Istoria dell'Imperio dopo Marco (De Romanis)/Libro I
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dell’imperio
DOPO MARCO.
LIB. I.
argomento.
Marco imperadore, essendo caduto infermo in Ungheria, à stando in timore che Comodo suo figliuolo potesse degenerare, a imitazione degli altri principi, lo raccomanda a’ suoi amici e parenti, e mi torsi. Comodo, morto il padre, si prende l’imperio, e in principio lo amministra con rettitudine: quindi guastato dagli adulatori, non ancor terminata la guerra di Ungheria, s’incapriccia di tornarsene a Roma, facendo Pompejano di tutto per distorgliemelo. Venutosene dunque in Roma, fu accolto con grandi applausi. Visitati i tempj e rendute grazie al senato, andò ad abitare al palazzo del valicano. E sceltosi per segretario di stato Perennio, uomo avarissimo, diè rientro a ogni spezie di effeminatezze e di ribalderìe. Essendo poi di assai belle fattezze, si addestrò a varj escrcizj: a fare il cocchiere, l’uccisore di bestie, il gladiatore. E impazzì a segno, che bandi si nominasse Ercole figliuolo di Giove; e, imposto a’ mesi il suo nome, comandò, che da per tutto gli si elevassero statue: poi all’improviso, mutato nome, si chiamò con quello di certo defunto gladiatore, e si fece di quella stirpe. Ogni calamità che succedette in que’ tempi fu imputata alla malvagità del principe: la orribile pestilenza, per cui si ricoverò a laurealo, la far me originata dagl’incetti dì grano che fece Oleandro, e per fino i miracoli e gl’incendj della città e de’ tempj. La prima a insidiargli la vita fu Lucilla sua sorella r indi Pertnnio, poscia Materno, in ultimo la concubina Marsi a, per par rere e consiglio della quale fu avvelenato, e in fine strangolalo alle colende di gennajo.
Marco imperadore ebbe molte figlie, e due soli figliuoli. L’ultimo de’ quali, detto Verissimo > passò di vita in giovanissima età. L’altro, di nome Comodo, fu allevato dal padre con diligenza
e cara grandissima, fatti venir di ogni parte, con offerta di ricchissimo stipendio, letterali grandi e di gran fama, acciò avesse da loro un’ottima educazione. Cresciute poi che furono le figlie, le diè in ispose a’ migliori del senato, preferendo, a quei di antichissima stirpe e di soverchie ricchezze, colóro che menavano una vita modesta e innocente, per esser di avviso, che le doti dell’animo sieno i beni i più veri e i più solidi. Egli pose in pratica ogni spezie di virtù, ed amò di tanto amore le antichità, che in tali studj si pareggiò a’ più famosi tra’ greci e romani. Il che -chiaramente apparisce in quei detti e scritti suoi, che in gran copia sono a noi pervenuti. Fu poi si affabile e manieroso principe, che a tutti quelli che gli si avvicinavano, porgea benignamente la destra, nè tollerava che le sue guardie ne impedissero a chicchesifosse l’accesso: e di tutti gl’imperadori fu il solo, che pien di filosofia la lingua e il petto, conformasse in lei ogni sua operazione, non con vanità di parole e con ostentazione di leggi, ma colla purità di costumi e colla frugalità della vita. Per la qual cosa in quei tempi sovrabbondò una moltitudine di filosofi emulatori, come sono gli uomini assai sovente, della vita del principe. Molti e dottissimi hanno scritto della somma prudenza e fortezza sua nelle arti della guerra
e della pace, e del mal governo che fece de’ barbari d’oriente e di settentrione. Io pertanto porrò mano a narrare quelle sole cose, che dopo la morte di lui e vidi ed udii nel cammino di mia vita, e tali altre che ho dovuto io stesso sperimentare, per esser vivuto in cariche pubbliche e principali.
Invecchiatosi Marco, e rifinito, non che dagli anni, da’ molti travagli e pensieri, trovandosi in Ungheria, Ai improvisamente soprappreso da gravissima infermità. Non si sentendo dunque speranza di sopravvivere, dava in ismanie, per timore che il figliuolo, cui non erano ispuntate ancora le prime lanugini, o per soverchia effervescenza di gioventù, o per quella colai’ eccessiva licenza, in che lo porrebbe la sua pupillezza, date le spalle a’ buoni studj ed alle discipline, straviziasse nella ubriachezza e nelle crapule, per lo sdrucciolare che fan di leggieri i giovanili ingegni, dalla via retta ed onorevole, alla lussuria ed alla voluttà. Si spaventava inoltre quel sagace principe al sovvenirsi, che tra quewpolti giovinetti i quali avevano regnato, Dionisio tiranno di Sicilia stato era di tanta golosità, che premiava ricchissimamente gl’inventori di nuovi piaceri: e similmente che i successori di Alessandro, con tanto disdoro e crudeltà signoreggiarono, che rendette ro sommamente vituperevole quell’imperio; che Tolomeo arse perfino d’indegno amore per la sorella, in isprezzo delle leggi di Macedonia e di Grecia; ed Antigono, mascherandosi da Bacco, si cinse le tempie d’ellera in luogo del diadema e regio ornamento macedonico, ed impugnò il tirso in luogo dello scettro. Martoriavano poi l’animo del vecchio esempj più recenti: Nerone che si avea bruttate le mani nel sangue materno, e si era dato in ispettacolo alle beffe del popolo: Domiziano che si saziò di stragi a non lasciar languire memoria di crudeltà.
Le quali tremendissime immagini, agitando la sua mente, lo teneano ondeggiante fra la speranza e il timore. Atterrivalo eziandìo il furore delle vicine nazioni tedesche, non per anche interamente soggette, le quali in parte alliate e vinte nella guerra, e in parte fuggitive, ammutivano solo per lo terrore delle vittoriose sue armi. Dubitava pertanto che quei barbari, abituati a rumoreggiare per cose da nulla, disprezzando la giovenile età del figliuolo, forzassero di scuoterne il giogo. Fluttuando dunque fra queste inquietudini, fa riunire tutti quegli amici e congiunti che si trovavan presenti; e, venuti che furono, messo innanzi a loro il fanciullo, e, sollevatosi alquanto sul letto, in tal modo si espresse: Umana cosa è aver compassione degli afflitti, ed a coloro è assimamente richiesto, che se gli veggon sott’occhj. Onde io non mi meraviglio, se voi, nel vedermi in questo stato, mi vi mostriate pieni di cordoglio e di rammarico. Nè questi segni di affezione esser possono mentiti, poiché riguardando a quel che io ho sentito sempre di voi, non mi può venire in animo dubbio alcuno della vostra benevolenza verso di me. Ma ora ne viene quel tempo, nel quale io sperimenterò se bene o male ho spesi tanti onori e tante beneficenze, e voi farete palese non esserne dagli animi vostri fuggita la memoria. Ecco qui quel figliuolo che voi stessi allevaste, eccolo uscito appena di fanciullo, e in questo tempestoso pelago della umana vita bisognante di chi lo dirigga, e il ritragga dall’ismarrire la diritta via. Siate dunque in mio luogo voi tutti suoi padri, voi lo confortate all’opere virtuose, voi lo ajutate di ottimi consigli. Imperocché i mucchj della mal tolta moneta non possono saziare le bramose voglie della tirannide, nè le numerose bande di sgherri son atte a difendere il principe, se non fa suoi di amorevolezza coloro che regge. Quelli soli signoreggiano lungamente e sicuri, i quali, anziché incrudelire onde incuter terrore, adoperano ogni virtù di bontà per essere amati. Imperocchè debbono tenersi in sospetto di adulatori gli obbedienti necessitati a obbedire, e non gli spontanei, i quali irritrosiscono solo a quei comandamenti che sono violenti e vituperosi. E per certo ella è cosa difficilissima raffrenarsi nella massima licenza, e imbrigliare, direm così, la cupidigia. Se voi dunque sarete sue guide, e guarderete la sua virtù con queste stesse savie ammonizioni, colle quali noi presentemente lo ammoniamo, formerete di lui un ottimo principe, e renderete la memoria nostra per tal figliuolo immortale. Dicendo Marco queste parole venne meno, nè potè più proseguire, e per la eccessiva debolezza ricadde supino sul letto. Estrema fu l’angoscia di coloro che gli slavan dattorno, e taluni, vinti da compassione, piagneano dirottamente. Egli non sopravvisse che un giorno e una notte, e morì lasciando di se gran desiderio a’ suoi contemporanei, ed a’ posteri una rimembranza sempiterna delle sue virtù. Sparsa che fu la notizia della sua morte, si levò un dolore universale negli eserciti e nella plebe. Nè vi fu persona dello Stato romano che non ricevesse tal nuova con dimostrazioni di estremo dolore, e tutti ad una voce il chiamavano ottimo padre, buon imperadore, fortissimo duce, sobrio e moderatissi mo principe: iodi tutte che non poteano esser tacciate di menzognere.
Scorsi alcuni giorni, e celebrate le esequie, pensarono gli amici di presentare il giovinetto all’esercito, acciò ne arringasse i soldati, e (come usano i nuovi imperadori) accordasse loro quelle largizioni di moneta, che sogliono essere conciliatrici di benevolenza. Dato ordine dunque che secondo la consuetudine si riducessero lutti nel campo, venne Comodo, e sagrificato agli Iddii, ascese il tribunale ch’era stato elevato nel mezzo degli alloggiamenti, e, standogli intorno gli amici del padre ch’eran molti e dottissimi, così cominciò: Non mi può cadere nell’animo dubbio alcuno che io non divida seco voi il dolore della presente calamità. Imperocché, vivente il mio genitore, non mi sono io giammai riputato da più di chicchessia di voi. Ed egli tutti di eguale amore ci amava, e si sentia più intenerire nel chiamarmi commilitone che figlio, per essere di opinione, che questo è nome che dà la natura, e quello procede da comunicazione di virtù. E ben rammenterete, che mi tenendo spesse volte bambino in sulle ginocchia, passavami alle vostre braccia, come se alla vostra fedeltà mi volesse fidare. Per la qual cosa io son certo, che voi tutti mi amiate, dovendomi i più maturi riguardare qual loro allievo, e quei della mia età di militar disciplina condiscepolo, e così corrispondere all’amore che a tutti indistintamente portava il padre mio, ed alla virtuosa educazione che ha sempre procurato di darci. Ora la fortuna mi ha fatto dopo lui vostro principe, e principe non come i primi adottivo e borioso di essersi acquistato l’imperio, ma principe nato ed allevato in casa regnatrice, e da si alta fortuna guidato, che, appena venni a luce, mi trovai ammantato di porpora imperiale, e ad un tratto apparvi alla vista del sole e uomo e principe. Le quali cose debbon muovere gli animi vostri ad una maggior venerazione di me, che non fui eletto, ma nato sono vostro imperadore. Ora dunque che il genitore regna lassù cogli Iddii, e a me restato è il peso di reggere queste cose mondane, sovra voi, uomini valorosissimi, cade ogni speranza de’ futuri successi; voi dovete porre mano a disertare queste reliquie di guerra, voi difendere a Roma la gloria del mondo, voi trarre i suoi confini al di là dell’oceano. Sì facendo, immortalerete voi stessi, e renderete eziandìo i debiti meriti alla memoria del comun nostro padre, il quale, certo è, che ode i nostri detti, e vede le nostre operazioni. Ed io reputo impareggiabile felicità di averne un sì nobilissimo testimonio. Le imprese dunque che insino a questo giorno avete voi fatte con tanta fortezza e felicità, proprie sono dì quella savissima sua mente reggitrice. Vostre proprie però fieno quelle, che sotto la condotta di un giovanetto imperadore, qual mi son io, compirete. Il valor vostro pertanto renda autorevole la mia giovinezza, ed i barbari, fin da principj di questo mio regno sgomentati, non ardiscano farsi beffe della mia età, e, corretti da proprj pericoli, si e no raffrenati da un eterno timore. Quando egli ebbe così compiuto il suo dire, largheggiò di denaro per cattivarsi l’animo de’ soldati, e si ritrasse all’imperiale sua residenza.
Per qualche tempo dettero sesto agli affari gli amici del padre, i quali gli eran sempre dintorno, consigliandolo con senno e prudenza, e non concedendo a’ suoi solazzi, che il tempo necessario alla salute del corpo. Insensibilmente però gli si posero innanzi alcuni cortigiani, che con ogni lusinga procuravano di guastarlo e corromperlo. I parasiti, non veggenti felicità che nella sodisfazione del ventre e ne’ lascivi piaceri, gli poneano sott’occhi le delizie della città; ora rammentandogli quante belle cose vi erano degne d’esser vedute ed udite, ed ora levando alle stelle l’abbondanza in che abbonda di tutto ciò che può mai venire alla mente. Vituperavano quelle sterili e sempre maligne ripe dell’Istro, non producenti pomi di sorte alcuna, e di torbidi nuvoli perpetuamente involute: Vorrai tu, o imperadore, diceano, trangugiare in eterno questa ghiacciata e fangosa acqua del Danubio, mentre che altri si beano de caldi bagni, e delle fresche e dolci acque del purissimo cielo d’Italia? Con tali pessime arti non ebbero a durare gran fatica per rompere quei giovane animo a ogni vizio di lussuria. Onde di subito convocati gli amici, disse loro, che si sentia stringere dal desiderio di riveder la patria. Vergognandosi però di somiglievole intempestivo cambiamento, dava loro ad intendere, di esservi sospinto dal timore di vedere usurpata la sede del principato da qualcheduno di quei ricchissimi nobili, il quale, corroborandosi del fiore della romana gioventù, potria di colà, come da inespugnabil fortezza, farsi padron dell’imperio. Àdducente esso tai scuse, e gli altri tutti ascoltandolo cogli occhi bassi, e nel più mesto silenzio levossi su Pompejano, che per età, e per avere isposata la sorella maggiore di Comodo, era il più ragguardevole, e disse: Non è meraviglia, o figliuolo e signore, che tu ti senti stringere dalla carità della patria, poiché noi stessi ne accuora il desiderio di rivedere le domestiche mura. Ma ce ne distoglie il pensiere di doversi rivolgere da questa impresa onorata, e ci consola la speranza di poter godere a tempo opportuno le dolcezze di Roma. Ma che dico! Ivi è Roma, ove sei tu, o imperadore. Vituperevole poi, non che pericolosissima cosa sarebbe, lasciarsi indietro non compita la guerra, e ne imbaldanzirebbero i barbari, che terrìeno per fermo esser questa una fuga suggerita da viltà, e non un desiderio di rivedere la patria. Qual vanto però sarebbe il tuo, se vinti i nemici, e portati i confini dell’imperio fino all’oceano, entrassi in Roma glorioso e in trionfo, trascinandoti incatenati a’ tuoi piedi questi re e signori de’ barbari? In sì fatto modo, con queste arti, i romani nostri antenati si rendeano grandi e memorevoli. Sciogliti eziandio dal timore di novità che passino far pericolare il tuo stato. Imperocché hai qui teco il fior del senato, hai qui teco a difender l’imperio quanti mai vi sono soldati, hai qui teco i tesori di un ricchissimo erario. Pensa finalmente all’alto effetto dell’adorata immagine paterna, che si rimanendo impressa ne’ cuori di tutti i magistrati, te li rende, più che non credi, devoti e fedelissimi. Questo assennato discorso di Pompejano raffrenò alcun poco l’ardore del giovinetto, il quale non si sapendo che rispondere, mostrò d’avere in considerazione i detti del vecchio, e sciolse il congresso, dicendo che ci avrebbe più maturamente pensato. Ma vieppiù insistendo i suoi cortigiani, si astenne di farne ulterior parola agli amici; e premessone a Roma l’avviso, e preposto chi gli parve alla difesa delle ripe del Danubio contro gli assalti de’ barbari, intimò la partenza. Quei che vi furono preposti, disimpegna ronsi col soggiogare in breve spazio di tempo molti di quei barbari, e col farsi amici i rimanenti a prezzo di ricchi donativi. Ned ebbero a durarvi fatica, essendo i barbari per natura ingordissimi di denaro, e sprezzatori de’ pericoli in modo, che vivon di saccheggi e di scorrerie, e non dan pace che a suon di moneta. E Comodo che il sapea, ed era ricchissimo, se la comperava, non si rifiutando di dar pasto a quella loro insaziabile avidità. Essendosi sparsa per gli accampamenti la voce dell’imminente partenza, incominciò l’esercito a romoreggiare con gran movimento, entrando in tutti la smania di tornarsene a godere le delizie di Roma, e partirsi da quella terra inimica.
In Roma poi, divulgata che fu la nuova del suo ritorno, ne festeggiò, non si può dir quanto, la plebe; concependo ciascuno le più belle speranze dell’aver seco un giovane imperadore, che credeano tutti imitatore delle virtù di suo padre. Desiderato dunque ed amatissimo affrettava il cammino, e se ne venia con regio apparato, traversando rapidissimamente le città, che tutte lo accoglieano con isquisitissimi onori. Venuto presso Roma, a ruina e con calca corsero a fargli riverenza tutti i padri ed il popolo, incoronati di corone di alloro, e spargenti ogni spezie di fioritura propria della stagione: gareggiando ciascuno d’incontrarlo più discosto potea, per desiderio di vedere un principe, che l’età e la prosapia sua rendeano ragguardevolissimo. Amavanlo essi veramente e di cuore, per esser tra loro nato, tra loro allevato, e chiarissimo di sangue per imperio e nobiltà sortiti da tre discendenze. Imperocché dal lato paterno appartenea alla più illustre stirpe del senato, e nascendo di Faustina figliuola di Antonino Pio, e nipote per parte di madre ad Adriano, innalzava l’origin sua a Trajano bisavolo. Alla quale nobilissima nobiltà aggingnea Comodo il fiore degli anni, congiunti a portamento corrispondente all’alta sua dignità: viso bello e virile: occhi sereni e scintillanti: mento coperto a modo di fiori dalla più fina lanuggine: riccia e bionda chioma che si dipignea alla vista de’ riguardanti, come aspersa di finissimo oro, e che raggiava al sole di luce si viva, da far credere ad alcuni di raffigurarvi un non so che di divino. Non si saziavano i romani di riguardare un sì bello imperadore, e lo accoglieano augurandogli le più grandi felicità, e spargendo da per tutto e fiori e corone. Entralo che fu nella città, e visitati ch’ebbe i tempj di Giove e degli altri Iddii, ringraziò il senato ed i pretoriani della loro fedeltà, ed andette ad abitare il palazzo del palatino. Mostrassi quindi per breve spazio di anni lutto intento ad onorare gli amici del padre, attenendosi in ogni affare a’ loro consigli. Dipoi, addossatosi il peso dell’amministrazione dell’imperio, diè il comando della guardia a Perennio, italiano di nazione, e peritissimo della militar disciplina, il quale, abusando della età del giovanetto, non si dava pensiere di ritoglierlo dalle crapule e da altri si fatti piaceri, vedendovi il vantaggio di governare solo l’imperio, e d’essere in istato di pascere la dismisurata e non mai sazia ingordigia sua di aggiugner sempre nuove prede alle antiche. Costui dunque prese ad infiammare col timore l’animo di lui, calunniando gli amici di suo padre, e insospettandolo contro i più nobili e doviziosi, per conseguire dalle uccisioni loro i loro beni e le loro ricchezze. La memoria del padre però, e la riverenza che ancora conservava agli amici di lui, contennero per qualche tempo il giovi netto. Poco appresso però la fortuna invidiosa e maligna guastò il suo carattere retto ancora e moderalo, e si valse della seguente occasione.
Sorella maggiore di Comodo era Lucilla. Essa da prima fu maritata con quel Lucio Vero imperadore, cui Marco avendo associato all’imperio, sj era voluto legare con questo matrimonio. Morto Lucio, e godendo per ancora Lucilla gli onori del principato, la fe’ il padre passare alle seconde nozze con Pompejano. Nè tali preminenze le si disdissero da Comodo, che non ispazientìa nel vederla assisa in teatro sul seggio imperiale, e precedere col fuoco innanzi, come allora era in uso. Ma poiché Comodo ebbe tolta in isposa Crispina, e convenne lasciare il primo luogo alla moglie del principe, fu vinta Lucilla da disperato dolore, per essersi data a credere che l’altezza di lei si volgesse a suo scherno. E sapendo che suo marito Pompeiano era tutto amore per Comodo, non osò farlo partecipe del disegno che avea cqnceputo di rendersi padrona dell’imperio; ma, postasi a scandagliare l’animo di Quadrato, nobilissimo e ricchissimo giovine, col quale correa voce aver essa pratica men che onesta, querelossi seco lui fortemente dell’ingiuria solferta, e a poco a poco il sospinse a far cosa, che fu poi rovina sua e dell’intero senato. Fra i senatori che Quadrato tirò alla congiura, ne scelse uno che avea nome Quinziano, giovine pronto ed audace: e l’indusse a celarsi in seno un pugnale, e, preso il tempo ed il luogo, a scagliarsi improvvisamente su Comodo ed ammazzarlo, dicendo, ch’egli provvederebbe al resto co’denari.
Impostatosi costui sull’ingresso dell’anfiteatro (ove sperava tenersi celato nell’oscurità) snuda lutto ad un tratto il pugnale, e grida ad alta voce: Questo ti manda il senato. Mentre dice tali parole e brandisce con ostentazione quell’arme, vien preso da’ soldati, ed è punito della pazzia di far manifesto quello che duopo era di porre in esecuzione. Questa dunque fu la prima e principalissima cagione che attirò contro il senato l’odio del giovine imperadore; poiché si fattamente le parole espresse colpirono l’animo di lui, che tenea tutti i senatori in conto di nemici, e continua gli suonava nella mente la voce di colui che gli si era avventato. Nè Perennio si lasciò sfuggire l’incontro di persuaderlo a far man bassa de’ principali, nè permettere che vi fosse chi primeggiasse. Così egli potendo distendere le sue mani sopra i loro beni, intendea a dar pasto alla bramosa sua fame di arricchire, come arricchì sopra quanti vi erano nella sua ètà di più ricchi. Quindi, presiedendo al giudizio della congiura, esaminava rigorosamente, e mandava alla morte, oltre la sorella di Comodo e tutti i congiurati, gran numero eziandìo di coloro che macchiati erano di menomissimo sospetto.
Avendo in tal modo Perennio fatti sparire quanti avean vista di dar paura a Comodo, ma che veramente lo teneano in luogo di figliuolo, si addossò il peso di guardare la sua persona, e in tal modo salito essendo assai in alto, ingrandiva l’animo suo nella speranza di appropriarsi l’impero. E indotto Comodo a dare a’ suoi figliuoli ancor giovinetti il comando degli eserciti d’Illiria, ammassava somme immense di denaro per corrompere i reggimenti della guardia. I suoi figliuoli similmente arruolavano sottomano, affine di farsi principi dopo la morte di Comodo.
Questi maneggi però vennero scoperti in un modo da non credere. Sogliono i Romani celebrare giuochi a Giove Capitolino, e vi concorre, come a tanta città si conviene, moltitudine infinita. Spettatore e presidente insieme al teatro, con quei sacerdoti cui spetta nell’anno, n’è lo stesso imperadore. Stava dunque Comodo attendendo a que’ nobilissimi spettacoli assiso nel seggio imperiale, e il luogo era pieno di spettatori situati per ordine di dignità, ed ecco (non ancor principiata la festa) venir dentro a tutta fretta un uomo mezzo ignudo in abito da filosofo, col bastone alla mano e la sacca alle spalle, e, prendendo posto sul palco, accennar di lacere, e poi dire: Non è questo, o Comodo, tempo da giuochi, e da perdersi dietro alle feste ed agli spettacoli. Pende sul tuo capo la spada di Perennio, e se non te ne guardi, sarai vittima della tua imprudenza, e di una congiura che non aspetta tempo, ma sta per iscoppiare. Costui ha messo insieme contro te e truppe e denaro, e i suoi figliuoli sollevano gli eserciti di Illiria. O gli previeni dunque, o sei morto. Tai detti, o mossi da ispirazione divina, o da desiderio di elevarsi dall’oscuro suo stato, o da speranza di arricchire, chiusero la mente di Comodo a segno di farlo ammutire. Gli altri, venuti in gran sospetto, si guardavano di manifestarlo. Ma Perennio gli fa tosto mettere le mani addosso, ed ordina che come pazzo e falsario venga immediatamente bruciato. Così colla morte pagò il fio della sua intempestiva libertà.
Intanto quei che ambivano di parere affezionali a Comodo, ed odiavano Perennio come uomo di vita bestiale e superba, non omisero di cogliere questa occasione per calunniarlo. Ma già era giunto il tempo destinato alla ruina di lui e de’ suoi figliuoli; perchè non molto dopo vennero certi soldati, e recando nascostamente monete coniate colla effigie del figliuolo di Perennio, le mostrarono senza saputa del padre a Comodo, e, scopertegli tutte le trame della congiura, ne riportarono ricchissimi premj. Subito manda Comodo di notte tempo alcuni suoi a tagliare la testa a Perennio, che nulla sapea, e a tutt’altro pensava: e impose loro di correr tosto al figliuolo. E fu con tanta prestezza obbedito, ch’erano a lui prima che giugnesse avviso alcuno dell’accaduto. Presentate gli furono lettere dell’imperadore, che, promettendogli grandi cose, a Roma il chiamavano. Il giovinetto all’oscuro di ciò che si ordìa, e della disgrazia paterna, e dando fede a’ messi che lo accertavano volerlo anche suo padre, che si era astenuto di scrivere per aver creduto sufficienti le lettere dell’imperadore, si ammanì, sebbene di mala voglia, a partire, affidato soprattutto alla onnipotenza del padre che stimava ancor prevalere. Ma, toccata appena l’Italia, venne da’ sicarj a ciò commessi trucidato. E questa fu la fine di ambedue.
Comodo creò allora due prefetti, stimando non convenire alla sua sicurezza lo affidare ad un solo una sì colossale possanza, la quale poi scompartita infiacchiva in modo, da non potere ardire cosa alcuna contro il suo principe. Non andò guari però che incorse in un altro pericolo. Eravi un soldato di nome Materno, uomo avvezzo a delitti e audacissimo. Costui disertando improvvisamente dagli accampamenti, e tratti a se parecchi altri soldati, radunò in breve una numerosa mano di gente perduta, e a prima giunta si dette a saccheggiare terre e castelli. Quindi, arricchitosi di molto denaro, ingrossò anche più la sua schiera, e largheggiando di doni, e ingolosendo col ripartire giustamente il bottino, aggiugne a darsi tuono di comandare, non una banda di ladri, ma un esercito di nemici. S’impadronì di grandi città, e, spezzate per forza le prigioni, scatenavane i detenuti, e coll’impunità e co’ benefizj gli riuniva alle sue insegne. Ponea pertanto sossopra e Francia e Spagna, ed ogni città, di cui colle armi si rendea padrone, a ferro e fuoco mandava. Mossero questi avvisi Comodo a scrivere lettere minacciose e fulminatrici a’ governatori, tacciandoli di dappocaggine, e ordinando loro di far marciare senza indugio le truppe. Risaputosi ciò da quei briganti, gli strinse necessità di consiglio ad abbandonare quei paesi, e sbandati traghettare occultamente per tragetli brevi e inusitati in Italia, ove giunti, pose loro in vista Materno più magnanime imprese. Imperocché, essendo sempre riuscito in ogni cosa al di là delle proprie speranze’, ingrandiva se stesso alle maggiori arditezze, e, non riuscendo, voleva almeno colla spada alla mano da uomo forte e valoroso morire. Ma non gli parendo aver forze sufficienti a fronteggiare Comodo in campo aperto, poiché supponea esser per lui tutto amore e la plebe di Roma e i soldati della guardia, pensò bene invigorirsi coll’astuzia e cogli stratagemmi, e ordì questa trama. All’entrar di primavera sogliono i romani in ogni, anno nel medesimo giorno solennizzare la festa della madre degli Iddii con una pomposa processione. Recano innanzi alla Dea quelle che possiedono più doviziose ricchezze, massimamente le imperiali suppellettili, che la materia e l’arte rendono pregevolissime. Non è allora vietato a persona di scherzare, mascherandosi in quella foggia che può venir loro in capo, e travestirsi eziandìo da magistrati, di modo che si rende difficilissimo distinguere i veri da coloro che l’abbian mentito. Stimò dunque Materno essere questo ottimo mezzo per celare le sue insidie, lasciandosi credere, che travestito co’ suoi dell’uniforme delle guardie, e attnippatisi cogli arcieri in maniera da passare anch’essi come facenti parte del seguito imperiale, avriano potuto senza ostacolo scagliarsi improvvisamente su Comodo ed ammazzarlo. Tradito però da quegli stessi elle avea seco condotti nella città (cui forse facea stomaco di dover venerare principe un capo di assassini) fu arrestato il giorno innanzi la festa, e subì la meritata pena di morte, con quanti si poterono avere de’ suoi complici. Comodo intanto sagrifìcato ch’ebbe, e rendute grazie alla Dea, ne festeggiava la festa, e tutto giocoso si aggirava per entro quella solennità; ed il popolo, folleggiando di piacere nel veder salvo l’imperadore, solennizzava anch’esso con grandissima allegrezza.
Ora non mi sembra disdicevole far menzione delle ragioni allegate dagli storici della tanta venerazione in cui hanno i romani questa Dea, e più mi pare da dirlesi, quantochè la maggior parte de’ greci le ignora. Dicon dunque che la immagin di lei discesa fosse dal paradiso, non si potendo penetrare qual ne sia la materia, quale l’artefice, nè parendo assolutamente fattura di uomo. Ella è tradizione che cadesse dal cielo in certo campo di Frigia, detto da tale avvenimento Pesinunte, dove primieramente apparve! Benché presso altri scrittori io trovi, che quivi Ilo di Frigia, e Tantalo lidiese venissero alle mani, o a cagione della strada, o piuttosto pel ratto di Ganimede: e, che avendo quivi combattuto lungamente con egual fortuna, e colla morte di molti di loro, togliesse da questa strage quel luogo un lai nome. È fama eziandio che vi morisse Ganimede sdruscilo da’ contrarj sforzi del fratello e dell’amante; e che quindi a sollievo di tanta calamità onorato fosse di onori divini, favoleggiandosi che Giove stato era il suo rapitore. In questo luogo dunque, che abbiamo detto Pesinunte, i frigj anticamente celebravano sagrifizj lungo il fiume Gallo, del quale prendon nome i castrali sacerdoti della Dea. Ma poiché i romani ingrandirono, si vaticinò la stabilità e altezza altissima del loro imperio, se conducessero in Roma la Dea di Pesinunte. Inviarono essi dunque in Frigia ambasciadori a richiedere il simulacro della Dea, ed essendosi spacciati discendenti e consanguinei di Enea da Troja, facilmente l’ottennero. Venuto dunque per mare alle foci del Tevere, che era il porto della Roma d’allora, impuntò ad un tratto, di divin volere, lo scafo, nè, per quanto vi adoperassero forza i romani, si svelse, insino a che non sopraggiunse una sacerdotessa di Vesta. Calunniata essa di aver violata il voto della promessa verginità, e, temendo di subirne condanna, supplicò il popolo di sottoporla al giudizio della Dea di Pesinunte, ed impetrata la grazia, si scinse, pregando ad alta voce la Dea di far partire la nave, se casta e vergine la co noscesse. Dette queste parole, e legata la cintola al naviglio, se lo trasse appresso con agevolezza maravigliosa. Così ad un tratto si fece a’ romani palese la divinità della Dea, e la pudicizia della fanciulla. Ma tanto basti aver detto della Dea di Pesinunte, per la quale se ci siam noi soverchiamente deviati, avremo per avventura fatto cosa grata a coloro, che non sono molto al fatto della storia di Roma.
Comodo, scampato essendo dalle insidie di Materno, ingrossò la sua guardia, e, più rado mostrandosi, infingardiva in ozio vile nelle sue ville e palazzi, nè si dava più pensiere dell’amministrazione dell’impero. In questo tempo accadde che una mortifera pestilenza devastasse tutta Italia, e più crudele incrudelisse contro Roma, per esser città più delle altre popolosa, e ricettatrice di quella infinita gente, che da ogni parte del mondo vi concorre. Ne seguì pertanto la morte di molti uomini e di molti animali. Comodo per consiglio di alcuni medici si ricoverò a Laurento, paese fresco ed ombreggiato dalle sue molte selve di allori, da’ quali toglie il suo nome. Asserivano essi, che l’odor che tramandano, e la vezzosa ombra loro e freschissima, fosse medicina certa a tanto male. Onde molti tratti da’ medici in questa opinione, poneansi al naso e alle orecchie diverse maniere di odorifere e soavissime spezierie, stimando essere ottima cosa il cerebro con tali odori confortare, proprj eziandìo (come voglion taluni) a comprendere i pori, ed impedire che siano penetrati dall’infezione dell’aria, e caso che non si potesse questa schifare, fosse repressa dalla maggiore loro possanza. Imperversava però sempre più ferocemente la pestifera infermità, e giaceano da lei rapiti numero infinito di uomini e di animali.
A compimento di disgrazia vi si aggiunse la carestia, prodotta da questa cagione. Eravi un Cleandro di Frigia della nazione di coloro che venduti sono all’incanto. Costui entrato a servire la casa imperiale, ed ivi cresciuto insieme con Comodo, si elevò a tanta autorità, che divenne in un tempo guardia del principe, suo valletto di camera, e prefetto del pretorio. Sopraffatto quindi da subiti guadagni, e dal lusso, innalzava le sue mire all’imperio medesimo. A tal fine, ammassata gran somma di denaro, se ne servì per incettare una immensa quantità di grano, sperando che col largheggiare di questo genere nell’estremo della carestia, avrebbe tratti a se e popolo e soldati. Fabbricato aveva eziandio una sontuosa università, e fatti pubblici certi bagni, malizie tutte pensate per adescare la plebe. Ma i romani odiandolo già da prima, e a lui appo nendo quella pestilenza, non men che la ingorda voglia sua di denaro, ne sparlavano apertamente ne’ teatri ed in ogni altro pubblico luogo. Un giorno poi molto popolo, tutto ad un tratto, corre in gran furia da Comodo che villeggiava fuori della città, e ad alte grida gli chiede la testa di Cleandro. Risuonava la villa di tumulto strepitoso, nè il rumore delle risuonanti voci giugnea alle orecchie di Comodo, che Cleandro tenea con arte a imbestialire di libidini nella parte più remota del palazzo; quando eccoti a un tratto, che per comando di Cleandro, si spigne fuori di quello a tutta corsa la cavalleria della guardia, e sbaraglia e ferisce quanti cadono a lei sotto mano. Nè il discacciato popolo era in istato di far fronte ad armali e cavalieri. Datosi dunque a una precipitosa fuga è respinto entro la città, lasciando de’ morti non solo i passati a fil di spada dalla cavalleria, ma eziandio i calpestati da’ cavalli, e quelli che nella calca rimasero infranti. Il gran macello però fu fatto sulle porte di Roma. Quei ch’erano dentro, intesa la disgrazia de’ suoi, sbarran le case, e, saliti su’ tetti e sulle alture, scagliano addosso ai cavalieri tegole e sassi. Rivoltata fortuna, perchè non si combaltea più d’appresso, ma dall’alto senza pericolo del popolo combattente, la cavalleria ferita la più parte, nè va tendo a resistere, si volse a fuggire. Molti, fuggendo, rovesciavano percossi da quella tempesta di sassi, molti altri erano scavalcati da’ cavalli, che in quelle strade sassicose non potendo appuntare i piedi, davano stramazzate e sdrucciolavano. Intanto la fanteria ch’era di guarnigione nella città si unisce al popolo, e dà anch’essa addosso a’cavalieri, che aveva in odio grandissimo. Inferociva la guerra civile, nè vi era persona che ardisse recarne l’avviso a Comodo per timor di Cleandro; finché Fadilla sua sorella maggiore, e come tale facilmente intromessa, corre a lui discinta tutta e scapigliata, e girandosi angosciosamente a’ suoi piedi: Tu, o principe, disse, ti stai solazzando, ed essendo all’oscuro di quel che si va facendo, non ti guardi dall’imminente tua ruina. Noi sangue tuo siamo sull’orlo del precipizio; ito è il popolo, iti sono i soldati; e quello che non osarebbero i barbari, osato è da que’ tuoi domestici, che più ti dovrebbero esser devoti, più ti sono nemici. Cleandro ha contro te armato e popolo e soldati. Amato dagli uni, abbonito dagli altri, ha dato moto a una guerra, che la città tutta di civil sangue riempie. E rovescierà sopra noi la comune calamità, se tu sarai lento a punire lo scelleratissimo servo, che per l’effetto de’ suoi malvagi pensieri è stato di tanto male, ed esser può di peggiore cagione. Ajutava le parole collo stracciarsi le vesti, di maniera che molti di coloro che si trovavano presenti, preso ardimento, procuravano di accrescere la paura di Comodo. Intimorito, e come già stesse per piombargli la mannaia sul collo, comanda che sia tosto fatto venire Cleandro, il quale ignaro del seguilo, tuttavia ne sospettava. E, poiché venne, ordina che si prenda, e, tagliatagli la testa, sia portata in giro sulla punta di una lancia per rallegrare il popolo di quella vista gratissima, e da tanto tempo desiderata. Così fatto, si calmò quel movimento, e si finì di combattere, perchè la cavalleria, visto ucciso colui pel quale avea preso le armi, stava in timore dell’ira dell’offeso principe, contro i cui voleri sapeva esser seguito tanto scandalo, ed il popolo dall’altra parte godea di vederne punito l’autore. Quindi corrono a fare a pezzi i due figliuoli di Cleandro, con quanti si aveano di amici: ed ì cadaveri loro trascinano con ogni vituperoso scherno per la città, e li ruotolano alle fogne. Tal fine ebbe Cleandro, nel quale volle fortuna, per dir così, far palese, che sollevar può al colmo della grandezza, ed in un attimo subissarne.
Comodo intanto, sebbene sospettante di non esser ben visto dal popolo, consigliato dagli amici, ritornò in città, ove fu con grida liete e favorevoli onorevolissimamente accompagnato al palazzo imperiale. Avendo corso però tanti pericolisi rendette diffidentissimo, e, dando fede allo spionaggio ed alle calunnie, pose mano alle uccisioni. Isfuggendo lamicizia degli uomini virtuosi, si ritrasse da’ buoni studj e discipline, ed ingolfossi ne’ più vergognosi piaceri. Agitato poi sempre dalla paura di essere insidiato da coloro, che di bontà o di dottrina avessero alcun pregio, tutti fuor di palazzo discacciolli. All’incontro si fece schiavo alle voglie de bulloni, e degli architetti delle più laide nefandità. Quindi, addestratosi a correr velocissimamente su’ cocchi, e ad uccidere di sua mano le fiere, dava argomento agli adulatori di celebrare fimpareggiabile sua fortezza, e così trascorrea a modi sommissimamente disdicevoli alla modestia di un principe.
In questo tempo apparirono in cielo varj prodigj. Le stelle brillarono per lungo tempo di pieno giorno, e alcune di loro, dilungandosi, pareano quasi appese nel mezzo del cielo: oltre di questo nasceano animali di ogni generazione con figure orribilissime, e di membra strane e ripugnanti alla propria natura. Quindi un gran dissimo avvenimento ed attristò per allora, ed atterrì per dipoi, riguardandosi comunemente come augurio pessimo di mali peggiori. Avevamo più giorni goduto di un cielo sereno e purissimo, e solo si era fatta sentire una piccola scossa di terremoto; quando, o per saetta caduta di notte, o per fuoco in quella concussione di terra agitato, arse inopinatamente tutto il tempio della Pace, edificio che primeggiava di magnificenza e bellezza, e sorpassava ogni altro tempio per opulenza e ricchezza di arredi, e ornamenti di ori e di argenti. Ed essendo in questo tempio riposte, come in tesoro comune, grandi ricchezze, arsero seco in quella notte le fortune di molti, che di ricchi tornarono in miseria. Per la qual cosa, nel piagnere tutti la comune calamità, piagneano alcuni più dirottamente la propria. Bruciato il tempio della Pace, la fiamma si avventò a molti bellissimi edifiizj e gli disfece. Fra i quali il tempio di Vesta, ove apparve per la prima volta in Italia la vista di quel Palladio che dicon recato da Troja, e che i romani tengono celato ed in grandissima venerazione. Venne esso salvato dall’incendio, e portato processionalmente dalle vestali lungo la via sagra nel palazzo imperiale. Il fuoco inghiottì eziandio molte altre parti della città, e corse per più giorni, nè si fermò fino a che fu spen to da una pioggia improvisa. Ripeteano i romani tanto male dagl’Iddìi, per cui volere credeano, che si levasse e spegnesse quella fiamma devastatrice, e che coll’arsione del tempio della Pace aveano essi, come poi si chiarì, accennate le guerre future. Rovinata Roma da queste e maggiori disgrazie, non era più disposta a guardar Comodo di buon occhio, ed apponea a’ suoi vizj e scelleraggini l’atrocità di quei mali. Imperocché ognuno conosceva i suoi falli, ned egli curava coprirli, non vergognando di far pubbliche le sue laidezze private: e s’imbestiò a segno di repudiare il cognome paterno, e, in luogo di Comodo figliuolo di Marco, volle essere chiamato Ercole figliuolo di Giove, e, gittato via il manto imperiale, si avvolse entro una pelle di bone, con in mano la clava, sovrapponendo vesti tessute di porpora e di ori, non senza riso di quei, che in un istesso ornamento vedeano rappresentare femminili delicatezze ed eroica virtù. E, proseguendo in tal vita, mutò i nomi de’ mesi, ponendo loro, in luogo degli antichi, soprannomi tratti la più parte da Ercole, come dal fortissimo degl’Iddii. Ordinò ancora che per tutta la città gli s’innalzassero statue, fra le quali una nella curia in atto di scagliar saette, per minacciare ed atterrire eziandio in immagine. Venne poi questa tolta via dal senato do po la morte di lui, ed iu iscambio vi fu situata quella della Libertà.
Comodo dunque, non potendo più raffrenarsi, promise di dare spettacoli al popolo, ne’ quali ucciderebbe di sua mano ogni fiera, e combatterebbe ogni più fortissimo campione. Quando tal cosa s’intese, i popoli d’Italia e i confinanti piovevano a questo non più veduto nè udito spettacolo. Imperocché asserivano che avesse mano si ferma di non tirar mai a vuoto dardo o saetta, e veramente valea più di quegli scelti arcieri di Partta, e di quei peritissimi lancionieri di Numidia, ch’eran continuamente con lui. Venuto il giorno dello spettacolo, fu per Comodo costrutto un palchetto da potersi tutto a tondo girare, perchè, combattendo le fiere, non rischiasse coll’avvicinarsele, ma di luogo alto e sicuro saettandole, più la perizia del trarre, che la fortezza sua dimostrasse. I cervi adunque, i daini, ed altri animali cornigeri, eccetto i tori, appajando di corso, e, innanzi a se si cacciando, inseguia; e, raggiuntili, con infallibili colpi morti in terra distendea. Ma i leoni, le pantere, ed altri nobilissimi animali, slanciandosi esso di ogni lato sopra loro, trafiggea di dardi con tale arte, che nessuno vide più di un colpo o ferita se non mortale. Perchè, come la fiera infieriva scagliandosi, piagavala o in fronte, o nel cuore, scegliendo egli, a preferenza delle altre parti del corpo, di dardeggiare que’ bersagli, acciò esse in un tempo e ferite e morte cadessero. Traeansi bestie da ogni parte del mondo, e ne avemmo allora sott’occhi di quelle, che per innanzi guardavamo con ammirazione dipinte. Mostrò egli e ammazzò animali d’India, di Etiopia, meridionali, settentrionali,non appariti mai alla vista de’ trapassati, facendo tutti le grandi meraviglie di mano sì dotta, di sì infallibili saette. Scagliava taluna volta dardi lunati agli struzzi di Mauritania, i quali sono sveltissimi di piedi, e corron via rapidissimamente, giovandosi delle ali in guisa che par che veleggino, e, aggiugnendo con indicibil destrezza nel collo, spiccavalo sì di netto, che quegli animali senza testa, pure per alcun poco, quasi fossero vivi, il corso loro continuavano. Che diremo di una pantera, la quale bramosa e corrente, sopraggiunse uno ivi esposto, e già stava colla bocca spalancata per dilacerarlo a brano a brano, quando, ferita in quel punto da un colpo scagliato da lui, cadde morta senza offender quell’uomo, operando più presto il dardo che i denti. Similmente cento lioni tratti all’arena con cento dardi ammazzò, e i loro cadaveri giaceano in modo da potersi a un per uno numerare, non avendo egli nessun dardo a vuoto scagliato.
Le quali cose, sebbene paressero disdicevoli alla persona del principe, tuttavia per splendere di una certa fortezza e sapere, attiravano a lui un tal qual favor popolare. Ma poiché nudo entrò nell’anfiteatro, e colle armi indosso si pareggiava a’ gladiatori, porse questo spettacolo tanto di gravezza al popolo romano che se ne attristò sommamente, vedendo un nobilissimo imperadore dopo i tanti trionfi di suo padre degli suoi maggiori, non già pigliare le guerriere armi contro i barbari, o le proprie alla imperiale maestà, ma l’altissimo e dignitoso suo carattere contaminare di abito deforme e vilissimo. Combattendo poi vincea facilmente i suoi pari, nè procedea oltre alle prime ferite, dandosi ognuno per vinto, e tenendolo non in conto di gladiatore ma di principe. Impazzi poi si fattamente, che deliberò di partirsi da palazzo, e gire ad abitare alla scuola de’ gladiatori, e, non ambendo più il nome di Ercole, tolse quello di un già morto famosissimo gladiatore. Avendo inoltre spiccato il capo a quella statua colossale che i Romani hanno in grandissima venerazione, per essere immagine del Sole, vi pose il suo, e scrisse nella base non i titoli imperiali e paterni, ma, in luogo di Germanico, Vincitor di Mille Gladiatori.
Duopo era però di dar fine a tante pazzie, e liberar la città dalla tirannide. E questo avvenne nell’entrar del nuovo anno, festeggiato da’ romani a Giano antichissimo Dio dell’Italia, ospite, come dicono, eziandìo di Saturno, scacciato da Giove figliuolo suo, e perchè appresso di lui latitò, cioè stette ascoso, quel paese ebbe il nome di Lazio. Onde ancora i romani celebrano i saturnali in onore di Saturno, dipoi il principio dell’anno in onore di Giano. La testa di questo Dio ha due facce, significanti il principio ed il fine dell’anno. In questa festività pertanto, nella quale sogliono i romani onorarsi scambievolmente di saluti amorevoli, di ricchi presenti, e i primi loro magistrati si abbigliano de’ loro magistrali ruboni di porpora, pensò Comodo di uscire in publico, non come usava da palazzo, ma dalla scuola gladiatoria, ed in iscambio del vestir nobilissimo di porpora imperiale, indossare le armi, e procedere in mezzo al popolo di Roma scortato dalla marmaglia de’ gladiatori. Tenuto dunque discorso di questa sua deliberazione con Marzia, una delle concubine cui deferiva moltissimo e tenea in conto di moglie, onorandola, eccetto il fuoco, di tutti gli onori di Augusta; questa donna, alla quale le sue parole parvero ebbre, si gitta tosto a’ suoi piedi, e con molte lagrime lo scongiura umilis simamente a non patire che l’imperio divenisse un bordello, nè volesse azzardare la sua vita in mano di quella perduta e abominevole canaglia. Ma nulla ottenendo, si partì tutta bagnata di angoscioso pianto. Egli, fatti a se venire Leto generale ed Eletto suo valletto di camera, comanda loro che gli apparecchino da dormire nella scuola de’ gladiatori, per portarsi da quella nel giorno appresso al sagrifizio, e mostrarsi al popolo con indosso le armi. Essi con molte preghiere s’ingegnavano persuaderlo a non far cosa tanto indegna di sua grandezza. Ma Comodo tutto acceso in fuoco d’ira gli discacciò, e si racchiuse in camera per riposarsi, come sempre soleva. Quivi, preso in mani un libriccino di sottilissimi e pieghevoli tigli, scrive in esso i nomi di coloro, che nella notte seguente avea destinati alla morte, de’ quali la prima era Marzia, di poi Leto ed Eletto: seguia numero infinito di autorevolissimi senatori. Imperocché si era proposto levarsi dinanzi tutti i vecchj amici del padre per non averli censori delle sue ribalderie, ed ispartirne le ricchezze tra soldati, e a’ gladiatori, per trar dagli uni piacere, dagli altri difesa. Avendo scritto questa sua deliberazione in quel libriccino, il ripose sul letto senza sospettare che alcuno vi entrasse. Eravi un fanciullino di tenerissima età della spezie di quelli, che denudati di ogni altra veste si abbelliscono di ori e di gemme, e si tengono a solazzo della romana effeminatezza: e Comodo era preso si forte dall’amore della sna bella persona, che spesse volte il volea seco nel lettoe perciò, aveva il nome di filocomodo, vale a dire, l’amore di Comodo. Questo fanciullo dunque (essendo Comodo a’ soliti bagni e bagordi) scherzando come spesso solea, entrò nella camera di lui, e preso in mani per ispassarsi quel libriccino, uscì fuori di quella. E, come volle la fortuna, si abbattè in Marzia, la quale, amandolo anch’essa di molto amore, il prese in collo, e datigli di molti baci, gli tolse di mano il libriccino, temendo che fosse di qualche importanza, e che il fanciullo per puerile semplicità non lo guastasse. Dipoi, ravvisando essere scritto di pugno di Comodo, le venne curiosità di leggerlo; ed avendovi ritrovato la sua condanna di morte, e insieme quella di Leto e di Eletto, e di molti altri, sospirando così disse: Rendi tu, o Comodo, questo bel merito a tanta benevolenza, a tanto amore? Compensi tu in tal guisa la benignità, colla quale ho per tanti anni tollerato i tuoi scherni, e le tue ubbriachezze? Ma nò per Dio! Non prevarrà un giovinastro ubbriaco ad una femmina sobria. E questo detto, manda per Eletto, che vedea sovente come valletto di camera, non senza sospetto della sua onestà, e portogli il libro: Vedi, disse, la bella festa, che abbiano a festeggiare questa notte. Leto leggendovi la morte, tutto di terror si riscosse. Ma uomo, com’era, egiziano, audace, pronto, ed iracondo sigilla tosto quel libro, e per un messo fidato lo fa ricapitare alle mani di Eletto, il quale fuor di se per la paura, corre a Marzia, fingendo di andarvi a consigliarsi seco del modo di abbigliare, in adesione degli ordini del principe, la scuola de’ gladiatori. Sotto questo pretesto convenuti insieme, stabiliscono, che per salvare le loro vite non è da perdere un momento di tempo, e doversi tosto scegliere qualche partito. Deliberarono di attenersi al veleno, compromettendosi Marzia di dargliene facilmente, come quella la quale solea mescergli e porgergli da bere, perchè l’amore dell’amata facea parere a lui più soave la bevanda. Nel ritorno dunque del bagno, gli mise in mano il bicchiere col veleno infuso entro profumatissimo vino. Ed egli, che per lo star lungamente nel bagno, e per gli strapazzi della caccia era arso di sete, dandosi a credere che secondo il solito fosse già stato gustato, inconsideratamente lo bevve. Il veleno gli vinse tosto ciascun sentimento, e preso da una stupefazione che stimò cagionata dalla fatica, se ne andò a riposare. Eletto e Marzia dan ordine che ciascuno si ritiri in sua casa, affine di non destar Comodo che diceano aver necessità somma di dormire. Nessuno ne insospettì per usarsi ciò fare ogniqualvolta veniva egli sopraffatto dall’ubriachezza, come pure per sapersi che i bagni e i bagordi gli toglieano di determinare tempo al riposo, e che per l’intemperanza e il variar continuo de’ piaceri, era avvinto in continua e compassionevole servitù. Avendo dunque alquanto riposato, e già serpendogli il veleno entro lo stomaco ed il ventre, soprappreso da un giramento di capo cominciò a vomitare di gran forza, e ributtar fuori la bevanda, per effetto prodotto o dal soverchio cibo, o dal bere copioso, o pure da que’ contraveleni che usano i principi avanti di cibarsi. Tanto vomitare fece temere a Marzia e ad Eletto, che rimandato fuori tutto il veleno, ripigliasse nuovamente le forze, e gli facesse tutti ammazzare. E perciò, a forza di denaro, inducono un certo Narciso, giovane destro ed audace, a strangolarlo nel proprio letto. Questi, scagliatosi sopra di lui langueggiante di veleno e di crapula, gli si avventa al collo e lo strozza. Tal fine ebbe Comodo, avendo regnato dopo la morte del padre anni tredici: principe che avanzò di nobiltà quanti lo aveano preceduto imperadori, uomo bellissimo sopra tutti gli uomini della sua età; e, se dir volessimo della fortezza, asseriremmo, che in questa non ebbe, ed in ispezie nello scagliar de’ dardi, chi lo vantaggiasse. Ma come abbiam narrato, contaminò tutta la sua vita di opere laide e scellerate.
Fine del Libro Primo.