La bella morte
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LA BELLA MORTE.
I.
Quando il capitano di vascello Ruggero Carleoni, comandante della «Siracusa», ebbe finito di decifrare nella sala del Consiglio della nave il lungo dispaccio del ministro della Marina, chiuse il foglio in uno dei cassetti della scrivania, strappò e stracciò la pagina del taccuino dove aveva trascritto alcuni dei passi più importanti degli ordini telegrafici, e disse a Catenuti, il sott’ufficiale-segretario:
— Chiami subito il comandante in seconda.
A bordo, finite le esercitazioni militari e marinaresche di orario, parte dell’equipaggio lavorava a rimettere in assetto il formidabile strumento di guerra, parte si godeva il riposo che precede l’ora del pasto. Il caporale-portalettere aveva già fatto la prima distribuzione; alcuni marinai, nel ponte di batteria, curvi sulle tavole dei ranci, rispondevano ai loro cari. Barbarini, il secondo, chiacchierava col capitano medico, a poppa, fumando, quando fu avvertito di scendere giù presso il comandante, che lo aspettava d’urgenza.
— Comandante Barbarini, — gli disse Carleoni, rispondendo con un breve cenno del capo e della mano al suo saluto, — siamo al totale di munizioni e di carbone?
— Sì, signor comandante.
— E di viveri?
— Mancheranno una quindicina di giorni alla dotazione normale.
— Si rifornisca nel più breve tempo possibile. Mandi una forte comandata, per affrettare il trasporto e l’imbarco. — Dopo avere alzato gli occhi all’orologio, riprese: — Dia ordine al direttore di macchina che accenda subito i fuochi e sia pronto a partire non più tardi delle cinque. Vi è molta gente a terra?
— Una ventina d’uomini, in permesso ordinario.
— Nessun ufficiale?
— Due guardiamarina e un sottotenente di vascello....
— Chi è?
— Suo figlio.
Carleoni tacque un poco. L’espressione già grave del maschio viso incorniciato dai capelli grigi e dalla barba candida, sulla quale spiccavano i folti baffi ancora del colore dell’oro, divenne severa.
— Scende troppo spesso a terra, quel ragazzo.
— M’aveva chiesto il permesso fino da ieri; non credetti di negarglielo.
— Lei sa che non deve accordargli nessuna preferenza, che è mio vivo desiderio di vederlo trattato come tutti i suoi compagni.
— Non gli ho accordato preferenze, comandante! Mi disse che aveva un impegno; era franco di servizio....
Dopo un’altra pausa Carleoni riprese, rapidamente, quasi per guadagnare il tempo perduto nella parentesi:
— Richiami tutta la gente a bordo. Senta il capitano medico se quei due infermi gravi sono da sbarcare. Avverta le mense che si provvedano di viveri freschi per una settimana, ed anche più.... — Parve cercare nella memoria altre cose; poi, movendo un passo verso il secondo, con voce più riposata, con tono di confidenza amichevole: — Del resto, — soggiunse, — non ho bisogno di spiegarle altro. Lei sa quel che deve fare. Appena la macchina sarà pronta si partirà.... Andiamo al Marocco. Pare che la feccia della popolazione tangerina, in uno scoppio di fanatismo religioso, abbia fatto strage di Europei. Il Consolato italiano sarebbe invaso e saccheggiato.... Ci toccherà probabilmente di menar le mani.... — Si stropicciò le sue, che erano belle e bianche, poi disse: — Mi mandi l’ufficiale di rotta e il commissario.
Alla nuova chiamata, agli ordini impartiti in macchina, alla formazione della comandata per l’imbarco dei viveri, un senso di curiosità cominciò a diffondersi tra l’equipaggio, e crebbe, fino all’inquietudine, quando l’ufficiale di guardia, sulla plancia, dopo avere ordinato al personale di timoneria d’invergare la bandiera di partenza e al capo cannoniere di caricare un pezzo in salva, ordinò:
— A riva il segnale!... Fuoco!...
La bandiera azzurra col dado bianco salì lentamente in cima all’albero; la cannonata rimbombò, ripetuta dall’eco per la cerchia delle colline.
Da una manica a vento emerse la testa affumicata di un fochista, il quale domandò a un gruppo di marinai confabulanti:
— Neh, ched’è?
— Zitto voi! — ingiunse l’ufficiale. — E voialtri, ai vostri posti!
Ma l’agitazione, repressa in quel punto, si diffuse altrove.
— Che è successo?... Una torpediniera nemica?... Compie gli anni il Re.... Un incendio a terra!... Ma che: si parte!... No, è una finta manovra!... È scoppiata la rivoluzione....
Le notizie più stravaganti s’incrociavano, dette sul serio e da burla, credute ingenuamente o accolte con sorrisi d’incredulità. Le risa dei tenenti di vascello scoppiarono sonore quando uno di essi, De Ricci, avendo domandato di che si trattasse al piantone, un Tarantino famoso per la sua stupidaggine, si udì rispondere: — È partorito un principe!
Giù, frattanto, nella sala del Consiglio, accorsi alla chiamata, il commissario Barresi, e Mietti, l’ufficiale di rotta, aspettavano gli ordini del capo. In piedi, presso la scrivania, col cifrario in mano e molte carte dinanzi, Carleoni dettava telegrammi al segretario.
— Eccomi a loro, — esclamò, quando ebbe finito. — Occorre provvedersi di fondi, Barresi, e specialmente di oro. Quanto ne abbiamo in cassa?
— Poche migliaia di lire, comandante: sei o sette. Se vuol sapere con precisione....
— Prepari subito una richiesta di centomila lire d’oro, e si rechi immediatamente alla Banca d’Italia per ritirarle.... Partiamo alle cinque, — riprese, volgendosi all’ufficiale; — partiamo per le coste marocchine.... Mi porti le carte e i portolani per stabilire le rotte.
Su, in coperta, gli ordini s’incrociavano, gruppi di marinai correvano da un capo all’altro, in mezzo al frastuono dei congegni messi in azione. I cannonieri rizzavano le artiglierie, altri uomini le forge, i banchi, tutto ciò che non era fissato alla nave; gli argani cigolavano, a prora, recuperando la catena dell’áncora fino a lasciarla a picco lungo; i fumaioli già eruttavano fumo misto a faville, e il fumo si disegnava nero e denso sulle volute delle nuvole emergenti dal mare di libeccio come foschi vapori di un vasto incendio lontano.
— Il barometro è basso, — fece osservare Barbarini al primo medico; — non avremo una comoda traversata. Dice il comandante se credi di sbarcare i due ammalati?
— Uno soltanto, il timoniere. L’altro va meglio.
Mentre l’infermo, pallido, esangue, era portato su, nella barella, i primi gruppi degli sbarcati ritornavano a bordo; poco dopo giunsero insieme i due guardiamarina. Una barca da nolo portò un altro fattorino del telegrafo con un espresso: un piego del ministero degli Esteri. Barbarini, dopo averlo mandato al comandante, vedendo che il suo figliuolo tardava a tornare, e concependone qualche inquietudine, fece chiamare il sottotenente di vascello Marco Roccaforte.
— Lei è molto amico di Luigi Carleoni: sa dove si potrebbe trovare, a quest’ora?
— Non so, comandante.... Forse.... — Parve che il giovane volesse dire qualche cosa; poi, come non potendo o non volendo spiegarsi, ripetè: — Non so davvero.... Potrei domandarne all’attendente.
— Sì, vada; e lo spedisca a terra, se occorre.
II.
Roccaforte sapeva.
Aveva dapprima intuíto il secreto dell’amico suo, convivendo tutti i giorni e tutte le ore con lui; poi ne aveva ricevuto le confidenze. Più volte, con la reputazione di essere esperto nelle cose del cuore, i suoi amici e camerati gli si erano aperti come ad un confessore; nessuno lo aveva mai tanto turbato quanto Luigi. Effetto, senza dubbio, del gran bene che gli voleva; ma anche un indifferente sarebbe rimasto impressionato dallo spettacolo di quella passione. Innamorato come un fanciullo e come un pazzo, non una volta Luigi gli aveva parlato dell’amor suo senza piangere. Aveva pianto di gioia e di dolore, di tenerezza e di rabbia, di speranza e di disperazione, secondo che il contegno della donna amata, i suoi atteggiamenti e le sue parole erano stati dolci o severi, freddi o incoraggianti. Luccicanti di lacrime e ardenti di febbre, gli occhi del giovane avevano impetrato dal compagno, dal fratello d’armi, consiglio nei dubbî, conforto negli accasciamenti, partecipazione alle esultanze. Gelosie cieche, collere bieche lo avevano róso, vedendo circondata, ammirata, desiderata da altri la prediletta, credendola infinta, giudicandola capace di prendersi giuoco di lui; poi, ad un biglietto cortese, ad un invito, ad un sorriso, il paradiso; poi ancora, all’idea di dover presto o tardi partire, di non poter vivere sempre nel cerchio dell’ombra sua, l’inferno.
Vani i tentativi di moderare quella gran fiamma, inascoltati i consigli, inefficaci i conforti. «Vincerai! Amore a nullo amato amar perdona!...» gli aveva detto, nel vederlo disperato, smarrito, perduto; ma sorrisi amari avevano accolto le assicurazioni. «Fingi d’allontanarti! Ingelosiscila!...» gli aveva suggerito; ma si era sentito rispondere: «Non posso!» E sempre un dubbio ansioso, e sempre un’avida domanda: «Mi ama? Mi ama?... È amore? È capriccio?...»
Come rispondergli? Roccaforte non conosceva quella donna se non dalle stesse confessioni dello spasimante. Sapeva, per averla vista a bordo, durante una festa, che era molto desiderabile: alta, di forme ben modellate, bella nel viso, non della semplice e spesso fredda bellezza che è data dalla perfezione delle linee, ma di quella che consiste nella loro capricciosa vaghezza, nella profondità della loro espressione. Gli era noto ancora che viveva divisa dal marito, che non aveva figli, che possedeva uno spirito molto vivace; ma come giudicarne l’anima? Certo, il suo contegno, la continua vicenda degli allettamenti e delle repulse, poteva giustificare le querele dell’adoratore. Nonostante il fervore dell’adorazione, Luigi l’aveva giudicata tante volte illogica, irragionevole, falsa! Se gli voleva bene davvero, non avrebbe dovuto farlo felice? E se non gliene voleva, non doveva togliergli ogni speranza? Questo diceva la logica, questo voleva la ragione. Sulla ragione e sulla logica, tuttavia, che assegnamento si poteva fare nelle cose del cuore, da parte d’una donna segnatamente? Ma quella vicenda durava da troppo tempo, si prolungava oltre i termini della resistenza che ogni donna, anche libera, anche amante, oppone alle sollecitazioni d’amore. E la sfiducia dell’innamorato, la disperazione di non poter vincere mai poichè non aveva vinto ancora, pareva talvolta tanto fondata, che nessun argomento di speranza restava da opporgli. Era egualmente fondato il sospetto che ella fosse perfida? Che, avendo appagato altre brame, godesse nell’accenderne ancora, freddamente, per soddisfazione di vanità, per compiacimento nel veder soffrire?
Sinceramente, Roccaforte non sapeva che cosa pensare, che cosa augurare all’amico. Forse una grande felicità lo aspettava, ma forse un disinganno atroce. Intanto non era dubbio che per quella donna egli tardava a riprendere il posto del dovere. A quell’ora egli era da lei, o con lei, o in qualunque modo occupato di lei. Bisognava trovarlo, avvertirlo, ingiungergli di accorrere, poichè con tutta probabilità non doveva essersi accorto dei segnali del richiamo.
Come durante altre lunghe soste in altri porti, anche questa volta i due amici avevano affittato insieme un piccolo alloggio in città, il «punto d’appoggio», due camerette dove tenevano gli abiti borghesi, dove ricevevano qualche amico: di lì egli doveva esser passato, lì bisognava cercarlo prima che altrove. All’annunzio della partenza, Roccaforte vi aveva spedito Lisi, il proprio attendente, per far ritirare tutte le cose di loro proprietà e consegnare la chiave al portinaio; ora girava per il ponte di coperta e per quello di batteria in traccia dell’attendente del compagno, ansioso di eseguire l’incarico affidatogli dal comandante in seconda. E appena ebbe scorto il marinaio, sull’uscio del quadrato, lo chiamò, gli fece cenno d’appressarsi.
— Tringale!... Scendi subito a terra! Vai a casa, vai a cercare il tuo padrone!
— Sissignore. Ma se non c’è?
— Se non c’è cercalo altrove. Domandane a Lisi, che è andato da un pezzo laggiù. E non far lo stupido, adesso: tu sai dove trovarlo. Dove ti manda coi libri, coi fiori?
— Sissignore, dalla signora contessa.
— Corri a dirgli che si parte fra un’ora. Digli che torni subito, riconducilo con te: hai capito?
Mentre la barca col marinaio s’allontanava a forza di remi, tornava quella col commissario recante i fondi. Erano le due. Roccaforte aveva esagerato, annunziando che mancava un’ora sola alla partenza; forse non si sarebbe salpato neanche alle cinque; ma il ritardo del compagno lo turbava troppo. Da parecchi giorni, da circa una settimana, Luigi lo impensieriva, non già perchè gli avesse rivelato di attraversare una nuova crisi, di trovarsi ridotto a qualche pericolosa estremità, anzi per non avergli confidato più nulla di nulla. Il preannunzio di una catastrofe non lo avrebbe tanto inquietato quanto quell’insolito silenzio. Perchè l’amico tacesse dopo averlo voluto partecipe di tutta la sua intima vita, qualche cosa di molto grave doveva essere avvenuto o prepararsi. Non taceva soltanto: lo evitava anche, tutto chiuso in sè stesso. Quella nuova condotta, data anche la delicatezza della situazione, era tale che gl’impediva, di prenderlo per la mano e domandargli: «Che cosa avviene?...» Che cosa avveniva, realmente? Egli si perdeva in supposizioni, intuendo un dramma, fremendo all’idea di una tragedia. Quel ragazzo non era capace di ricorrere ai più disperati propositi per sottrarsi a un disinganno, per dare una prova dell’amor suo?... No, via! Esagerazioni! Aveva taciuto non avendo nulla da dire, per non ridire sempre le stesse cose, vergognoso di non aver vinto nè l’amata nè sè stesso. Tardava, ora, a rientrare, per un motivo semplicissimo, forse volgare: perchè non sapeva della partenza, perchè comprava i corpetti dei quali aveva detto che cominciavano a mancargli.... Da un momento all’altro sarebbe sopraggiunto: ecco, non era nella lancia a vapore che tornava alla «Siracusa» fischiando e rimorchiando la bettolina coi sacchi e le botti delle provviste?... Roccaforte corse a prendere il cannocchiale: nella lancia stavano soltanto gli uomini della comandata col guardiamarina che li guidava e il tenente medico che aveva verificato la buona qualità dei viveri.
Pochi minuti dopo sopraggiunse l’altra imbarcazione con Lisi, il suo attendente, che riportava a bordo bauli e cassette e pacchi di libri e di giornali.
— Hai visto il tenente Carleoni?
— Nossignore.
— Non era passato da casa? Non ne domandasti al portinaio?
— Nossignore. Me l’avrebbe detto, se ci fosse stato.
Allora il cuore gli si strinse. Che ne era dell’amico suo, perchè, dopo quattro ore dai segnali, con tanta gente scesa a diffondere la notizia della partenza, nessuno lo avesse visto nè egli facesse saper nulla di sè? A terra tutti dovevano ormai sapere che la «Siracusa» stava per salpare; se egli non accorreva, bisognava credere che non volesse — o non potesse. Che fare? Se neanche l’attendente lo avesse trovato? Andare a cercarlo personalmente, mentre era ancora in tempo?...
— Signor comandante, — disse risolutamente al secondo, che sorvegliava alle gru l’imbarco delle provviste, — il ritardo di Carleoni m’inquieta. Permette che vada a cercarlo io stesso?
— Ha mandato l’attendente?
— Sissignore, ma ho paura che non lo trovi.
Sul viso di Barbarini si lesse una penosa esitazione. Ma prima che ne uscisse, il capo macchinista gli si avvicinò.
— La macchina è pronta. Posso provarla?
— Perbacco! Ha fatto miracoli! — rispose il secondo, guardando l’orologio e sorridendo d’un riso un poco stentato. — Non ha fatto mai così presto!... Ma il comandante ha ordinato oramai che si parta alle cinque. Provi il timone, per ora!...
E rivolto a Roccaforte, dopo aver congedato con un saluto il capo macchinista:
— No, vede: è troppo tardi. Correremmo rischio di perdere anche lei. Speriamo che torni con l’attendente.
Un sott’ufficiale gli si presentò:
— Il signor comandante ha bisogno di parlarle.
Carleoni era ancora alla scrivania, dove aveva studiato le rotte e decifrato l’espresso.
— È il ministro degli Esteri che trasmette istruzioni per gli accordi da prendere con i rappresentanti delle altre nazioni. Mi faccia il piacere di mandare subito al telegrafo questa risposta e questo dispaccio per la mia famiglia. Tutto è in ordine?
— Sono arrivati i viveri. Il commissario è già tornato.
— La gente è rientrata?
— Tutti i marinai sono a bordo; i due guardiamarina anch’essi....
— Mio figlio?
— Ho mandato a chiamarlo.
Il comandante alzò gli occhi all’orologio, senza dir nulla. Dopo un silenzio che al secondo parve molto lungo, proferì:
— Mi avverta, se verrà.... Desidero riceverlo io stesso.
— Vuol passare un guaio! — esclamava tra sè Barbarini, risalendo in coperta. — Bene gli sta!... Questi ragazzi!...
Però, se avesse potuto prevedere un simile abuso, mai più gli avrebbe permesso di scendere. Dall’altra parte, neanche quella partenza a rotta di collo era prevedibile!... Ed egli girava per la tolda, intanto che si alzavano le imbarcazioni, fingendo di ispezionare e di verificare, distribuendo ordini, rimproveri e lodi a destra e a manca, ma per guadagnar tempo, in verità, con l’occhio allo specchio d’acqua fra la nave e la città, aspettando di veder sopraggiungere da un momento all’altro il mancante. Roccaforte guardava anch’egli, dietro il cannocchiale che non aveva più lasciato, e ancora una volta tornò a sperare, scoprendo un’imbarcazione che tornava; poi le braccia gli caddero. L’attendente era solo.
— Non l’hai trovato? Dove sei stato?
— Sono stato all’alloggio; era tutto chiuso, Lisi ha lasciato la chiave....
— Va bene, questo lo so. E poi, dove sei andato?
— Sono stato dalla signora contessa. Era uscita.... Mi dissero d’aver visto il signor tenente in carrozza; ho preso una carrozza anch’io.... Ho chiesto di lui al Campari, al Circolo; ho girato per i Giardini.... — Sottovoce, con aria di mistero, soggiunse: — Il signor tenente aveva affittato un’altra casa, fuori la Barriera alle Colline, una settimana addietro.... Sono stato anche lì, ho bussato quattro o cinque volte, chiamando....
— Non c’era?
— C’era!
— E non l’hai condotto con te?
— M’ha mandato via! M’ha risposto: «Va bene! Ho sentito!...» Gli ho detto che lo aspettavo giù, con la carrozza; m’ha risposto: «Vattene, torna a bordo, sono buono di venire da me!...» Nonostante, ho aspettato un pezzo.... Poi ho avuto paura che si facesse troppo tardi.... Ho lasciato la carrozza al cancello, ne ho presa un’altra....
Ed aperse le braccia.
Barbarini, dall’alto della plancia, vide il gesto. Guardò ancora una volta l’orologio: erano le quattro e quaranta. Volse ancora uno sguardo verso terra. Un’imbarcazione filava verso la nave. Ma era l’ultima rimasta, e riportava il graduato che era andato al telegrafo. Allora il secondo si cacciò con un gesto brusco le mani in tasca e ordinò all’ufficiale di guardia:
— Faccia alzare le scale e rientrare le aste di posta. Faccia battere l’assemblea, prevenendo il commissario.
I comandi risonarono, la tromba squillò. L’equipaggio si raccolse e si schierò tutto in coperta; la voce: «Presente!» si propagò per le file, ripetuta su tutti i toni, con tutti gli accenti, ad ogni nome pronunziato dal commissario, mentre il chiamato gli passava davanti.
In quel punto dalle latebre della nave risonò al portavoce la nuova domanda del capo macchinista:
— Posso provare la macchina?
Barbarini esitava ancora, quando vide il comandante apparire sulla plancia.
— La macchina è pronta?
— Sissignore. Il direttore domanda se può provarla.
— Immediatamente.
Il secondo trasmise l’ordine.
— Ho sentito che si è fatto l’appello, — riprese il capo. — Ci sono tutti?
— Tutti, tranne....
E come Barbarini esitava, imbarazzato, volgendo uno sguardo disperato alla riva, il capo disse, forte, senza guardarlo:
— Il sottotenente di vascello Carleoni non è rientrato?
Non disse: «Mio figlio». E Barbarini rispose, quasi duramente:
— No, comandante.
Domanda e risposta furono scambiate in mezzo a un silenzio profondo; i circostanti restavano immobili, inquieti, intimiditi. A un tratto la sirena squarciò l’aria col suo formidabile strido, un fiato enorme parve esalasse dalle viscere della nave, tutta la sua compagine vibrò, le acque rimosse sfrusciarono al primo giro delle eliche, ribollendo e spandendosi in cerchi di spuma. Lentamente la «Siracusa» si avanzò verso l’àncora. Il rombo della macchina cessò un momento per riprendere subito dopo; ma ora la corazzata indietreggiava, al moto inverso dei propulsori.
Dalle profondità della macchina venne l’annunzio:
— Tutto bene. Siamo pronti.
— Fra dieci minuti la gente al posto di manovra, — ordinò brevemente il capo.
E la notizia si diffuse per tutto l’equipaggio. Il figlio del comandante assente, sul punto d’esser dichiarato disertore! Pochi, i maligni, si compiacevano del caso; la più gran parte dei marinai se ne dolevano, per il rispetto e l’amore che i due Carleoni, comandante e ufficiale, si meritavano.
Cinque minuti prima delle cinque, dopo aver fatto avvertire gli ufficiali che prendessero i loro posti, Barbarini ordinò a quello di guardia:
— Chiami i fischi al centro.
Il primo nostromo diede il segnale, tutti gli altri nocchieri accorsero, e i fischi ordinanti il posto di manovra si levarono, come una scappata di razzi sonori, come i sibili e i gorgheggi d’un’uccelliera. In mezzo a quel concerto la voce dell’uomo di vedetta piovve dall’alto dell’albero:
— Un battello borghese dirige verso il bordo.
Roccaforte lo aveva già avvistato. E finalmente il suo incubo si dissipava, egli traeva ora liberamente il respiro riconoscendo Luigi Carleoni nell’alta figura ritta a poppa della barca che due vogatori facevano volare sulle acque, remando furiosamente, sollevandosi e rovesciandosi sulla panchetta ad ogni colpo di remo. Si vedeva il giovane curvato verso gli uomini, incitarli con energici gesti del braccio, abbassarsi ad afferrare il timone, in prossimità della «Siracusa», per manovrare in modo che il battello restasse coperto dalla poppa della nave; ma allora Roccaforte, coi cenni, gli significò che non sperasse di rientrare inosservato, e perchè non s’arrampicasse da una delle scalette di combattimento, gli gettò una biscaglina.
Quando il giovane apparve dalla murata e la scavalcò, era rosso in viso, confuso ed ansante. Teneva nella sinistra un mazzolino di violette. Dovevano stargli molto a cuore se neanche la ginnastica necessaria per montar su lo aveva deciso a sbarazzarsene. Due file di marinai, con gli ufficiali alla testa, gli si aprivano dinanzi; in fondo stava il comandante, suo padre.
— Venga avanti, — disse questi, con le mani in tasca e guardandolo fiso.
Nascosti i fiori in una delle tasche del cappottino, Luigi Carleoni si avanzò; giunto a qualche passo dal padre si fermò sull’«attenti», portando la destra alla visiera.
— Ha sentito il segnale della partenza?
— Sissignore, — rispose con voce che voleva esser franca e tentando di sostenere il freddo sguardo del capo.
— A che ora l’ha sentito?
— Alle undici e un quarto.
— È stato anche avvertito a voce, mi pare?
— Sissignore.
— A che ora?
— Alle tre.
— Le faccio osservare che sono le cinque passate. Si costituisca agli arresti in attesa di provvedimenti.
E si voltò dall’altra parte.
Gli astanti non fiatavano, come se la punizione fosse piombata su tutti loro. Il giovane rinnovò il saluto alle spalle del padre e corse a prora, al suo posto di manovra.
Tutti i gabbieri erano sul castello, un timoniere stava accanto all’asta della bandieruola, pronto ad ammainarla. L’argano e i verricelli già stridevano e sbuffavano; la tensione della catena dell’áncora, nello sforzo di svellere il ferreo dente dal fondo delle acque, era violento; pareva a tratti, ad uno scatto, che qualche ingranaggio si fosse spezzato; poi lo stridore, il cigolio, i soffî riprendevano, più forti, e la nave s’avanzava di qualche passo.
— L’áncora è a picco! — gridò il secondo, dal castello, rivolto al comandante.
— Viri a lasciare! — rispose la voce del capo.
Altri ordini, brevi, concitati, per recuperare catena; dopo un nuovo sforzo risonò finalmente l’annunzio:
— L’áncora ha lasciato.
Il timoniere, pronto a levar volta alla ságola della bandieruola, guardava il sottotenente di vascello Carleoni, aspettandone, quasi sollecitandone l’ordine; ma il giovane pareva assorto nell’esaminare, oltre la battagliola, l’áncora fangosa pendente lungo il fianco della nave, i cerchi concentrici che gli spruzzi del fango disegnavano cadendo sulle acque morte.
— Carleoni! — chiamò forte e brusco il secondo. — Guardi un po’ se il tirante è libero e ben guarnito.
Il giovane, riscuotendosi, incontrò finalmente lo sguardo del timoniere: ad un cenno la bandieruola fu ammainata.
E ancora una volta, all’ordine di: «Avanti, adagissimo» trasmesso in macchina dal comandante, parve che la nave traesse un profondo sospiro, e un fremito passò per le sue commessure, e un sordo fragore di acque sbattute annunziò che le eliche giravano. La «Siracusa» cominciò ad avanzarsi, mettendo la prora, per via di accostate, fra l’estremità della diga ed il Faro. Giunta l’áncora all’occhio, il nuovo comando volò elettricamente dalla plancia alla macchina: — Avanti, adagio!
Già in franchia, la nave procedeva ora verso la lanterna della Vegliaia, lasciandosi sulla sinistra la spianata dei Cavalleggeri: al primo urto del mare libero cominciò a rollare.
— Faccia rotta per 250 alla normale, — ingiunse il comandante all’ufficiale di guardia. Fissato poi lo sguardo all’orizzonte, soggiunse: — Il tempo non mi piace. Mi avvisi, se peggiorasse; mi partecipi subito qualunque novità. Buona guardia!
Sul castello, traversata l’áncora, il secondo disse anch’egli a Luigi Carleoni:
— Avremo mare, stanotte. Badi di far rizzare le áncore come si deve.
— Non dubiti!
E ad un tratto, come preso da una gran fretta ora che il secondo si allontanava dal castello e che il comandante non stava più sulla plancia, il giovane, già assorto e come assonnato, ordinò al primo nocchiere:
— Nostromo, facciamo presto a passare le rizze in catena!
Il lavoro degli uomini non gli parve sollecito abbastanza.
— Su, svelti, — li spronò; — non v’incantate!
Nè l’operazione era ancor finita, che egli gridò verso la plancia, dove Barbarini parlava con l’ufficiale di guardia:
— Le áncore sono rizzate!
— Faccia rompere le righe!
Il giovane corse alla scala. In quel punto il fischio di «Pronti!» echeggiò all’altra estremità della nave; subito dopo si udì la voce dell’ufficiale di guardia ordinare:
— Ammaina bandiera!
Tutta la gente si scoprì, voltando il capo verso la bandiera nazionale che discendeva, distesa e flagellata dal vento, lungo l’asta. Luigi Carleoni, subitamente fermatosi sul boccaporto, restò col berretto in mano più che tutti gli altri, guardando verso la poppa, verso la terra svanente nell’ombra del rapido crespuscolo.
III.
Le precauzioni non erano soverchie. Al largo il mare prendeva di fianco la «Siracusa»; il vento andava sempre più rinfrescando. Sospinti dalla libecciata i nuvoloni si rincorrevano, sovrapponevano i loro enormi profili, addensavano prima dell’ora le tenebre.
Prevedendo che si dovesse fra poco ballare, Roccaforte, direttore di mensa, andò a chiedere consiglio al secondo sull’opportunità di anticipare il pranzo. Barbarini approvò, e il giovane disse al maestro di casa:
— Fra un quarto d’ora farete battere la mensa.
Scese giù in quadrato per cambiarsi, e quando fu pronto picchiò all’uscio della cabina di Luigi.
— Avanti!
L’amico era intento a disfare il mazzolino delle violette ed a riporre i fiori sciolti dentro una busta grande e forte, una busta da fotografi, per ritratti.
— Non vieni a tavola?
— È ora?
I suoni della tromba: «Mensa ufficiali!» risposero per Roccaforte.
— Eccomi!
Cacciò la busta coi fiori sotto il guanciale, e si rivoltò. Ogni traccia dell’imbarazzo e della confusione, cui era stato in preda arrivando a bordo, era sparita. Il suo spirito non pareva più assente come poco innanzi. Sul bellissimo viso fresco e roseo, sulle labbra ornate dei baffetti biondi, negli occhi azzurri sotto il grande arco dei sopraccigli, un sorriso beato, un’espressione d’estatica gioia.
— Marco! Marco! Marco!
Sentendosi afferrato per un braccio così forte da provarne dolore, Roccaforte esclamò:
— Ohè! Che ti piglia?
— Marco, la vita è bella! Sono felice!
Tante volte aveva pronunziato simili parole subito dopo contraddette, che il suo compagno non ne fece caso. Si stupì un poco, ma gradevolmente, nel vedere che la partenza, quella separazione fino a pochi giorni innanzi temuta più che la morte, non contristava per nulla l’innamorato.
— Va bene! I miei complimenti! Ma potevi tornare mezz’ora prima, che diamine!
— Non potevo! Non sai!
Dopo aver lasciato il braccio dell’amico, glieli afferrò tutti e due, con più forza, e mentre i muscoli s’irrigidivano e lo sguardo sfavillava, la voce balbettava:
— Se sapessi! Questa partenza, il mio terrore, senza questa partenza improvvisa spasimerei ancora.... Tutto era stato invano, fino all’ultima ora, fino all’ultimo istante.... M’avrebbero dichiarato disertore? Che importava!... M’importava, sì, per il mio povero babbo; ma mi sarei ucciso. Tanto, non potevo durare più a lungo in quello spasimo.... Non me ne importa di morire, neanche ora, sai!... Venga la morte, ora!... Ma per un’altra ragione: perchè la vita m’ha dato tutto ciò che poteva darmi; perchè nulla, mai, nessun altro giorno simile a questo sorgerà mai più per me....
Un fiume di parole roventi, mal connesse; fremiti nelle mani abbarbicate alle braccia dell’amico, lampi negli occhi gonfî di lacrime.
Roccaforte, con voce d’indulgenza quasi paterna, disse:
— Fanciullo, va’!
In fondo al suo cuore, ma proprio in fondo in fondo, sottile, sordo, indistinto, un senso d’invidia sorgeva, allo spettacolo di quella felicità. Nonostante la fraterna amicizia che lo legava a Luigi, si sentiva un poco umiliato, quasi offeso da quel trionfo. Aveva sempre desiderato all’amico tutte le fortune, sinceramente; riconosceva che l’anima ardente in quel corpo apollineo le meritava; che l’amor suo veemente ed ingenuo doveva essere ripagato, se c’era giustizia; ma sentiva che lo sfoggio della sua gioia era quasi insolente.
— Che abissi, in quel cuore!... — continuava l’estatico. — Ed io ne dubitai!... Perchè non sapevo misurarne la profondità! Perchè non potevo comprenderne le complicazioni.... Sono qui per lei!... Se non avesse voluto, se non m’avesse sospinto!... Non mi credeva, finchè m’ebbe vicino; non credette alla partenza finchè non udì che mi chiamavano.... Dopo avermi sempre respinto mentre le stavo dappresso, ha voluto legarmi a sè per la vita nel punto che la vita ci ha separati.
C’era un ritmo nelle sue parole, una specie di canto nella sua voce. Roccaforte sorrideva tra sè d’un sorriso un poco amaro, ripensando alle ore trascorse nell’ansia, con la paura d’una catastrofe. Ora gli pareva che la sua paura fosse stata fuori d’ogni proposito, sciocca addirittura. Si sentiva un poco ridicolo per aver trepidato, mentre sarebbe stato tanto facile prevedere le ragioni dell’indugio! E il morso della secreta invidia diveniva più acuto; e come Luigi, inesauribile, riprendeva:
— La mia logica e la tua sono bambine presuntuose e ignoranti di fronte al suo sentimento. Volevo che cedesse, se mi amava; che mi respingesse, se non le importava di me. Sai che cosa m’ha risposto, quando le ho proposto il dilemma?
— Andiamo a pranzo, per ora! — lo interruppe quasi bruscamente. — Mi narrerai dopo.
E s’avviò per il corridoio verso la sala della mensa. La nave rollava e beccheggiava fortemente; nella foschia, appena rotta per una breve cerchia dalle luci di bordo, si vedevano le acque avvallarsi e sollevarsi in pieghe larghe che trascorrevano da prora a poppa gonfiandosi e coronandosi di creste di spuma.
— Avremo da stare allegri, doppiato il capo Corso! — esclamò ancora Roccaforte.
Non udendo il passo dell’amico dietro di sè, si fermò, rivoltandosi. Luigi, addossato alla paratia, guardava anch’egli il mare di poppa, fiso, come abbacinato.
— Vieni, o vuoi restar lì?
Dapprima il giovane non rispose, quasi non avesse udito, quasi porgendo l’orecchio a qualche suono lontano; poi disse:
— Il suo dolce paese di Toscana è laggiù, oltre quell’abisso.... Quando la rivedrò?...
Senza risposta, sapendo d’aver fatto a sè stesso la domanda, riprese:
— Senti, Marco.... Sai che penso?... Quando vedi un mare come questo, non pensi alla morte che ci sovrasta?
— Che ti salta, adesso?
— Questa potrebbe essere l’ultima nostra notte.... Ed io....
Si frugò con la destra nel petto, sotto la camicia, e trasse qualche cosa che, a distanza, nell’oscurità, Roccaforte non distinse. Vedutolo chinare il capo per baciare l’oggetto raccolto nel cavo delle due mani, gli si appressò, sentendo sciogliersi il rancore di poco innanzi in un moto di simpatia. Il giovane teneva ancora le labbra religiosamente accostate ad una crocettina d’oro pendente da una sottilissima catenella.
— Se questa dovesse essere l’ultima nostra notte, ho la croce che si è tolta dal seno per me.... Senza questo viatico non avrei trovato la forza di lasciarla.... Ma vorrei ancora.... — A voce più bassa, dopo una pausa, compì il suo pensiero: — Vorrei portarmi la sua immagine e i suoi fiori con me....
— A tavola, matto!
Il pranzo fu servito rapidamente. I più avevano poca voglia di mangiare, col capo aggravato dal forte tangheggiare. Di momento in momento, crescendo la furia del vento, il mare cresceva; si udivano ora le ondate battere con colpi secchi, come d’ariete, contro i fianchi della nave. Roccaforte, assaggiando appena i cibi, vedeva che l’amico suo faceva loro grande onore.
— M’accorgo con piacere che le commozioni non ti tolgono l’appetito.... Su, da bravo: un’altra fetta d’arrosto.
Il giovane sorrise con tutti i trentadue bianchissimi denti. Porgendo l’orecchio alla conversazione impegnatasi a capo della tavola fra il comandante in seconda e gli ufficiali a lui più prossimi, intorno alla missione della «Siracusa», domandò:
— Si va al Marocco?... Si sbarcherà?
— Pare. Non lo sapevi?
— No. Uno scritturale della Capitaneria, al porto, m’accennò.... Non compresi, con l’ansia di arrivare in tempo. Siamo fortunati, Marco! Uno sbarco, le cannonate sul serio, l’occasione di cogliere una fronda d’alloro!... Pensa quanti navigano da tanti anni, stupidamente, senza che un raggio di gloria....
— Ci credi alla gloria, tu?
— Sì, ci credo!... Credo a tante cose, ora; credo a tutte le cose belle, buone, nobili, grandi....
Erano un poco isolati dai compagni, all’estremità della tavola, di là dai posti vuoti degli ufficiali di servizio. Lembi di frasi, nello scroscio del mare, nell’acciottolio delle stoviglie, nel tintinnio dei metalli e dei cristalli, venivano dall’altro capo della mensa: «Una lezione a quei barbari.... Questo tempo ci farà ritardare.... Francesi ed Inglesi saranno già sul posto....»
— Pensa, Marco, — riprese il giovane, — che noi andiamo a far rispettare la nostra bella bandiera, le ragioni della civiltà, i diritti dell’umanità....
— Taratatà! — interruppe Roccaforte, con un sorriso tinto d’ironia. Per un ritorno d’amarezza, per un bisogno di contraddizione, esclamò: — Alla grazia della civiltà imposta con le cannonate!
— Ma se ci aggrediscono, dobbiamo difenderci! — protestò Luigi, fervidamente. — La guerra non è finita, nel mondo, con tutto l’amore che lo governa! La vita non è semplice, il cielo non è sempre d’un colore. Vi sono albe radiose e tramonti insanguinati. Un marinaio dovrebbe sapere che le calme si alternano con le tempeste!
— Ma allora non parlare di civiltà, per l’amor di Dio! Parla dei diritti del più forte, e saremo d’accordo.
— I più forti sono anche i più degni.... o i meno indegni, se preferisci! Pensa alla somma d’ingegno, di studio, d’amore che rappresenta questa nostra bella «Siracusa», la metallica selva delle macchine, dei motori, delle artiglierie! Questa nostra forza che pare bruta ha un’anima, è l’espressione della nostra forza intellettuale e morale.... Se è giunto il momento di adoperarla, adoperiamola, senza iattanza, ma con la coscienza di compiere un dovere.... Se agli occhi della somma Giustizia siamo in errore, il nostro errore ci sarà rimesso, perchè andiamo a pagarlo con la vita.
Ancora una volta le parole dell’inebbriato significavano un pensiero di morte.
— Speriamo, — osservò Roccaforte, — che non abbiano proprio bisogno della nostra, pelle, laggiù. Il marocchino abbonda sul mercato!...
Al bisticcio, Luigi diede in un argentino scroscio di risa. Come dall’esaltazione sentimentale era passato all’entusiasmo eroico, ora passava ad una ilarità schietta, ingenua, quasi infantile. Tutta l’anima sua si rivelava, si abbandonava, nell’incantamento.
— Ma sai che cosa penso? — riprese Roccaforte. — Che tutti questi bei discorsi dovrebbe udirli tuo padre, per rabbonirsi. Aveva una faccia, quando t’ha interrogato e punito!...
— Povero babbo mio! Mi vuol bene, sai! Quanto bene mi vuole! Si crede però in dovere d’esser più severo con me che non con gli altri; ed ha ragione, e gliene sono grato. Ma come fargli comprendere?...
— Bada che qualche cosa deve pur sospettare!
— Già, e perciò è tanto più burbero. Probabilmente crederà che io corra alla perdizione. Non sa, non può sapere, nessuno saprà mai, io non riuscirò mai a significare....
Tacque a un tratto, vedendo un graduato entrare col berretto in mano ed avanzarsi verso il comandante in seconda.
— Avanti, Maroni! — disse Barbarini volgendosi verso il nuovo venuto, e piegando poi il capo a udire qualche cosa che costui, giuntogli vicino, gli diceva all’orecchio.
— Va bene. Va bene.
Posato il tovagliuolo, si alzò, e fece col capo e con la mano un cenno a Carleoni.
Il giovane sorse in piedi e gli si accostò.
— Comandi!
— Favorisca di venire con me.
Anche gli altri si alzarono, tutti andarono a vedere che cosa avveniva.
IV.
Era difficile mantenersi in equilibrio, sulla coperta: il ponte mancava sotto i piedi, e la raffica urlante fra le soprastrutture faceva impeto contro le persone. I due ufficiali, curvi per resistere alla furia del vento, spruzzati dalla spuma che volava per il ponte, si diressero a prora. Giunti in prossimità della plancia, Barbarini disse al subordinato:
— Vada sul castello. Pare che le rizze abbiano ceduto. Se ne assicuri e provveda.
E salì sul palco del comando.
Luigi Carleoni, corso al castello, vi trovò una dozzina di gabbieri già raccolti dal primo nostromo e intenti a rivestirsi dei cappotti impermeabili. Col crescere del mare le áncore avevano cominciato a soffrire, infatti: il comandante, avvertito dall’ufficiale di guardia, aveva lasciato la sua mensa solitaria, e dalla plancia, mandato a chiamare il secondo, aveva impartito le prime disposizioni.
— Passiamo le rizze in cavo al ceppo ed alle marre! — ordinò il giovane, dopo aver indossato anch’egli un impermeabile. — Qua un paranchetto: incocciatelo a quel golfare....
Gli uomini eseguivano gli ordini quando sopravvenne il secondo.
— Ma in che modo furono fissate queste rizze? — osservò con voce irritata. — Mi pare che oggi lei abbia la testa altrove, Carleoni! Eccoci ora costretti a lavorare con questa razza di tempo!
Il rimproverato non rispose, dando mano a snodare le cime.
Di lassù la gravità della procella riusciva più manifesta. La libecciata investiva furiosamente la «Siracusa»: agli assalti degli enormi marosi la sua prora non tagliava più le acque, si abbassava e rialzava, come impennata; poi, ritirandosi il mare e scavandosi dinanzi alla nave, questa pareva scivolare per la liquida china; ma l’orlo della voragine si rialzava, si rigonfiava, si rovesciava sul castello con un crepitio di cristalli infranti, scorrendo sulla coperta, lanciando gli estremi spruzzi fino sulla plancia. Fermo nel centro del castello, con gli occhi al mare ed agli uomini, Barbarini gridava a Carleoni, al sorgere minaccioso d’ogni nuova cresta spumeggiante:
— Attenzione!... Faccia attenzione per la gente!...
— Agguantatevi! — gridava a sua volta il giovane, e l’operazione restava un momento sospesa, i corpi dei marinai si curvavano, sparivano, incappellati dall’ondata, per rialzarsi poco dopo. Allora il lavoro era ripreso con nuova lena. Snodate come lunghe e nere serpi, le rizze in cavo erano passate e ripassate attorno alle áncore, tesate a ferro ed assicurate alle bitte.
— Da bravi, ragazzi! — esclamava Carleoni, incorando i suoi uomini, lavorando con essi. — Fazio, agguántati bene, e passa questa cima sotto la marra....
Egli stesso si sporse fuori bordo per ricevere il cavo che il gabbiere gli tendeva da sotto l’áncora. Con lo zelo di uno che ha qualche cosa da farsi perdonare, diede anche mano a tesare i paranchi, esponendosi più del bisogno, quasi sfidando il pericolo.
Ma di momento in momento il lavoro riusciva più difficile; la furia del mare era spaventosa, sul gran lividore delle acque correvano, come bagliori fosforici, le spume squassate e dissolte in nembi di pulviscolo; la prora s’affondava più basso, le masse d’acqua franavano da più alto. Ora anche dalla plancia venivano i gridi d’avvertimento lanciati col portavoce dall’ufficiale di guardia:
— Attenti a prora!... Attenti a prora!...
La voce del capo echeggiò a un tratto, concitata:
— Cerchi di sollecitare, Barbarini!... Non mi piace di veder lì quella gente!... Faccia sgombrare presto il castello!...
E Barbarini, accostandosi agli uomini, ripetè:
— Su, Carleoni.... Carleoni, dov’è?...
Nel gruppo degli uomini uniformemente incappottati, coi cappucci abbassati, non si riconosceva nessuno.
— Eccomi, comandante....
— Ha sentito?... Si sbrighi!...
— Ancora un momento, e avremo finito.... Animo, figliuoli.... Lavoriamo di lena!... — Sottovoce, ai più vicini, con aria gioconda, soggiunse: — Anche sulla plancia c’è cattivo tempo, stanotte!... Sbrighiamoci, e vi manderò una bottiglia!...
Ma subito dopo, dal portavoce, un grido:
— Statevi in guardia!... Agguantatevi forte, per Dio!
Un colpo di mare formidabile, un’enorme muraglia d’acqua s’innalzò dal tagliamare, rovinò sul castello con l’impeto e lo scroscio d’una valanga. La prora parve inabissata, la nave tagliata a metà. E nel fragore della tempesta il lugubre grido della vedetta piombò dall’alto dell’albero:
— Un uomo in mare!
Risollevandosi la prora si videro sul castello gruppi di marinai carponi, afferrati alle bitte, alle áncore, ai candelieri della battagliola; si udì la voce del comandante in seconda ordinare:
— Tutti via dal castello!... Alla lancia di salvataggio!...
Il rombo della macchina era cessato, come se la nave fosse stata ferita al cuore; dopo un istante riprese, più cupo, più sordo, coperto dall’ululo della sirena. Le eliche battevano le acque in senso inverso per vincere l’abbrivo, per arrestare la corsa, per tornare nel punto del sinistro. Fasci di luce, dai riflettori improvvisamente accesi, ruppero la notte rischiarando l’orrore. Sul ponte luccicante nere ombre correvano, le vedette predesignate salivano a riva, ufficiali e marinai lanciavano oltre il bordo i salvagente. Da poppa era stato gettato anche quello luminoso, e al contatto dell’acqua un anello di fuoco si era acceso e fumigava sulle onde. Senza ordini, al grido tremendo, la guardia di servizio prendeva i posti assegnati, tutti compivano il loro ufficio, addestrati alla lugubre manovra dall’esercizio quotidiano.
Sulla plancia il comandante aveva detto all’ufficiale di guardia:
— Assumo il comando. Chiami la guardia franca.
E giù, nel ponte di batteria, al grido: «Tutti in coperta!» i dormienti si destavano, saltavano dalle brande, si vestivano alla meglio, correvano alle scale.
— Arma la lancia di salvataggio!
Già gli uomini dell’armamento, rivestite le cinture di sughero, si erano raccolti intorno al secondo, e un’altra schiera di animosi gli si offeriva:
— Vogliamo andare!... A noi, comandante!...
— Tocca a noi!... Tocca a noi!...
Barbarini fece cessare la gara, esclamando:
— Vadano i destinati!
Poi chiamò:
— Roccaforte!... Dov’è il sottotenente di vascello Roccaforte?...
Il giovane, cui toccava il pericoloso ufficio di comandare la lancia, era corso a prora appena udito il grido della vedetta, cercando Luigi Carleoni; non trovandolo, si era arrampicato sul castello, vi si manteneva quasi carponi, avvolto fra le spume, per spiare oltre il bordo, con la febbre dell’ansia sul viso. Energici richiami, grida di ammonimento lo scossero:
— Roccaforte!... Signor tenente!... Via di lì!... Chi è quell’uomo lassù?...
Allora discese, corse alla lancia, vi saltò dentro con la cintura non ancora affibbiata, immediatamente seguìto da tutti i suoi uomini agili e muti. La leggera imbarcazione restò col suo carico umano sospesa sull’abisso urlante e vorace. Ormai ferma, la nave danzava una più folle danza; il pericolo che il debole guscio fosse sbattuto ed infranto contro il fianco d’acciaio era evidente. Barbarini restava esitante, con lo sguardo fiso e la fronte corrugata.
— La lancia è pronta, — gridò poi, verso il ponte del comando. — Posso ammainarla?
— Ammaina!
Il secondo fece rapidamente interporre i parabordi e ripetè l’ordine. Le pulegge dei paranchi stridettero, la lancia scese lentamente ed egualmente dai due capi. Ma non era giunta a metà della discesa, che ad una rollata più forte imbarcò un torrente d’acqua e die’ di cozzo contro la nave con un urto sordo.
— Agguanta a filare! La gente sotto i banchi, e non si muova!
I paranchi non filarono più.
— La lancia è piena d’acqua! Temo abbia avaria!
— La riporti subito a riva!
Ma la voce di Roccaforte gridò dal pensile schifo, con accento di preghiera:
— Comandante Barbarini!... Facciamo un altro tentativo!...
— No! No!... Non possiamo arrischiare altre vite!...
— Se arriviamo a scendere in mare, rispondo io di tutto!...
Barbarini esitò un istante prima di disdire l’ordine, mentre gli uomini aspettavano con le cime in mano; a un tratto, a un’altra rollata, piegandosi la nave sulla dritta, la lancia vi sbattè violentemente con uno schianto, mentre voci paurose gridavano:
— A riva!... Portateci a riva!...
— Alza! — gridò Barbarini, incitando gli uomini con energici gesti. — La lancia a riva!
Tutte le braccia, dalla murata, fecero forza sulle cime, fino a portare i bozzelli dei paranchi a baciare. Gli uomini erano immollati, con gli abiti aderenti alle membra; la frisata dell’imbarcazione era sfasciata.
— La lancia è a riva, avariata! — partecipò Barbarini al capo.
— L’armamento c’è tutto?
— Tutto.
Roccaforte, prima di saltare a bordo, con voce tremante dalla commozione e dal ribrezzo del freddo, perchè era anche lui grondante, esclamò anche una volta a mani giunte:
— Comandante Barbarini! Ancora una prova!...
— Impossibile! Inutile! A quest’ora il disgraziato è stato travolto!
Allora soltanto, mentre gli uomini dell’armamento scendevano sulla nave, accorati, umiliati, mentre ciascuno riprendeva il suo posto di manovra, corse nel silenzio tragico l’ansiosa domanda mormorata di bocca in bocca:
— Chi è?... Ma chi è?...
Al primo annunzio, nello slancio concorde di tutto l’equipaggio, nel bisogno di volgere tutte le forze all’opera di salvezza, nessuno si era indugiato a chiedere il nome, il grado, l’ufficio del naufrago. Ora tutti volevano sapere, ma nessuno era appagato. Solo Roccaforte, coi pugni chiusi, le mascelle contratte, incontrando lo sguardo febbrile del secondo, disse, senza essere interrogato a parole:
— Sì, comandante: è Carleoni....
Barbarini si prese la fronte tra le mani:
— Come dirlo al padre?
Ma già la voce del capo lo chiamava sulla plancia:
— Comandante Barbarini!
Ed egli accorse, e sulle prime non ebbe bisogno di parlare.
— Vede in quali condizioni ci troviamo? — diceva Carleoni, con voce grave. — Siamo nell’impossibilità di far nulla. E quand’anche, crede lei che il disgraziato si sorregga ancora?
— No, comandante.
— Possiamo arrischiare altre vite, senza speranza? Si sente di ritentare la prova?
— È impossibile.
— Non si può far nulla per quell’infelice. Chi è?
All’improvvisa domanda, Barbarini, avvezzo ai pericoli, rotto alle durezze della disciplina, si sentì stringere la gola.
— Non ho potuto assicurarmene.
Vi fu una pausa; poi il comandante riprese:
— Chi era di servizio alle áncore?
— Suo figlio,
— Egli deve sapere chi abbiamo perduto. Dov’è?
— Non so....
— Lei non era sul castello! Non lo ha visto?
— No.
Il padre tacque ancora un momento; di repente, stringendo con tutte e due le mani la battagliola, tendendo il capo ed il corpo, sporgendosi tutto nel vuoto, gridò:
— Gigio!... Gigio!...
Nessuno rispose. Non una voce, sulla nave inerte, in preda alla tempesta e popolata di ombre; solo lo scroscio del mare ed il clamore del vento. Ancora una volta il padre gridò:
— Gigio!...
Poi, lasciata la battagliola, afferrandosi alle spalle del secondo, figgendogli gli occhi negli occhi:
— Lei sa? — esclamò sordamente.
— Ma no, comandante! Le giuro che non so nulla!... Suo figlio sarà sceso giù.... Vado a cercarlo io stesso....
E sentendosi libero dalla stretta scese rapidamente le scale. Appena voltatosi sul ponte, urtò in qualcuno. Era Versigli, il sottotenente di vascello di guardia in coperta.
— Ha fatto fare l’appello?
— Sissignore. Il nostromo dice che manca il sottotenente Carleoni....
— Silenzio!
Ma un urlo rispose dall’alto. Il padre aveva udito. Barbarini risalì sulla plancia. Vide il padre con le braccia in croce sotto il cielo nero. Lo vide calcarsi il berretto con tutt’e due le mani ed afferrare e dare una stratta alla catena della sirena da cui uscì un ruggìto terribile. Lo vide ancora manovrare la manovella del telegrafo, gridando nel portavoce:
— Avanti, a piccolo moto!
Poi lo udì gettar l’ordine al timoniere:
— A dritta!
Comprese la manovra. Tutti la compresero, a bordo. Tutti cercarono di guadagnare un posto eminente, gruppi di gente salirono lungo gli alberi e sulle coffe, si arrampicarono sul ponte delle barche, si agguantarono alle gru. Tutti gli occhi sbarrati interrogavano il mare, sul quale i fasci luminosi proiettati dai fari elettrici trascorrevano rapidamente come ventagli di luce, lasciando dietro di sè una notte più nera, mentre la nave girava lentamente, ansando e barcollando, mugghiando ed ululando come un mostro ferito. Sulla plancia, Barbarini, l’ufficiale di rotta, l’ufficiale di guardia, spiavano anch’essi se nei gorghi verdi, se fra le creste bianche sorgesse un corpo, apparisse un viso. Nulla. Non si scorgeva nulla sulle reti di spuma distendentisi e dissolventisi incessantemente: solo la bocca di fiamma del salvagente luminoso ardeva ancora, sballottata dalle onde. Stanchi, inquieti, gli occhi degli ufficiali si volgevano tratto tratto al comandante. Le sue mani erano così strettamente afferrate alla battagliola come se la volessero torcere. Le braccia, il capo, tutto il corpo immobile, irrigidito, quasi inchiodato ed avvitato al palco, non aveva moto, non si scoteva, nel terribile altalenare della nave. Tutta la vita di quell’uomo era negli occhi, aridi, ardenti, spalancati sulle voragini.
— La barra a dritta!... A dritta!... Tutta a dritta!...
La «Siracusa» girò una volta, due volte, tre volte intorno al punto dove si era arrestata. Poi nessuno contò più i giri. A un tratto gli ufficiali che attorniavano il capo videro che le sue mani lasciavano la battagliola, che le sue braccia ricadevano lungo il corpo, che tutta la persona vacillava.
— Comandante!
Lo sorressero prima che stramazzasse. Lo afferrarono per le ascelle, lo sollevarono, lo trasportarono quasi di peso fra le schiere degli uomini taciti e reverenti. Inerte, con la testa rovesciata, gli occhi stravolti, non aveva coscienza. Sul boccaporto si riebbe, si raddrizzò, disse:
— Grazie.... Non ho bisogno.... Barbarini, prenda lei il comando.
Il secondo lo accompagnò fino al suo alloggio, lo adagiò sopra un divano, lo affidò a Catenuti e agli attendenti.
— Grazie!... Non ho bisogno....
L’ufficiale di guardia, rimasto al suo posto, aveva fatto fermare la macchina. Barbarini, risalito sulla plancia, ordinò:
— Avanti, adagio!... Timone a sinistra!
Quantunque la furia del mare non si calmasse, e la speranza fosse vana del tutto e irragionevole ormai, il secondo volle ancora indugiarsi in quelle acque, fece riprendere il giro in senso inverso. E la nave girò ancora, urlando, coi suoi mille occhi aperti, fisi, scrutanti. Più volte, sentendo che il tempo passava, Barbarini fu sul punto di abbandonare la ricerca, di gettare un ordine al timoniere; ma sempre la pietà del padre lo tratteneva. A un tratto, da poppa, una voce rauca ma forte e distinta, la voce del capo, gridò fra gli urli degli elementi:
— Rimetta in rotta!... A tutta forza!...
Era la fine, ma bisognava pur finire, troncare la speranza insensata; e toccava al capo ordinare di affrettarsi, per compiere il dovere, per guadagnare le ore perdute. Prima di trasmettere l’ordine, Barbarini, sporgendosi dalla battagliola, chiamò con tutta la sua voce:
— Equipaggio!
Tutti si volsero, tutti accorsero dagli angoli più lontani, tutti stettero a udire che cosa dicesse il comandante in seconda, dall’alto della plancia, col berretto in mano. La voce alta e solenne risonò fra gli schianti del mare e i sibili del vento:
— Equipaggio, scopritevi! Prima di abbandonare queste acque rivolgete un pensiero al compagno che abbiamo perduto.
Tutte le fronti si scopersero e si chinarono, molti ginocchi si piegarono. Si videro mani fare il segno della croce, si udirono i più semplici e rozzi uomini balbettare preghiere e soffocare singhiozzi.
Roccaforte non vedeva più il mare, con gli occhi ciechi dal pianto. Il mare, la nave, gli uomini scomparvero; sorse dinanzi agli occhi dell’anima sua la figura del fratello d’armi, bello, forte, sapiente, innamorato. Tremava ancora l’eco della sua voce e del suo riso, risonavano ancora le sue parole significanti la fede, l’entusiasmo, la carità di patria, la devozione filiale, la gaiezza infantile, l’estasi della passione. E il pensiero della morte, su tutto; il presentimento della morte, quasi la volontà di morire, dopo l’ebbrezza!... Al ricordo, Roccaforte sentì disseccarsi la fonte delle lacrime. No, non bisognava piangerlo. Era morto da marinaio, al posto del dovere, sotto gli occhi del padre, rapito dalla tempesta, nell’ora culminante della gioventù, ardendo d’amore, sognando la gloria, in pieno incanto, prima del risveglio: rara sorte, morte invidiabile. Lo aveva invidiato, sordamente, poche ore innanzi, per la sua fortuna; ma quali disinganni, quali dolori, quali orrori non gli avrebbe serbato la vita? Di questo bisognava invidiarlo: che fosse scomparso nella gran purezza del mare, portandosi via una visione di bellezza ed un senso di felicità!
Dalle viscere della nave venne ancora una volta il sordo rombo della macchina. Repentinamente Roccaforte si scosse, si portò una mano agli occhi, corse alla scala, scese nel quadrato, entrò nella cabina del compagno perduto, si fermò dinanzi alla cuccetta bianca. Il guanciale era ancora spostato, un poco sollevato dal tesoro che il giovane vi aveva nascosto. «E portarmi con me i suoi fiori e la sua immagine!...» Prima di stendere la mano egli esitò un istante, pensando che solo il padre aveva forse diritto di frugare tra quelle reliquie. Ma tosto gli sovvennero le altre parole: «Mio padre non sa, non può sapere; come fargli comprendere?...» E allora trasse risolutamente la busta.
I fiori, un poco gualciti, olezzavano sopra il ritratto, acutamente. Gli occhi dell’immagine erano vivi, sfolgoravano sotto la fronte pura incoronata di fiamme. Le linee delle due bande in cui si spartiva la chioma meravigliosa guizzavano come fiamme ripiegate sulle tempie da un soffio misterioso, parevano i segni visibili di un intimo fuoco. Tutto il viso era meraviglioso di bellezza, di espressione profonda, di vita intensa ed ardente.
Ad un fischio, Roccaforte si riscosse, nascose i fiori ed il ritratto sotto la tunica e risalì rapidamente. Passando dinanzi all’alloggio del padre sostò, ripreso da uno scrupolo.
— Il comandante? — disse al piantone, che stava nell’anticamera, ritto contro l’uscio della sala del Consiglio, con le braccia incrociate sul petto.
Il marinaio scosse il capo ed alzò una mano, facendo i segni della negazione e del silenzio. Sottovoce, da farsi appena udire, rispose:
— È chiuso a chiave.... Non riceve nessuno.... Ha mandato via il medico....
Roccaforte continuò la sua via, salì sulla coperta, si diresse a poppa, si fermò contro il coronamento. La schiuma delle acque ribollenti fra le pale delle eliche si mescolava alla schiuma dei marosi. Il fragore delle acque rimosse dai propulsori cessava a tratti, quando la poppa si sollevava nel movimento di beccheggio e le eliche annaspavano nel vuoto; pareva allora che il polso della nave non battesse più, che il suo respiro fosse mozzato; poi riprendeva, affannoso, come un rantolo. Roccaforte trasse le reliquie e le lanciò nel mare. In quel punto i riflettori si spensero; la notte si chiuse sulla nave fuggente.
fine.