L'Universo Misterioso/Capitolo V
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Capitolo V
NELLE ACQUE PROFONDE
Le rappresentazioni della prima specie ci danno la radiazione. Ogni radiazione si propaga con la velocità costante di 186.000 miglia al secondo. Se il treno in fig. 2 (pag. 138) ha mantenuto una velocità costante d’un miglio al secondo, il suo moto sarà rappresentato da una linea perfettamente retta, inclinata di 45° sulla verticale. Una successione di treni tutti moventisi uniformemente con velocità d’un miglio al secondo sarà rappresentata da una quantità di linee tutte parallele a questa. Adesso cambiano la nostra velocità da un miglio al secondo a 186.000 miglia al secondo e sostituiamo la direzione da Londra a Plymouth con tutte le direzioni nello spazio. Il diagramma a pag. 138 adesso è sostituito da un continuo a quattro dimensioni, e la radiazione è rappresentata da una serie di linee, facenti tutte lo stesso angolo (45°) con la direzione del tempo.
Le rappresentazioni della seconda specie ci danno la materia. Questa si muove per lo spazio con ogni sorta di velocità, ma tutte le velocità sono piccole in confronto con la velocità della luce. In una prima grossolana approssimazione, noi possiamo riguardare la materia in riposo nello spazio, e procedente solo nel tempo, così che il segno che la rappresenta, si estende nella direzione positiva del tempo, nella stessa maniera che, se il treno, la cui corsa è rappresentata nella fig. 2, si fosse fermato a una stazione, la sua fermata sarebbe rappresentata da un tratto di linea verticale.
Il segno che rappresenta la materia tende a ingrossarsi, formando linee larghe sulla superficie della bolla di sapone, come larghe strisce di colore su di una tela.
Questo è la ragione per cui la materia dell’universo tende ad aggregarsi in larghe masse — stelle ed altri corpi astronomici. Queste bande o strisce sono conosciute con il nome di «linee universo»; la linea universo del sole ci dà la posizione del sole nello spazio per ogni istante di tempo. Noi possiamo rappresentare questo in un diagramma come quello della fig. 3. Fig. 3. - Diagramma per illustrare il moto del Sole e la sua radiazione nello spazio e nel tempo (cf. fig. 2).
Come un cavo telegrafico è formato da un gran numero di fili fini, così la linea universo d’un corpo grande come il sole è formato da innumerevoli linee universo più piccole: le linee universo degli atomi separati, di cui il sole è composto. Qua e là questi tenui fili entrano nel cavo principale, o l’abbandonano, quando un atomo è incorporato o proiettato fuori dal sole.
Noi possiamo pensare la superficie della bolla di sapone come un arazzo i cui fili sono le linee universo degli atomi.
In quanto gli atomi sono permanenti e indistruttibili, questi fili — linee universo degli atomi — traversano tutto il piano del disegno nella direzione progressiva del tempo. Ma se gli atomi sono annientati, il filo finisce improvvisamente, e fiocchi di linee universo di radiazione si dipartono dalle loro estremità rotte. E se noi ci muoviamo in avanti con il tempo lungo l’arazzo, i suoi vari fili si intrecciano nello spazio e così cambiano la loro posizione relativa. Il telaio è disposto così che essi sono costretti ad uniformarsi a leggi determinate che noi chiamiamo «leggi di natura».
La linea universo della Terra è un cavo più piccolo, fatto di vari cordoncini: questi rappresentano le montagne, gli alberi, gli aereoplani, i corpi umani e così via, il cui insieme costituisce la Terra. Un filo che rappresenti un corpo umano non differisce per nessuna caratteristica essenziale dagli altri fili. Esso si intreccia relativamente agli altri fili, meno liberamente che un aereoplano, ma più liberamente che un albero. Come gli alberi, esso comincia da una piccola cosa e cresce per assorbimento continuo d’altri atomi dall’esterno, che sono il suo nutrimento. Gli atomi di cui esso è formato non differiscono essenzialmente dagli altri atomi; atomi esattamente simili entrano nella composizione di montagne, aereoplani e alberi.
Tuttavia i fili che rappresentano gli atomi d’un corpo umano hanno una capacità speciale di trasmettere impressioni per mezzo dei nostri sensi alle nostre menti. Questi atomi colpiscono la nostra coscienza direttamente, mentre tutti gli altri atomi dell’universo agiscono su di essa indirettamente, attraverso l’intermediario di questi atomi. Noi possiamo il più semplicemente possibile interpretare la nostra coscienza come qualcosa che risieda interamente al di fuori della rappresentazione, e prenda contatto con essa solamente lungo le linee universo dei nostri corpi.
La vostra coscienza percepisce il quadro attraverso le vostre linee universo, la mia lungo la mia linea universo, e così via.
L’effetto prodotto da questo contatto corrisponde da prima ad un passaggio di tempo; noi ci sentiamo come trascinati lungo una linea universo, quasi per aver esperienza dei vari punti su di lei, che rappresentano i nostri stati, in differenti istanti di tempo.
Può essere che il tempo, dal suo cominciamento alla fine dell’eternità, si distenda di fronte a noi nel quadro, ma noi siamo in contatto solo con un istante, proprio come la ruota della bicicletta che è in contatto solamente con un punto della strada. Allora, come Weil afferma, gli eventi non si succedono; noi semplicemente andiamo attraverso ad essi. O, come ha detto Platone, ventitrè secoli fa, nel Timeo:
«Il passato e il futuro sono specie create di tempo che noi inconsciamente ma erroneamente trasferiamo in essenza eterna. Noi diciamo «era» «è» «sarà» ma la verità è che soltanto «è» può essere propriamente usato».
In questo caso, le nostre coscienze somigliano ad una mosca impigliata in una granata che si fa passare sulla superficie d’un quadro; l’intera pittura è qui, ma la mosca può soltanto avere esperienza, per un istante, di quello con cui essa è in immediato contatto; sebbene si possa ricordare un pezzo della pittura dietro di lei, e si possa sempre illudere immaginando di aiutare essa a dipingere quelle parti del quadro che le stanno davanti.
O ancora, può essere che la nostra coscienza sia da paragonare alla sensazione che può essere nel dito del pittore mentre va avanti col pennello sulla pittura non ancora finita. Se è così, l’impressione d’avere un’influenza sulle parti del quadro ancora da venire diventa qualche cosa di più d’una pura illusione. Al presente la scienza ci dice ben poco del modo come la nostra coscienza prende conoscenza della pittura; essa si riferisce principalmente alla natura della pittura.
Noi abbiamo visto che l’etere, che si supponeva un tempo riempire l’universo, è stato ridotto a un’astrazione, o un’intelaiatura di spazio vuoto, consistente in nient’altro che nelle dimensioni spaziali della bolla di sapone. Le onde che un tempo si supponeva traversassero questo etere sono ridotte a poco più di una astrazione: esse sono le pieghe d’una sezione trasversale della bolla con il tempo.
Questa qualità d’astrattezza, di quelle che furono un tempo riguardate come «onde eteree» materiali, ricorre in forma più acuta, se ci rivolgiamo al sistema di onde che competono ad un elettrone. L’«etere» — termine che noi troviamo conveniente per spiegare l’ordinaria radiazione, per esempio la luce solare — ha tre dimensioni nello spazio, oltre la sua dimensione nel tempo. Per quel che riguarda l’etere in cui noi descriviamo le onde d’un singolo elettrone isolato nello spazio, esso può, o no essere lo stesso etere di prima, ma gli somiglia perchè ha tre dimensioni spaziali e una temporale. Ma un singolo elettrone isolato nello spazio fornisce un universo senza eventi, perchè il più semplice avvenimento concepibile si ha quando due elettroni urtano insieme. E per descrivere, nei termini più semplici, quel che succede se due elettroni si urtano, la meccanica ondulatoria richiede un sistema di onde in un etere a sette dimensioni; sei spaziali, tre per ciascuno d’ogni elettrone, e una temporale.
Per descrivere l’urto di tre elettroni, noi abbiamo bisogno d’un etere a dieci dimensioni, nove di spazio e una di tempo. Se non vi fosse l’ultima dimensione del tempo che lega insieme tutte le altre, i vari elettroni esisterebbero tutti in spazi tridimensionali non comunicanti. Così il tempo figura come la calcina che tiene insieme i mattoni, come, in un mondo spirituale, le «monadi senza finestre» di Leibnitz sono legate insieme dalla mente universale. O forse per essere più vicini al caso attuale, noi possiamo pensare gli elettroni come oggetti del pensiero, e il tempo come il processo del pensare.
Molti fisici vorranno ammettere, io penso, che lo spazio a sette dimensioni in cui la meccanica delle onde raffigura l’urto di due elettroni è puramente una finzione, nel qual caso anche le onde che accompagnano un elettrone debbono essere riguardate come una finzione. Così il prof. Schrödinger, scrivendo sullo spazio a sette dimensioni, dice che sebbene «abbia un significato fisico determinato, non può esser giusto dire «esiste»; poichè un movimento di onde in questo spazio non può dirsi «esistere» nel senso ordinario della parola. Esso è semplicemente un’adeguata descrizione matematica di quel che accade. È possibile che anche nel caso d’un solo elettrone il movimento d’onde non debba dirsi «esistere» in senso troppo letterale, sebbene lo spazio di configurazione per questo caso speciale coincide con lo spazio ordinario».
Tuttavia è difficile vedere come noi possiamo attribuire un minor grado di realtà ad una serie di onde piuttosto che ad un altro: è assurdo dire che le onde di un elettrone sono reali, mentre quelle di due sono fittizie. E le onde d’un singolo elettrone sono abbastanza reali per mostrarsi sulle lastre fotografiche e produrre frange d’interferenza come nella tavola II. Noi possiamo solamente ottenere una coerenza completa, supponendo che tutte le specie di onde, quelle di due, quelle d’un elettrone e le onde sulle lastre fotografiche del prof. Thomson, hanno lo stesso grado di realtà o di non realtà.
Alcuni fisici cercano di ovviare a questa situazione riguardando l’onde d’elettroni come onde di probabilità. Se parliamo di onde di marea, noi intendiamo un’onda materiale di acqua che bagna ogni cosa nel suo passaggio. Se parliamo d’onda di calore, noi intendiamo qualchecosa che, sebbene non materiale, riscalda ogni cosa nel suo passaggio. Ma se i giornali della sera parlano d’un’onda di suicidio, essi non voglion dire che ogni persona che sia sul cammino dell’onda, dovrà suicidarsi; questo significa soltanto che la probabilità che questo accada aumenta.
Se un’ondata di suicidio passerà su Londra, il percento delle morti per suicidio crescerà; se passa sopra l’isola di Robinson Crusoè, la probabilità che l’unico abitante vorrà togliersi la vita aumenterà. Le onde che rappresentano un elettrone nella meccanica ondulatoria è stato suggerito siano onde di probabilità, la cui intensità in ogni punto dia una misura della probabilità che un elettrone sia in quel punto. Così in ogni punto della lastra del professor Thomson, (tav. II fig. 2 e 3), l’intensità dell’onda misurerà la probabilità che un singolo elettrone diffratto colpisca la lastra in quel punto.
Se un’intera folla di elettroni è diffratta, il numero totale di particelle che colpiscono un punto sulla lastra è naturalmente proporzionale alla probabilità che ciascuno di essi colpisca in quel punto, cosicchè l’annerimento della lastra dà una misura della probabilità per un elettrone.
Questo punto di vista ha il gran merito di permettere che si lasci all’elettrone la sua individualità. Se le onde elettroniche fossero reali onde materiali, ciascun sistema di onde probabilmente si dovrebbe disperdere durante l’esperimento, cosicchè nessuna particella elettrizzata sopravviverebbe come tale nel raggio diffratto. Infatti, nell’urto contro la materia, si dovrebbero rompere gli elettroni, che non potrebbero esser riguardati con struttura permanente. Nel caso attuale, naturalmente, è più la pioggia di elettroni, che il singolo elettrone, che è diffratta; gli elettroni individualmente si muovono come particelle e ritengono perciò la loro identità.
Tutto questo è d’accordo col «principio d’incertezza» di Heisenberg, secondo il quale è impossibile dire: «un elettrone è qui, a questo punto preciso, e si muove precisamente a tante miglia all’ora»; noi possiamo soltanto parlare in termini di probabilità.
Ciò è anche in armonia con il principio generale formulato da Dirac, che è stato già spiegato (pagina 50). Tuttavia questi due principi soltanto, non sono sufficienti a specificare la piena natura delle onde di elettroni.
Heisenberg e Bohr hanno suggerito che queste onde debbano essere considerate puramente come un tipo di rappresentazione simbolica della nostra conoscenza quanto al probabile stato e alla probabile posizione dell’elettrone.
Se è così, esse cambiano come le nostre conoscenze cambiano, e in tal modo divengono largamente soggettive. Così noi non abbiamo bisogno di pensare con difficoltà a onde nello spazio e nel tempo; esse sono pure visualizzazioni di una formola matematica di natura ondulatoria, ma totalmente astratta.
Una possibilità più drastica ancora, sorgente da un’ipotesi fatta da Bohr, è che i più minuti fenomeni naturali non devono ammettere alcuna rappresentazione spazio-temporale. Con questo modo di vedere il continuo quadridimensionale della teoria della relatività è adeguato solamente per alcuni fenomeni naturali, che includono fenomeni a grande scala e la radiazione nello spazio libero; altri fenomeni possono essere rappresentati solamente uscendo da questo continuo.
Noi abbiamo, per esempio, già tentato di dipingere la coscienza come qualcosa al di fuori del continuo, e abbiamo visto che l’urto di due elettroni può essere semplicemente rappresentato in sette dimensioni. È concepibile qualcosa che, avvenendo interamente al di fuori del continuo, determina quel che noi definiamo «corso degli eventi» dentro il continuo, e che l’apparente indeterminazione della natura provenga semplicemente dal nostro tentativo di forzare il divenire, accadente in molte dimensioni, in un più piccolo numero di dimensioni. Immaginiamo, per esempio, una razza di vermi ciechi, le cui percezioni siano limitate alla superficie bidimensionale della Terra. Di quando in quando alcuni punti della Terra diventano sporadicamente bagnati. Noi, che con i nostri sensi abbiamo percezione delle tre dimensioni dello spazio, chiamiamo il fenomeno pioggia, e sappiamo che eventi nella terza dimensione dello spazio, assolutamente ed unicamente, determinano quali posti diventino bagnati e quali debbano rimanere asciutti. Ma se i vermi, che non hanno mai coscienza della terza dimensione dello spazio, cercassero di far rientrare tutta la natura nel loro quadro a due dimensioni, essi non riescirebbero a scoprire un determinismo nella distribuzione di punti asciutti e punti bagnati; i vermi-scienziati sarebbero soltanto capaci di discutere l’esser asciutto o bagnato in termini di probabilità, che essi sarebbero tentati di trattare come l’ultima verità.
Sebbene il tempo non sia ancora maturo per una decisione, questa sembra a me, personalmente, la più promettente interpretazione della situazione. Come l’ombra su di una parete forma la proiezione a due dimensioni di una realtà a tre dimensioni, così i fenomeni del continuo spazio-temporale sono la proiezione a quattro dimensioni di una realtà che occupa più di quattro dimensioni, così che gli eventi nel tempo e nello spazio diventano
«niente altro che una mobile fila |
Può darsi che si faccia l’obiezione che noi abbiamo prestata troppo attenzione alla meccanica delle onde, che dopo tutto è solamente una rappresentazione matematica, quando probabilmente innumerevoli altre rappresentazioni possono servire egualmente, e condurre a conclusioni interamente differenti.
Ed è vero che lo schema ondulatorio non può pretendere d’essere l’unico. Altri sistemi sono in campo, specialmente quelli di Heisenberg e Dirac. Benchè essenzialmente questi possano solo dire la stessa cosa in altre parole e spesso oscure. Nessun altro sistema sin adesso inventato spiega le cose così semplicemente come la meccanica delle onde di de Broglie e Schrödinger. Fotografie come quelle della tavola II fanno testimonianza che onde di una lunghezza definita sono qualcosa di fondamentale nello schema della natura; queste onde formano il concetto fondamentale della meccanica delle onde; ma in altri sistemi compaiono solamente come sottoprodotti, poco naturali. Quindi, appunto per la sua propria semplicità, la meccanica ondulatoria ha dimostrato una capacità di penetrare molto più addentro nei segreti naturali che altri sistemi, cosicchè gli altri sistemi sono già caduti un po’ in sottordine.
Per variare la nostra metafora, essi sono serviti a uno scopo utile, come impalcatura, ma non sembra che ci sia la benchè minima tendenza ad attribuir loro qualcosa di più.
Se dunque noi vogliamo limitarci ad un’interpretazione, ci sembra d’essere giustificati, scegliendo quella fornitaci dalla meccanica ondulatoria, sebbene, nel fatto, sia il sistema di Heisenberg come quello di Dirac ci condurrebbero alle stesse conclusioni. Il fatto essenziale è che tutte le rappresentazioni che la scienza ora fa della natura, e che sole sembrano capaci d’accordarsi con i fatti d’osservazione sono rappresentazioni matematiche.
Moltissimi scienziati saranno d’accordo che esse non sono niente di più che rappresentazioni, finzioni, se volete, se con finzione intendete che la scienza non è ancora in contatto con l’ultima realtà. Alcuni sosterranno che guardando la cosa da un punto di vista filosofico molto largo, l’avvenimento più saliente della fisica del secolo ventesimo non è la teoria della relatività, che ha unito insieme lo spazio e il tempo, o la teoria dei quanta con la sua apparente negazione del principio di causalità, o la disgregazione dell’atomo con la conseguente scoperta che le cose non sono quello che sembrano; è, invece, il riconoscimento generale che noi non siamo ancora in contatto con l’ultima realtà. Per parlare secondo la ben nota similitudine di Platone, noi siamo imprigionati in una caverna, con il dorso voltato alla luce e possiamo solamente osservare le ombre sulla parete.
Al presente il solo compito immediato che stia di fronte alla scienza è di studiare queste ombre, per classificarle e spiegarle nel modo più semplice possibile.
E quel che noi troviamo, nel torrente in piena della sorprendente nuova conoscenza, è che il modo che la spiega più chiaramente, più a pieno e più naturalmente che ogni altro, è la spiegazione in termini matematici. È vero, in un senso un po’ differente da quello inteso da Galileo, che «il gran libro della Natura è scritto in linguaggio matematico». Così è vero che nessuno, eccettuato un matematico, può sperare di capire queste branche delle scienze che cercano di svelare la natura fondamentale dell’universo: la teoria della relatività, la teoria dei quanta e la meccanica ondulatoria.
Le ombre che la realtà getta sulla parete della nostra caverna possono a priori essere di molte specie. Esse possono essere perfettamente prive di significato per noi, come è privo di significato per un cane, entrato nella sala per sbaglio, un film cinematografico che mostri la struttura d’un tessuto microscopico.
Infatti la nostra terra è così infinitesima al paragone con l’intero universo; noi, i soli esseri pensanti, per quel che sappiamo, in tutto lo spazio, costituiamo secondo tutte le apparenze una cosa così accidentale, che è a priori troppo probabile che, se l’universo ha un significato, esso trascenda la nostra esperienza terrena, e, così, sia totalmente inintelligibile per noi. In questo caso, noi non avremmo nessun punto d’appoggio per iniziare la nostra ricerca intorno al vero significato dell’universo.
Sebbene questo sia il caso più probabile, non è impossibile che alcune delle ombre, che cadono sulla parete della nostra caverna, possano suggerire oggetti ed operazioni, con le quali noi, abitanti delle caverne, siamo già familiari. L’ombra d’un corpo che cade si comporta come il corpo che cade, e così noi potremmo pensare a corpi che noi stessi avessimo lasciato cadere; noi saremmo tentati di interpretare tali ombre in termini meccanici.
Questo spiega la fisica meccanica dell’ultimo secolo; le ombre hanno suggerito ai nostri predecessori di pensare al comportamento di gelatine, di vortici, di ruote dentate, così che essi, scambiando le ombre con la sostanza, si sono sentiti davanti ad un universo di gelatina e di congegni meccanici. Noi adesso sappiamo che l’interpretazione era molto inadeguata: essa ha dimostrato di non poter spiegare i fenomeni più semplici, la propagazione d’un raggio luminoso, la composizione della radiazione, la caduta d’una mela, o la rotazione degli elettroni nell’atomo.
Il giuoco degli scacchi delle ombre, giocato dagli attori fuori, al sole, ci fa pensare al giuoco degli scacchi, che noi abbiamo giocato nella nostra caverna. Ora come allora noi possiamo riconoscere il movimento del cavallo, o osservare la torre che si muove contemporaneamente con re e regine, o discernere altri movimenti caratteristici così simili a quelli che siamo stati soliti fare in quel giuoco, che essi non possono essere attribuiti al caso. Noi non penseremo più della realtà esterna come d’una macchina; i dettagli di una sua operazione possono essere meccanici, ma l’essenza è una realtà del pensiero: noi riconosceremo i giocatori di scacchi fuori, al sole, come esseri governati da menti simili alle nostre; noi troveremo la contropartita dei nostri pensieri nella realtà che era per sempre inaccessibile alla nostra osservazione.
E se gli scienziati studiano il mondo dei fenomeni, le ombre che la Natura proietta sulle pareti della nostra caverna, essi non trovano queste ombre totalmente inintelligibili, e neppure queste sembreranno a loro oggetti sconosciuti, o poco familiari. Piuttosto, mi sembra, noi potremmo ammettere che i giuocatori di scacchi fuori, alla luce del sole, sono molto al corrente con le regole del giuoco, mentre noi le abbiamo formulate nella nostra caverna. Per uscire di metafora, la Natura sembra molto versata nelle matematiche pure, mentre i nostri matematici le hanno formulate nei loro studi, traendole fuori dalla loro propria coscienza e senza ricorrere alla loro esperienza del mondo esterno. Con «matematica pura» s’intende quella parte della matematica che è creazione del pensiero puro, della sola ragione operante nella sua propria sfera, in opposizione alla «matematica applicata» che ragiona sul mondo esterno, dopo aver da prima ammesso delle proprietà, riconosciute del mondo esterno, come materiale grezzo. Descartes, cercando un esempio del prodotto della mente pura, senza contaminazioni con l’osservazione (razionalismo), scelse il fatto che la somma dei tre angoli d’un triangolo era necessariamente eguale a due angoli retti. E fu una scelta molto infelice. Altre scelte, meno soggette ad obiezioni, potrebbero farsi come, per esempio, la legge di probabilità, le regole d’operazioni con numeri «immaginari» — cioè numeri contenenti la radice quadrata della unità negativa — o la geometria a più dimensioni. Tutte queste branche della matematica furono originalmente create dal matematico in termini di astratto pensiero, praticamente non influenzato dal mondo esterno, e niente prendendo dall’esperienza; essi formano «un mondo indipendente creato dalla intelligenza pura».
E adesso vien in luce che il giuoco delle ombre che noi descriviamo come la caduta d’una mela, il flusso e il riflusso delle maree, il movimento di elettroni nell’atomo, sono prodotti da attori che sembrano essere molto al corrente con questi concetti puramente matematici — con le nostre regole del giuoco degli scacchi, che noi abbiamo formulato prima di scoprire che le ombre sulla parete stanno anch’esse giocando a scacchi.
Se noi tentiamo di scoprire la natura della realtà al di là delle ombre, noi ci troviamo di fronte al fatto che ogni discussione sull’ultima natura delle cose deve necessariamente rimanere sterile, perchè noi non abbiamo cosa estranea con cui paragonarla. Per questa ragione, prendendo in prestito la frase di Locke, «la reale essenza della sostanza» è per sempre inconoscibile.
Noi possiamo solamente progredire discutendo le leggi che governano i cambiamenti della sostanza, e producono così i fenomeni del mondo esterno. Noi possiamo paragonare questi con le astratte creazioni delle nostre menti.
Per esempio, un ingegnere sordo studiando l’azione d’una pianola, può da prima tentare d’interpetrarla come una macchina, ma sarà deluso dal continuo ripetersi degli intervalli 1, 5, 8, 13 nel movimento dei dischi. Un musicista sordo, sebbene non possa sentire nulla, riconoscerà immediatamente questa successione di numeri come gli intervalli d’un accordo perfetto, mentre altre successioni che compaiano con minore frequenza gli suggeriranno altri accordi musicali.
Su questa via egli troverà una parentela tra i suoi propri pensieri e i pensieri che sono stati di guida nella costruzione della pianola; dirà che esso è venuta al mondo attraverso il pensiero d’un musicista. Nella stessa maniera, uno studio scientifico del divenire dell’universo ha suggerito una conclusione che può essere riassunta, sebbene molto ingenuamente e inadeguatamente, perchè noi non abbiamo un linguaggio a nostra disposizione, che non sia prodotto dei nostri concetti e delle nostre esperienze terrene, affermando che l’universo sembra essere stato preordinato dalla mente d’un matematico puro.
Quest’affermazione può difficilmente sperare di essere accettata senza discussioni, per due motivi. In primo luogo, può essere obiettato che noi semplicemente adattiamo la Natura alle nostre idee. Il musicista, si può dire, è così assorbito nella musica che egli si ingegnerà d’interpetrare ogni meccanismo come uno strumento musicale; l’abito di pensare ogni intervallo come un intervallo musicale può essere così inveterato in lui, che se egli cade per le scale e urta negli scalini numerati 1, 5, 8 e 13, troverà della musica nella sua caduta.
Alla stessa guisa, un pittore cubista non vede altro che cubi nell’indescrivibile ricchezza della natura: e l’irrealtà della sua pittura dimostra come egli sia lontano dal comprendere la natura, i suoi occhiali da cubista sono semplicemente dei paraocchi che gli impediscono di vedere più in là di una piccola frazione del grande mondo intorno a lui. Così, può essere insinuato, il matematico vede soltanto la natura attraverso i suoi paraocchi da matematico, come egli se la è foggiata per lui stesso.
Noi possiamo ricordare che Kant, discutendo i vari modi di percezione per cui la mente umana prende conoscenza della natura, conclude che essa è specialmente incline a vedere la natura attraverso gli occhiali del matematico. Appunto come un uomo che portasse occhiali azzurri vedrebbe solamente un mondo azzurro, così Kant pensa che, per le nostre disposizioni mentali, noi siamo disposti a vedere solo un mondo matematico. Il nostro argomentare deve semplicemente fornire un nuovo esempio di questo vecchio inganno, se tale esso è?
Un momento di riflessione mostrerà che difficilmente questo può costituire tutta la verità. La nuova interpretazione matematica della natura non può essere tutta nei nostri occhiali — nella nostra maniera soggettiva di riguardare il mondo esterno — perchè se fosse così, noi l’avremmo dovuto aver visto già da lungo tempo. La mente umana era la stessa, per modo d’agire e di essere, un secolo fa; il recente grande cambiamento nelle nostre vedute scientifiche è risultato da un vasto progresso nella conoscenza scientifica e non da un cambiamento nella mente umana; noi abbiamo trovato qualcosa di nuovo e prima d’ora sconosciuto nell’universo obiettivo, al di fuori di noi stessi. I nostri remoti antenati cercarono di interpretare la natura per mezzo di concetti antropomorfici, di propria loro creazione, e fallirono. Gli sforzi dei nostri antenati più prossimi di interpetrare la natura meccanicamente sono stati, alla prova, inadeguati. La Natura si è rifiutata di accomodarsi ad uno di questi stampi, fatti dall’uomo. D’altra parte, i nostri sforzi d’interpetrare la natura con concetti puramente matematici, sono stati coronati da successo. Sembrerebbe fuori discussione che la Natura è più strettamente legata ai concetti della matematica pura che a quelli della biologia o della ingegneria, e anche se l’interpetrazione matematica è solamente un terzo genere di stampo creato dall’uomo, essa almeno riproduce la natura obiettiva incomparabilmente meglio che le altre due.
Un cento anni fa, quando gli scienziati tentavano di dare un’interpretazione meccanica del mondo, nessuna persona avveduta è venuta avanti a dire loro che il punto di vista meccanicista era destinato a fallire alla fine: che l’universo fenomenico non aveva senso finchè non si proiettasse sullo schermo della matematica pura: se avessero portato avanti un argomento convincente per tale affermazione, la scienza avrebbe evitate molte fatiche infruttuose. Se il filosofo adesso dice: — «Quel che avete trovato non è niente di nuovo: io avrei potuto dirvi che doveva esser così, in tutti i tempi», lo scienziato potrebbe con ragione rispondere con la domanda: «Come avreste potuto dircelo, se noi appunto dovevamo trovare il fatto che valesse realmente a convincerci?».
Il punto su cui discutiamo è che l’universo ci appare di natura matematica in un senso differente da quello che Kant considerava, o può aver considerato: in breve, la matematica entra nell’universo dall’alto anzichè dal basso.
In un certo senso può affermarsi che ogni cosa è di natura matematica. La più semplice forma di matematica è l’aritmetica, la scienza dei numeri e delle quantità, e queste penetrano la vita intera. Per esempio, il commercio che consiste in larga parte dell’operazione matematica di ragioneria, inventario ecc., è in un certo senso un’operazione matematica; ma non in questo senso l’universo adesso ci appare di natura matematica.
Ancora, ogni ingegnere ha qualcosa del matematico; se egli deve calcolare e predire il comportamento meccanico dei corpi con accuratezza, egli deve usare la sua conoscenza matematica e guardare al suo problema attraverso gli occhiali del matematico. Ma, da capo, non in questo modo la scienza ha cominciato a vedere il mondo come matematico. La matematica dell’ingegnere differisce da quella del ragioniere semplicemente perchè è più complessa. Rimane sempre un mezzo per calcolare; invece di valutare capitali e interessi, essa valuta tensioni e pressioni o correnti elettriche.
D’altra parte, Plutarco ricorda che Platone usava dire che Dio geometrizza sempre — Πλάτων ἔλεγε τὸν Θεὸν ἀεὶ γεωμετρεῖν — ed egli immagina un banchetto, in cui i convitati discutono quel che Platone voleva dire con questo. È chiaro che egli intende qualcosa di differente da quel che intendiamo quando affermiamo che i banchieri sono dei matematici. Tra gli esempi dati da Plutarco vi sono: che Platone ha detto che la geometria pone dei limiti a quel che altrimenti sarebbe illimitato e che egli ha affermato che Dio ha costruito l’universo sulla base dei cinque solidi regolari; egli credeva che le particelle di terra, aria, fuoco e acqua avessero la figura di cubi, ottaedri, tetraedri e icosaedri, mentre l’universo stesso avesse la figura del dodecaedro. A questo si può forse aggiungere la credenza di Platone che le distanze del sole, della luna e dei pianeti fossero «nella proporzione degli intervalli doppi», con che egli significava la sequenza di numeri interi, che son delle potenze di 2 e di 3, cioè 1, 2, 3, 4, 9, 27.
Se alcuna di queste considerazioni conserva una parte di validità anche oggi, è la prima, che l’universo della teoria della relatività è finito appunto perchè è geometrico. Ma l’idea che i quattro elementi e l’universo fossero in qualche modo in rapporto con i cinque solidi regolari era puramente una fantasia, e le vere distanze del sole, luna e pianeti non hanno relazione alcuna con i numeri di Platone.
Duemila anni dopo Platone, Keplero spese molto tempo e fatiche nel tentare di trovare una relazione tra le dimensioni delle orbite planetarie e gli intervalli musicali o le costruzioni geometriche; forse anche lui sperava di scoprire che le orbite fossero state disposte da un musicista o da un geometra. Per un momento egli credette aver trovato che i rapporti delle orbite fossero in relazione con i cinque solidi regolari. Se questo presunto fatto era stato già intuito da Platone, quale prova poteva egli vedervi della volontà geometrizzante di Dio! Keplero stesso ha scritto: «Il piacere intenso che io ho provato da questa scoperta non può esser detto in parole». Non occorre dire che questa scoperta era falsa. La nostra mente moderna la rigetta immediatamente come ridicola; noi troviamo impossibile pensare del sistema solare come d’un prodotto finito, lo stesso giorno che uscì dalle mani del suo fattore; noi lo possiamo pensare solamente come qualcosa in continua evoluzione e cambiamento, realizzante dal suo passato il proprio futuro. Tuttavia se noi per un momento potessimo dare, con la fantasia, un’impronta medioevale ai nostri pensieri, e creare a noi stessi l’illusione che la congettura di Keplero fosse vera, sarebbe chiaro che egli allora avrebbe il diritto di trarre delle conclusioni da questo fatto. La matematica che egli ha trovato nell’universo avrebbe dovuta essere qualche cosa di più di quella che egli vi aveva posto, ed egli avrebbe potuto legittimamente arguire che nell’universo c’era inerente una ragione matematica, oltre quella che egli stesso aveva usata per intenderla; egli avrebbe potuto arguire, in linguaggio antropomorfico, che la sua scoperta suggerisse essere stato l’universo ordinato da un geometra. Ed egli di fronte alla critica che la matematica da lui scoperta risiedesse nei suoi «occhiali matematici», non si sarebbe turbato di più del pescatore che prende un pesce all’amo usando per esca un pesce più piccolo, se gli viene osservato: «Sì, ma vi faccio notare che voi stesso ci mettete il pesce».
Ci sia permesso riferire un esempio più moderno e meno fantastico della stessa cosa.
Cinquant’anni fa, quando ci fu una grande discussione sul problema di comunicare con Marte, si desiderò di far noto ai supposti Marziani che esseri pensanti esistevano sulla Terra, ma la difficoltà fu di trovare un linguaggio che fosse comprensibile da entrambe le parti; fu proposto di accendere una catena di falò nel Sahara, per formare un disegno che illustrasse il famoso teorema di Pitagora, che la somma dei quadrati costruiti su i due lati minori di un triangolo rettangolo è eguale al quadrato del lato maggiore. La maggioranza degli abitanti di Marte non ne avrebbe scoperto il significato, ma si ritenne che i matematici su Marte, se ne esistevano, l’avrebbero sicuramente riconosciuto come l’opera d’un matematico sulla terra. Così facendo, essi andrebbero incontro alla critica di vedere la matematica in ogni cosa. E così è, mutatis mutandis, con i segnali del mondo della caverna in cui siamo imprigionati.
Noi non possiamo interpretare queste come ombre proiettate da attori viventi o come ombre prodotte da una macchina, ma il matematico puro riconosce che esse rappresentano quel genere di idee con cui egli è familiare nei suoi studi.
Noi, ben inteso, non possiamo tirare una conclusione da questo per decidere se i concetti di matematica pura che troviamo essere inerenti alla struttura dell’universo ne sono semplicemente parti, o vi sono stati introdotti i concetti della matematica applicata che noi usiamo per scoprire il divenire del mondo. Non proverà nulla il fatto che la natura si accorda ai concetti della matematica applicata; questi concetti sono specialmente e deliberatamente inventati dall’uomo per adattarsi all’opera della natura. E può essere obiettato che anche la nostra matematica pura nel caso reale non rappresenterebbe una creazione delle nostre menti, ma piuttosto uno sforzo, basato su memorie perdute o subcoscienti, di comprendere l’opera della natura.
Se è così, non sorprende che la natura operi secondo le leggi della matematica pura. Non si può negare, senza dubbio, che alcuni dei concetti con cui il puro matematico opera sono stati presi direttamente dalla esperienza della natura. Un esempio ovvio è il concetto di quantità, ma questo è così fondamentale che è difficile immaginare uno schema naturale da cui esso sia completamente escluso. Altri concetti prendono almeno qualcosa dall’esperienza; per esempio la geometria a più dimensioni, che è chiaro aver tratto origine dalla nostra esperienza dello spazio a tre dimensioni. Se, comunque, i più complicati concetti della matematica pura sono stati presi dall’osservazione della natura, essi devono essere stati sepolti molto profondamente nella nostra subcoscienza. Questa possibilità molto controversa è tale che non può essere completamente rigettata, ma in ogni caso difficilmente si può discutere se la natura o il nostro cosciente spirito matematico operino con le stesse leggi. Essa non modella la sua condotta, per dir così, su quella che ci è imposta dai nostri capricci e dalle nostre passioni, o su quella dei nostri muscoli e delle nostre articolazioni, ma su quella delle nostre menti pensanti. Questo rimane vero sia che le nostre menti imprimano le loro leggi sulla natura, sia che essa imprima le sue leggi su di noi, e fornisce una giustificazione sufficiente alla nostra opinione che l’universo sia stato fatto su di un piano matematico.
Ricadendo nel linguaggio crudamente antropomorfico che noi abbiamo già usato, possiamo dire che abbiamo già considerato con poco favore la possibilità che l’universo sia stato concepito da un biologo o da un ingegnere; per l’intrinseca evidenza del suo operare, il Grande architetto dell’Universo adesso comincia ad apparirci un matematico puro.
Personalmente io sento che questo pensiero può essere condotto ancora più oltre, sebbene sia difficile esprimerlo in parole esatte, ancora per la ragione che il nostro vocabolario è circoscritto alla nostra esperienza mondana. Il matematico puro di questa terra non deve limitarsi a trattare con la sostanza materiale, ma con il pensiero puro. Le sue creazioni non sono solamente create dal pensiero ma constano di pensiero, proprio come le creazioni d’un meccanico sono macchine. E i concetti che adesso si dimostrano fondamentali per la comprensione della natura — uno spazio che è finito; uno spazio che è vuoto, così che un punto differisce da un altro solamente per le proprietà dello spazio stesso; spazi a quattro, a sette o a più dimensioni; uno spazio che non cessa mai di dilatarsi; una serie di eventi che segue la legge di probabilità in luogo della legge di causalità, o, altra possibilità, una serie di eventi che può pienamente e logicamente essere descritta solo uscendo fuori del tempo e dello spazio, — tutti questi concetti mi sembrano oggetti di pensiero puro, incapaci di realizzarsi in un senso che possa propriamente definirsi materiale.
Per esempio, qualcuno che ha scritto o ha parlato in pubblico sullo spazio che è finito, è abituato all’obiezione che il concetto di uno spazio finito si contraddice da sè e non ha senso. Se lo spazio è finito, i nostri critici dicono, deve esser possibile andare al di là di questo spazio finito, e che cosa possiamo trovare se non altro spazio, e così ad infinitum? — il che prova che lo spazio non può essere finito.
E anche, essi dicono, se lo spazio si dilata, dove può dilatarsi, se non vi è altro spazio? — il che di nuovo prova che se si dilata, esso può esser solo parte dello spazio, così che la totalità dello spazio non può dilatarsi. I critici del secolo ventesimo che fanno questi commenti sono sempre nella posizione mentale degli scienziati del secolo decimonono; prendono per accertato che l’universo deve ammettere una rappresentazione materiale. Se noi accettiamo le loro premesse, noi dobbiamo, io credo, accettare anche le loro conclusioni — che quel che diciamo è un non senso, per la loro irrefutabile logica. Ma la scienza moderna non può ammettere le loro conclusioni; essa insiste sulla finitezza dello spazio a tutti i costi. Questo naturalmente significa che noi dobbiamo negare le premesse che i nostri critici, senza averne coscienza, facevano. L’universo non può ammettere una rappresentazione materiale, e la ragione, io penso, è che esso comincia a divenire un concetto puro.
È lo stesso, io penso, con altri concetti più tecnici, prendendo a tipo il «principio di esclusione» che sembra implicare una specie di «azione a distanza» nello spazio e nel tempo — come se ogni parte dell’universo conoscesse quel che fanno le altre parti distanti e agisse di conseguenza. Secondo me, le leggi a cui la natura obbedisce, fanno pensare meno a quelle a cui obbedisce una macchina nel suo movimento che a quelle a cui un musicista obbedisce, scrivendo una fuga, o un poeta, scrivendo un sonetto.
I movimenti degli atomi e degli elettroni somigliano meno a quello delle parti d’una locomotiva, che a quelli dei ballerini in un cotillon. E se la «vera essenza della sostanza» è per sempre inconoscibile, non importa se il cotillon è danzato in un ballo nella vita reale, o su di uno schermo cinematografico, o in una novella di Boccaccio. Se tutto questo è così, allora l’universo può essere meglio rappresentato, sebbene molto imperfettamente ed inadeguatamente, come risultante di pensiero puro, il pensiero di quello che noi possiamo descrivere, mancando d’una parola più ampia, come un matematico pensatore.
E così siamo condotti nel cuore del problema della relazione tra spirito e materia. Perturbazioni sugli atomi del lontano Sole lo costringono ad emettere luce e calore. Dopo aver «viaggiato attraverso l’etere» per otto minuti, alcune di queste radiazioni possono cadere sui nostri occhi, causando nella retina un disturbo, che attraverso il nervo ottico, arriva al cervello. Qui è percepito, come una sensazione, dallo spirito; ciò mette in azione i nostri pensieri e ne risultano, permettetemi l’espressione, pensieri poetici sul tramonto del sole. Qui vi è una catena continua A, B, C, D... X, Y, Z che connette A il pensiero poetico — attraverso B lo spirito pensante, C il cervello, D il nervo ottico, e così via — con Z la perturbazione atomica nel sole. Il pensiero A dipende dalla perturbazione lontana Z, appunto come il suono del campanello elettrico dal premere un lontano bottone. Noi possiamo intendere perchè, premendo un bottone materiale, si produca il suono del campanello, perchè in questo caso vi è una connessione materiale. Ma è molto meno facile comprendere come una perturbazione di atomi materiali possa causare il sorgere d’un pensiero poetico, perchè questi due fatti sono di natura assolutamente differente.
Per questo motivo, Descartes insiste che non è possibile stabilire una connessione tra spirito e materia. Egli crede che essi siano due distinti generi di entità: l’essenza della materia è estensione nello spazio, e quella dello spirito è pensiero.
E questo lo conduceva a ritenere che vi siano due mondi distinti, uno dello spirito, e l’altro della materia, seguenti, per così dire, strade indipendenti su binari paralleli, senza mai incontrarsi. Berkeley e i filosofi idealisti son d’accordo con Descartes che se lo spirito e la materia fossero di nature fondamentalmente diverse, non potrebbero mai agire l’uno sull’altra. Quindi, essi deducono, la materia deve essere della stessa natura dello spirito, così che, nella terminologia di Descartes, l’essenza della materia deve essere il pensiero piuttosto che l’estensione. In particolare il loro argomento era che le cause devono essere essenzialmente della stessa natura degli effetti; se B, secondo la catena degli effetti, produce A, allora B deve avere la stessa natura essenziale di A, e C di B, e così via. Perciò Z ha la stessa natura essenziale di A.
Ora i soli anelli della catena di cui abbiamo una conoscenza diretta sono i nostri propri pensieri e sensazioni; noi sappiamo della esistenza e della natura degli anelli X, Y, Z solamente per deduzione — dagli effetti che trasmettono ai nostri spiriti attraverso i sensi. Berkeley, ritenendo che gli sconosciuti anelli X, Y, Z debbono essere della stessa natura degli anelli a noi prossimi, D, B, sosteneva che essi debbono avere la stessa natura delle idee o dei pensieri «poichè nulla è simile a un’idea tranne un’idea». Un pensiero o idea non può esistere comunque, se non esiste la mente che la pensa. Noi possiamo dire che un oggetto esiste nel nostro spirito se noi ne abbiamo coscienza; ma questo non ci garentirà la esistenza dell’oggetto nel tempo in cui non abbiamo coscienza di esso. Il pianeta Plutone, per esempio, esisteva molto tempo prima che una mente umana ne avesse il sospetto, e ha testimoniato la sua esistenza su lastre fotografiche molto tempo prima che l’occhio umano lo vedesse. Considerazioni come queste condussero Berkeley a postulare uno Spirito Eterno, nella cui mente tutti gli oggetti esistono.
Nella magnifica e sonora eloquenza d’un secolo passato, il vescovo Berkeley riassumeva la sua filosofia nelle parole:
«Tutto il coro del cielo e gli ornamenti della terra, in una parola, tutti questi corpi che compongono la potente armatura del mondo, non hanno sostanza senza il pensiero... Finchè essi non sono percepiti in modo attuale da me, o finchè essi non esistono nella mia mente o in quella d’altro spirito creato, essi non hanno esistenza alcuna, o sussistono per sè stessi nella mente di uno Spirito Eterno».
La scienza moderna mi sembra condurre, per tutt’altra via, ad una conclusione non molto differente. La biologia, studiando la connessione tra i primi anelli della catena A, B, C, D, sembra s’incammini verso la conclusione che siano tutti della stessa fondamentale natura. Questo è, occasionalmente, stabilito nella forma specifica che, credendo i biologi che C, D siano fatti materiali e meccanici, anche A e B debbono essere meccanici e materiali; ma è altrettanto giustificato formulare questo risultato affermando che, essendo A, B atti dello spirito, anche C, D sono della stessa natura. La scienza fisica, curandosi poco di C e D, procede direttamente verso la fine della catena; il suo scopo è di studiare il comportamento di X, Y, Z. E, per quanto a me sembra, le sue conclusioni suggeriscono che l’ultimo anello della catena, sia che noi ci rivolgiamo al cosmo come un tutto, sia che ci rivolgiamo alla più interna struttura dell’atomo, sono della stessa natura di A e B — della natura del pensiero puro; noi siamo condotti alla conclusione di Berkeley, ma ci siamo arrivati dall’altro capo della catena. Quindi noi arriviamo all’ultimo delle tre alternative di Berkeley, e le altre ci appaiono, al confronto, senza importanza.
Non è da discutere se «oggetti esistano nella mia mente, o in quella d’altro spirito creato» oppure no; la loro obiettività sorge dalla loro esistenza nella «mente di uno Spirito Eterno». Questo può suggerire che noi ci siamo proposti di scardinare completamente il realismo, e di porre un idealismo assoluto al suo posto. Tuttavia questo, io penso, sarebbe una definizione troppo affrettata della situazione. Se fosse vero che la «reale essenza delle sostanze» è al di là della nostra conoscenza, allora la linea di demarcazione tra idealismo e realismo diventerebbe molto confusa; sarebbe poco più d’un relitto d’una età passata, in cui la realtà si identificava con un meccanismo.
La realtà obbiettiva esiste, perchè certe cose influiscono allo stesso modo sulla mia e sulla vostra coscienza; ma, assumendo qualcosa, noi non abbiamo diritto di presumere di chiamarla «reale» o «ideale». La vera definizione è, io penso, «matematica» se noi ci accordiamo di designare così la totalità del pensiero puro, e non semplicemente gli studi del matematico per professione. Una tale definizione non deve implicare niente su quello che le cose sono, nella loro ultima essenza, ma semplicemente qualcosa del modo in cui si comportano.
La definizione non è stata scelta da noi per relegare la materia nella categoria delle allucinazioni o dei sogni. L’universo materiale rimane così sostanziale come già lo era; e questa affermazione deve, io penso, rimaner vera attraverso tutti i mutamenti del pensiero filosofico o scientifico.
Perchè sostanzialità è un concetto puramente mentale, che misura l’effetto diretto degli oggetti sui nostri sensi tattili. Noi diciamo che una pietra, un’automobile è sostanziale mentre un’eco o un arcobaleno non lo è. Questa è l’ordinaria definizione della parola, ed è una semplice assurdità, una contraddizione in termini, dire che pietre e automobili possono alla stessa maniera perdere il loro carattere sostanziale, perchè noi li associamo adesso con formole matematiche e pensieri, o nodi nello spazio vuoto, piuttosto che con una massa di particelle rigide. Si racconta che il dottor Johnson abbia espresso la sua opinione sulla filosofia di Berkeley, urtando con il piede una pietra, e dicendo: «No, signore, io la confuto in questo modo». Questo piccolo esperimento non aveva naturalmente il più piccolo rapporto con il problema filosofico che pretendeva di risolvere; esso dimostrava semplicemente la sostanzialità della materia. E, per quanto grandi siano i progressi della scienza, le pietre rimarranno corpi sostanziali, appunto perchè esse e la classe a cui appartengono formano il campione secondo il quale noi definiamo la qualità di sostanzialità.
È stato osservato che il lessicografo avrebbe realmente confutato la filosofia di Berkeley se per caso egli avesse dato un calcio non in una pietra ma in un cappello, in cui un ragazzo avesse nascosto, per malizia, un mattone.
Noi diciamo che «l’elemento di sorpresa è sufficiente garanzia per la realtà esterna» e che «una seconda garanzia è la permanenza con il mutamento — permanenza nella vostra propria memoria, cangiamento nell’esteriorità». Questo naturalmente va contro l’errore solipsista che «tutto sia una creazione della mia propria mente e non esista in altra mente», ma è difficile trovare nella vita qualchecosa che non confuti questo. L’argomento che si può trarre dalla sorpresa o da una nuova conoscenza in generale è impotente contro il concetto d’una mente universale, di cui la vostra mente e la mia, la mente che è sorpresa e quella che sorprende, sono unità o anche derivazioni. Ciascuna individuale cellula del cervello non può sapere tutti i pensieri che sono passati attraverso tutto il cervello.
Anche il fatto che noi non possediamo un riferimento assolutamente esterno con cui misurare la sostanzialità, non ci impedisce di dire se due cose hanno lo stesso grado, o gradi differenti di sostanzialità. Se in sogno do un calcio ad una pietra, probabilmente mi sveglierò con un dolore al piede, e scoprirò che la pietra del mio sogno era letteralmente una creazione della mia mente e di me soltanto, provocata da un impulso nervoso, originatosi nel mio piede.
Questa pietra può fornire il tipo della categoria delle allucinazioni o sogni; essa è naturalmente meno sostanziale di quella presa a calci da Johnson. Creazioni d’una mente individuale possono essere con ragione chiamate meno sostanziali che le creazioni d’una mente universale. Una distinzione simile può esser fatta tra lo spazio, che noi vediamo in sogno, e lo spazio della vita d’ogni giorno: quest’ultimo, che è lo stesso per tutti, è lo spazio della mente universale. Lo stesso è del tempo, il tempo della veglia, che fluisce in ragione eguale per tutti, essendo il tempo della mente universale. Di più noi possiamo pensare che le leggi a cui i fenomeni si conformano nelle ore di veglia, le leggi naturali, sono le leggi del pensiero d’uno spirito universale.
L’uniformità della natura proclama la autoconsistenza (selfconsistency) di questo spirito.
Questo concetto dell’universo come un mondo di puro pensiero getta una luce nuova su diverse situazioni che noi abbiamo incontrato nella nostra rassegna della fisica moderna. Noi abbiamo visto adesso che l’etere, in cui tutti gli eventi dell’universo hanno un posto, può ridursi ad una astrazione matematica e diventa altrettanto astratto e matematico quanto i paralleli di latitudine e i meridiani di longitudine. Noi possiamo, così, vedere che l’energia, l’entità fondamentale dell’universo, deve essere anche considerata come un’astrazione matematica — la costante d’integrazione di un’equazione differenziale.
Il medesimo concetto implica, naturalmente, che la verità finale intorno a un fenomeno risiede nella sua descrizione matematica; purchè non vi siano imperfezioni in questa, la nostra conoscenza del fenomeno è completa. Noi andiamo al di là d’una formola matematica a nostro rischio e pericolo; noi possiamo trovare un modello o un’immagine che ci aiuti a comprenderla, ma non abbiamo nessun diritto di pretendere una cosa simile, e il nostro insuccesso nel trovare un modello o una immagine non indica necessariamente che il nostro ragionamento o la nostra conoscenza siano sbagliati. Il creare modelli e pitture per spiegare formole matematiche e i fenomeni che esse descrivono, non è un passo in avanti, ma piuttosto indica un allontanarsi dalla realtà; è lo stesso come creare immagini scolpite di uno spirito. Ed è irragionevole aspettarsi che questi vari modelli siano conciliabili con un altro, come se ci si attendesse che le statue di Mercurio, rappresentanti il dio nelle sue varie attività — come messaggero, araldo, musico e così via — si rassomiglino. Alcuni dicono che Mercurio è il vento; se è così, tutti i suoi attributi sono contenuti nella sua descrizione matematica, che non è nè più nè meno che l’equazione di moto di un fluido compressibile. Il matematico conoscerà il modo di ritrarre fuori i differenti aspetti di questa equazione, che rappresenta la trasmissione e l’annunciazione di messaggi, la creazione di suoni musicali, il soffio che porta via le nostre carte, e così via. Egli difficilmente avrà bisogno delle statue di Mercurio per pensare questo di lui, sebbene, se egli vuol servirsi delle statue, non ce ne vorrà meno di una fila completa, e tutte differenti. Alla stessa maniera i fisici matematici sono ancora occupati a creare immagini dei concetti della meccanica ondulatoria. In breve una formola matematica non può mai dirci che cosa è un oggetto, ma semplicemente come esso si comporta; può semplicemente specificare un oggetto con le sue proprietà. E queste sono poco probabilmente tali da coincidere in toto con le proprietà d’un singolo oggetto macroscopico della nostra vita quotidiana.
Questo punto di vista ci libera da alcune difficoltà o apparenti illogicità della fisica moderna. Noi non abbiamo più bisogno di discutere se la luce consta di particelle o di onde; noi sappiamo che tutto è conosciuto, se noi abbiamo trovato una formola matematica che descriva accuratamente il suo comportamento, e noi possiamo pensare che sia composta di particelle come di onde, secondo il nostro umore e la convenienza del momento.
Concependola modernamente come onde, noi possiamo, se ci piace, immaginare un etere che trasmetta le onde; ma questo etere varia di giorno in giorno; noi abbiamo visto che varierà ogni volta che cambia la velocità del nostro moto. Alla stessa guisa non abbiamo bisogno di discutere se il sistema di onde di un gruppo d’elettroni esiste in uno spazio a tre, o a più dimensioni, o non del tutto. Esiste in una formola matematica; questo, e niente altro, esprime l’ultima realtà, e noi possiamo raffigurarla con onde di tre, sei o più dimensioni, come ci piace. Noi possiamo interpretarlo affermando che a queste onde non compete realtà alcuna; facendo così, noi seguiremo Heisenberg e Dirac. È generalmente cosa semplicissima interpretarlo come rappresentante onde, proprio come è più semplice interpretare l’universo macroscopico come uno spiegamento d’oggetti in tre dimensioni soltanto, e i suoi fenomeni come uno svilupparsi d’eventi in quattro dimensioni, ma nessuna di queste interpretazioni possiede un valore unico e assoluto.
Da questo punto di vista, noi non troviamo, necessariamente, mistero alcuno nel contatto mobile delle nostre coscienze con la vuota bolla di sapone che noi chiamiamo spazio-tempo (p. 162) perchè esso si riduce al contatto tra lo spirito e la creazione dello spirito — come leggere un libro, o ascoltare una musica. È probabilmente superfluo aggiungere che, guardando le cose in tal modo, l’apparente vastità e vuotezza dell’universo, e l’insignificante nostra sede terrena, non deve causarci nè meraviglia nè inquietudine. Noi non dobbiamo atterrirci dalle proporzioni delle costruzioni che la nostra mente ha creato, o da ciò che altri immaginano e descrivono per noi. Nella storia del du Maurier; Pietro Ibbetson e la duchessa delle Torri continuano a costruire vasti palazzi di sogno e giardini di dimensioni sempre crescenti, ma non provano terrore alcuno per la grandezza delle loro creazioni mentali. L’immensità dell’universo diventa materia di soddisfazione piuttosto che di terrore; noi non siamo cittadini d’una città piccola. Noi non abbiamo neanche bisogno di confonderci di fronte alla finitezza dello spazio; noi non proviamo nessuna curiosità per quello che giace al di là delle quattro mura che limitano la nostra visione nel sogno.
Lo stesso è col tempo, che, come lo spazio, dobbiamo pensare di estensione finita. Se noi tracciamo il fluire del tempo all’indietro, noi incontriamo diversi indizi che ci dicono che dopo un lungo viaggio noi dobbiamo far ritorno alle nostre sorgenti, cioè ad un tempo prima del quale l’universo non esisteva. La natura impedisce il moto perpetuo delle macchine ed è a priori molto inverosimile che il suo universo ci fornisca un esempio, in grande scala, del meccanismo che essa ostacola. E uno studio dettagliato della natura conferma questo. La scienza della termodinamica spiega come ogni cosa in natura si trasformi in uno stato finale, per un processo, che è chiamato l’«aumento dell’entropia». L’entropia deve sempre crescere: essa non può fermarsi finchè non è cresciuta tanto che non possa crescere più. Se questo stadio è raggiunto, progressi ulteriori saranno impossibili, e l’universo morirà. Così, a meno che questo ramo della scienza sia sbagliato, la natura permette a sè stessa due alternative, e proprio due sole alternative, progresso e morte: la sola quiete che essa permette è il riposo nella tomba.
Alcuni scienziati, sebbene, credo, non molti, dissentiranno da questo modo di vedere. Mentre non hanno difficoltà ad ammettere che le stelle attuali si volatilizzano in radiazione, essi ritengono che negli spazi lontani, questa radiazione prenderà di nuovo consistenza, diventando materia.
Un nuovo cielo e una nuova terra, essi pensano, verranno creati nel processo, non dalle ceneri degli antichi, ma dalla radiazione, fatta libera nella combustione degli antichi. In questa maniera essi pretendono che l’universo possa essere rappresentato come un universo ciclico; mentre in una regione esso muore, in un’altra i prodotti della sua morte sono capaci di produrre vite nuove.
Questo concetto d’un universo ciclico è in contraddizione dal principio bene stabilito della seconda legge della termodinamica, che dice che l’entropia dell’universo deve sempre crescere, e che universi ciclici sono impossibili come è impossibile, nella stessa guisa e per la medesima ragione, il moto perpetuo meccanico. Che questa legge possa non valere sotto speciali condizioni astronomiche che non conosciamo, è concepibile; sebbene io penso che la maggioranza degli scienziati seri lo considereranno molto improbabile. Non è, però, da negare che l’idea d’un universo ciclico goda più popolarità. La maggioranza degli uomini trova la dissoluzione finale dell’universo così ripugnante come la dissoluzione della propria personalità, e l’aspirazione dell’uomo all’immortalità ha la sua contropartita macroscopica in queste aspirazioni più sofistiche ad un universo eterno.
Il punto di vista scientifico più ortodosso è che l’entropia dell’universo deve crescere sino al suo finale valore massimo. Non lo ha ancora raggiunto: noi non potremmo esser qui a pensare se questo fosse stato. Ma è rapidamente crescente, e così deve essere cominciata una volta; vi deve essere stata qualcosa che noi possiamo descrivere come una «creazione» in tempi non infinitamente remoti.
Se l’universo è un universo di pensiero, allora la sua creazione deve essere stata un atto del pensiero. Infatti la finitezza del tempo e dello spazio ci costringe, da sè, a raffigurare la creazione come un atto del pensiero; la determinazione di costanti come il raggio dell’universo e il numero d’elettroni che esso contiene implicano pensiero, la cui ricchezza è misurata dall’immensità di queste quantità. Tempo e spazio, che formano l’ordinamento del pensiero, devono aver avuto origine come parti di questo atto. Le primitive cosmologie raffigurano un creatore operante nello spazio e nel tempo, creante il sole, la luna e le altre stelle dal caos. La scienza moderna ci costringe a pensare il creatore operante fuori dello spazio e del tempo, che sono parti della sua creazione, proprio come l’artista è al di là della sua tela. «Non in tempore, sed cum tempore, finxit Deus mundum». Infatti la dottrina risale sino a Platone:
«Il tempo e i cieli sorsero nello stesso istante, in maniera che se debbono dopo dissolversi, dovranno dissolversi insieme. Tale era la mente e il pensiero di Dio nella creazione del tempo».
E tuttavia, per il poco che comprendiamo della natura del tempo, possiamo forse paragonare la totalità del tempo all’atto della creazione, cioè la materializzazione dello spirito.
Può essere obiettato che tutto il nostro argomento è basato sull’ipotesi che l’attuale interpretazione matematica del mondo fisico è in qualche modo unica, e dovrebbe così dimostrarsi definitiva. Per riprendere la nostra metafora, può dirsi che descrivere la realtà come un giuoco di scacchi può essere solo una finzione conveniente; altre potrebbero descrivere il movimento delle ombre altrettanto bene. La risposta è che, per quanto è proceduta sino ora la nostra conoscenza, altre finzioni non potrebbero descriverlo così adeguatamente, così completamente, così semplicemente.
L’uomo che non sa giocare a scacchi dice: «Un pezzo di legno bianco, lavorato in modo da sembrare una testa di cavallo su di un piedistallo, è preso dal quadrato nero nel vicino angolo a destra e mosso verso...» e così via. Il giocatore di scacchi dice: «Bianco: Kt verso KB3» e il suo modo di esprimersi non solamente spiega i movimenti pienamente e in breve, ma anche si riferisce a uno schema di cose più largo. Nella scienza, finchè la nostra conoscenza rimane incompleta, la più semplice spiegazione ha tanto più forza di convinzione quanto essa è più semplice. E se essa ha dei meriti oltre quelli della semplicità, essa ha la più alta probabilità di essere la vera spiegazione. Così mentre non si deve assolutamente ammettere che la spiegazione matematica possa dimostrarsi la più semplice nè la definitiva, noi possiamo senza esitazioni dire che essa è la più semplice e la più completa che abbiamo trovato, così che relativamente alla nostra attuale conoscenza essa ha la probabilità maggiore d’essere la spiegazione più vicina alla realtà.
Alcuni lettori possono non assentire, per il fatto che l’interpretazione matematica della natura ai nostri giorni sta a mezza via in rapporto ad una nuova interpretazione meccanica.
Le nostre menti moderne, io penso, hanno una inclinazione verso interpretazioni meccaniche. Questo in parte può essere dovuto alla nostra formazione scientifica precedente; in parte forse al fatto che noi vediamo ogni giorno oggetti che si comportano meccanicamente; una spiegazione meccanica sembra naturale ed è facilmente compresa. Tuttavia, in un esame obiettivo della situazione, il fatto che più emerge sembra essere che la meccanica ha già tirato il suo dardo, e ha fallito in malo modo, così dal lato scientifico come da quello filosofico.
Se qualcosa è destinata a sostituire la matematica, sembrerebbe che fosse qualcosa di molto contrastante con la meccanica.
È stato troppo spesso ripetuto che noi possiamo discutere queste questioni solo in termini di probabilità. L’uomo di scienza è abituato al rimprovero che gli si fa di cambiare le sue vedute ogni volta, con la conseguenza implicita che quel che dice non può esser preso troppo sul serio. Non è giusto disapprovare che, esplorando il fiume della conoscenza, egli discenda un affluente invece di continuare lungo la corrente principale; nessun esploratore può esser sicuro che un affluente è tale, e niente di più, finchè non l’abbia percorso. Ciò che è più serio e fuori del controllo dell’esploratore è che il fiume ha delle curve, ora ad Est ora ad Ovest.
A un certo momento l’esploratore dice: «Io vado con la corrente, e vado verso Ovest; l’oceano, che è la realtà, sembra dunque molto probabilmente stare ad Ovest». E più tardi, se il fiume ha piegato ad Est, egli dice: «Mi sembra che la realtà sia ad Est».
Nessuno scienziato, che sia vissuto negli ultimi trenta anni, può essere troppo dogmatico sul corso futuro della corrente, o sulla direzione in cui giace la realtà: egli sa dalla sua propria esperienza che il fiume non solamente è molto largo, ma fa molti giri e, dopo alcune delusioni, egli rinuncia al pensiero d’essere ad ogni svolta, all’ultimo, in presenza del
mormorio e odore dell’oceano infinito.
Con questa cautela mentale, sembra assicurato, almeno, che il fiume della conoscenza ha fatto un netto giro negli ultimi pochi anni. Trenta anni fa, noi pensavamo, o facevamo l’ipotesi, che si procedesse verso una realtà d’indole meccanica. Essa sembrava consistere di salti casuali di atomi, che erano destinati a fare danze senza significato per un certo tempo sotto l’azione di forze cieche, e dopo ricader giù per fare un mondo morto.
In questo mondo interamente meccanico, tra il giuoco delle stesse forze cieche, la vita sarebbe venuta per caso. Un piccolo frammento, e possibilmente diversi piccoli frammenti di questo universo di atomi avrebbero avuto in sorte di diventare coscienti per un certo tempo, ma sarebbero stati alla fine destinati, sempre sotto l’azione di cieche forze meccaniche, a gelarsi e lasciare di nuovo il mondo senza vita.
Oggi si è generalmente d’accordo, e nel campo dei fisici quest’accordo raggiunge l’unanimità, che la corrente della conoscenza ci conduca innanzi a una realtà non meccanica; l’universo diventa molto più simile a un grande pensiero che a una grande macchina. Lo spirito non appare più un intruso nel reame della materia; noi cominciamo a sospettare che possiamo salutare esso come il creatore e il governatore dell’universo materiale — naturalmente non i nostri spiriti individuali, ma lo spirito, in cui gli atomi, da cui i nostri spiriti individuali son derivati, esistono come pensieri.
La nuova conoscenza ci costringe a una revisione delle nostre prime rozze impressioni, che noi si fosse caduti in un universo che o non si interessa della vita o è attivamente ostile alla vita. L’antico dualismo di spirito e materia, che era principalmente responsabile della supposta ostilità, sembra probabilmente destinato a scomparire, non perchè la materia divenga in qualche modo un’ombra senza sostanza più di prima, o perchè lo spirito si risolva nell’azione della materia, ma perchè la materia sostanziale si risolve nella creazione e nella manifestazione della mente. Noi scopriamo che l’universo dà segni dell’esistenza di un potere che lo controlla e che ha qualche cosa in comune coi nostri spiriti individuali — non, per quel che abbiamo visto, emozione, moralità, o giudizio estetico, ma la tendenza a pensare nel modo che, per mancanza d’una parola migliore, noi definiamo come matematico. E mentre molto in esso può essere ostile ai materiali bisogni della vita, molto tuttavia è affine alle fondamentali attività della vita; noi non siamo altrettanti estranei o intrusi nell’universo come abbiamo prima pensato. Questi atomi inerti nel fango primordiale che prima cominciarono ad assumere gli attributi della vita, si mettevano sempre più d’accordo con la fondamentale natura dell’universo.
Così noi, almeno, siamo tentati di congetturare, e tuttavia, chi sa quante svolte farà ancora la corrente della conoscenza! Con questo pensiero dentro di noi, noi possiamo concludere aggiungendo che — e questo può essere scritto fra le linee di ogni paragrafo — ogni cosa che è stato detta e ogni conclusione è stata proposta come un tentativo, ed è assolutamente speculativa ed incerta. Noi abbiamo tentato di discutere se la scienza d’oggi ha qualche cosa da dire su certe difficili questioni, che forse sono al di là della nostra comprensione. Noi non possiamo pretendere di avere scorto più di un debole lume, nella migliore ipotesi; forse tutto è illusorio, perchè certamente noi abbiamo sforzato gli occhi per vedere. Così ciò che si può discutere, adesso, è se la scienza ha ancora qualcosa da dire, o se piuttosto la scienza non possa più, forse, dire niente: il fiume della conoscenza si è troppe volte rivolto indietro, su sè stesso.