Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XXXVI
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infermò. E conoscendosi vicina al morire, si confessò con il vescovo de la sua diocesi e a lui il fatto come stava del tutto aperse, e dolente e pentita del suo peccato se ne morì. Era già morto il suo cugino che era del fatto consapevole. Poi che ella fu morta, il vescovo secretamente il tutto manifestò a la reina, la quale, intendendo che nessuno ci era vivo che il fatto sapesse se non il vescovo che ne l’ultima confessione de la donna inteso l’aveva, non volle che altrimenti se ne parlasse, ma che il marito e moglie, padre e figliuola, fratello e sorella, in buona fede si lasciassero, i quali forse oggidì sono ancor vivi.
Eravamo questi anni passati a Pinaruolo molti in compagnia fuor de la terra a seder in un praticello pieno di verde e minutissima erbetta, per la quale in un canaletto correva una limpidissima a molto fresca fontana, la quale col suo dolce e piacevol mormorio rendeva un soave e dilettevol suono. Quivi ragionando noi di molte cose, sovravvenne la buona memoria del signor conte Guido Rangone, alora general luogotenente in Italia del re cristianissimo, che accompagnato da molti signori e capitani ed altri soldati andava d’ogn’intorno a le mura de la terra, disegnando là un baloardo, colà una piattaforma ed altrove un bastione ed altri ripari, secondo che la diversità del sito ricercava, perchè Pinaruolo parte è in colle, parte al declivo del monte e parte in terra piana. Erano seco alcuni ingegneri con i quali conferiva il tutto, e voleva di ciascuno il parere; poi quello che pareva il più ragionevole e più a profitto de la sicurezza del luogo si metteva in opera, di modo che in assai breve tempo rese quella terra fortissima. Come noi il vedemmo, tutti levammo in piedi a fargli riverenza, ed egli che era umanissimo e cortese signore, ci salutò molto graziosamente e andò al suo camino. Era seco Vespasiano da Esi, strenuo e gentilissimo soldato, il quale oltra l’esser prode de la persona, aveva molte buone parti di gentiluomo, essendo cortese, costumato, uomo di giudizio e di buone lettere ornato e nemicissimo de l’ozio, perciò che sempre era o ne le cose de la milizia occupato o in compagnia a ragionar di cose vertuose, o lo trovavi con alcun libro in mano. Com’egli ci vide, rivolto a me, mi domandò se, senza impedir i nostri ragionamenti, poteva esser de la nostra brigata. Tutti gli rispondemmo che fosse il ben venuto e che era come il zucchero che vivanda non guasta già mai. Venne e ci salutò, e da noi risalutato s’assise. E domandandone che ragionamenti erano i nostri, messer Gian Battista Rinucci, che ci narrava la novella di Lodovico fiorentino e di madonna Beatrice moglie d’Egano dei Galluzzi da Bologna, gli rispose che narrava la tal novella e, se voleva, che da capo la ricominciarebbe. – No no, – soggiunse egli, – seguitate pur ove voi il parlar vostro tralasciato avete, perchè credo che molti che qui sono l’abbiano udita raccontare o letta, e per aventura ci può esser chi non la sa: a quelli forse rincrescerebbe il replicare ed a questi basterà una volta udirla. – Era quasi al fine messer Gian Battista del suo novellare, onde quella in poco d’ora finì. Si cominciò tra gli ascoltanti da alcuni a dire che gran cosa pareva loro che un gentiluomo, come era Lodovico, si fosse messo per servidore d’un altro suo pari o forse anco da meno. Altri dicevano che non era gran cosa, se si considera quanto potente sia la forza de l’amore quando egli è abbarbicato in un cor nobile a generoso. E su questo si dissero assai parole secondo la varietà de l’openioni di coloro che ragionavano sovra questa materia. E andando la disputa in luogo, Vespasiano a questo proposito ci narrò una piacevol novella, la quale essendomi molto piacciuta, come io fui a l’albergo, fu da me scritta e con l’altre mie novelle messa in un coffano. Ora avendomi fatto venir d’Italia alcuni forzieri di mie robe con quella parte de le mie composizioni così latine come volgari, in verso e in prosa, che mi rimasero quando gli spagnuoli in Milano la mia stanza svaligiarono, e che ogni cosa andò a sacco, e queste da un amico mio furono salvate, deliberai riveder quelle novelle che ci erano. Così venutami a le mani quella che Vespasiano alora narrò, feci pensiero che al nome vostro fosse intitolata, il che alora misi in essecuzione, ponendole il nome vostro ne la fronte come a tutte l’altre faccio. Per lettere poi de la signora Auriga Gambara già moglie de l’illustre signor Pietro Fregoso di Novi, ho veduto che voi vi sète meravigliato che io non v’abbia mandato uno dei miei libri composto in stanze a lode de la valorosa eroina la signora Lucrezia Gonzaga di Gazzuolo; cosa che in vero m’ha fatto molto più meravigliare e doler che voi. Io, signor mio, già circa dui anni, per via del cancelliero d’essa signora Auriga ne mandai in Italia trenta d’essi libri, tra i quali uno era per voi, notato col nome vostro nel principio del libro, e a quello ch’io veggio egli è ito in Persia, come alcuni altri. Onde mio cugino messer Giacomo Francesco Bandello, al quale in Mantova ne indirizzai alcuni, mi scrisse non gli aver avuti tutti e che gli altri erano la metà guasti. Ma io ve ne manderò uno con la prima comodità che mi venga. Tuttavia io vi ringrazio infinitamente de la memoria che di me tenete, chè nel vero, a parlarvi di core, io averei giurato che più di me non fosse ricordanza appo voi, essendo quasi un’età che non mi vedeste. Nondimeno io sempre v’ho avuto in memoria, ed ove m’è accaduto parlar degli elevati ingegni italiani de la nostra età, io v’ho di continovo annoverato tra i primi. E in fede di quanto diceva, ho mostrato a molti la elegia, in alcuni luoghi di man vostra emendata, che ancor fanciullo ne la consacrazione de la vostra lanuggine a Venere componeste in Pavia. Ho anco fatto veder la «selva», che per la morte del nostro vertuosissimo messer Marc’Antonio Torre, con l’epitaffio, decantaste, o lagrimaste più tosto. Taccio altre «selve», endecasillabi, giambici ed epigrammi che appo me sono, con quello dell’«r» del Quinziano. Le quali cose mostrano l’altezza ed il candore del vostro ingegno; onde mosso dal testimonio mio, il signor Giulio Scaligero nei suoi Eroi v’ha dato onorevol luogo, come ad instanzia mia ha fatto ad alcuni altri, e ne le Eroine ad alcune gentilissime donne, e questo suo libro insieme col mio vi manderò. Ma tempo è che noi ascoltiamo Vespasiano. Questa adunque mia novella accetterete con quella generosità di core che quando eravamo a Pavia la creanza vostra dimostrava. E tenendomi nel numero dei vostri, mi vi raccomando e prego Dio che voglia darvi quanto desiderate. State sano.
Io non posso se non dire che sia atto degno di meraviglia ciò che Lodovico fece, che essendo nobile e ricco andasse a servir altrui. Ma come si dice che egli era innamorato, subito cessa l’ammirazione, perciò che questa passione amorosa è di troppo gran potere a fa far cose assai più meravigliose e strabocchevoli di questa. Nè crediate che per altro la fabulosa Grecia finga i dèi innamorati aver fatte tante pazzie vituperose quante se ne leggono, se non per darci ad intendere che come l’uomo si lascia soggiogar ad amore e penetrar l’amorosa passione al core e quivi abbarbicarsi, egli può dir d’aver giocata e perduta la sua libertà, e che miracolo non è se poi fa mille errori. Ora se vi pare che gran cosa fosse quella che Lodovico fece, che era uomo e non aveva tèma che persona lo ripigliasse di ciò che faceva, o bene o male che si facesse, che vi parrà egli se udirete che una fanciulla operasse il medesimo e vestita da paggio andasse a servire, senza esser conosciuta, il suo amante? Veramente io mi fo a credere che più vi parrà meraviglioso l’atto di costei che quello di Lodovico. E per non tenervi più in tempo, vi dico che non è qui in questa dolce ed onorata compagnia nessuno di noi che non debba pienamente ricordarsi che i tedeschi e gli spagnuoli l’anno di nostra salute millecinquecento e ventisette così vituperosamente saccheggiarono Roma, e ben che i peccati di quella città meritassero esser castigati, nondimeno quelli che la saccheggiarono, essendo cristiani, non fecero bene, ancor che io intenda che per la maggior parte erano lutterani, marrani a giudei. Ma sia come si voglia, eglino si diportarono assai peggio che turchi, e fecero di quelle enormissime e vituperose cose contra di Dio e dei suoi santi che non si ponno senza fierissimo cordoglio ricordare. Tuttavia la vendetta di sopra non è tardata molto, perciò che di venticinque in ventisei milia fanti che tante sceleratezze in quella città commessero, non credo che passassero quattro anni che tu non n’averesti trovati vivi due o tre mila al più. E il duca di Borbone dei reali de la Francia, che da Francesco, primo di questo nome re di quel regno, era stato fatto il maggior uomo che si fosse, ed essendosi fatto ribello al suo re s’era messo ai servigi di Carlo d’Austria imperadore, fu il primo a sofferir la pena del peccato che faceva fare; che essendo general capitano de l’essercito imperiale, prima che potesse aver allegrezza di veder presa Roma, fu d’una archibugiata miserabilmente morto. Ed ancor che la maggior parte dei saccheggiatori e rubatori così de le cose sacre come de le profane e violatori de le sacre vergini mariali fossero, come s’è detto, nemici de la fede di Cristo, nondimeno quelli che governavano non potevano tanti sacrilegii, incesti, stupri, omicidii ed altre sceleraggini vietare e pensare che molti e molti per la violata religione sono mal capitati? Non si sa che il magno Pompeio, uomo eccellentissimo, dopoi che in Gerusalem violò il santo tempio di Dio, sempre andò mancando de la solita sua grandezza, nè più fece impresa alcuna che fosse da esser agguagliata a tante sue imprese fatte per avanti, per le quali tanti trionfi meritati aveva? Ma dove mi lascio io trasportare? Voi non eravate già qui nè io venuto ci sono per pianger le rovine di Roma. Ma avendovi io promesso di narrarvi una novella, vi dico che in Roma, quando fu dagli imperiali presa ed andatoci a sacco ogni cosa, vi fu fatto prigione un marchiano da Esi, mio compatriota, detto per nome Ambrogio Nanni, uomo d’oneste ricchezze e lealissimo mercadante, a cui per la morte de la moglie erano restati dui figliuoli, un maschio ed una femina, nati in Roma. Erano tutti dui oltra ogni credenza bellissimi e tanto simili l’uno a l’altra e l’altra a l’uno, che vestiti tutti dui da uomo o da donna era molto difficile il conoscerli. Onde il padre istesso, che talora per trastullo gli faceva ora a un modo ed ora a un altro vestire, non gli sapeva conoscere. E per esser nati a un parto erano d’ugual grandezza. Avevagli Ambrogio fatto imparar lettere e sonare e cantare e tanto bene accostumare quanto l’età loro comportava. Quando Roma fu messa a sacco erano d’anni quindici o poco più. Fu il fanciullo, che Paolo si chiamava, fatto prigione da un tedesco, uomo prode de la persona e di molta stima appresso la sua nazione, il quale avendo fatto altri prigioni di gran prezzo e per il riscatto loro ritirata gran somma di danari, e trovandosi aver guadagnato oro, argento e molte pietre preziose di buona valuta e ricche vestimenta, si partì da Roma e se n’andò a Napoli, menando seco Paolo e da figliuolo trattandolo. A Napoli attese il tedesco a vender le vestimenta e la maggior parte degli argenti che guadagnati aveva, e il tutto rimesse in danari, lasciando le chiavi del tutto a Paolo. La fanciulla, il cui none era Nicuola, venne a le mani di dui fanti spagnuoli ed ebbe in questo favorevole la fortuna, chè, dicendo loro che era figliuola d’uomo ricco, fu tenuta onestamente, sperando i dui compagni trarne un gran profitto. Ambrogio col favore di certi napoletani amici suoi che erano ne le bande spagnuole si salvò, chè non fu fatto prigione ed ebbe modo di salvar i suoi danari ed argenti che in una sua stalla aveva sotterrati; ma il resto che in casa era fu tutto rubato. Cercando poi ciò che fosse dei figliuoli, trovò Nicuola la quale riscattò con cinquecento ducati d’oro; ma di Paolo, con quanta diligenza usasse, mai non ne puotè intender cosa alcuna, di modo che si trovava di pessima voglia, ed incomparabilmente più gli doleva la perdita d’esso Paolo che di tutto il resto che perduto aveva, che pure il danno era grande. Poi che egli ebbe fatto quanto seppe e puotè per ritrovar il figliuolo, veggendo da nessun lato venirgli nuova nè ambasciata di lui, dubitò assai che il fanciullo non fosse stato ammazzato. E non volendo per alcun tempo abitare in Roma, dolente oltra modo e di mala voglia se ne ritornò ad Esi, e quivi rimesso la sua casa ad ordine non volle più attender a la mercanzia, essendo ben agiato di possessioni e di danari, ma attendeva a saldar con ciascuno con quel miglior modo che poteva. Era ne la nostra città un ricco cittadino chiamato Gerardo Lanzetti, grand’amico d’Ambrogio, al quale essendo la moglie morta e veggendo le bellezze de la Nicuola, sì fieramente di lei s’accese che non dopo molto, non avendo riguardo ch’ella era giovanissima ed egli più vicino assai ai sessanta anni che ai cinquanta, la richiese al padre di lei per moglie, contentandosi pigliarla senza dote. Vedete, signori miei, che fa questo traditor d’Amore quando entra nel petto a questi vecchi insensati. Egli acceca così loro gli occhi e di tal maniera gli abbarbaglia che fanno i più strabocchevoli errori del mondo, il che tutto ’l dì si vede. E in effetto quasi tutti i vecchi che prendono fanciulle per moglie se ne vanno a prender il possesso di Corneto. Ad Ambrogio pareva pur male a dar Nicuola ad un vecchio; nondimeno non disse nè sì nè no, perciò che era ancor in speranza d’aver Paolo e non l’averia voluta maritar innanzi che di lui avesse nuova. In Esi era grande la fama de la beltà de la Nicuola ed altro che di quella non si parlava. Ogni volta poi che usciva di casa, era da ciascuno mostrata a dito, e molti per vederla le passavano dinanzi la casa. Avvenne in quei giorni che Lattanzio Puccini, giovine senza padre e madre, che dei beni de la fortuna era molto ricco non passava ancor ventun anno, vide la Nicuola ed ella vide lui, di modo che tutti dui insieme l’uno de l’altro' 's’accesero. Lattanzio ad altro non attendeva che di poterla veder ogni dì e mostrarle con gli occhi come per amor di lei si consumava. Ella quantunque volte lo vedeva gli faceva buonissimo viso, del che il giovine avvedutosi e tenendo per fermo esser da lei amato, si tenne il più contento amante che fosse già mai. Da l’altro canto Nicuola, a cui le bellezze e i modi di Lattanzio più che di nessuno che veduto avesse piacevano, con così fatto modo dentro il molle e delicato petto ricevve le fiamme amorose che senza la vista di lui non sapeva vivere. E perchè di rado avviene che ove le voglie di dui amanti si confaccino, non consegua ciò che desiderano, trovò Lattanzio modo di scriverle e aver da lei risposta. Onde avendo messo ordine poter insieme ragionare, avvenne che Ambrogio per certi conti di mercanzia fu astretto a ritornar a Roma e dimorar molti dì fuor di casa. Il perchè non volendo che la Nicuola rimanesse senza onesta compagnia, quella ne mandò a Fabriano in casa d’un suo cognato che moglie aveva e fìgliuole. Fu la partita de la Nicuola tanto subita ch’ella non puotè avvisarne l’amante. Partì Ambrogio e andò di lungo a Roma. Lattanzio, avendo inteso che Ambrogio se n’era ito, si tenne per certo ch’egli avesse menata seco la figliuola, ed usando diligenza per investigarne il vero e nulla di certo trovando, si disperava e dimorava molto di mala voglia. Tuttavia, come giovine nobile ed appetitoso, non stette troppo che vide un giorno la figliuola di Gerardo Lanzetti che era assai bella garzona e piacevole, onde con la vista di costei spense la ricordanza de l’amante e in tutto la pose in oblio. Per il contrario la dolente Nicuola viveva in pessima contentezza, veggendosi di tal maniera da Esi partita che al suo amante non aveva nè per lettere nè per ambasciate potuto dir addio, e non faceva altro che rammaricarsi, e di continovo l’era in core il suo Lattanzio. A questo ella pensava dì e notte, e un’ora le pareva mill’anni che il padre venisse, per ritornarsene ad Esi a veder colui che più amava che gli occhi proprii. E per esser in casa de lo zio a Fabriano, che era uomo austero e rigido e a cui non piaceva che le figliuole da marito avessero libertà di parlar con persona se non ben conosciuta, nè voleva che andassero trescando in qua e in là ma che attendessero a’ lor lavori feminili, non seppe mai Nicuola trovar modo di poter scriver a Lattanzio. Le sue cugine le tenevano sempre compagnia, e pensando che la sua malinconia provenisse per la lontananza del padre, a la meglio che sapevano la consolavano. Stette la sconsolata Nicuola in questa amarissima vita circa sette mesi, chè tanto penò il padre a tornar da Roma, e passò per Fabriano a pigliar la figliuola e rimenarla ad Esi. Ella a cui pareva d’uscir de lo inferno e ritornar al paradiso, tanto allegramente col padre andò quanto voi potete imaginarvi. Tornata adunque ad Esi, tutta la sua gioia se le convertì in doloroso pianto e in tanta fiera gelosia che quasi di cordoglio seppe morire, perciò che trovò il suo amante impegnato ad altri che a’ giudei. E che peggio era, egli tanto di lei mostrava di ricordarsi quanto se mai veduta non l’avesse. Io vorrei adesso aver qui queste fanciulle che dànno sì facil credenza a le ambasciate di questi giovini, che sono come l’asino del pentolaio che dà del capo in ogni porta: io mostrarei loro, – perdonatemi voi, giovini che qui sète, – che de le cento le novantanove restano ingannate. Era a cotal termine l’appassionata Nicuola, che ben puotè scrivere e mandar messi a Lattanzio e ridurgli a memoria l’amor passato e quanto tra loro era occorso, ma il tutto fu indarno; del che ella sentiva un estremo dolore. E perchè l’amoroso verme voracemente con gravissimo cordoglio le rodeva il core, deliberò ella fra se stessa tanto dir e fare che la perduta grazia del suo amante racquistasse, o più non vivere, perchè le pareva impossibile sofferire che egli altra che lei amasse. In questi travagli de la figliuola convenne al padre ritornar a Roma. Ma non volendo la Nicuola più a' 'modo veruno andar a Fabriano a casa de lo zio, fu dal padre messa in un monastero con una sua cugina, suor Camilla Bizza. Era esso monastero altre volte in opinione di grandissima santità. Quivi sentendo Nicuola che invece di ragionar de le vite dei santi padri, de le loro astinenze ed altre vertuose loro operazioni, che tutto il dì si favoleggiava lascivamente di cose amorose e non si vergognavano dir l’una a l’altra: – Il tale è il mio «intendimento» e il tale fu questa notte passata a giacersi con la tale, – restò e meravigliata e scandalizzata. Vedeva poi che tutte portavano su le morbide carni invece di cilizio camiscie di tele sottilissime venute d’oltramonti, e vestivano panni finissimi, e che non contente de la loro natural beltà, con lisci e composizioni di mille acque stillate, muschi e con molte polveri, si polivano ed abbellivano i visi loro. Non era poi mai ora del giorno che non fossero a stretti ragionamenti con diversi giovini de la città. Di queste così fatte cose si meravigliò forte essa Nicuola, come colei che si credeva che tutte le monache fossero sante. Così domesticandosi ora con una ed ora con l’altra e in fine con quasi tutte, le ritrovò amorose e lascivissime. Egli mi pare una gran pazzia d’un padre che metta una sua figliuola in simil monasteri, che più tosto si deveriano chiamar publici chiazzi. Ma la nostra città, per un scandalo che non dopo molto avvenne, con licenza del papa levate fuor tutte quelle monache che ci erano, ha fatto riformar il luogo, di modo che al presente vivono santamente. Praticava a questo monistero Lattanzio, facendovi spesso cucir sue camiscie ed altri suoi lavori di tela. Onde un giorno suor Camilla fu chiamata per parte d’esso Lattanzio. Il che sentendo Nicuola, le parve sentirsi andar per le carni un fuoco che tutta l’infiammò, e tutto ad un tratto se le sparse per le membra un freddo gelo. E certo chi alora l’avesse posto mente, l’avrebbe veduta cangiarsi di mille colori, così al nome del suo amante si trasmutò. Ella poi andò in luogo ove, senza esser da Lattanzio vista, vedeva lui e sentiva ciò che egli diceva. Onde avvenne che tra l’altre volte che Lattanzio ci andò, ed ella al solito luogo pasceva gli occhi de la vista di lui e l’orecchio dei ragionamenti di quello, che egli si dolse assai forte d’un paggio perugino che in quei dì gli era in casa morto di febre continova. E dicendo che da lui in tre anni che servito l’aveva era stato tanto ben servito quanto si possa imaginare, si mostrava molto dolente de la perdita, e che se un altro simil ne ritrovasse, che si riputeria felicissimo. Partito ch’egli fu, cadde ne l’animo a Nicuola, – vedete se Amore l’aveva concia, – di vestirsi da ragazzo e mettersi ai servigi d’esso suo amante; ma non sapendo come procacciarsi le vestimenta da uomo, si ritrovava troppo di mala voglia. Ella aveva una sua mamma di cui aveva ne l’infantile età bevuto il latte, la quale di questo amore era consapevole e ogni dì veniva al monastero a vederla. E quando Ambrogio partì, la pregò che spesso la visitasse e, se talora Nicuola voleva, la menasse a casa; il che le monache sapevano. Mandò adunque a domandar questa sua mamma a venuta seco a stretto ragionamento, l’aperse l’intenzion sua. E quantunque Pippa, – chè tal era il nome de la balia, – assai la persuadesse a levarsi di capo cotal farnetico, dimostrandole il periglio e lo scandalo che ne poteva facilmente nascere, non puotè mai convincerla; onde a casa seco la condusse, ove ebbe il modo di vestirsi come un povero fanciullo, dei panni d’un figliuolo de la Pippa che poco innanzi era morto. E per non dar indugio al fatto, il seguente giorno se n’andò Nicuola, non più fanciulla ma garzone, ne la contrada ove se ne stava il suo amante. Quivi ebbe la fortuna assai favorevole, perciò che Lattanzio tutto solo su la sua porta dimorava. Romulo, – chè così voleva Nicuola esser detta, – come lo vide, fece buon animo e cominciò andar per la contrada quinci e quindi riguardando, come fanno i fanciulli stranieri quando in luogo arrivano non più veduto. Come' 'Lattanzio lo vide andar così vagabondo, giudicò che fosse alcun garzone che più in Esi stato non fosse e che per aventura andasse cercando padrone; onde essendo giunto dinanzi a la porta ov’egli se ne stava, gli disse: – Giovine, sei tu di questa terra? – Rispose Romulo: – Signore, io son romano, povero garzone, – e diceva il vero perciò che era nato a nodrito in Roma, – che dal sacco di Roma in qua ove perdei mio padre, chè già di molti anni innanzi mia madre morì, me ne vado vagabondo. Nè so dove, perchè mi son messo a servir alcuni, e volevano ch’io stregghiassi mule a cavalli, il che io per non ci esser avvezzo non so fare. Ho ben servito in Roma un padrone per paggio e attendeva a la persona sua e a la camera, ma il povero signore nel sacco fu gettato ferito in Tevere a v’annegò. E perchè io lo piangeva, uno spagnuolo marrano mi diede di molte busse. Di modo, signor mio, che io la faccio molto male. – Se tu vuoi, – disse alora Lattanzio, – restar meco e come tu dici servirmi, io ti terrò molto volentieri, e se tu mi sodisfarai, io ti tratterò di modo che sempre di me ti loderai. – Signore, io ci starò, – rispose Romulo, – nè altro voglio da voi se non che secondo la mia servitù sia da voi riconosciuto. – E così entrò in casa col padrone e attese con tanta diligenza, destrezza e politezza a servire che in pochi giorni spense ne l’animo del padrone il desiderio del perugino. Lattanzio meravigliosamente se ne contentava e si gloriava d’aver trovato il più gentile, costumato e discreto paggio che mai fosse, e lo vestì galantemente, a tra l’altre vestimenta che gli fece lo vestì da capo a piedi tutto di bianco. Romulo si riputava felicissimo, parendogli d’esser in paradiso. Ora, come già avete sentito, esso Lattanzio ardentissimamente amava Catella figliuola di Gerardo Lanzetti, ed ogni dì le passava dinnanzi a la casa, mostrandole con atti e con cenni che per lei miseramente ardeva. Catella ancor che gli mostrasse buon viso, nondimeno molto di lui non si curava nè ancor a le fiamme amorose apriva il petto. Egli l’aveva mandate lettere, messi ed ambasciate, ma risposta ferma di bene nè male non riveniva indietro, perciò che la fanciulla non discendeva a cosa nessuna particolare. Era il padre di lei dei beni de la fortuna molto ricco, ma avaro oltra modo, e in casa non teneva se non una vecchia decrepita, nasciuta in casa prima di lui, e una fanticella ed un giovine figliuolo d’un suo lavoratore che per lo più menava sempre seco; di modo che Catella aveva grand’agio e libertà di star a la finestra e parlar con chi più l’era a grado, perciò che la buona vecchia stava di continovo a far la guardia al focolare. La fante lasciava il campo largo a favoriva Lattanzio, perchè da lui con alcuni presentucci era stata corrotta. Il perchè Lattanzio poteva, ogni volta che gli piaceva, con messi e lettere tener sollecitata Catella, la quale in effetto egli amava fuor di misura. E parendogli che Romulo fosse un bellissimo parlatore, poi che a sufficienza l’ebbe ammaestrato di quanto voleva che facesse, lo mandò a parlar con Catella. Sapeva Romulo, che molte volte era passato dinanzi, ov’era la casa de la Catella e conosceva la fante di lei, perchè aveva veduto il padrone alcuna fiata parlarle; onde avuta questa commissione, se n’andò tutto di mala voglia e tanto mal contento quanto dir si possa. Ma prima che andasse a trovar Catella, si ridusse a casa di Pippa, a la quale dopo alcuni ragionamenti così disse: – Mamma mia, io mi ritrovo ne la maggior disperazion del mondo, perciò che mai non avendo avuto ardire di scoprirmi al mio amante e veggendolo fieramente innamorato di Catella Lanzetti, vivo in tanta mala contentezza di questo mio amore che io non posso sperarne buon fine. E che peggio mi fa e più mi tormenta, è che ora mi conviene andarle a parlare per nome di Lattanzio e indurla che voglia amarlo, perchè la farà richieder al padre a prenderalla per moglie. Or vedi, mamma, a che termine son condutta e se mi può fortuna far peggio di quello che mi fa. Se Catella si dispone' 'che voglia amarlo e si contenti prenderlo per marito, io non vivo un’ora, nè rimedio alcuno veggio a lo scampo de la travagliata mia vita, perchè è impossibile che io veggia che sia d’altri che mio, e viva. Consegliami, cara mia mamma, a dammi aita in questo mio importantissimo bisogno. Io sperava pure, veggendo la mia servitù esser molto grata a Lattanzio, discoprirgli un dì i fatti miei e indurlo ad aver di me pietà; ma ora ogni mia speranza è ita al vento, conoscendolo sì fieramente invaghito di costei, che tutto il giorno e la notte in altro mai non pensa nè d’altro ragiona già mai. Lassa me! se mio padre venisse e sapesse quello che ho fatto, che sarebbe de la vita mia? Egli m’anciderebbe certamente, e non mi valeria scusa alcuna. Mamma mia cara, aiutami, aiutami per Dio, cara mia mamma! – E questo dicendo, piangeva dirottamente. La Pippa che l’amava più che propria figliuola, commossa dal pianto di quella, cominciò anco ella a lagrimare. Ma rasciugati gli occhi le disse: – Vedi, figliuola: tu sai quello che tante volte ti ho detto circa questo tuo amore, e mai non l’hai voluto prestar fede. A me parrebbe, e certo questo è il meglio, che tu rimanessi qui ed io ti rimenerò al monastero fin che tuo padre venga, e adatterò in modo la cosa che il tutto starà bene. Chè se mai si sapesse che tu vestita da uomo avessi servito Lattanzio e in camera sua tante notti dormito, che pensi tu ciò che si favoleggiasse de’ fatti tuoi? Io t’assicuro che mai non trovaresti marito. Ed ancor che tu mi giuri che nessuno t’abbia per donna riconosciuta, io non te lo credo. Tu puoi ben dire ciò che tu vuoi, che io crederò ciò che a me pare che ragionevolmente si debbia credere. Io so bene ciò che questi padroni giovini usano di far ai paggi loro. Sì che a me piaceria che tu ti levassi questo capriccio di capo e attendessi ad altro. Oramai tuo padre non può tardar molto che non venga, ed io non vorrei per tutto l’oro del mondo, – egli venga quando voglia, – che di queste favole sapesse cosa alcuna: chè guai a te e a me! Se tu vedi che Lattanzio è disposto di voler Catella ed ogni dì tocchi con mano quanto egli è di lei invaghito, a che affaticarti invano? perchè vuoi tu metter la vita e l’onore a tanto rischio, se frutto alcuno non sei per averne? Tutte le fatiche ricercano guiderdone ed è pazzia durar fatica indarno, massimamente ove tanto di danno possa seguire. E tu che ricompensa aspetti di tanta servitù? Tu aspetti eterna infamia non solamente di te stessa ma di tutta la casa tua e, che non è da esser poco stimato, tu aspetti perderne la vita. A che amare chi non t’ama? a che seguir chi volando se ne fugge? Io per me mai non sono stata così pazza ch’io sia voluta correr dietro a nessuno. Lascia costui, figliuola mia, volgi il tuo pensiero altrove, chè in questa nostra città non ti mancheranno giovini tuoi pari, che ti ameranno ed averanno di grazia d’averti per moglie. E che sai che costui se pur fin qui non ti ha conosciuta, non ti conosca un dì e prenda di te quei piaceri ch’ei vorrà, e poi di te più non si curi e faccia di maniera che tu diventi donna del volgo, essendo mostrata a dito per una putta sfacciata? Sì che, figliuola mia, lasciati consigliare e resta qui meco. – Stette alquanto Nicuola sovra pensiero e poi, dopo un ardente sospiro, disse: – Cara mia mamma, io conosco che tu parli molto amorevolmente; ma io ho fatto tanto che ne voglio veder il fine, avvengane ciò che si voglia. Anderò ora a parlar a Catella e vederò come si moverà, perchè fin qui Lattanzio non ha avuto se non risposte generali. Poi Dio m’aiuterà, che conosce il mio core e sa che per altro non m’affatico se non per aver Lattanzio per marito. Io verrò ogni dì qui a parlar teco, e se mio padre verrà, provederemo a’ casi nostri a la meglio che si potrà, non mi parendo per ora pensar al male innanzi che venga. – Indi partita da la Pippa, se n’andò di lungo verso la casa del Lanzetti e a punto arrivò che Gherardo andava in piazza per certi suoi bisogni. La fante di Catella era in porta, a cui Romulo fatto il' 'cenno che dal padrone aveva appreso, fu introdutto dentro e messo in una de le camere terrene. Andò su la fante e disse a Catella: – Madonna, venite giù, perchè Lattanzio ha mandato a parlarvi il suo bellissimo paggio che detto m’avete piacervi tanto. – Catella subito discese a basso ed entrò in camera ove Romulo l’ attendeva. Come ella lo vide, sì pensò veder un angelo, tanto le parve bello ed aggraziato. Cominciò egli, dopo fattale riverenza, a dirle quanto in commessione aveva dal padrone. Sentiva Catella, udendolo ragionare, un piacer estremo ed amorosamente lo vagheggiava, parrendole che fuori dai suoi begli occhi uscisse una inusitata dolcezza, e si moriva di voglia di basciarlo. Romulo attendeva pure a dirle il fatto di Lattanzio; ma ella poco intendeva ciò che egli si dicesse, essendo tutta intenta a rimirarlo e dicendo tra sè che sì bel giovinetto veduto non aveva già mai. E insomma tanto amorosamente il rimirò e così la beltà e buona grazia del fanciullo l’entrò nel core che, non potendosi più raffrenare, gettatoli le braccia al collo e basciatolo in bocca cinque e più volte affettuosamente, gli disse: – Ti par mò bella cosa questa a portarmi coteste ambasciate e metterti al rischio che tu ti metti, se mio padre ti ritrovasse qui? – Romulo, che conobbe chiaramente che Catella era di lui innamorata e la vedeva far di mille colori, le rispose: – Signora mia, a chi sta con altrui e serve, convien far di questi e simili ufficii secondo il volere e comandamento del padrone, ed io per me lo faccio molto mal volentieri. Ma volendo così chi comandar mi puote, lo voglio anch’io. Però vi prego che vogliate darmi una grata risposta ed aver compassione del mio padrone che tanto v’ama e v’è servidore, a ciò che al mio ritorno il possa allegrare e portargli una buona nuova. – E così ragionato un pezzo insieme e parendo a Catella che tuttavia la bellezza del paggio divenisse più bella e si facesse maggiore, – e come pensava che da lei egli deveva partirsi, sentiva certe punture al core che la trafiggevano, – deliberò scoprir il suo ardore, e in questa guisa a dirgli cominciò: – Io non so a la fè di Dio ciò che tu m’abbia fatto, e penso per certo che tu m’abbi incantata. – Signora, – rispose egli, – voi mi gabbate; io non v’ho fatto nulla, nè sono malioso o incantatore. Ben vi son servidore e vi prego a darmi una buona risposta, perchè sarete cagione tener in vita il padron mio e farete ch’egli m’averà più caro di quello che m’ha. – Catella, che più sofferire non puotè e che basciando il paggio si struggeva, gli disse: – Vedi, vita mia ed anima de l’anima mia, io non so giovine al mondo che m’avesse fatto far ciò che teco ora ho fatto. Ma la tua bellezza e l’infinito amore che ti porto dapoi che prima ti vidi dietro a tuo padrone, a questo m’hanno sospinta. Io non ti vo’ per servidore, ma bene, se da te non mancherà, voglio che tu mi sia, mentre che io viva, signore e che di me tu disponga ad ogni tua voglia. Io non ricerco chi tu ti sia, nè se povero o ricco sei nè di qual sangue nato. Mio padre, la Dio mercè, è ricco per te e per me, e tanto vecchio che più poco può vivere. Sì che attendi a far i fatti tuoi e lascia andar Lattanzio; chè io per me non sono mai per amarlo e comincerò fin oggi a non gli mostrar più buon viso. – Parendo a Romulo che la bisogna andasse a suo modo, dopo alcuni ragionamenti promise a Catella di far quanto voleva e senza fine del suo offerire la ringraziò, rendendosele sempre ubligato; ma che bisognava andar cautamente, a ciò che Lattanzio di nulla s’avvedesse già mai. E discorso insieme quanto aveva da dirgli, dopo molti amorosi baci dati e ricevuti, Romulo si partì, avendo sofferto una gran paura che talora Catella non le mettesse le mani in parte che avvista si fosse che non era maschio. Partitosi adunque, se n’andò di lungo a casa e ritrovò il padrone che con desiderio l’aspettava. Prima seco si scusò de la tardanza del ritorno, con dire che era stato buona pezza innanzi che a Catella potesse parlare, e che parlando poi con quella l’aveva ritrovata' 'in una grandissima còlera, sì perchè dal padre quell’istesso giorno era stata molto acerbamente garrita di questo suo amore, e sì anco per aver inteso che egli era d’un’altra fanciulla innamorato. – Io, – diceva Romulo, – assai sforzato mi sono di levarle questa openione del capo, ed holle addutte mille ragioni e seco lungamente contrasto, ma il tutto è riuscito indarno. – Restò Lattanzio a questa nuova molto smarrito e di mala voglia, e si fece dir e ridire ben diece volte da Romulo tutto il ragionamento che tra Catella e lui era passato. Pregò poi Lattanzio il paggio che, pigliata l’oportunità, volesse ritornar a parlar a Catella ed assicurarla che egli altra donna al mondo non amava che lei e che era per farlene tutte le prove possibili; e che ella facesse pure quanto voleva, chè egli non era per amar altra già mai, essendo disposto di esserle eternamente lealissimo servidore. Romulo disse di far ogni cosa che sapesse e potesse per andarle a parlare. Ora il dì seguente, essendo Catella a la finestra, Lattanzio passò per la contrada e aggiungendo vicino a la casa, la giovane con un atto disdegnoso si levò via da la finestra e si tirò a dentro. Accrebbe questo atto grandissima fede a le parole di Romulo che dette aveva al padrone, il quale di malissima voglia pieno se ne tornò a casa, e con Romulo cominciò a lamentarsi de la sua disgrazia e mala fortuna, e stimolato da la còlera dire che Catella non era perciò la più bella giovane del mondo nè la più nobile, che tanto devesse insuperbirsi e disprezzarlo, e su questa materia disse cose assai. Quivi Romulo cominciò molto destramente a dir al padrone che queste erano cose che il più de le volte solevano avvenire o per sdegni o per male lingue o perchè gli animi non son conformi, perciò che chiaramente si vede che assai sovente l’uomo amerà una donna che mai non si piegherà ad amarlo, e un’altra donna amerà lui che egli non si potrà disporre d’amar lei. E continovandosi cotesti ragionamenti, disse Lattanzio: – In vero, Romulo, tu dici il fatto come sta e la pura verità. In questi mesi passati fui amato da una de le più belle fanciulle di questa città ch’era nuovamente venuta da Roma, e so che mi voleva tutto il suo bene, ed io amava lei molto caldamente. Ma ella andò non so dove e stette molti giorni fuori, ed in quel mezzo mi venne veduta questa superba di Catella, di modo che, lasciato l’amor di colei e in tutto messala dopo le spalle ed in oblio, attesi a servir cotesta ingrata. L’altra poi, ritornata ne la città, mi mandò lettere e messi, ed io di nulla mi curai. – Signor mio, – disse alora Romulo, – egli vi sta molto bene ed avete ricevuto il contracambio che meritavate, perchè se voi eravate tanto amato da così bella giovane come mi dite, voi avete senza fine mal fatto a lasciarla per questa, la quale nol sapendo fa le vendette di colei. Egli si vuol amar chi ama e non seguir chi se ne fugge. Chi sa che quella bella fanciulla ancor non v’ami e viva per voi in pessima contentezza? Con ciò sia cosa che io molte volte ho sentito dire che le fanciulle nei lor primi amori amano assai più teneramente e con maggior fervore che non fanno gli uomini. A me pare che il cor mi dica che quella sfortunata garzona debbia per voi consumarsi e menar una afflitta e penace vita. – Io non so questo, – disse Lattanzio,– ma so bene che mi amava molto forte e che è bellissima, e Catella a par di lei ti parrebbe quasi brutta. E più ti vo’ dire, che molte volte m’è venuto in mente che se tu fossi vestito da donna, io direi che saresti quella stessa, così mi pare che tu la mi rappresenti in tutto. E credo che da te a lei, quanto a l’età, ci sia una poca differenza. Vero è che ella mi pareva alquanto più grandicella di te. Ma torniamo a parlar di questa ladrona di Catella la quale non mi posso cavar fuor de la fantasia, e giorno e notte sempre penso in lei nè ad altro posso rivolger l’animo. Dimmi: datti il core di parlarle e discoprirle intieramente il mio amore? – Farò quanto saperò e potrò, – rispose Romulo, – e se io' 'fossi ben certo riceverne la morte, io ci ritornerò. – Ora lasciamo un poco costoro in questi lor maneggi e parliamo di Paolo figliuolo d’Ambrogio, perciò che senza lui l’istoria nostra non si può finire. Avvenne adunque in quel tempo che il tedesco padrone di Paolo partì da Napoli e capitò in Acquapendente per andarne in Lombardia e poi ne la Magna, che volendo partire da Acquapendente fu sovrapreso da una fiera colica che in tre dì lo fece morire. Ma prima che fosse a l’estremo si conobbe morto, e fatto testamento lasciò erede Paolo di quanto aveva. Fece Paolo onoratamente seppellir il padrone e contentò l’oste; poi si mise a traversar il camino a la man destra a la volta d’Esi ove, poco avanti la rovina di Roma mandato dal padre, era stato circa un mese. Giunto ad Esi, che che se ne fosse cagione, non andò altrimenti a casa, ma con suoi carriaggi se n’andò a l’osteria. Quivi fatto scaricar la sua salmeria e datala in guardia a l’oste, si rinfrescò e, lasciati i suoi a l’albergo, si mise tutto solo andar per la città. Egli era per un suo voto vestito di bianco del medesimo modo che era Romulo. Andava Paolo per veder se la casa del padre era aperta: così andando egli passò dinanzi a la casa di Catella che era a la finestra, e non le fece cenno nessuno, non sapendo chi ella fosse. Del che la giovane forte se ne meravigliò, tenendo per fermo che egli fosse Romulo, e subito gli mandò dietro la fante a chiamarlo. Era su l’ora di nona e poca gente passava per la contrada. Come la fante il chiamò per Romulo e gli disse: – Deh, venitevene di lungo chè madonna vi chiama, – egli s’avvide che era chiamato e preso in fallo. E tanto più in questo si confermò, quanto che vedeva che la fante parlava seco nè più nè meno come se lungamente fossero insieme stati domestici. Il perchè tra sè determinò voler vedere chi fosse questa madonna che lo ricercava, e pensando che ella fosse donna da partito, diceva fra sè: – Lasciami andar a provar la mia fortuna, che non potrà meco ella guadagnar cosa che si sia, eccetto se non le dono un carlino od un giulio a la più. – Or in quello che ei s’inviava verso la casa, ecco che arrivò Gerardo al capo de la contrada, il quale come la fante vide, disse: – Romulo, vedi messere che viene. Va a la tua via, e darai poi di volta in qua. – Egli andò di lungo, tuttavia mettendo mente in qual porta la fante entrasse e chi fosse il messere. Entrata in casa, la fante serrò l’uscio facendo vista di non aver veduto il padrone, il quale, venendo come fanno i vecchi passo passo, non s’era avvisto di lei. Venne Gerardo e picchiò a l’uscio, e quello aperto, entrò in casa. Aveva Paolo molto ben notata la casa e veduta Catella a la finestra, che fuor di modo gli piacque, parendogli assai bella e leggiadra, onde gli andarono per la mente molti pensieri. Si mise poi andar verso la casa del padre, la quale ritrovò chiusa e le finestre serrate, il che gli fece pensare che suo padre non era ne la terra. Tuttavia per meglio chiarirsi, domandò a certo sartore, che ivi vicino aveva la bottega, che cosa fosse d’Ambrogio Nanni. Egli gli rispose che erano molti dì che non s’era visto in Esi. Ritornò Paolo a l’osteria, tuttavia volgendo per l’animo varie cose de la fanciulla veduta, e desiderando ritornar a vederla, stava in dubio se deveva andar solo o pur menar seco, che ancor aveva del padrone morto, alcuni servidori. Nè guari dopo questo si stette, che Ambrogio tornando da Roma s’incontrò in Gerardo ne l’andar a casa, il quale dopo avergli detto che fosse il ben tornato gli soggiunse: – Ambrogio, tu sei venuto a tempo, chè se tu fossi stato ne la città questi dì passati, penso che averemmo conchiuso il matrimonio di tua figliuola e di me, od almeno mi sarei chiarito se me la vuoi dare o no, perchè io ho deliberato non voler più star in questo dubio. – Come tu vedi, – rispose Ambrogio, – io giungo ora e me ne starò molti dì qui senza partirmene. Noi saremo insieme e più ad agio parlaremo di questo fatto. – E ragionando tra loro, Ambrogio a cavallo e Gerardo a piedi, avvenne che Romulo volendo ritornar a parlar a Catella come dal padrone gli era imposto, vide il padre, e voltato ad un altra mano, se n’andò di lungo a ritrovar la Pippa e le disse: – Oimè, mamma mia, io son morta, perchè mio padre è tornato e non so che farmi. – Orsù, – disse Pippa, – sia con Dio! Non ti partir di casa e lascia far a me. Spogliati questi panni e vesti i tuoi che sono in questa cassa. – Andò la Pippa alora alora diritto verso la casa d’Ambrogio che in quel punto smontava da cavallo, e con un allegro viso lo salutò dicendo: – Voi siate il ben venuto, messere, per mille volte. Come state voi? – Oh ben venga la mia Pippa, – rispose Ambrogio, – che vai tu facendo così in fretta? – Io vengo, – rispose ella, – dritto a voi, perchè Giannelloccio Bindi m’ha detto che eravate venuto, a ciò ch’io faccia ciò che sarà bisogno, chè non so come questi famigli vostri sappiano cucinare. – Io ti ringrazio, – disse Ambrogio; – e’ non era necessario che tu prendessi questa fatica, perchè ho mandato a tòrre la Margarita che soleva star in casa, e sarà qui a mano a mano. Ma dimmi, quanto è che non vedesti la nostra Nicuola? – Ogni dì la vedo, messere, – rispose la Pippa, – e pure questa matina sono stata buona pezza seco. Ella si muor di voglia che voi rivenissi. Io l’ho molto spesso menata a casa mia a tenutala dui e tre giorni. E veramente ella è una buona a bella figliuola e lavora de le sue mani meravigliosamente, che Dio per me ve lo dica. – Arrivò in questi ragionamenti Margarita la quale cominciò a far de le faccende per casa, e Pippa buona pezza seco, aiutandola, si travagliò; poi, parendole un’ora mill’anni di levarsi di casa, disse: – Messere, con vostra buona licenza io anderò questa sera a pigliar Nicuola al monastero e menerommela a casa mia; poi dimane ve la condurrò qui, o vero la terrò uno o dui giorni meco fin che abbiate fatto metter la casa in ordine. – Fa come ti pare, – rispose Ambrogio, – e raccomandami per assai a suor Camilla e bascia mia figliuola da parte mia, a va in buon’ora. – Partì Pippa e, prima che se ne andasse a casa, andò al monastero a trovare e parlar con suor Camilla, con la quale ordinò tutto quello che era bisogno per salvezza de la Nicuola, ogni volta che Ambrogio fosse ito al monastero. Suor Camilla, che era buona maestra di cotal mestiero, disse a la Pippa che stesse di buon animo, chè il tutto passeria bene. Indi partitasi, andò a casa sua ove la Nicuola, che più non era Romulo, l’aspettava con grandissimo desiderio per intender come la cosa passava. Ella già s’era vestita i suoi panni e conciatasi il capo come usano le nostre fanciulle. Tornata, la Pippa le narrò tutto ciò che fatto aveva, dicendole se voleva il giorno seguente andar a casa al padre o dimorar uno o dui dì, che era in sua libertà. Conchiuse la Nicuola star anco il dì seguente con la sua mamma, ed altro non faceva che tormentarla del suo Lattanzio, mostrando un sì estremo desiderio d’averlo per marito che esser non poteva maggiore. La Pippa le teneva per detto che mettesse i suoi pensieri altrove, poi che chiaramente conosceva che indarno s’affaticava, conoscendo Lattanzio esser sì fieramente invaghito di Catella che mai a verun’altra cosa non pensava, e che a la fine egli averebbe l’intento suo domandandola a Gerardo per moglie. – Questo è quello, – diceva Nicuola, – che mi tormenta, nè mai ci penso che non mi disperi. Ma se mio padre non veniva così tosto, mi dava l’animo che io averei messo Lattanzio in tanta disgrazia a Catella, che essa averebbe innanzi voluto un contadino per marito che lui. Ma la così presta ed improvisa venuta di mio padre ha guasto il tutto. – Ha guasto – rispose la Pippa; – anzi ha egli acconcio il tutto. Se vero è ciò che narrato m’hai che tra Catella e te è intervenuto, io t’avviso che i casi tuoi erano in malissimo termine, con ciò sia cosa, se tu ci tornavi a parlarle un’altra volta, ella senza dubio dopo i baci averebbe volute giocar di mano, e trovandoti fanciulla, che pensi tu che giudicio avesse fatto' 'di te? non restavi tu appo lei perpetuamente svergognata? non credi tu che ella subito averia pensato che tu fossi la bagascia di Lattanzio? – E questo è quello, – soggiunse Nicuola, – che io averei voluto che fosse occorso. Ella ancora che, come tu dici, m’avesse trovata fanciulla, non m’averebbe perciò conosciuta per Nicuola figliuola d’Ambrogio, e Lattanzio le sarebbe caduto in tanto odio che mai più non l’averebbe potuto vedere nè sentir nomare, di modo che io averei potuto sperar di racquistar l’amor di Lattanzio. – Non si puotè contener la Pippa che non ridesse di questi ragionamenti de la Nicuola, e sì le disse: – Figliuola mia, poni il cor tuo in pace. Se da Dio sarà dato che Catella debbia esser moglie di Lattanzio, e’ non ti varrà arte nè ingegno nè industria che tu sappia usare a disturbar cotal matrimonio. Tu sei ancora assai giovanetta, tu sei bella, tu sei ricca, perchè si deve credere che se Paolo tuo fratello fosse vivo, che oramai si saria inteso alcuna cosa di lui; ma il povero figliuolo certamente deve esser morto. Che nostro signor Iddio abbia l’anima sua. Sì che se tu ti governerai saggiamente, tu resterai unica erede di tuo padre, onde non ti mancheranno dei più nobili e più ricchi giovini marchiani. Pertanto levati di capo queste fantasie, che sono più per annoiarti e recarti danno che piacere nè utile. – Mentre che queste cose in questa guisa si trattavano, Paolo si deliberò andar solo a veder Catella, e sul tardi del giorno passò dinanzi la casa di quella e, non la potendo vedere, se ne ritornò a l’albergo nè volle per quel dì più uscir fuori. Lattanzio a cui l’aspettar sommamente aggravava, veggendo imbrunita la notte, molto si meravigliava che Romulo non ritornasse a casa a rendergli risposta di quanto aveva operato con Catella. E poi che una e due ore di notte ebbe atteso che venisse, nol veggendo ritornare, ne restò forte di mala voglia e dubitò che qualche mala ventura gli fosse intervenuta; e non sapendosi imaginare cosa alcuna di fermo, se ne stette tutta la notte quasi senza dormire, varii pensieri rivolgendo per la mente. Egli amava pur assai Romulo, perchè da lui era molto ben servito e vedevalo discreto e costumato giovinetto e che mai in casa non aveva fatto parole con persona, attendendo con diligenza a far quanto gli era imposto; onde meravigliosamente gli rincresceva d’averlo perduto. Da l’altra parte poi Catella, che ferventissimamente amava Romulo e già aveva gustati i suoi dolci baci, desiderava venir più a le strette con lui, e non l’avendo quel dì più veduto dopo che Gerardo venne a casa, avendo in iscambio di Romulo preso Paolo, se n’andò molto di mala voglia a corcarsi. La Nicuola tutta la notte con la sua mamma ragionò di Lattanzio; e sospirando e dimenandosi, nè dormì ella nè lasciò dormir la Pippa, e sapendo che a suo padre aveva la Pippa detto di ritenerla uno o dui dì, deliberò restar con lei. Venne il giorno e non comparendo Romulo a casa, Lattanzio mandò di qua a di là a ricercarlo e spiar per diverse vie se nulla di lui s’intendeva. E facendone diligentemente spiare e dando gli contrasegni de le vestimenta e de l’età, fu uno che disse il dì innanzi averlo veduto entrar in casa di Pippa di Giacomaccio, che stava vicina a la chiesa maggiore. Lattanzio che la conosceva, avuto questo indizio, quasi su l’ora del desinare andò a ritrovarla e picchiò a l’uscio de la casa. La Pippa, fattasi a la finestra e conosciuto il giovine, si meravigliò e dubitò che forse egli sapesse che la Nicuola fosse in casa, e gli disse: – Giovine, che cercate voi? – Monna Pippa, – rispose egli, – quando non vi sia in dispiacere, io vi direi volentieri diece parole. – Venticinque, – disse la Pippa, e detto a la Nicuola che Lattanzio era di sotto, subito a basso smontò ed aperse la porta. Il giovine entrò in casa a si mise a sedere presso a la Pippa, in luogo ove Nicuola senza esser vista poteva veder lui e udir ciò che diceva. Ora Lattanzio così a parlare cominciò: – Monna Pippa, ancor che io non v’abbia mai fatto servigio che' 'meriti ch’io debbia presumer di richiedervi piacer nessuno e d’averlo, nondimeno l’usanza mia che è di compiacer a tutti, e saper voi esser donna che da molti gentiluomini sète amata, che dimostra voi esser cortese, mi dà animo ricorrer qui a voi con ferma speranza che al desiderio mio pienamente sodisfarete. Perciò senza più usar ceremonie di parole, vi prego affettuosamente che voi vogliate dirmi che cosa è d’un garzone vestito di bianco che ieri venne qui a trovarvi ed ha nome Romulo, che può aver circa dicesette anni, di molto buona a gentil aria, che stava meco per paggio e da ieri in qua non è ritornato a casa. Io vi prego che di grazia vi piaccia di darmene nuova, chè me ne farete piacer singolarissimo ed io per sempre ve ne resterò ubligato. – Figliuol mio, – disse la Pippa, – io vi ringrazio del vostro buono e cortese animo che mi mostrate, chè certo m’è pur troppo caro, e piacemi che siate degnato di venir a questa povera casa, perchè son molti dì che io desiderava aver occasione di poter ragionar con voi, la quale essendomi di presente data per cortesia vostra, non la voglio perdere. E prima rispondendo a quello che ricercate, vi dico che io di questo vostro garzone non ve ne so render conto, perchè, nè ieri nè molti dì sono, è stato qui fanciullo nessuno nè giovine, che io mi sappia. E pur lo saperei, se persona cotale stata ci fosse. – Voi dubitate forse, – soggiunse Lattanzio, – che io non dia qualche castigo al paggio per non esser rivenuto a casa; ma io v’impegno quanta fede ho di non dargli fastidio alcuno, pur che mi dica la verità per che cagione ieri non tornò a me. – Non accade affaticarvi in questo, – rispose la Pippa, – perchè uomo nessuno è in questa casa, nè ieri ci fu; e duolmi infinitamente che io non possa circa questo caso farvi servigio, e fareilo volentieri. – Lattanzio, mentre la Pippa seco ragionava, gettava grandissimi sospiri, onde ella gli disse: – Giovine, voi mostrate esser fieramente appassionato, e non è persona, che sentisse questi ardenti sospiri, che non giudicasse che voi foste di questo vostro paggio troppo innamorato. Ma l’aver io altre volte inteso che voi amavate una bella fanciulla, non mi lascia credere che siate così nemico de le donne. – Deh, – disse Lattanzio, – volesse Iddio ch’io non amassi, chè sarei nel vero più allegro e più contento di quello che ora mi trovo, nè pensate ch’io intenda del mio paggio, chè a ciò non penso. Ma parlo d’una giovanetta che io amo molto più che gli occhi miei e vie più de l’anima mia. – E dicendo queste parole, a mal suo grado le calde lagrime gli colmarono gli occhi ed alcuna pure gli bagnò le guancie, e tuttavia egli fieramente sospirava. Parve a la Pippa esserle data l’occasione di tentar quanto già l’era venuto nel pensiero di fare, e gli disse: – Io so troppo bene, figliuol mio, che deve esser vero quanto mi dite, amando voi come dimostrate, e tanto più ne credo la pena dever esser maggiore, quanto che porto ferma openione non esser doglia al mondo più acerba e penace che amare e non esser amato. Poi io so che la giovane che amate, punto non v’ama, anzi più tosto v’odia, per amar altrui più di voi. – E dove sapete voi cotesto, monna Pippa? – le disse alora Lattanzio tutto pien di meraviglia. – Non ricercate, – rispose ella, – come io lo sappia. Bastivi che so che ora amate chi non v’ama, e son molti mesi che amaste un’altra molto più bella di questa, e so che quella ardentissimamente amava voi. E dirò anco questo, che ora più che mai v’ama, e voi nè più nè meno amate lei nè più ve ne ricordate come se mai ella non fosse stata da voi veduta. – Veramente io non saperei che dirmi, – disse Lattanzio, – poi che sì bene sète apposta al vero e sì ben par che sappiate gli affari miei. Ma di grazia, vi prego vogliate dirmi come sapete che questa, che io di presente amo, non m’ami ed ami altrui – Questo non ho io a dirvi, – rispose la Pippa, – perchè non mi par convenevole. Ben mi par giusto ricordarvi che il tutto vi sta bene, poi che, sprezzata voi la giovane che v’ama, amate' 'chi vi disama, chè così permette Iddio per castigar il vostro peccato e tanta vostra ingratitudine. E pur che peggio non ve ne avvenga, la cosa starà bene. Deh, sfortunata Nicuola, chi ami tu ed hai amato! Tu hai pur fatto le maggior cose del mondo per acquistar la grazia di costui, e il tutto è stato indarno. E voi, Lattanzio, amate Catella più che voi, e di voi ella punto non si cura. Or via, seguitate questa impresa, chè a la fine v’accorgerete del vostro errore, e forse, quando vorrete, non fia chi l’emendi. – Il giovine, sentendo questi particolari, era quasi come fuor di sè nè sapeva che risponderle. Da l’altro canto la Nicuola, che il tutto udiva e vedeva, sarebbe volentieri uscita fuor per dir anco ella circa il caso suo quattro parolette; ma determinata d’aspettar e che fine riuscirebbero questi ragionamenti, se ne stava cheta. La Pippa anco ella attendeva ciò che il giovine diria, quando egli quasi da grave sonno desto disse: – Monna Pippa, io voglio largamente parlar con voi, poi che sapete i casi miei meglio di me. Egli è il vero che io ho amata la Nicuola Nanni, la quale so che m’amava. Ella poi fu dal padre mandata fuor de la città, non mi ricordo dove, onde in quel mezzo cominciai ad amar Catella figliuola di Gerardo Lanzetti, la quale per alcuni dì ha dimostrato d’amarmi, poi, non so come, in tutto mi s’è scoperta ritrosa e totalmente contraria a’ miei desiri, di maniera che se ella è in porta od a la finestra quando io passo per la strada, subito che mi vede, si tira a dentro, e più non vuol udir miei messi nè ambasciate. E ieri a punto mandai il mio paggio per vedere se le poteva parlare, ma egli mai non è ritornato a rendermi risposta, di modo che io mi trovo aver perduto l’innamorata ed un buono e gentilissimo servidore. Se egli ritornava e m’avesse apportato che ella perseverasse ancora ne la sua solita durezza, io m’era disposto di non volerla più molestare, ma procacciarmene un’altra a cui il mio servire fosse stato più accetto, chè, a dir il vero, mi par una grandissima pazzia a seguitar chi mi fugge, amare chi non m’ama e voler chi me non vuole. – Gran cosa è questa, – pigliate alora le parole, disse la Pippa, – e certo anco io non sarei sì pazza che io amassi chi a me non volesse bene. Ma ditemi se vi piace: se la Nicuola vi volesse ancor bene anzi v’amasse più che mai, che ne direste voi? vi parrebbe egli che la meritasse esser amata da voi? – In vero, – rispose il giovine, – ella meritarebbe che io l’amassi quanto me stesso. Ma egli non può esser ciò che dite, perciò che ella si deve, e ragionevolmente certo, esser sdegnata meco, che avendomi dopo il ritorno suo in Esi scritto più volte, io punto di lei non mi curassi. Nè so dove si sia, tanto è che non l’ho veduta. – Oh, – disse la Pippa, – io so che infinite volte da pochi dì in qua veduta l’avete e ragionato seco molto domesticamente. – Voi, monna Pippa, v’ingannate in questo, – rispose Lattanzio. – Non m’inganno, – soggiunse ella, – perchè in vero io debbo saper ciò che mi dico, e non parlo al vento. Ma ditemi, se così fosse com’io vi dico, e ch’io vi facessi toccar con mano che la Nicuola più che mai v’ama, che fareste voi? E s’ella fosse stata in casa vostra e v’avesse servito e fatto quello che ogni minimo servidore deve fare, e da voi non fosse stata conosciuta già mai, che pensiero sarebbe il vostro? Non vi paia strano ciò che vi dico e non mostrate tanto quanto fate di meravigliarvi, chè la cosa sta pur così, nè esser può altrimenti di quello ch’io vi dico. E a ciò che veggiate ch’io v’ho detto il vero, son presta a farvelo di modo conoscere che voi direte come dico io. Ma prima rispondetemi: se la Nicuola avesse fatto quanto vi dico, che meritarebbe ella? – Voi mi narrate favole e sogni,– rispose Lattanzio, – ma se cotesto fosse vero, io non saprei che dirmi se non ch’io deverei infinitamente amarla e farla padrona di me stesso. – Sta bene, – disse la Pippa, e chiamò la Nicuola dicendole che recasse i panni da paggio che portava. A questa voce la Nicuola che il tutto aveva inteso, presi i panni da uomo, tutta in' 'viso arrossita, se ne venne innanzi a la mamma ed a l’amante, onde disse la Pippa: – Ecco, Lattanzio, la vostra Nicuola, eccovi il vostro Romulo, ecco il vostro tanto bramato paggio che dì e notte è stato appo voi ed a grandissimo rischio de l’onore e de la vita per amor vostro s’è posto. Ecco chi, sprezzato tutto il mondo, di voi solo si è curato, e mai perciò in tanto tempo conosciuto non l’avete. – In questo ella narrò tutta l’istoria de l’essersi di fanciulla fatta paggio, e gli disse: – Che dite mò voi? – Stava Lattanzio come mezzo smemorato e guardava la Nicuola, parevagli insognarsi, nè sapeva che dire, che ella vestita da garzone fosse stata seco. Poi alquanto in sè rivenuto e pensando a la crudeltà di Catella de la quale era assai più bella la Nicuola, e considerato l’amor di costei ed a che rischio per soverchio amore messa s’era, quasi lagrimando disse: – Nicuola, io non vo’ entrar ora nel pecoreccio de le favole de le escusazioni, ma se voi sète de l’animo che monna Pippa m’afferma, quando voi vogliate, io vi prenderò per moglie. – La Nicuola, che altro al mondo più di questo non desiderava e si trovava in tanta e tal allegrezza che quasi in sè non capiva, se gli gettò ai piedi e sì gli rispose: – Signor mio, poi che voi, la vostra mercè, degnate per vostra pigliarmi, eccomi presta sempre a servirvi, chè in ogni cosa io ed il mio voler sarà di continovo vostro. – Lattanzio alora, trattosi un anello di dito, quella per sua legitima sposa a la presenza de la Pippa sposò, e dopo disse: – A ciò che le cose nostre con più riputazione ed onore si facciano, io subito desinato che sia anderò a parlar a vostro padre e per moglie ve gli chiederò, e mi persuado che senza contrasto egli mi vi darà. E così faremo le nozze come si conviene. – Monna Pippa per più affermare il contratto matrimonio per parole di presente, innanzi che Lattanzio si partisse, fece che in una camera egli si giacque con la Nicuola e consumò il santo matrimonio; del che l’una e l’altra parte meravigliosamente si sodisfece. Lattanzio poi, dato ordine a quanto di far intendeva, si partì e andò a desinare, e dopo desinare trovò il padre de la Nicuola; e la Nicuola con Pippa andò a casa a trovar suo padre, dal quale lietamente fu ricevuta. Paolo, subito che ebbe desinato, uscì de l’albergo e cominciò ad inviarsi verso la casa di Catella, e andò tutto solo. Ed essendo in capo de la contrada, vide Gerardo uscir di casa e andar non so dove. Non era a pena Gerardo uscito che Catella si mostrò a la finestra e vide Paolo, e credendolo il suo Romulo gli accennò, come fu vicino a l’uscio, che entrasse. Egli, deliberato chiarirsi che cosa poteva esser questa, entrò in casa, ed in un subito Catella smontò le scale ed abbracciato e basciato amorosamente quello che credeva esser Romulo, disse: – Vita mia cara ed ultimo fine d’ogni mio pensiero, tu fai pur troppa carestia di te. Tu non vuoi già tanto bene a me quanto io a te. Io ti dissi pur l’animo mio dui dì sono, e che altro che te non voglio per marito. Andiamo qui in questa camera terrena. – Ordinò poi a la fante che mettesse mente se messer tornava e ne l’avvisasse. Indi basciando lascivamente Paolo e dicendogli parole dolcissime a scherzevolmente morsicandolo, pareva che ne le braccia di lui languisse. Egli, che melenso punto non era e s’accorgeva che era preso in fallo, mostrandosi tutto infiammato e per soverchio amore quasi divenuto mutolo, la basciava molto spesso e sospirava. – Anima mia, – diceva ella, – io vorrei che tu ti sviluppassi da questo tuo padrone, a ciò possiamo esser insieme quando ci parrà. – Di cotesto non vi caglia, – rispose Paolo, – chè bene troverò il modo di starmi senza lui. – Sì, vita mia, – diceva Catella, e tuttavia se lo stringeva al petto e lo basciava. Paolo che era giovine tutto disposto a contentarla, sentendosi crescer l’erba nel prato, le mise le mani sovra il petto e le palpava dolcemente le mammelle, che erano pure, come di garzona, ancor crudette, ma ritonde e sode come duo pomi. E veggendo che ella' 'punto ritrosa non si mostrava, preso alquanto più d’ardire, cominciò a giocar di mano in quelle parti ove tutti gli amorosi piaceri metteno l’ultimo fine. Catella da l’altro canto, che tutta d’amor ardeva e tanto era accesa che veggendosi ne le braccia di così bel giovine sentiva un piacer non mai più sentito, lasciava che egli facesse come voleva. Onde Paolo, presa quella occasione, scherzando scherzando, la gettò sovra un lettuccio, e le fece gustar un’acerba dolcezza la prima lancia che ruppe; ma poi, negli altri arringhi che corse, seppe sì ben fare che spezzò quattro altre lancie con tanto piacer de la giovanetta, che ella avrebbe voluto correrne altre tante. E non s’accorgendo del fuggir de l’ore e la fante essendo andata a far suoi servigi per casa, lasciò la porta de la strada aperta. Venne in questo Gerardo ed entrò in casa. Passando poi dinanzi a la camera ove gli amanti, stracchi per la giostra, s’erano posti suso una panca a sedere e ragionare, sentì colà entro esser gente e disse: – Chi è là? – Il dire e il dar de’ piedi ne l’uscio de la camera ed aprirlo fu tutto uno. Come egli vide Paolo con la figliuola, così tenne per fermo che non Paolo, ma che fosse la Nicuola, de la quale, come già s’è detto, era fieramente innamorato. Onde mancatali tutta la còlera in che entrato era pensando che un uomo fosse con Catella, guardava Paolo, e quanto più lo guardava tanto più si confermava nel parer suo ch’ei fosse la Nicuola. Catella che al comparir del padre era rimasa mezzo morta, e Paolo che tutto tremava, poi che videro che il vecchio, fermatosi, nulla dicendo se ne stava, attesero con meglior animo a che fine egli riuscisse. Come già s’è ragionato, Paolo e la Nicuola sua sorella erano tanto simili che con diffìcultà grandissima si poteva scerner da chi più in pratica gli aveva, qual di loro fosse il maschio e qual la femina. Gerardo poi che buona pezza con ammirazione grandissima ebbe contemplato Paolo, sapendo che il figliuolo d’Ambrogio non si trovava, restò certo che la Nicuola si fosse vestita da uomo, e disse a Paolo: – Nicuola, Nicuola, se tu non eri quella che sei, io t’assicuro che a te ed a Catella io faceva un tristo scherzo. – Poi rivolto a la figliuola, disse che andasse di sopra e lasciasse la Nicuola a basso, perchè egli le faria miglior compagnia di lei. Partì Catella, parendole fin a quell’ora aver avuto buon partito, poi che il padre altrimenti nè garrita nè battuta l’aveva; ma non intendeva nè sapeva apporsi a che fine il padre nomasse quella Nicuola. Paolo da l’altra parte dubitò che il vecchio volesse far a lui ciò che egli a sua figliuola aveva fatto, e diceva fra sè: – Questo vecchio pazzo vorrebbe andar con i zoccoli per l’asciutto, ma e’ non gli verrà fatto come si crede. – Or partita che fu Catella, disse Gerardo: – Nicuola mia cara, che abito è cotesto ch’io ti veggio indosso? Come permette Ambrogio tuo padre che tu te ne vada così sola? Dimmi il vero: che sei venuta a far qui? sei tu forse venuta per veder come io tengo la casa ad ordine e come io vivo? Son dui dì che io parlai con tuo padre che in quel punto giungeva in Esi, ed avendogli chiesto che si volesse risolvere se voleva darmiti per moglie o no, mi disse che parleria meco. Io t’assicuro che meco averai buon tempo e a te lascerò il governo de la casa. – E dicendo che di lui non poteva aver se non buon trattamento, Paolo diceva tra sè: – Io son pur oggi stato preso due volte in fallo. La figliuola di costui si crede che io sia un suo Romulo a questi pensa che io sia mia sorella; ma la figliuola non si sarà già del tutto ingannata. – Gerardo teneva pur detto: – Nicuola, tu non mi dici nulla? Dimmi l’animo tuo, chè io adatterò il tutto. – E volendo basciarlo, Paolo lo rispinse in dietro e gli disse: – Se voi volete nulla, parlate con mio padre, e lasciatemi andare, ch’io era venuta qui non so come. – Il vecchio, che credeva lui essere la Nicuola, disse: – Orsù, va, ch’io parlerò a tuo padre ed ultimerò la pratica. – Si partì Paolo e di lungo se n’andò a casa del padre, ove trovò Lattanzio che aveva domandata la Nicuola per moglie e che Ambrogio, sapendo lui esser giovine nobile e ricco, gliel’aveva promessa. Come Paolo entrò in casa, Lattanzio veggendolo restò stordito, e se non fosse che in quel punto Ambrogio gli fece toccar la mano a la figliuola, egli averia creduto lui esser la Nicuola. Non si potria dire la smisurata allegrezza d’Ambrogio che ebbe al giunger del figliuolo, avendolo tenuto per morto; e tanto più cresceva la gioia quanto che non solamente aveva ricuperato quello, ma onoratamente la figliuola maritata. Furono tra lor quattro le carezze ed il festeggiarsi grandi. Ed essendo portata la colazione, ecco arrivar Gerardo, il quale, veduta la Nicuola, che con Lattanzio scherzava, e Paolo, che Nicuola esser pensava, parlar col padre, quasi fuor di sè disse: – Domine aiutami! Io non so s’io mi dorma o ciò che mi faccia. – Ed incrocicchiate le mani, stava tutto pieno di meraviglia. Paolo, a cui i saporiti baci di Catella eran sommamente piacciuti, disse al padre che gli facesse grazia di maritarlo con la figliuola di Gerardo. Ambrogio, che sapeva non poter aver se non buon parentado, narrò a Gerardo come aveva maritata Nicuola con Lattanzio, pregandolo a voler dar Catella a Paolo per moglie, di modo che questo altro matrimonio si conchiuse. E così fuor d’ogni speranza si trovò aver ricuperato il figliuolo ricco e ben maritato, ed anco la figliuola ben collocata. Fece Paolo levar i suoi e le robe da l’osteria, e tenne dui servidori per sè e agli altri sodisfece di maniera che si chiamarono contenti. Erano tutti pieni di gioia, eccetto Gerardo che pur averia voluto la Nicuola; pur a la fine se ne diede pace. I dui amanti con le mogli loro attesero a darsi buon tempo ed oggi anco se lo dànno.
Essendo venuta la nuova de la morte d’Enrico di questo nome ottavo re d’Inghilterra, e leggendosi le lettere di cotal nuova a la presenza de la magnanima eroina madama Gostanza Rangona e Fregosa, si ragionò dopoi variamente, secondo che agli astanti occorreva, de l’azioni ed opere del morto re. Indi vi furono di quelli che ragionevolmente discorsero esser stato quell’isola come un praticello che varie erbe tanto buone quanto triste produce, perciò che leggendo l’istorie si vedrà quel paese aver produtto regi in arme, in cortesia e per integrità di vita eccellentissimi e veramente degni d’esser dai buoni scrittori a l’eternità de la memoria consacrati. Ce ne sono poi stati di quelli dei quali si può affermare ciò che di Annibale scrive il candidissimo istorico Livio, dicendo che tante sue vertuti, quante narrate aveva, vizii grandissimi agguagliavano. Ma io crederei poter veramente scrivere che in molti dei regi inglesi le sceleraggini loro di gran lunga avanzavano quelle poche buone parti che avevano, con ciò sia cosa che alcuni per le azioni loro si sono non rettori, prencipi e regi, ma fieri e crudelissimi tiranni dimostrati. E tra gli altri vituperosi ed abominevoli vizii di cui erano macchiati, bruttati e pieni, la crudeltà e la lussuria hanno tenuto il prencipato, perciò che ci sono stati di quelli che del sangue umano i più vaghi dimostri si sono e di quello aver più sete che non ha l’ape del timo. Quanti già ce ne furono che senza pietà alcuna e, che peggio è, senza cagione hanno spento