusse, a casa reina ne la menò. Il re fra dieci giorni, ordinato il tutto, il suo fidato cameriere con sue lettere, della contessa e della reina al conte suo suocero mandò, invilandolo alle nozze con i figliuoli. Il conte, così buone e non sperate novelle sentendo, fece infinite carezze al cameriere, e gli donò molte belle cose; e in compagnia di quello e dei figliuoli, gioioso ed oltra misura lieto, subito a Londra se ne venne. L’accoglienza tra il padre e la figliuola nuova reina e tra i fratelli e quella furono grandissime, e più e più volle iterate: nè d’allegrarsi insieme saziar si potevano. Si rallegrava il padre, veggendo l’opinione che avuta aveva della grandezza dell’animo della figliuola, esser riuscita con onore ed esaltazion della casa, e benediceva l’ora ch’ella nacque; e molte volte narrar si fece tutta l’istoria tra il re e lei successa: onde la contessa non poteva fare che non s’arrossisse, quanda sentiva ricordar [p. 136 modifica]l’esortazioni fatte alla figliuola, acciò che al re compiacesse, e ch’era stata quella che maestra e conduttrice s’era fatta a menarla al re. Tuttavia ella adduceva per sè alcune ragioni, allegando che molto mal volentieri ita v’era: ma che il dubbio di non veder rovinar il marito con i figliuoli e tutta la casa, l’aveva astretta dei due mali elegger il minore; e così piacevolmente tra loro contendevano. Ma sovra tutti la nuova reina divotissimamente ringraziava Iddio, che alla sua casta intenzione avesse riguardato, e per sua infinita bontà levata l’avesse a sì sublime e real altezza. Andò di poi il conte Ricciardo con i figliuoli a far riverenza al re, che molto onorata e cortesemente tutti gli raccolse onorando il conte come suo suocero e padre e i figliuoli di quello come propri cognati che gli erano. Parlò poi lungamente il re col conte, del modo che si doveva tener a condurre la reina a palazzo e coronarla; indi fatto l’apparecchio conveniente per le future nozze, il re fece divolgare il nuovo matrimonio, ed invitar tutti i duchi, marchesi, conti, baroni ed altri signori suoi vassalli, che tutti a Londra a calende di luglio si trovassero alle nozze e coronazione della reina. In questo mezzo il re privatamente a casa del conte se n’andava, ed una e due ore del giorno se ne stava in festa con la sua carissima moglie. Venuto poi il dì delle calende di luglio, il re la mattina onoratissimamente accompagnato, a casa del conte suo suocero se n’andò; e quivi trovata la lieta Alix vestita da reina, ed il palazzo pomposamente apparato, essendo ella da molte madame e signore accompagnata, andarono alla chiesa per udir la messa; la quale finita, il re di nuovo pubblicamente la moglie risposò. E sulla piazza, essendo fatto l’apparecchio solennissimo, ella fu coronata reina d’Inghilterra con una ricchissima corona in capo; indi andati al real castello si desinò. Fu il pasto sontuoso e bello, e tale quale a sì fatto re conveniva; il quale un mese continovo tenne corte bandita, con grandissimi trionfi e feste, facendo quelle pompe che fatte avria, se una figliuola di re o imperatore fosse stata la moglie. La reina venne in poco di tempo in tanta grazia del popolo e baroni, che ciascuno sommamente lodava il re, che sì buona elezione di moglie avesse fatta. Il re altresì più di giorno in giorno si trovava contento: il cui amore verso la reina sempre pareva che crescesse. Volle egli che di continovo innanzi alla reina da uno scudiere quando andava in pubblico e quando mangiava, il coltello di cui ella s’era armata, ignudo se le poitasse in testimonio dell’invitta sua castità. Fece poi il re in poco di tempo di modo, che il conte suo suocero divenne il più ricco [p. 137 modifica]ed onorato barone dell’isola, e a tutti i suoi cognati provide di stati e rendite, di sì fatta maniera che per sempre contenti si chiamarono. Tale adunque esaltamento ebbe la bella e saggia Alix, divenuta teina, degna nel vero di esser senza line celebrata. Nè meno merita esser lodato il magnanimo e virtuoso re in questo caso; il quale, operando del modo che fece, mostrò sè esser vero re e non tiranno. E certo egli è degno, in ciò che con Alix fece, d’ogni bella lode; la cui gloriosa di se medesimo vittoria i suoi sudditi amorevoli ed ubbidientissimi gli rese, e ad altri diede esempio di bene operare, insegnando a tutti che le fame immortali così s’acquistano. Ed io per me credo e porto ferma opinione, che non minor gloria dar se gli debba, che egli sapesse si bene i suoi disordinati appetiti regolare e sovrastare alle sue amorose passioni, di quella che se gli dà di tante e sì famose vittorie, che per via dell’armi ebbe.




IL BANDELLO

al magnifico

MESSER FRANCESCO RAVASCHIERO


Come volgarmente si dice tutti i salmi finirsi in gloria, così anca si può dire, quasi tutti i parlari che tra persone gentili si fanno, al fine risolversi in ragionar d’amore, come del dolce condimento e soave sollevazion di tutte le malinconie. E chi e colui che in sì noiosi pensieri immerso si trovi, o sia dai soffiamenti di contraria fortuna crollato e conquassato, che sentendo il dire dei casi amorosi che diversamente accadono, non apra l’orecchio e metta mente a ciò che si parla, a fine che impari alcuna cosa, per sapersi, occorrendo il bisogno, governare, o noti quello che gli convenisse, trovandosi in sì fatto laberinto, fuggire? Certamente io credo che sia di grandissimo profitto all’uomo l’udire i ragionamenti altrui, mentre chi ascolta sappia, come si cava il grano fuor del loglio, scegliere il bene dal male. Dovete adunque sapere che essendo questi dì una compagnia, così d’uomini come di donne, venuta qui a Montebrano a visitar madonna Fregosa mia padrona, venne la nuova della immatura morte del conte Gian Aloise Fiesco, che il mese passato in mare s’annegò. Egli ancora, per quanto se ne disse non passava venticinque anni, giovine di grandissimo cuore,