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io possiamo. Egli sì fattamente con le belle maniere de la vostra Aelips m’ha concio e sì fieramente levato fuor di me e in quella l’anima e il cor mio con ogni pensiero collocati, che senza lei non è possibile che io più viva. Assai sforzato mi sono, ed ogni ingegno adoperatovi e fatto tutto quello che a me è stato concesso, per scacciar questo amore e purgar sì pestifero veleno; ma ogni mia forza è riuscita vana e il mio sapere nulla m’ha giovato. Io che tutto il mondo vincer mi credeva, io che mille esserciti nulla stimava e in ballo mi pareva d’entrare quando ne le battaglie entrava, da una giovane donna, oimè, sono vinto e preso! Io che gloriosamente altrui ho superato, a me non so sovrastare! Non vi rammenta egli quante fiate voi e il duca di Lancastro detto m’avete, e talvolta anco garrito, che io troppo m’affaticava e che il tanto andar a la caccia di cervi, cinghiari ed altre fere mi potrebbe recar gran danno? Credete voi che io quelle fatiche, quei digiuni, quelle vigilie, e lo star al vento e la pioggia ed a l’algente verno a la neve ed al ghiaccio, facessi per mio piacere e che gran diletto sentissi tutto il dì correre come forsennato in su e in giù per valloni, colli e monti, e varcar questa e quell’acqua, senza prender riposo veruno? Io voleva, conte mio, col continovo cavalcare, con l’andar talvolta a piedi, con l’indefesso essercizio e col sofferir tanti disagi e strazii quanti tutto il dì sopportava, menando così faticosa e dura vita, domare e macerar questo mio fiero appetito, a fine che se io non spezzava o smagliava le fortissime catene di così fervente ed ostinato amore, alquanto pure le rallentasse, e se pace non mi si dava, ritrovassi almeno un poco di tregua. Ma a me pare che il tutto sia buttato via e che nulla mi giovi, anzi che questo mio vivace amore negli affanni cresca e divenga d’ora in ora maggiore. Io tanto ho di bene, io tanto mi riposo e vivo quanto la veggio o di lei parlo o penso. E insomma io sono ridutto a tale, poi che ella nè mie ambasciate vuol più udire nè risponder a mie lettere, che forza mi sarà o che io ne mora, o con vergogna o danno di tutta casa nostra a le mie così penaci, fiere e tormentose passioni truovi rimedio. Vorrei pure che il morire si tardasse più che si potesse e fosse la sezzaia cosa che a far s’avesse. Non vi sia adunque grave, conte mio, prender de la vita mia quella cura di cui vedete che io ho bisogno. Se ville, terre, castella, ufficii, tesoro, beneficii di chiesa o altro volete che in mio poter sia, eccovi la carta bianca di mia mano sottoscritta ed affermata del mio suggello. Andate e da uno dei miei segretarii fate scriverle su ciò che voi volete, chè