L'Universo Misterioso/Capitolo IV
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Capitolo IV
LA RELATIVITÀ E L’ETERE
Sarà bene allora di studiare le proprietà fisiche di questi eteri con un po’ di cura, poichè in essi si deve nascondere la natura vera dell’universo.
E’ bene stabilire le nostre conclusioni sin da principio. Ed è, in breve, che gli eteri e le loro vibrazioni, le onde che formano l’universo, sono con tutta probabilità delle finzioni. Con questo non si dice che essi non abbiano esistenza alcuna: essi esistono nelle nostre menti, altrimenti noi non potremmo discutere su di essi; e qualcosa deve esistere al di fuori delle nostre menti per mettere nel nostro pensiero questo o un altro concetto. A questo qualcosa noi possiamo temporaneamente assegnare il nome di «realtà» ed è questa realtà che è l’oggetto di studio della scienza. Ma noi troveremo che questa realtà è qualcosa di molto differente da quello che gli scienziati di cinquant’anni fa pensavano dell’etere, delle vibrazioni e onde. Così che, giudicando con i modelli che essi se ne facevano e parlando, per il momento, il loro linguaggio, gli eteri e le loro onde non hanno alcuna realtà.
Eppure sono le cose più reali di cui noi abbiamo conoscenza o esperienza, e sono così reali, come nessun’altra cosa può esserlo per noi.
Il concetto di etere è entrato nella scienza due secoli fa o più. Quando le proprietà macroscopiche già conosciute della materia non furono sufficienti a spiegare un fenomeno, gli scienziati superarono la difficoltà creando un etere ipotetico, penetrante da per tutto, a cui essi attribuivano le proprietà necessarie per la spiegazione del fatto. E naturalmente vi era una tentazione speciale di ricorrere a questo procedimento nei problemi che sembravano parlare in favore di una «azione a distanza». E d’altra parte vi è tanto buon senso ad asserire che la materia può solamente agire lì dove è, e non può assolutamente agire dove non è, che chi dica il contrario difficilmente può tirarsi dietro la maggioranza dei suoi seguaci. Descartes era arrivato sino a dire che il semplice fatto dell’esistenza di corpi separati, a una certa distanza, era una prova sufficiente dell’esistenza d’un mezzo tra essi.
Così, poichè non c’era una massa materiale a trasmettere un’azione meccanica, come quella esercitata da un magnete su di una sbarra d’acciaio, o dalla terra su di una mela che cade, la tentazione ad invocare un etere, penetrante da per tutto, divenne irresistibile, e quello che può esser definito l’abito dell’etere invase la scienza. Perciò Maxwell si espresse così: «Gli eteri furono inventati perchè vi navigassero i pianeti, per costituire atmosfere elettriche ed effluvi magnetici, per trasmettere sensazioni da un corpo all’altro, finchè tutto lo spazio fu riempito diverse volte dall’etere». Infine vi erano quasi tanti eteri quanti problemi insoluti in fisica.
Cinquant’anni dopo, solamente uno di questi eteri sopravviveva nelle menti degli scienziati seri: l’etere luminoso, che si supponeva trasmettesse le radiazioni. Le proprietà necessarie a compiere questa funzione sono state definite, con precisione sempre crescente, da Huyghens, Thomas Young, Faraday e Maxwell. Esso era immaginato come un mare di gelatina, in cui le onde potrebbero propagarsi come le vibrazioni o ondulazioni attraverso una gelatina. Queste onde erano le radiazioni che, come noi sappiamo, possono prendere una qualunque delle varie forme: luce, calore, radiazione infrarossa e ultravioletta, onde elettromagnetiche, raggi X, raggi γ e radiazione cosmica.
Il fenomeno astronomico dell’«aberrazione della luce» come parecchi altri, mostra che, se un tale etere esiste, la terra e tutti gli altri corpi mobili debbono attraversarlo senza difficoltà. O, se noi prendiamo posizione sulla terra e studiamo i fenomeni da questo punto di osservazione, l’etere deve passare attraverso gli interstizi fra la terra e gli altri corpi solidi senza incontrare ostacoli: «come il vento attraverso un boschetto di alberi», per adoperare la famosa ma inesatta similitudine di Thomas Young. Essa è inesatta perchè, nel fatto concreto, il vento agisce sugli alberi; il movimento delle loro foglie, frasche e rami dà indicazioni sulla sua forza. Ma si può dimostrare che il moto attraverso l’etere non può in grado minimo disturbare i corpi solidi, che sono in riposo sulla terra, o agire sui loro movimenti se essi si muovono; noi non dobbiamo aggiungere la resistenza dell’etere alla resistenza dell’aria, discutendo su che cosa impedisca alla nostra automobile d’andare a velocità maggiore.
Così se un etere esiste, è affatto indifferente, sia che il vento d’etere soffii sopra di noi con velocità d’un miglio all’ora, o di mille miglia.
Questo è in concordanza con i principi dinamici che Newton ha enunciato nei suoi Principia:
Corollario V: I movimenti di corpi chiusi in un dato spazio relativamente ad essi stessi sono i medesimi, sia che lo spazio sia in quiete sia che si sposti uniformemente in linea retta, senza alcun movimento circolare.
Newton continua:
Una chiara prova di questo ci è fornita dall’esperimento del bastimento, dove tutti i moti avvengono nello stesso modo sia che il bastimento sia fermo, sia che proceda con moto rettilineo uniforme.
Questo principio generale mostra che nessun esperimento predisposto a bordo d’un bastimento e limitato ai confini di esso, potrà mai indicare la velocità del bastimento in un mare tranquillo. Infatti è materia d’osservazione comune che, con tempo calmo, noi non possiamo dire in quale direzione il bastimento si muova, senza guardare al mare. Se il vento d’etere avesse un effetto sui corpi terrestri, il disturbo prodotto darebbe un’indicazione sulla velocità con cui soffia, come l’oscillare dei rami d’un albero dà un’indicazione sulla velocità del vento ordinario. Così come stanno le cose, è necessario ricorrere ad altri metodi.
Sebbene un navigatore nell’oceano non possa determinare la velocità del suo bastimento, con
un’osservazione limitata al bastimento, egli può farlo facilmente se è libero d’osservare il mare. Se egli lascia cadere un filo a piombo in mare, si produrrà un increspamento circolare; ma ogni marinaio sa che il punto in cui il filo entra nell’acqua non rimarrà al
Fig. 1. - Diagramma per illustrare l’esperimento Michelson-Morley
La luce dalla sorgente A è proiettata sullo specchio semiargentato O, cosicchè metà è riflessa lungo OB e il resto continua lungo OC, di una lunghezza eguale ad OB, nel caso concreto circa 12 yards. Degli specchi in B e C riflettono la luce all’indietro in O, e metà di ciascun fascio di raggi passa quindi in un piccolo telescopio D. La quantità di cui uno ritarda rispetto all’altro è paragonato con il ritardo che si ottiene quando tutto l’apparecchio è girato di 90°. Questo procedimento elimina ogni errore causato da una leggera differenza di lunghezza tra i due tratti OB e OC.
centro del circolo. Il centro del circolo sta fisso nell’acqua, ma il punto d’entrata del filo è trascinato dal movimento del bastimento, così che la velocità con cui il punto d’entrata nell’acqua si sposta dal centro del circolo ci dà la velocità del bastimento sul mare.
Se la terra nella stessa maniera solca un mare di etere, un esperimento concepito su una linea simile, può rivelare la velocità del suo moto. Il famoso esperimento Michelson-Morley fu concepito precisamente a questo scopo. La nostra terra era il bastimento, e il laboratorio fisico dell’università di Cleveland (Ohio) era il punto d’entrata del filo a piombo nel mare. Il lasciar cadere il filo a piombo era rappresentato dall’emissione d’un segnale luminoso, ed era supposto che le onde luminose che costituivano questo segnale dovevano produrre delle increspature nel mare d’etere.
Il progredire dell’increspamento non era seguito direttamente, ma potevano ottenersi informazioni sufficienti, disponendo degli specchi, che riflettessero il segnale, facendolo tornare al punto di partenza. Questo rendeva possibile di determinare il tempo che la luce impiegava a percorrere il cammino doppio avanti e indietro.
Se la terra fosse ferma nell’etere, il tempo del doppio percorso d’una data lunghezza sarebbe sempre lo stesso senza riguardo alla sua direzione nello spazio. Se la terra si muovesse in un mare d’etere in direzione verso Est, allora è facile vedere che per un percorso doppio prima da Est verso Ovest, e poi da Ovest verso Est, occorrerebbe un tempo leggermente maggiore che non per egual lunghezza in direzione Nord-Sud e Sud-Nord. In questo non è implicito nessun principio più recondito di quello contenuto nella esperienza comune, che si impiega più tempo a spingere una barca a remi per cento metri contro corrente e poi per altri cento metri con la corrente, che a remare per 200 metri di traverso alla corrente; nel primo caso noi procediamo più lentamente contro corrente e andiamo più presto con il favore della corrente, ma il tempo che guadagniamo dopo non è sufficiente a farci riprendere quello precedentemente perduto remando contro corrente. Se due rematori di egual forza partono simultaneamente per i due percorsi, quello che rema attraversando la corrente arriva prima, e la differenza fra i loro tempi d’arrivo darà un’indicazione sulla velocità della corrente. Si presumeva che, precisamente alla stessa maniera, la differenza di tempo impiegato dai due raggi di luce nell’esperienza di Michelson-Morley dovesse rivelare la velocità del moto della terra attraverso l’etere.
L’esperimento fu eseguito molte volte, ma non si trovò differenza alcuna di tempo. Così con l’ipotesi che la nostra terra fosse circondata da un mare di etere, l’esperimento sembrava dimostrare che la sua velocità attraverso questo mare d’etere fosse zero. Secondo tutte le apparenze, la terra stava permanentemente in riposo nell’etere, mentre il sole e tutto l’universo girava intorno a lei; l’esperimento sembrava riportarci indietro alla concezione precopernicana dell’universo.
Tuttavia era impossibile che questa dovesse essere la vera interpretazione, perchè si sapeva che la terra si muove intorno al sole con una velocità di circa 20 miglia al secondo, e gli esperimenti erano abbastanza sensibili per rivelare velocità d’un centesimo di questa.
Fitzgerald nel 1893, e Lorentz indipendentemente nel 1895, suggerirono un’altra interpretazione. Gli sperimentatori avevano infatti tentato di far percorrere simultaneamente avanti e indietro ai due raggi di luce due tratti di egual lunghezza. Senza perdere nulla dell’essenziale dell’esperimento, noi possiamo immaginare che la lunghezza dei due percorsi sia stata misurata o paragonata con aste da misura. Come si sa, Fitzgerald e Lorentz si domandarono se queste aste, o il percorso misurato da esse, conservassero la loro lunghezza esatta mentre erano trasportate attraverso l’etere. Se un bastimento si muove attraverso l’oceano, la pressione del mare sulla prua produce una contrazione della sua lunghezza; cioè, per così dire, è compresso — una piccola frazione di pollice — tra il mare che cerca d’impedire alla prua d’avanzare e l’elica che cerca di spingere avanti la poppa. Alla stessa maniera un’automobile che si muove nell’aria si contrae, come se fosse serrata tra la pressione dell’aria contro la sua parte anteriore e il moto in avanti delle sue ruote posteriori. Se l’apparecchio di Michelson e Morley si contrae allo stesso modo, il percorso con e contro corrente sarà più corto di quello attraverso la corrente.
Questa riduzione di lunghezza avrebbe per effetto di compensare lo svantaggio della corsa con e contro corrente. Una contrazione della quantità esattamente giusta compenserebbe completamente questo, in modo che questo percorso e l’altro di traverso alla corrente richiederanno precisamente tempi eguali. Così, suggerivano Fitzgerald e Lorentz, è possibile rendersi conto del risultato nullo dell’esperimento.
L’idea non era completamente fantastica o ipotetica, perchè Lorentz poco dopo mostrò che la teoria elettrodinamica allora corrente richiedeva che appunto una tale contrazione dovesse accadere nel caso reale. Sebbene la contrazione non fosse affatto analoga a quella dei bastimenti o delle automobili, questa dava un’idea sufficientemente esatta del meccanismo. Effettivamente Lorentz mostrò che se la materia è di struttura puramente elettrica, costituita unicamente di particelle cariche elettricamente, il moto attraverso l’etere deve avere per effetto che le particelle cambino del pari la loro posizione e non tornino allo stato di quiete relativa, finchè il corpo non si sia contratto d’una certa quantità calcolabile. E questa quantità è precisamente quella necessaria per spiegare il risultato nullo dell’esperimento Michelson-Morley.
Questo non solamente spiegava pienamente e completamente perchè l’esperienza Michelson-Morley fosse fallita, ma di più dimostrava che ogni asta materiale doveva necessariamente contrarsi, precisamente di quel tanto da celare il moto della terra attraverso l’etere, così che tutti gli esperimenti simili erano condannati a priori al fallimento.
Ma altri tipi di aste da misura sono conosciute nella scienza; fasci di luce, forze elettriche, e così via, possono essere adoperati per misurare le distanze da un punto ad un altro e fornire così il mezzo per ottenerne una misura. Si pensò che dove aste materiali avevano fallito, mezzi ottici ed elettrici potevano avere successo. Il tentativo è stato fatto, ripetutamente e in varie forme — i nomi del defunto Lord Rayleigh, di Brace, di Trouton sono eminenti in questa serie di sperimentatori. E ogni volta è mancato il successo. Se la terra ha una velocità x attraverso l’etere, ogni apparecchio che mente umana può inventare falsa la misura di x aggiungendo una velocità spuria, esattamente eguale a -x, e ridà così, la risposta negativa dell’esperienza originale di Michelson e Morley. Il risultato di vari anni di esperimenti difficili era che le forze della natura sembravano, senza eccezione, far parte di una cospirazione, perfettamente organizzata, per nascondere il moto della terra attraverso l’etere. Questo, naturalmente, è il linguaggio del profano, non dello scienziato. Quest’ultimo preferisce dire che le leggi di natura rendono impossibile di mettere in evidenza il moto della terra attraverso l’etere. Il contenuto filosofico delle due esposizioni è precisamente lo stesso. Alla stessa guisa l’inventore che non è scienziato può esclamare disperato che le forze della natura cospirano, per impedire alla sua macchina del moto perpetuo di funzionare mentre lo scienziato sa che l’ostacolo è molto più serio che non sia una cospirazione: esso è una legge naturale. E così lo zelante, ma poco illuminato, riformatore sociale e il politicante ignorante sono egualmente propensi a vedere le cospirazioni più nere dietro l’opera di leggi economiche che rendono impossibile di estrarre un quarto da un vaso d’una pinta1.
Nel 1905 Einstein proponeva la supposta nuova legge della natura nella seguente forma: «la natura è così formata che è impossibile determinare il moto assoluto con qualsiasi esperimento». Ed era la prima formulazione del principio di relatività.
In modo alquanto singolare era un ritorno al pensiero e alle dottrine di Newton. Nei suoi Principia, Newton ha scritto:
«È possibile che in remote regioni delle stelle fisse o forse molto al di là, vi siano alcuni corpi in quiete assoluta, ma è impossibile sapere, dalle posizioni di un corpo rispetto ad un altro nelle nostre regioni, se uno di questi mantiene la stessa posizione rispetto a quei corpi lontani. Ne segue che la quiete assoluta non può essere determinata dalla posizione di corpi nelle nostre regioni».
Ciò che ha precisato aggiungendo:
«Io non ho riguardo, in questo luogo, a un mezzo, supposto che esista, che liberamente pervade gli interstizi fra le parti dei corpi».
In altre parole Newton ha posto in chiaro che senza un etere che penetri da per tutto, è impossibile determinare la velocità assoluta del movimento attraverso lo spazio e così ha mostrato che un tale mezzo fornirebbe un sistema fisso di riferimento, rispetto al quale il moto di tutti i corpi potrebbe essere misurato.
I due secoli che vennero dopo hanno visto la scienza attivamente occupata a discutere le proprietà di questo supposto mezzo, e adesso Einstein d’un colpo lo priva della sua più importante proprietà, che è di fornire un riferimento in quiete, rispetto al quale può essere misurata la velocità vera di ogni movimento.
Il principio di Einstein può essere formulato per altra via, che mette più in chiaro il suo significato. Agli astronomi è fallita la ricerca dei corpi di Newton in quiete assoluta, «nelle remote regioni dello spazio, o forse al di là», cosicchè moto e quiete sono termini puramente relativi. Un bastimento che si mette alla cappa è in quiete solo in senso relativo — relativo alla terra; ma la terra è in moto relativamente al sole, e il bastimento con essa. Se la terra si fermasse nel suo giro intorno al sole, il bastimento diverrebbe in quiete relativa rispetto al sole, ma ambedue si muoverebbero tra le stelle circostanti. Arrestate il moto del sole tra le stelle, e rimane sempre il moto di tutto il sistema galattico delle stelle relativamente alle lontane nebulose. E queste remote nebulose si allontanano o si avvicinano l’una verso l’altra con velocità di centinaia di miglia al secondo o forse più; andando più in là nello spazio, noi non solo non troviamo riferimenti al riposo assoluto, ma incontriamo invece velocità sempre maggiori.
Se non abbiamo a guida un mezzo che pervade tutto l’universo, noi non possiamo mai dire che cosa intendiamo per riposo assoluto, finchè non l’abbiamo trovato. Il principio d’Einstein ci dice adesso che per tutto quello che riguarda i fenomeni osservabili della natura, noi siamo liberi di definire il «riposo assoluto» nel modo che più ci piace. Questo è una dichiarazione sensazionale. Noi abbiamo perfettamente il diritto di dire, se così preferiamo, che questa stanza è in quiete, e la Natura non ci dirà di no. Se la Terra ha una velocità di 1000 miglia al secondo attraverso l’etere, possiamo supporre allora che l’etere soffii per questa stanza «simile a un vento in un boschetto di alberi» con una velocità di 1000 miglia al secondo. E il principio di relatività assicura che tutti i fenomeni naturali, in questa stanza, non risentono effetto alcuno da questo vento di 1000 miglia al secondo; e sarebbe pure lo stesso se il vento soffiasse a 100.000 miglia al secondo — o se al contrario questo vento non ci fosse del tutto.
Non è affatto sorprendente e neanche nuovo che tutti i fenomeni meccanici, che non hanno niente a che fare con il supposto etere, debbano restare gli stessi; noi abbiamo visto che questo era conosciuto da Newton. Ma se un etere realmente esiste, sembra strano che i fenomeni ottici ed elettrici debbano essere gli stessi sia che l’etere che li propaga sia in riposo o soffii sopra e attraverso di noi a migliaia di miglia al secondo. Inevitabilmente ciò solleva il problema di sapere se l’etere, al cui spostamento si attribuisce questo vento, ha effettivamente un’esistenza reale o non è che una semplice finzione della nostra fantasia. Perchè noi dobbiamo sempre ricordare che l’esistenza dell’etere è solamente un’ipotesi, introdotta nella scienza dai fisici, che convenendo che tutto dovesse ammettere una spiegazione meccanica, ne arguivano che dovesse esservi un mezzo meccanico per trasmettere le onde luminose e tutti gli altri fenomeni elettrici e magnetici.
Per giustificare la loro convinzione, essi hanno mostrato che un sistema di tensioni, pressioni e fili di trasmissione può essere immaginato nell’etere per trasmettere tutti i fenomeni naturali attraverso lo spazio e consegnarli sino al punto lontano, dove essi sono osservati — come un sistema di fili trasmette la forza meccanica dal cordone del campanello sino al campanello. Il sistema richiesto di tensioni, pressioni e fili trasmittenti fu trovato col tempo, ma si mostrò eccessivamente complicato. Forse non c’era da sorprendersi; l’etere non solamente doveva trasmettere gli effetti osservati, ma, così facendo, doveva celare la sua propria esistenza. Non poteva evidentemente essere una cosa semplice fare in modo che un unico e identico meccanismo trasmettesse precisamente il medesimo fenomeno sia che lo sperimentatore fosse in riposo, sia che fosse lanciato per l’etere a 1000 miglia al secondo, mentre eseguiva i suoi esperimenti. E alla prova dei fatti, il meccanismo così escogitato si offrì all’obiezione fatale che esso poteva trattare alla stessa guisa due serie di fenomeni, solo postulando due meccanismi distinti nei due casi.
Noi possiamo illustrare l’obiezione discutendo un semplice fenomeno in particolare. Secondo questo schema di trasmissione eterea, caricando un corpo d’elettricità, noi produciamo uno stato di tensione nell’etere circostante, proprio come se forzassimo un corpo estraneo a penetrare in un mare di gelatina. Se due corpi ambedue in riposo nell’etere sono carichi d’elettricità simile, essi si respingono e la loro repulsione si suppone che si trasmetta per mezzo di pressioni, che questo stato di tensione crea nell’etere.
Supponiamo tuttavia che due corpi carichi, invece d’essere in riposo nell’etere, si muovano attraverso questo con la stessa precisa velocità di 1000 miglia al secondo da Est verso Ovest. Siccome i corpi sono in riposo l’uno rispetto all’altro, il principio di relatività richiede che i fenomeni osservabili siano precisamente gli stessi, come quando i due corpi erano in riposo assoluto nell’etere. Ma un meccanismo del tutto diverso produce i fenomeni in questo secondo caso. La repulsione è in parte il risultato d’uno stato di tensione dell’etere, ma non tutta. Il rimanente è dovuto a forze magnetiche, e queste non possono essere spiegate come tensioni o pressioni nell’etere, ma sono da attribuire a complicati sistemi di cicloni e di vortici.
Fenomeni elettromagnetici più complessi sono in generale prodotti da una combinazione di forze elettriche e magnetiche, e i due generi di meccanismi entrano in differente proporzione secondo le differenti velocità di moto attraverso l’etere. Così il tentativo di trovare una spiegazione meccanica di questi fenomeni implica l’uso di due distinti meccanismi, per produrre identicamente lo stesso fenomeno.
Tuttavia si può dimostrare che un etere concepibile può adattarsi ad ambedue i meccanismi. Ma se pure questo potesse essere provato, una tale dualità nel meccanismo richiesto per produrre un singolo fenomeno osservabile sarebbe così contrario al modo ordinario d’operare in natura, che non potremmo non sentire d’essere su una strada sbagliata. La teoria della gravitazione di Newton avrebbe avuto poche probabilità d’essere accettata se avesse postulato un doppio meccanismo per spiegare la caduta d’una mela da un albero, aggiungendo che uno operava in estate e l’altro d’autunno.
Newton stesso dava molta importanza alla necessità d’evitare meccanismi duplicati di questo tipo. I suoi Principia contengono una serie di «Regole del ragionamento filosofico», di cui le prime due suonano così:
REGOLA 1
Noi non dobbiamo ammettere maggior numero di cause naturali di quelle necessarie e sufficienti per spiegare le loro apparenze.
A questo scopo i filosofi dicono che la Natura non fa niente invano, e il più è vano, se il meno è sufficiente; perchè la Natura ama la semplicità e non gradisce la pompa di cause superflue.
REGOLA 2
Quindi agli stessi effetti noi dobbiamo assegnare, per quanto è possibile, le stesse cause.
Così per la respirazione nell’uomo o negli animali; la caduta di una pietra in Europa o in America; la luce del fuoco della nostra cucina e quella del sole; la riflessione della luce sulla terra o sui pianeti.
Qui vi è, tuttavia, un fatto più importante di questo, contro la supposizione che l’etere luminoso trasmetta radiazioni e azioni elettriche.
Noi abbiamo visto che elettricità, magnetismo e luce tutti sembrano cospirare per impedirci di mettere in evidenza il moto attraverso l’etere, ma rimane la gravitazione; questa è stata sempre tenuta a parte dagli altri fenomeni fisici, ed è sembrata essere di natura differente. Ora la legge di gravitazione implica l’idea di distanza: asserisce che le forze gravitazionali tra due corpi dipendono dalla distanza che li separa, ed esse sono eguali per distanze eguali. Così, in teoria almeno, la legge di gravitazione fornisce un mezzo per misurare le distanze.
Un etere che trasmette le azioni elettriche può difficilmente trasmettere del pari le azioni gravitazionali, perchè tutte le proprietà con cui noi lo possiamo definire sono state già adoperate per render conto della trasmissione che esso fa delle forze elettriche e magnetiche.
L’asta rigida da misura che la legge di gravitazione fornisce, si può quindi credere che sia immune dalla contrazione Fitzgerald-Lorentz, e con un tale metro a nostra disposizione noi possiamo essere in grado di misurare la velocità della Terra nello spazio.
Esaminiamo questa possibilità nel caso concreto più semplice. Idealizziamo la nostra Terra e pensiamola come un globo perfetto. Ogni punto della sua superficie è ora alla medesima distanza dal centro e quindi la forza di gravità sarà la stessa da per tutto. Se questa Terra ideale è posta in moto attraverso l’etere con una velocità di mille miglia al secondo, l’ordinaria contrazione di Fitzgerald-Lorentz causerà una diminuzione del suo diametro di circa 30 piedi nella direzione del moto; e poichè gli estremi del diametro, che s’è contratto, saranno più vicini al centro della terra degli altri punti della superficie terrestre, tutti gli oggetti mobili sulla superficie della terra tenderanno a sdrucciolare verso questi due punti. Sempre che esista, questo effetto particolare sarà troppo piccolo per essere osservato sulla nostra terra, perchè le irregolarità delle montagne e delle vallate, che noi abbiamo per un momento pensato non esistessero, rendono senza importanza una contrazione di 30 piedi. Pure vi sono altri fenomeni gravitazionali di tipo simile e abbastanza notevoli per rendere possibile l’osservazione, in particolare il moto del perielio dei pianeti. E questi mostrano che la gravitazione si collega, per così dire, con le altre forze naturali per tener celato il moto attraverso l’etere; se le aste materiali da misura subiscono la contrazione di Fitzgerald-Lorentz, anche le misure di lunghezza fornite dalla legge di gravitazione fanno altrettanto. Sebbene la gravitazione non possa essere trasmessa attraverso l’etere, è difficile vedere che i metri della legge di gravitazione possano essere soggetti a questa contrazione. Noi dobbiamo concluderne che la contrazione di Fitzgerald-Lorentz non esiste del tutto, e questo ci costringe ad abbandonare l’etere meccanico.
Noi siamo costretti a ricominciare di nuovo. Le nostre difficoltà sono tutte sorte dalla nostra iniziale assunzione che ogni cosa in Natura, e le onde luminose in particolare, ammettono una spiegazione meccanica: noi abbiamo tentato in breve di trattare l’universo come una grande macchina; ma poichè questo ci ha condotti su una via sbagliata, dobbiamo cercare un altro principio che ci faccia da guida.
Una guida più sicura che il fuoco fatuo delle spiegazioni meccaniche è fornito dal principio di Guglielmo di Occam: «Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem» (Noi non dobbiamo assumere l’esistenza d’un’entità, finchè non vi siamo costretti). Il suo contenuto filosofico è identico con la prima «Regola del ragionamento filosofico» di Newton ricordata sopra. Esso è puramente negativo; toglie di mezzo qualcosa, nell’esempio attuale, l’ipotesi d’un universo meccanico con un etere, trasmettente azioni meccaniche attraverso lo «spazio vuoto», ma non ci dà altro da mettere al suo posto.
Per chiudere la breccia il modo ovvio è d’introdurre il principio di relatività: «la Natura è tale che è impossibile determinare il moto assoluto con un esperimento qualsiasi». A prima vista questo può sembrare uno strano modo di colmare il vuoto derivato dalla rinuncia all’etere: le due ipotesi sono di natura così differente che può sembrare incredibile che la seconda debba essere in grado di prendere il posto lasciato dalla prima. Di più nel caso attuale l’una è la esatta antitesi dell’altra: la funzione principale dell’etere era di fornire un riferimento fisso — tutte le altre proprietà erano rese necessarie dai nostri sforzi di conciliare lo schema osservato della natura con i nostri presupposti preliminari. Nella sua essenza la teoria della relatività implica semplicemente la negazione di questi presupposti preliminari, cosicchè le due ipotesi sono esattamente antitetiche.
Proprio a causa di ciò, la questione è posta nettamente, e l’esperimento è in grado di decidere ciò. Il verdetto non lascia adito a dubbi; noi abbiamo visto che gli sforzi sperimentali per scoprire l’etere sono falliti, e così facendo noi abbiamo confermato l’ipotesi della teoria della relatività. Ogni singolo esperimento ogni volta effettuato ha deciso, per quanto noi sappiamo, in favore dell’ipotesi della relatività. Per questa via l’ipotesi d’un etere meccanico è stata detronizzata, e il principio di relatività collocato al suo posto. Il segnale della rivoluzione fu un breve lavoro di Einstein, pubblicato nel giugno 1905. E con la sua pubblicazione, lo studio dell’intima essenza della Natura dagli scienziati ingegneri passa ai matematici.
Sino a questo punto, noi abbiamo pensato lo spazio come qualcosa intorno a noi, e il tempo come qualcosa che scorre sopra di noi, o anche dentro di noi. Le due cose sembravano essere, in maniera fondamentale, differenti. Noi possiamo tornare sui nostri passi nello spazio, ma non nel tempo; noi possiamo muoverci lentamente o velocemente o niente del tutto, nello spazio, a nostra scelta, ma non possiamo regolare il fluire del tempo; esso procede alla stessa maniera sempre incontrollabile da parte nostra. Tuttavia i primi risultati di Einstein, come furono interpretati da Minkowsky quattro anni dopo, implicano la sorprendente conclusione che la natura non sa niente di tutto questo.
Noi abbiamo già visto che la materia è di natura elettrica, così che in ultima analisi tutti i fenomeni fisici sono elettrici. Minkowsky ha dimostrato che secondo la teoria della relatività occorre pensare che tutti i fenomeni elettrici non accadono separatamente nello spazio e nel tempo, come si era pensato sino allora, ma nello spazio e nel tempo così perfettamente saldati tra loro, che è impossibile scoprire la saldatura; così intimamente, che tutti i fenomeni naturali non sono in grado di dividere il prodotto in spazio e tempo separati.
Se noi saldiamo insieme lunghezza e larghezza, noi abbiamo una superficie — poniamo un campo di cricket. I differenti giocatori lo dividono nelle sue due dimensioni in maniera differente; la direzione è «avanti» per chi batte, è «indietro» per chi la riceve, ed è «da destra a sinistra» per l’arbitro.
Ma la palla del cricket non conosce queste distinzioni; essa va dove è mandata, diretta soltanto dalle leggi naturali che trattano la superficie del campo da cricket come un tutto indivisibile, lunghezza e larghezza essendo saldate in un’unità indifferenziata.
Se noi poi saldiamo con la superficie (come un campo di cricket) a due dimensioni l’altezza (di una dimensione), otteniamo uno spazio a tre dimensioni. Finchè noi facciamo tutto questo in vicinanza della terra, noi possiamo sempre dire che la gravità separa il nostro spazio in «altezza» e «superficie»; per esempio la direzione dell’altezza è quella direzione in cui è più difficile gettare una palla di cricket a una data distanza. Ma fuori, nello spazio, la natura non ci dà nessun mezzo per fare questa distinzione; quindi le sue leggi non conoscono niente dei nostri concetti puramente locali di orizzontale e verticale, e trattano lo spazio come constante di tre dimensioni, tra cui nessuna distinzione è possibile.
Con un processo costruttivo noi siamo passati da una dimensione a due, e poi da due a tre. E’ più difficile di passare da tre a quattro perchè noi non abbiamo esperienza alcuna d’uno spazio quadrimensionale. E lo spazio quadrimensionale che noi particolarmente dobbiamo discutere, è specialmente difficile ad immaginare perchè una delle sue dimensioni non dev’essere spaziale, ma temporale; per capire la teoria della relatività noi siamo chiamati ad immaginare uno spazio quadrimensionale in cui tre dimensioni spaziali sono saldate a una dimensione temporale.
Per aver un’idea delle nostre difficoltà, immaginiamo da prima solamente uno spazio a due dimensioni, Fig. 2. - Diagramma per illustrare il moto d’un treno nello spazio e nel tempo. ottenuto unendo insieme una dimensione dello spazio ordinario, per esempio una lunghezza, e una dimensione del tempo. La fig. 2 può aiutarci per comprendere il concetto. Essa rappresenta, in forma di diagramma, la corsa del Cornisch Riviera Express che lascia Paddington alle 10,30 a. m. e raggiunge Plymouth, 226 miglia distante, alle 2,30 p. m. La linea orizzontale rappresenta le 226 miglia del tratto congiungente le due stazioni, e la linea verticale rappresenta l’intervallo di tempo dalle 10,30 a. m. alle 2,30 p. m. in un giorno in cui il treno fa il suo viaggio.
La linea segnata più grossa rappresenta il movimento del treno. Per esempio il punto P su questa linea corrisponde al tempo 12.00 e alla distanza 91½ miglia da Paddington, significando che il treno a mezzogiorno ha percorso 91½ miglia. D’altra parte un punto come Q rappresenta un luogo vicino ad Exeter a mezzogiorno; Q non giace sulla linea piena, perchè il treno non arriva a Exeter per mezzogiorno. L’intera area del diagramma rappresenta tutti i possibili luoghi della linea tra Paddington e Plymouth in tutti i tempi tra le 10,30 e le 2,30. Così, riunendo insieme una lunghezza, 226 miglia di distanza, e un tempo, cioè quattro ore del giorno, noi abbiamo ottenuto un’area avente una dimensione temporale e l’altra spaziale.
Nella stessa maniera possiamo immaginare le tre dimensioni dello spazio e una dimensione del tempo saldate insieme, da formare un volume a quattro dimensioni, che noi possiamo descrivere come un «continuo». Allora il principio di relatività, secondo l’interpretazione di Minkowsky, stabilisce che tutti i fenomeni elettromagnetici possono essere pensati come producentisi in un continuo a quattro dimensioni — tre dello spazio e una del tempo — in cui è impossibile separare lo spazio dal tempo in maniera assoluta.
In altre parole, il continuo è tale che in esso spazio e tempo sono così completamente uniti, così perfettamente immersi l’uno nell’altro che le leggi naturali non possono fare distinzioni fra essi, giusto come, in un campo di cricket, lunghezza e larghezza sono saldati in una unità, e la palla da cricket, quando è lanciata, non fa nessuna distinzione tra essi, trattando il campo semplicemente come una superficie in cui lunghezza e larghezza, separatamente considerate, hanno perduto il loro significato.
Può essere obiettato che la fig. 2 non dà nessun aiuto per immaginare questo continuo; che essa è puramente un diagramma; che non rappresenta realmente l’unione del tempo vero con la lunghezza, ma semplicemente d’una lunghezza con un’altra lunghezza, che una volta conosciuta dà un’area — in questo caso la pagina del libro. Noi non dobbiamo attardarci a confutare questa obiezione, perchè la nostra conclusione finale sarà che il continuo quadridimensionale, è, nello stesso senso, puramente diagrammatico. Esso fornisce semplicemente un conveniente sistema di riferimento per esporre il modo di operare della natura, proprio come nella fig. 2 ci dà un mezzo conveniente per rappresentare la corsa del treno.
Tuttavia, perchè noi possiamo rappresentare tutti i fenomeni naturali con questo mezzo, esso deve corrispondere a una realtà obiettiva. Ma la sua divisione in spazio e tempo non è oggettiva; essa è puramente soggettiva. Se voi ed io ci moviamo con velocità differenti, lo spazio e il tempo significano per voi qualche cosa di differente da quello che essi significano per me; noi dividiamo il continuo in spazio e tempo in maniera diversa, proprio come, se noi stessimo con la fronte in direzioni differenti, «di fronte» e «a sinistra» hanno significato diverso per noi due, o come i due giocatori di cricket dividono il campo di cricket in maniera diversa, senza che la palla di cricket ne sappia niente.
Pure se io cambio la mia velocità, frenando la mia vettura, o saltando in un autobus in corsa, io da me stesso mi adatto alla divisione in spazio e tempo. E l’essenza della teoria della relatività è che la natura non sa nulla di queste divisioni del continuo in spazio e tempo; con le parole di Minkowsky: «spazio e tempo separati svaniscono in pure ombre e solamente una sorta di combinazione dei due ha una realtà». Questo mette in luce che l’antico etere era inevitabilmente destinato a scomparire — esso si assumeva il compito di «riempire» lo spazio, e così dividere il continuo obiettivamente in spazio e tempo. E le leggi di natura, non riconoscendo la possibilità d’una tale divisione, non potevano ammettere l’esistenza dell’etere come una possibilità.
Così se noi abbiamo bisogno di render visibile la propagazione delle onde luminose e delle forze elettro-magnetiche, pensandole come perturbazioni dell’etere, il nostro etere deve essere qualcosa di molto differente dall’etere meccanico di Maxwell e Faraday. Esso può essere concepito come avente una struttura quadri-dimensionale, riempiendo tutto il continuo, e così estendendosi per tutto lo spazio e il tempo, nel qual caso noi possiamo far uso dello stesso etere. Oppure, se noi sentiamo bisogno d’un etere tridimensionale, esso deve essere soggettivo in un modo che l’etere di Maxwell e Faraday non era. Ciascuno di noi deve allora portarsi con sè il suo etere, così come dopo un acquazzone ciascun osservatore ha il suo proprio arcobaleno. Se cambia la mia velocità io mi creo da me un nuovo etere, nella stessa maniera che se io faccio alcuni passi durante un acquazzone con il sole, io mi procuro da me un nuovo arcobaleno. E a meno che l’universo che si dilata descritto sopra (pag. 88) sia una pura illusione, ogni etere deve dilatarsi e allargarsi. Se una struttura di questo tipo possa chiamarsi un etere, è una questione aperta; sarà difficile di trovargli proprietà identiche a quelle del vecchio etere del secolo decimonono. Al contrario, perchè l’ipotesi della relatività è proprio la negazione esatta dell’esistenza del vecchio etere, è chiaro che un etere in accordo col principio di relatività è l’opposto esatto dell’antico etere. Essendo così, sembra fatica vana chiamarlo con lo stesso nome.
Io non penso che vi sia una reale divergenza di opinione tra gli scienziati competenti su questo punto. Sir Arthur Eddington onestamente dice che circa la metà dei fisici asseriscono che esso esiste, l’altra metà negano la sua esistenza, ma, continua: «Ambedue le parti pensano la stessa cosa, e sono divisi solo dalle parole». Sir Oliver Lodge, che è stato in questi ultimi anni il più accanito sostenitore dell’esistenza obiettiva dell’etere, scrive: «L’etere, nelle sue varie forme di energia domina la fisica moderna, sebbene alcuni evitino il termine «etere» a causa del significato attribuitogli nel secolo decimonono e preferiscono il termine «spazio». Non è il caso di discutere del termine da usare».
Evidentemente se è indifferente parlare di etere o di spazio, dell’esistenza o non esistenza dell’etere, allora anche i suoi ardenti propugnatori non debbono pretendere per esso una tale obiettiva esistenza. Io penso che il modo migliore di concepire l’etere sia quello di considerarlo come un mezzo di rappresentazione, allo stesso modo che il diagramma della figura a pag. 138 è un modo di rappresentare un certo concetto; la sua esistenza è altrettanto reale o irreale, quanto quella dell’equatore o del polo Nord o del meridiano di Greenwich. È una creazione dello spirito, non della sostanza solida. Noi abbiamo visto che l’etere, che è il medesimo per noi tutti, perchè distinto dal mio e dal vostro etere, deve essere supposto pervadere così tutto il tempo come tutto lo spazio e che nessuna valida distinzione può esser fatta tra la sua esistenza nello spazio e nel tempo. La divisione del tempo a cui noi ragguagliamo la dimensione temporale è naturalmente a portata di mano, cioè la divisione in giorni, ore, minuti e secondi. E se non si vuol pensare che questa divisione sia qualcosa di materiale, ciò che nessuno fa o ha mai fatto, non si è nemmeno giustificati di pensare l’etere come qualcosa di materiale.
Nella nuova luce della teoria della relatività, noi vediamo che un etere materiale che riempia lo spazio può soltanto esistere se accompagnato da un etere materiale riempiente il tempo: i due stanno insieme o cadono insieme. Così noi abbiamo motivi sicuri di pensare l’etere come una pura astrazione; esso è una «abitazione locale e un nome». Ma una «abitazione locale» per che scopo?
L’universo consta solo di onde e noi introducemmo da principio l’etere come il sostantivo del verbo «vibrare». Questa concessione deve essere adesso abbandonata, perchè l’etere assolutamente senza sostanza che noi abbiamo considerato è così incapace di vibrare come lo è l’equatore o il meridiano di Greenwich.
Di qui non segue naturalmente che niente di carattere ondulatorio si possa propagare attraverso questo mezzo immateriale. Noi parliamo di onde di suicidio, di onde di calore e non pretendiamo resistenza d’un mezzo per convogliare queste onde. L’onda di calore può propagarsi lungo l’equatore e un’onda di suicidio lungo il meridiano di Greenwich.
Si può pensare che, sebbene non riusciamo ad avere prove dirette dell’esistenza dell’etere, pure si hanno prove del passaggio attraverso di esso di qualche cosa della natura d’un’onda, in tutti i fenomeni che in generale sono presi a dimostrare il carattere ondulatorio della luce: anelli di Newton, frange di diffrazione o fenomeni di interferenza in generale. Ma, comunque, non è così, perchè, di nuovo, noi non abbiamo conoscenza alcuna delle supposte onde tranne dove sono particelle materiali per rivelarcele. I fenomeni ora menzionati non ci danno la conoscenza di cose attraversanti l’etere, ma solamente di cose che cadono sulla materia. Per quanto noi sappiamo, assolutamente niente si propaga, che sia più concreto di un’astrazione matematica, come il mezzogiorno astronomico che si propaga alla superficie della terra, mentre la terra gira su sè stessa sotto il sole. Tuttavia io posso immaginare un fisico che a questo punto intervenga con un’obiezione; egli parlerà pressappoco così:
Fisico. La luce del sole fuori, all’aperto, rappresenta un’energia che è stata generata nel sole. Otto minuti fa era nel sole; ora è qui. Di conseguenza deve essere venuta dal sole, e così deve essersi propagata per lo spazio che c’è tra il sole e noi. Mi sembra, allora, che l’energia deve propagarsi attraverso lo spazio.
Matematico. Poniamo la questione sin da principio nel modo più preciso possibile. Fissiamo la nostra attenzione su una definita particella di luce solare, per esempio quella che cade sul mio libro nello spazio d’un secondo quando io seggo fuori alla piena luce del sole. Questa, voi dite, era nel sole otto minuti fa. Quattro minuti fa era, io suppongo, fuori nello spazio, a mezza via tra noi e il sole. Due minuti fa era a tre quarti di cammino verso di noi?
Fisico. Sì; ed è questo quel che io dico propagarsi per lo spazio; l’energia si muove da un punto all’altro dello spazio.
Matematico. I vostri concetti implicano che ad un dato istante due punti differenti dello spazio sono occupati da quantità diverse d’energia. Se fosse così, sarebbe possibile, naturalmente, di calcolare o misurare quanto essa sia in un dato posto, a un dato istante. Se assumete che il sole è in riposo nell’etere, e che la luce solare si propaga attraverso l’etere, allora, io ammetto, voi date una risposta al problema: Maxwell l’ha data nel 1863. Così se voi assumete che il sole, e naturalmente l’intero sistema solare con lui, si muova di moto continuo nell’etere con una velocità conosciuta, poniamo 1000 miglia al secondo, voi potete dare egualmente una risposta definita al vostro problema. Ma — e qui è il punto cruciale della questione — le due risposte sono differenti. Quale delle due è la buona?
Fisico. Evidentemente la prima è buona se il sole è in riposo nell’etere, e la seconda se il sole ha una velocità costante di 1000 miglia al secondo.
Matematico. Sì, ma noi siamo d’accordo che «in riposo nell’etere» non significa niente e una «velocità costante di 1000 miglia al secondo per l’etere» pure non significa niente. Se noi tentiamo di attribuire un significato a ciò, tutti i fenomeni naturali ci costringono ad ammettere lo stesso significato per ambedue. Di conseguenza io trovo la vostra risposta senza significato.
Nella stessa maniera noi troviamo che tentare di dividere l’energia nelle differenti parti dello spazio conduce ad un’ambiguità che non può essere risoluta. Sembra naturale supporre che il nostro tentativo è sbagliato e che la partizione dell’energia attraverso lo spazio è illusoria.
Di nuovo il tentativo di riguardare il fluire dell’energia come una corrente concreta è sventato. Con una corrente di acqua noi possiamo dire che una certa goccia d’acqua è ora qui, ora lì; con l’energia non è così. Il concetto del fluire dell’energia è un’immagine utile, ma conduce ad assurdità e contraddizioni se noi lo trattiamo come una realtà. Il prof. Poynting dette una formola ben conosciuta che ci dice come può immaginarsi che si propaghi l’energia; ma la sua rappresentazione è troppo artificiosa per essere trattata come una realtà; per esempio, se un ordinario ago calamitato è elettrizzato e lasciato in riposo, la formola dà una rappresentazione dell’energia emessa senza fine intorno alla calamita, che somiglia ad una catena d’innumerevoli bimbi che si danno la mano in cerchio, e danzano, per l’eternità intorno all’albero della cuccagna. Il matematico riporta l’intero problema nella realtà trattando questo fluire d’energia come un’astrazione matematica. Di più egli è costretto ad andare oltre, e trattare l’energia stessa come un’astrazione matematica — la costante d’integrazione d’una equazione differenziale.
Se egli fa così, non è più assurdo che vi siano due differenti valori per le quantità d’energia in una data regione dello spazio di quel che non sia l’esistenza di due tempi differenti nello stesso spazio, come un tempo campione e l’«ora legale» in New-York, o un tempo civile e uno siderale in un osservatorio. Se il matematico si esime dal far questo, egli assume la difesa d’una posizione non mantenibile: che l’universo sia costruito, in maniera concreta, d’energia nelle sue forme di materia e radiazione, e che l’energia non possa essere localizzata nello spazio. Noi discuteremo questa posizione più avanti (pag. 194).
Prima di procedere a considerare altri sviluppi della teoria della relatività, sembra appropriato di sostituire la parola «etere» con la parola «continuo» che significa lo «spazio» quadridimensionale già immaginato, in cui le tre dimensioni dello spazio sono completate dal tempo, agente come quarta dimensione.
Le leggi della natura esprimono un divenire nel tempo e nello spazio e così naturalmente sono stabilite con riferimento a questo continuo quadridimensionale. Discutendo queste leggi quantitativamente, è stato trovato conveniente di immaginare tanto lo spazio quanto il tempo in maniera molto speciale e molto artificiale. Noi non misureremo le lunghezze in piedi o centimetri, ma in unità di circa 186.000 miglia, che è la distanza che la luce percorre in un secondo. E noi non misureremo il tempo in secondi, ma con una misteriosa unità eguale al secondo, moltiplicato per √-1 (la radice quadra di — 1). I matematici chiamano √-1 un numero «immaginario» perchè non ha esistenza al di là della loro immaginazione. Così che noi misuriamo il tempo in modo molto artificiale. Se siamo interrogati perchè adoperiamo questi magici sistemi di misura, la risposta è che essi pare siano i sistemi naturali di misura; in ogni caso essi ci permettono d’esprimere i risultati della teoria della relatività nel modo più semplice.
Se ci interrogano ancora perchè è così, noi non possiamo rispondere. Se potessimo, noi vedremmo più profondamente di quanto adesso facciamo, nell’intimo mistero della natura.
Conveniamo d’usare il misterioso sistema di misura adesso descritto, e costruiamo di conseguenza il nostro continuo. Minkowsky ha dimostrato che se l’ipotesi della relatività è vera, le leggi naturali non debbono distinguere tra il tempo e lo spazio; se il continuo è costruito nella maniera ora descritta, le tre dimensioni dello spazio e la quarta del tempo entrano come fattori assolutamente eguali nella formulazione di ogni legge naturale. Se non è così, la legge è in disaccordo col principio di relatività.
Era stato subito osservato che la famosa legge di gravitazione di Newton non è conforme alla condizione adesso stabilita, così che o è falsa la legge di Newton o l’ipotesi della relatività. Einstein ha esaminato quali modificazioni devono essere portate alla legge di Newton per renderla conforme con l’ipotesi della relatività, e ha trovato che i cambiamenti necessari implicano il prodursi di tre nuovi fenomeni che non erano contenuti nella vecchia legge di Newton. In altre parole, la natura fornisce tre vie distinte di decidere con l’osservazione tra la legge di Einstein e quella di Newton. Se si faceva l’esperienza il risultato era favorevole alla legge di Einstein in ogni caso.
Quel che noi chiamiamo la «legge di gravitazione» è, parlando a rigore, niente di più che una formola matematica che dà l’accelerazione di un corpo mobile — cioè in che rapporto cambia la sua velocità. La legge di Newton si presta da sè ad una interpretazione meccanica piuttosto ovvia: un corpo in moto è come se fosse «deviato dal suo movimento rettilineo uniforme» (per usare la frase di Newton) da una forza proporzionale all’inverso del quadrato della distanza. Di conseguenza Newton suppone che una tal forza esista; egli l’ha chiamata «forza di gravità». La legge di Einstein non si presta a una tale interpretazione in termini di forze, o, in caso, ad un’altra interpretazione meccanica qualunque; ancora un altro indizio, se ce ne fosse bisogno, che l’età della scienza meccanica è passata. Ma si trova che essa ammette una facile interpretazione geometrica. L’effetto di una massa materiale gravitazionale non era, come Newton ha immaginato, di produrre una «forza», ma di produrre una distorsione del continuo quadridimensionale nel suo intorno. Un pianeta che si muove o una palla di cricket non era più deviata dal suo moto rettilineo uniforme dalla spinta d’una forza, ma dalla curvatura d’un continuo.
È già difficile abbastanza immaginare un continuo a quattro dimensioni senza distorsioni, e molto più difficile è immaginare le sue distorsioni; ma l’analogia del caso a due dimensioni di una area può aiutare. Superfici come un campo di cricket o la pelle della nostra mano sono continui a due dimensioni; l’analogo delle distorsioni prodotte da masse gravitazionali sono rispettivamente rialzi del terreno o vene. La palla da cricket che rotola sopra un rialzo del terreno è «deviata dal suo movimento rettilineo» come una cometa o un raggio di luce passando vicino al sole. E la combinata distorsione del continuo quadridimensionale prodotto da tutta la materia nell’universo ha per effetto che l’universo si richiude su sè stesso, così che lo spazio diventa «finito»: che è il risultato già discusso nel secondo capitolo.
Spazio e tempo come entità separate sono già scomparsi dall’universo; persino le forze gravitazionali adesso scompaiono, non lasciando altro che un continuo curvo. La scienza del secolo decimonono ha ridotto l’universo a un gioco di forze di due specie soltanto — forze gravitazionali che governano i maggiori fenomeni dell’astronomia, non contando i nostri corpi e tutto quello che esiste sulla terra, e forze elettromagnetiche, che controllano altri fenomeni fisici come la luce, il calore, il suono, la coesione, l’elasticità etc. E’ naturale che ci si meravigli che le forze elettromagnetiche sopravvivano, e come esse figurino nel continuo. Sebbene la questione non sia definitivamente risolta, sembra probabile che anche queste siano destinate a seguire la via delle forze di gravità. Weyl ed Eddington successivamente proposero teorie di questo tipo che sono state trovate suscettibili d’obiezioni; il destino della nuova teoria d’Einstein è ancora sulla bilancia. Ma qualunque teoria alla fine prevalga, sembra certo che, in una maniera o in un’altra, le forze elettromagnetiche saranno risolte semplicemente in un nuovo tipo di curvatura del continuo, essenzialmente differente nella sua geometria, ma non in altro rispetto, da quello i cui effetti noi descriviamo come gravitazione. Se è così, l’universo sarà risoluto in uno spazio vuoto quadridimensionale, totalmente sprovvisto di sostanza, e totalmente privo d’un modello adeguato, se si eccettuano le gobbe, qui piccole là grandi, qui intense là deboli, nella configurazione dello stesso spazio.
Quel che abbiamo detto della propagazione dell’energia, come il passaggio d’un raggio di luce dal Sole alla Terra, adesso si riduce a niente di più che a una linea nel continuo che si estende circa otto minuti nel tempo e per circa 92.500.000 miglia di lunghezza. Adesso vediamo che noi non possiamo rappresentarcelo come una propagazione di qualcosa di concreto od obiettivo attraverso lo spazio senza prima dividere il continuo obiettivamente in spazio e tempo, ed è proprio questo che è proibito.
Per riassumere, una bolla di sapone con rughe e irregolarità sulla sua superficie è forse la migliore rappresentazione in termini semplici e familiari, del nuovo universo rivelatoci dalla teoria della relatività. L’universo non è l’interno della bolla di sapone, ma la sua superficie, e noi dobbiamo sempre ricordarci che, mentre la superficie d’una bolla di sapone ha soltanto due dimensioni, l’universo ne ha quattro. E la sostanza di cui questa bolla è gonfiata, la schiuma di sapone, è spazio vuoto saldato con tempo puro.
Note
- ↑ Pinta e quarto sono misure di capacità inglesi, corrispondenti a litri 0,56 e 1,14. (N. d. T.).