Istoria dell'Imperio dopo Marco (De Romanis)/Libro II
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dell’imperio
DOPO MARCO.
LIB. II.
argomento.
Ucciso Comodo, che si diceva esser morto dì un colpo apopletico, Pertinace, come il migliore, si elegge all’imperio. Egli, accettatolo a forza di preghiere e con dispiacere, venne dal senato e popolo romano salutato augusto. Indi, tenuto un discorso e sagrificaio agl’iddìi, se ne andò a palazzo. E overnando con rettitudine divenne caro a suoi concittadini, grato alle provincie, a’ nemici formidabile. Avendo però vietati i solchiti da’ furti, cadde in tale odio di loro, che fatta una congiura l’uccisero. Di poi si ritraggono negli accampamenti, e bandiscono la vendita dell’imperio. Essendo stato in quel bandimento mercanteggiato da Giuliano, e governandosi da lui vituperosamente, fu offerto a Negro, che se lo prese in Antiochia. Ma mandando egli le cose a lungo, venne carpito da Severo, il quale dava ad intendere che avrebbe vendicato l’assassinio di Pertinace. Salutato dunque imperadore in Ungheria, se ne venne tosto in Roma, ove il senato a lui l’imperio e a Giuliano la morte decretò. Ucciso Giuliano dal tribuno, Severo cassò gli assassini di Pertinace, e, facendola da imperadore, si associò Albino governatore dell’Inghilterra, e ammanì grandi forze per portarsi contro Negro.
Ucciso Comodo, come nel precedente libro abbiamo narrato, ed isforzandosi gli uccisori di non darne il minimo sentore, soprattutto alle guardie di palazzo, avvolsero e stivarono il corpo di lui entro de’ stracci, ed incollatolo a due fidatissimi famigli, il fecero trarre fuori di camera, come superfluità di niun’uso. Costo
ro traversarono tra le guardie, che in parte briache e sonnolenti, avevano forza appena di tenere su le loro armi, ed in parte non si davan carico d’indagare ciò che credeano a se non appartenersi. Così di nottetempo e di soppiatto fu messo fuori il corpo del principe, e posto su di una carretta fu gittato nell’Aristeo.
Intanto Leto, Eletto, e Marzia, consultato a lungo il modo di regolarsi, deliberarono di far correr voce che foss’egli morto di un colpo apopletico. Il che stimarono doversi credere facilmente, per essere stato solito a empiersi il ventre a tutt’ora di cibi soverchj. Ma, innanzi a ogni altra cosa , parve loro di dovere scerre per imperadore un uomo attempato e prudente, col di cui mezzo ed essi campar potessero la vita, e gli altri tutti quietarsi dalla paura durata entro il corso di quella fiera e soverchiatrice tirannide. Dopo matura deliberazione, convennero non esservi persona più idonea di Pertinace. Era Pertinace un’italiano di valore specchiato ed in guerra ed in pace, insignito di molte vittorie riportate contro le nazioni di Germania e di Oriente, e solo rimanea di quei prudenti e venerandi uomini, che il padre donò a Comodo, e cui più di ogni altro generale deferisse. Vivea tuttavia Pertinace, o per vergogna che avesse Comodo di dar morte a uomo sì grave, o per disprezzo di sua povertà. Conciossiachè aggiugner si debba alle lodi di lui, che avendo più di ogni altro maneggiato i denari del pubblico, più ch’ogni altro nondimeno si mantenea poverissimo.
Era dunque la mezza notte, e tutti profondamente dormivano, quando Leto ed Eletto con altri pochi del loro partito vengono a casa Pertinace; e, trovando l’uscio serrato, svegliano il portiere. Il quale, poiché aprì, e gli si fu offerto il prefetto, gli dette tanto terrore quella vista, che corse tutto tremante ad avvertirne Pertinace. Questo gli comanda di non indugiare a intromettergli, dicendo, essergli duopo di soccombere una volta a quei mali che si era da lungo tempo presagiti. E tanta fu la magnanimità dell’animo suo, che non si dirizzò di letto, nè mutò punto di aspetto; una, entrati dentro Leto ed Eletto, che credea venuti a torgli la vita, come avesse in gran dispetto la morte , con ardita faccia e senza cambiarsi di colore, disse loro: È da gran tempo che non venne notte, nella quale non mi attendessi tal fine, solo io rimanendo di tutti i paterni amici di Comodo. E mi meravigliava non poco che egli tanto indugiasse. Che attendete dunque? Perchè non eseguite tosto i suoi comandamenti, e me finalmente una volta da tal sospetto e perpetuo timor liberate? Rispose Eletto: Lascia ormai simili discorsi, e avvalorati de’ tuoi meriti e della tua virtù. Non siam noi venuti per darti la morte, ma perchè noi e lo stato vogli ajutare. Giace spento il tiranno con fine corrispondente alla crudeltà che adoperar volca contro di noi. Venuti siam dunque a porre in tue mani l’imperio, conoscendo che per temperanza, autorità, anni, e gravità di costumi, sei ad ogni altro senatore preferibile, e a tutti caro e venerabile. Le quali doti ci son cagione a sperare, che questa elezione sia per far lieto il popolo, e a noi divenga usbergo che ci francheggi da ogni paura. A tal discorso Pertinace: Cessate , disse, di farvi beffe di un vecchio, e stimarlo sì dappoco, che vogliate prima irretirlo e poi scannarlo. Poiché dunque, replicò Eletto, non dai fede alle nostre parole, togli questo libricciuolo (che so non ti esser nuova la mano di Comodo) e tu medesimo lo leggi, e così conoscerai apertamente da qual pericolo siamo scampati, ned esser noi qui venuti per adombrarti di lusinghe, ma per dirti con lealtà cose non ismentibili. Poiché Pertinace ebbe letto, fidatosi interamente di quegli stati già suoi amicissimi, e venuto in chiaro dell’accaduto , si rimise tutto in loro mani.
Fu risoluto di andar prima all’esercito, e tentare l’animo de’ soldati, i quali Leto promettea di trar facilmente al suo parere per l’autorità sua di prefetto. Quanti dunque eran quivi s’incamminano all'esercito , essendo già passata gran parte della notte, e appressandosi le calende di gennajo. Oltre a ciò mandan gente fidata a sparger voce che Comodo più non vivea, e che Pertinace futuro imperadore si avviava all’esercito.
Divulgala tal cosa , di subito tutto il popolo fuori di se discorre a modo di pazzo le strade, e con festeggiar compagnevole ne van notiziando gli amici, quegli in ispezie ch’erano ancora in possesso di dignità o di ricchezze, come estremamente pericolanti vivente Comodo. Corron dunque a’ templi ed agli altari per ringraziare gl’Iddìi, facendo risuonare l’aria di voci alte e diverse. Chi dicea essere spento il tiranno, chi il gladiatore, chi di nomi eziandìo più vili e vituperosi avvili vaio. E quelle cose che dinanzi eran per timore taciute, venivano ora arditamente discorse. La maggior parte però del popolo corre precipitosamente all’esercito, mossi da timore che non accetti di buona voglia Pertinace, avvisando che un buon principe non potea essere a genio di coloro che sotto il tiranno usi erano ad ogni rapina e violenza. Ven gon dunque in gran nnmero agli alloggiamenti per costrignerli ad obbedire. Dove giunti, entran dentro Leto ed Eletto insieme con Pertinace, e riuniti i soldati, Leto così parlò: Comodo vostro imperadore manco di un colpo apopletico , ed a se solo imputar debbe la cagion di sua morte. Imperocché, porgendogli noi delicatissimi ed ottimi cibi, soddisfaceva egli (come voi sapete aver sempre usato) co’ più vili all’appetito e così rimasto è soffocato da quel suo mangiare e bere senza modo e senza misura. In una parola, egli ha corso il suo fato, com’era preordinato, varie essendo e diverse negli uomini le cagioni di morte, tutte nondimeno a un egtial fine conducenti. In iscambio di lui, io ed il popolo romano vi presentiamo un personaggio di età matura e gravissima, di costumi illibati, e gran maestro nell’arte della guerra. Delle cui guerriere virtù voi, o veterani, stati siete assai volte testimoni, e di quelle che son proprie alla pace ha egli sortito l’onorevole universale ammirazione, allorché per tanti anni ebbe la prefettura della città. Ecco dunque che la fortuna vi fa dono, non dirò di un imperadore, ma di un ottimo padre. L’imperio del quale non solo a voi, che qui presenti lo avete, ha da essere giocondissimo, ma eziandìo a coloro che le ripe de’ fiumi, ed i confini de’ romani stati difendono, per essere essi ricordevoli delle nobili ed egregie sue imprese. Nè farà più duopo di denari per comprare la pace da’ barbari: perchè, ponendo questi mente alle calamità sofferte quando egli era generale impauriranno, e la paura sarà loro di sprone a soggettarglisi. Mentre Leto così parlava, il popolo non potè più contenersi, ed in un tratto, essendo ancora perplesso l’esercito, salutò ad alta voce Pertinace, e augusto e padre chiamollo con lieti plausi e felicissimi voti. Il medesimo faceano i soldati, con visi benché acconcj a letizia, più veramente stralunati ed indotti dalla moltitudine del popolo, cui, per essere essi indi festivo e senz’armi, ebbero duopo obbedire e dichiarare Pertinace augusto ed imperadore. Di poi giurato avendo come era uso in suo nome, e fatti i sagrifizj, tutti di alloro incoronati e popolo ed esercito alla città lo accompagnarono.
Ma, poiché il popolo e la soldatesca l’ebbe messo (come dicemmo) di notte in palazzo, entrò Pertinace in molti e grandi pensieri. E benché non ismentisse la grandezza e costanza dell’animo suo, tuttavia atterrito era dallo stato presente delle cose, no che ponesse mente alla salute sua (che avea egli fatto prova di mag giori perìgli) ma piuttosto seco stesso pensando riguardava la subita mutazione della tirannide, e insieme la nobiltà di parecchj senatori, i quali, avverila, non avrebbero sofferto che da un nobilissimo imperadore passasse l’imperio a uomo di condizione privata ed oscura. Che sebbene fosse tenuto di vita sobria e moderata, e gloria grande avesse ne’ fatti d’arme acquistata, quanto alla nobiltà era di gran lunga inferiore.
Appariti dunque i primi raggi del sole, si condusse in senato, non permettendo che si precedesse col fuoco o altri distintivi di principato, se prima non ebbe interpellato i senatori del loro parere. I quali, vistolo appena, fecero echeggiare la sala di liete evviva, e lo salutarono augusto ed imperadore. Egli ricusava, allegando esser troppo invidiosa cosa la imperiale grandezza, ed, iscusandosi, mostrava se esser vecchio e non atto a reggere tanta mole: potersi scegliere tra tanti nobilissimi signori persona più capace di lui a compiere gli affari pubblici: e, così dicendo, sospignea con mani animose Glabrione sul trono.
Era Glabrione il più nobile tra’ patrizj, discendendo dal trojano Enea figliuolo di Anchise e di Venere, e stato era due volte console. Nondimeno cedendo a Pertinace, così allora parlò: Io dunque, che tu reputi degnissimo dell’imperio, a te lo cedo, e meco insieme il senato per suo principe ti elegge. Voltandosi i padri colle braccia tese a raccomandarglisi: e tatti ad una voce, per così dire, sforzandolo ad accettare, finalmente ancor dubbioso salì sul trono, ed in tal modo si espresse. L’unanime vostro consentimento, e il ferventissimo ardore che mostrate di volermi eleggere fra tanti nobilissimi, nel rimuovere ogni ombra di adulazione, e nel porgere argomento manifesto di lealtà e di benevolenza, renderebbe forse chiunque altro più pronto ed animoso ad addossarsi tanta mole, si che a bene sperare di potervi riescire gli sarebbe cagione la tanta vostra amorevolezza. Laddove io, fuori di me per onore sì grande, sento che quanto più mi viene esso maggiore, di tanta maggior paura il cuor mi compunge. E come render potrei guiderdone che pareggi la grandezza de’ vostri beneficj? Perciocché la gratitudine, secondo che io credo, tra le altre virtù è sommamente da commendare, ed in ispezie se sopravvanza ì beneficj ricevuti, non si misurando tanto la facoltà del rimuneratore, quanto encomiato è di non essersi lasciato fuggire la memoria del dono. Ma quando accade il contrario, e a benefizio grande si rende rimunerazione che noi compensi, allora non tanto si pone mente al disagio che soffri, quanto riputato sei ingrato e villano. Io dunque veggo cogli occhi della mente qual grandissima difficoltà mi si apparecchierebbe a sostenere, volendo, come vorrei e mi sarebbe duopo, rendere a’ datori di sì gran presente le debite grazie. Imperocché non si asside già spontanea su questo trono la somma dignità, ma emerge dalle operazioni non disdicevoli. Soglion poi le passate cose tenersi in odio, e delle future se ne concepisce buona speranza. E siccome ella è indelebile la memoria delle ingiurie (ci si ponendo sempre innanzi agli occhj la offesa) così i benefizj ci juggon via nel riceverli. Nè tanto è cara la libertà, quanto amareggia la servitù, come pure non si ha obbligo del usare il suo a suo modo, per avviso che si tiene proceder ciò di ragione. Laddove chi tolto è da’ suoi beni non cessa mai di dolersene. Niuno poi è che creda di vantaggiare nella pubblica utilità, non facendo caso i particolari di quelle cose che sono giovevoli al pubblico. Se poi non riescono loro le proprie, eccedono ne’ lamenti, stimando che non si compiano seco loro i doveri. Ed aggiugnerò che quei, i quali sono usi alle smisurate ed enormi largizioni de’ tiranni, usati di riguardare quella parsimonia che ti detta la necessità, non come un atto di prudenza e di moderazione, ma te lo appongono ad avarizia e sordidezza. Nè pongon mente che vuotandosi l’erario per vanità, duopo è riempierlo per ingiustizie, e che quei che largisce a’ meritevoli, si astiene non solo dall’offendere, ma eziandìo ne ammaestra ad aver cura del nostro, e ad usarne con parsimonia. Le quali cose, o padri coscritti, entro voi stessi ponderando, riunite insieme alle mie le vostre cure, ed accomuniamoci il reggimento di questo nostro imperio, riguardando che andiamo a cambiar la tirannide in un governo di ottimati, che ripromette a voi le più liete speranze, e vi pone in obbligo di riprometterle altrui. Avendo così detto Pertinace, si animarono maggiormente i senatori, e con nuovi plausi ed evviva applaudirono il discorso. E, fattogli onorevole schiera, vennero seco a inchinarsi a Giove e agli altri Dii, ed avendo compito i consueti sagrilìzj, lo ridussero al Palatino.
Poiché la fama ebbe divulgato le parole da lui espresse in senato, e quelle scritte al popolo, si pascea ciascuno di allegra speranza di dover avere un principe che alla severità congiugnerebbe la prudenza, e più padre che imperadore si reputerebbe. Imperocché con suo editto impose a’ soldati di non fare soperchierie al popolo, come pure di non porre le mani addosso a chicchessia de’ viandanti, e ogni cosa riducea a’ principj dell’onestà e della moderazione. Egli poi, nell’andare e nel tenere ragione, si mostrava tutto piacevole, paziente, e benigno. E parendo un altro Marco, si accattivava per tal maniera il cuor dei vecchi, e gli altri, dalla fiera e vituperosa tirannide a viver quieto e composto ritratti, tutti nel suo amor raccendea.
La qual fama, essendo per ogni dove trascorsa, commosse tutte le nazioni, ed eserciti sottoposti a’ romani, tutti eziandìo gli amici e confederati a celebrarlo con onori divini. I barbari pur essi, se alcun ne restava che scosso si fosse dal giogo o tramasse rivolte, tornandosi a memoria le virtù da lui nelle passale guerre mostrata, la giustizia, la fede, e sapendo che non avea fatto torto a persona, ma tutti a par de’ meriti rimunerato, nè poterglisi apporre crudeltà o violenza di sorte alcuna, spontaneamente gli si sottomisero. Da ogni parte venivano ambascerie a rallegrarsi col popolo romano dell’imperio dato a Pertinace. Ma quello che facea tripudiare e in pubblico e in privato di gioja, vale a dire le mansuetudine del principe, confondea di tristizia le imperiali guardie del corpo. La giustizia e la modestia di lui gli sdegnava, e se ne vituperavano, tenendo a grave peso dover, passar dalle usate ra pine e violenze a vita più sobria ed umana.
Essendo dunque convenuti di non più sopportare un tale imperadore, Pertinace dovette prima cozzare coll’orgoglio e colla disubbidienza, e poi, non ancor compiti due mesi d’imperio illustrati con espressi segni di bontà e moventi alle migliori speranze, ebbe duopo rovesciare per colpa dell’invidiosa fortuna, che ponendo tutto sossopra, spense quasi in sul più bel del cammino le lodevolissime idee sue di ben pubblico. Imperocché egli aggiudicò a coloro, che primi gli occupassero e coltivassero, quei terreni che in Italia e altrove, fin da’ re, giacevano incolti, e concedette a’ coltivatori esenzione di dieci anni, e libertà perpetua. Difese che scritto fosse il suo nome alle possessioni imperiali, dicendo non essere dell’imperadore, ma pubbliche e a ogni romano comuni. Tolse via eziandìo tutti i dazj, che per ammassare denari, stati erano da’ tiranni imposti sulle ripe de’ fiumi, su’ ponti delle città, sulle strade e cammini. Molte cose ridusse all’antica libertà, e molte eziandìo si parea che ci avrebbe ridotto dapoi. Fece eziandìo sgombrare la città dalle spie, comandando che punite fossero ovunque si ritrovassero, dandosi soprattutto pensiere che nessuno per vane accuse pericolasse.
Il senato dunque e gli altri tutti eran di opinione di doversi beare nel godimento di un dolce riposo, e ci si confermavano sempre più, riguardando che Pertinace si pareggiava seco loro in guisa di non menarsi a palazzo il figliuolo suo già grandicello, e di ritenerlo privatamente nella sua casa; di maniera che come ogni altro lo mandava alla scuola od a’ giuochi senza differenziarlo di nessuna pompa non che tirannica, ma neppure imperiale. Vivendo dunque Pertinace di vita sì savia e rimessa, vi ebbe solo i soldati pretoriani che si sdegnassero del presente stato delle cose, dando mostra di cercare la perduta licenza della violenza e delle rapine. Quindi, tra il vino e le vivande, presero partito di levarsi dinanzi Pertinace, come a se grave e molesto, ed in sua vece eleggere un imperadore indulgente che fondesse l’errano, e lasciasse loro la briglia ad ogni cattività. Improvvisamente dunque di mezzogiorno, e mentre nessuno poneavi mente, dan di piglio alle armi, e minacciosi e feroci a corsa di soldati, colle aste basse e le spade ignude, si spingono entro il palazzo. Spaventati da questo, quasi scoppio di fulmine, i domestici di palazzo, nè osando pochi contro a’ tanti, e senz’armi ad armati fare resistenza, fuggon via, sparpagliandosi chi da un lato chi dall’altro. Pure alcuni de’ più fedeli avendo av vertito Pertinace dell’empito de’soldati, s’ingegnavano di porsuadergli di porsi in salvo colla fuga, e dimandare ajuto dal popolo. Egli però, sebbene ravvisasse ottimo il consiglio, tuttavia avendo per servilità disdicevole alla maestà di un imperadore, e alla trascorsa sua vita di fuggire o celarsi, deliberò farsi loro innanzi ed affrontare il pericolo, sperando di poter loro toccar l’animo, e placare per allora quella rabbia furiosa. Uscito dunque di camera, e fattosi incontro a quelle furie, che gli si precipitavano addosso, fermossi a dimandare loro la cagione di sì subito movimento, ed a rimordergli di quei modi riprovevoli: e senza mutare aspetto nè sgomentarsi del pericolo, con quella sua naturale gravità e modestia, tutta propria dell’imperiale maestà, e nessun segno mostrando di viltà e di paura, non timido, non abietto, non supplichevole, ma con parole animose, così loro parlò: Se voi me, o soldati, ammazzate, non avete per certo a vantarvi di grande impresa, o di cosa ch'esser possa molesta a uomo della mia età e della mia gloria. Ma pub egli essere che voi, cui affidata è la guardia e la custodia del principe, e che siete in obbligo di preservarlo da ogni pericolo, osiate i primi imbrattarvi le mani nel sangue del vostro concittadino e imperadore. Guardate che un tale operare non sia seme che vi frutti infamia e mina. E quale ingiuria vi ho fatta io? Se vi duole la morte di Comodo, non fu certo cosa nuova che si morisse chi nato era uomo. Ma se vi deste a credere ch’egli sia stato ucciso con frode, qual colpa ne ho io? Il quale sapete essere scevro dall’ombra fin del sospetto. Voi foste i primi a conoscere le cose allora operate, e se vi ebbero dubbj, caddero su tutt’altri, che sulla mia persona. Ora Comodo è morto, e noi saprem ben soddisfare gli onesti e dignitosi vostri desiderj, opponendoci però sempre a’ violenti e rapaci. A questo discorso parve che alcuni di loro si commovessero, e non pochi già cominciavano a ritirarsi, facendogli riverenti la santità e la vecchiezza del principe, quando gli altri scagliatigli addosso l’uccidono. E commessa questa scelleragine, per sottrarsi al popolo che avrebbe fatta terribil vendetta della lor fellonia, deliberarono di ricoverarsi nel campo, ove si trincieran di mura, ed empion d’armati le torri per impedire ogni accesso. Tal fine ebbe Pertinace, uomo, come sopra dicemmo, di vita e di costumi lodevolissimi.
Poiché uscì voce tra il popolo dell’uccisione di lui, si riempie tosto la città di tumulto e di pianto. Corron tutti come pazzi, nè san dove, smaniosi di avere in mani gli assassini che non riescivano nè a ritrovare nè a punire. Il senato spezialmente non potea darsi pace, dicendo esser questa una pubblica calamità: e gli stando fitta nella mente la cara buona immagine paterna del mitissimo principe, si accuorava e temeva una nuova tirannide, minacciata dal guasto giudizio de’ soldati. Ma, scorsi parecchj giorni, e standosi la plebe ammutolita di paura, ed i più principali ed autorevoli essendosi, quanto più poteano, dalla città discostati e nelle loro possessioni ridotti, per non avere a pericolare nella nuova elezione, senza sbrancarne i soldati per quella quiete popolare e vista di non si levar nessuno a vendicare l’ucciso principe, e tenendosi racchiusi negli alloggiamenti, fan salire su’ muri quanti aveano più alta e intelligibile voce, e posto l’imperio all’incanto, prometton di darlo a chi più offerisse denari e di condurlo in salvo a palazzo.
Non si mosse a tale effetto nessun grave e autorevole senatore, nessuno de’ nobili, nessuno di quei pochi ricchi ch’erano sopravvanzati alla tirannide di Comodo, nessuno finalmente ebbe ardimento di accostarsi alle mura, e si vergognosamente pattuire co’ denari l’imperio. Un certo Giuliano però, uomo consolare e tenuto straricco, trovandosi sulla sera cenando, ebbe fra il vino ed i cibi, de’ quali era ingordissi mo, avviso di questo editto de’ soldati. La moglie e la figlia, unendosi alla ciurma degli scrocconi, lo indussero a levarsi di tavola, ed andare a vedere di che si trattasse, e nell’andare lo esortano a non lasciarsi scappare di mano l’imperio, potendo egli, come ricchissimo, soperchiare ogni altro ne’ doni. Di maniera che, giunto che fu alle mura, cominciò a gridare ad alta voce, che darebbe loro quanto volessero, possedendo egli infinite ricchezze, e tesori rigurgitanti d’oro e d’argento. Nel medesimo tempo Sulpiziano uomo ancor esso consolare, prefetto di Roma, e suocero di Pertinace, dicea all’imperio. I soldati però presero sospetto di lui, temendo che, come parente di Pertinace, venisse con frode per vendicarne la morte. Onde, calate le scale, tirarono su’ muri Giuliano, non volendo aprire le porte, prima di restare di accordo del prezzo. Entrato dentro costui, subito promise di ristaurare le onorificenze e le statue di Comodo tolte via dal senato, concedere a’ soldati quella licenza che sotto lui aveano goduta, e dare loro tanti denari, quanti nè chiedere nè sperare potrebbero, e di presente, gli si avendo in sua casa. Dalle quali promesse commossi i soldati ed in grande speranza saliti, dichiarano Giuliano imperadore, e danno a lui il cognome di Comodo. Di poi a bandiere spie gale si mettono in punto di accompagnarlo.
Fatti ch’ebbe Giuliano i consueti sagrifizj nel campo, usci fuori accompagnato da maggior numero di soldati che avesse altri usato, poiché avendo egli colla forza e contro il volere del popolo vituperosamente comprato l’imperio, temea con ragione che non gli si scagliassero addosso. Ma i soldati, armati di tutte armi e fatta serrata testuggine per combattere eziandìo se fosse di bisogno, messo in mezzo il loro imperatore, e levate in alto le aste ed i scudi per aver riparo da’ sassi che gittar si potessero da’ tetti, il condussero a palazzo, senza che il popolo ardisse di opporsigli, ma in luogo delle solite acclamazioni, bestemmiandolo tutti, e rimproverandolo di aver co’ denari usuipato l’imperio. Allora fu che principiarono a corrompersi i costumi de’ soldati, guadagnando forza in loro la inesplebile e vile ingordigia del denaro, e il dispregio dell’imperiale maestà. Imperocchè non essendosi levata persona a vendicare la crudelissima uccisione del principe, e ad impedire quel vituperoso mercato dell’imperio, si ruppero fin d’allora i soldati al mal costume ed alla disubbidienza: e, ingolosendo sempre più di avarizia, aggiunsero dipoi a tale eccesso d’irriverenza da imbrattarsi le mani nel sangue de’ proprj principi.
Giuliano occupato ch’ebbe l’imperio, s’immerse ne’ piaceri e nelle crapule, e non si prendendo pensiere della repubblica, si dette interamente alle morbidezze ed alla lussuria. Avendo però fraudati i soldati, per non esser possibile di osservare loro la promessa, attesoché non aveva in sua casa quella moneta da lui millantata, e l’erario fatto era povero dalia prodigalità di Comodo, cadde nell’odio de’ medesimi, ed in ischerno del popolo, sciente di ciò che accadea. Talché nel passare che facea, lo caricavano d’improperj, rinfacciandogli le sue brutture ed effeinminate libidini, ed eziandio nel circo, ov’è gran concorso di gente, ad alla voce lo svillaneggiavano, e chiamavano Negro loro principe, e vendicatore del romano imperio, pregandolo a venire quanto prima a liberargli da tanta vergogna.
Questo Negro stato era console ed ancora governava tutta la Siria, magistratura in quei tempi onorevolissima, per unirsi sotto il reggimento di lei la Fenicia e tutto quel paese che corre sino all’Eufrate. Era egli di età assai matura, ed essendosi in molte e grandi imprese ritrovato, avea fama di essere assai destro e benigno, di maniera che passava per un altro Pertinace. Il popolo perciò grandemente lo favoriva, e di continuo ad alte grida invocavalo, sca gliando improperi a Giuliano che gli era presente: e lui, ancorché lontano, con liete acclamazioni, e allegri plausi salutava imperadore. Le quali cose venute a notizia di Negro gli entrarono di maniera nell’animo, che avvisò gli verrebbe facilmente fatto di mettere ad effetto il suo desiderio, poiché Giuliano in odio a’ soldati per non avere osservate loro le fatte promesse, ed in isprezzo del popolo, come quello che si era dato a credere di poter avere l’imperiò a denari. Cominciò dunque a concedere licenza di ripatriare ora all’uno, ora all’altro di quei generali, colonnelli, ed altri più autorevoli militari che avea seco, notiziandoli di tutte le nuove che gli vernano di Roma. Questo facea affine di spargere tai voci per tutto l’oriente, stimando di doversi procacciare più fautori, se mostrasse non volere per frode occupare l’imperio, ma per porgere ajuto a quegli che lo dimandavano. Quindi tutti quei popoli corsero ad offrirsegli, pregandolo e scongiurandolo a soccorrere la repubblica.
Sono quei sirj di lor natura leggieri e volubili, ed oltre a ciò erano svisceratissimi di Negro per essere retti da lui con umanità prodigiosa, e vezzeggiati con feste e spettacoli. Avidissimi erano essi di tai passatempi, ed in ispezie gli antiocheni, i quali abitano un’assai grande e feli ce città, e quasi tutto l’anno, o in essa o ne’ sobborghi di lei, attendono a’ giuochi ed alle feste. Talché Negro, con assidui e reiterati spassi divertendogli, si aveva in guisa concigliato l’animo di quella plebe, che n’era amato di amor sopragrande. Di che non ignaro, convocò un giorno i soldati, e concorsovi popolo infinito, salì sul tribunale per questo fine apparecchiato, e in tal forma si espresse: Quanta sia la modestia nostra, e con quali riguardi noi siamo soliti cautelarci nelle cose d’importanza, è già tempo che voi dovete per avventura saperlo. E certamente non mi sarei avanzato di venire seco voi a discorso, se consiglio privato, dubbia speranza, e, più di lei, ambizione importuna mi commovessero. Ma i romani son quelli che mi chiamano, nè si stancano di sollecitarmi altamente, perchè voglia aiutargli, e non soffrire che sì eccellente imperio e glorioso in tanto vituperio si giaccia. E come sarebbe da temerario ed audace mettersi senza cagione a tanta impresa, così correrebbesi taccia di codardo e traditore se non movesse pietà di chi t’invoca. Per la qual cosa qui sono a voi venuto, desiderando di udire quello che voi pensiate, e qual partito mi consigliate di prendere, perchè se i successi sien per corrispondere a’ desiderj, ne sarete voi, non meno che noi, messi a parte. Nè ci muove cupidigia di cose menome e vane; egli è lo stesso popolo romano, cui gl’iddìi tribuirono la somma potestà e l’imperio di lui, vacillante ancora e senza legittimo possessore. I quali premj non sono forse grandissimi? E la vostra deliberazione pub ella riputarsi pericolosa, quando in tal guisa chiamati e ninno resistente ci muoviamo? Imperocché quei che vengon di colà tutti affermano, che non men degli altri è abborrito Giuliano dagli stessi soldati, da’ quali ha egli comprato l’imperio , per non aver essi visto ancora che adempiuto abbia alle pattuite promesse. Ma egli è duopo che voi mi diate a conoscere il vostro parere. Mentre così parlava, in un tratto l’esercito e la moltitudine ch’era ivi presente, lo salutano imperadore ed augusto. Ed abbigliatolo di porpora e di tutte quelle imperiali divise che per allora si ebbero, col fuoco innanzi lo accompagnarono prima a’ templi di Antiochia, e di poi al suo palazzo, che, da privato divenuto imperiale, stato era da loro come tale insignito.
Negro fu preso sì forte dal piacere di tal cose, vedendo e i romani ed ogni altro tutti amore per lui, che parevagli avere in pugno l’imperio. E la fama di lui essendosi anche più divulgata, tutte le nazioni che abitano dirimpet to all’Europa, a gara correvano ad offrirsegli, presii ad ogni sua richiesta. E da ogni parte ambasciadori in Antiochia vernano, come a legittimo principe. I re ancora ed i satrapi che sono al di là dell’Eufrate e dal Tigri, mandarono a rallegrarsi con lui, ed esibirgli l’opera loro a tutte prove. Ed egli accogliendoli benignamente, con molti doni e ringraziamenti, a casa li rimandava, affermando non occorrer per ora di ajuti, non avendo brighe all’imperio, ed egli volerlo reggere senza sangue. Elevato a tanta fiducia, con meno diligenza e più freddamente disirapegnava gli affari, ed infemminiva se ed il popolo d’Antiochia ne’ passatempi e spettacoli, senza darsi punto fretta di venirsene (com’era duopo) entro Roma, e sopra tutto concigliarsi gli eserciti d’Illiria, sperando ch’avuta appena la nuova si porrebbero d’accordo co’ romani e coll’esercito d’oriente.
Intanto ch’egli a sì debile speranza si appoggia, già la fama volava per l’Ungheria, per l’Illiria, e per tutti quegli eserciti che guardavano a difesa dell’imperio le ripe del Danubio e del Reno contro il furore de’ barbari. Governava tutta l’Ungheria (che da un solo governatore era retta) un tal Severo, africano di origine, uomo tutto fuoco nell’intraprendere, avvezzo a vita dura ed asprissima, destro e fiero di ma no e di consiglio. Vedea egli che l’impero romano era in pendente, e quasi preda futura del primo rapitore, per la viltà in che tenea quei due imperadori, l’uno dappoco, e l’altro senza cura. Aggiungevangli speranza alcuni segni ed oracoli ed altri presagj, cui sogliamo prestar fede quando sortito hanno di riescire. De’ quali ne ha egli scritto in que’ libri, che della sua vita compose, e pubblicò eziandio con pitture. Ma non voglio passare sotto silenzio quel sogno, cui egli ultimamente grandissima fede, e quasi ogni speranza ripose. In quel tempo che gli fu annunciato che Pertinace era stato assunto all’imperio, celebrato ch’ebbe i sagrilizj, e giurato a lui fedeltà, se ne venne in sua casa, ove fu pigliato da grave sonno; e dormendo vide un certo grande e generoso cavallo adornato di fornimenti imperiali, che portava Pertinace per la via sagra. Ma pervenuto all’entrare del foro, luogo nel quale in tempo di libertà concorreano in gran numero i romani, gli parve che il cavallo scuotendosi, gittasse a terra Pertinace, e, abbassandosi, lui che gli era appresso sopra sè ricevesse, e pel foro tranquillamente lo passeggiasse con istupore e venerazione di tutto il popolo. L’immagine di questo sogno gittatà in bronzo si vede ancora nel medesimo luogo.
Corse per ciò tanto ardire al cor di Seve ro, che credendosi chiamato dagli stessi Dii all’imperio, deliberò di tentare l’animo de’ soldati. E primieramente ingegnandosi di tirare a se i generali, i colonnelli, ed i principali soldati, intromettea discorsi dell’imperio romano, ed esagerava la viltà in che era caduto, non ci essendo persona che dignitosamente e con valore lo governasse. Scagliandosi poi contro i reggimenti della guardia, affermava esser duopo vendicare il militare giuramento da costoro macchiato di civil sangue e imperiale, e punirgli dell’assassinio di Pertinace. Conosceva egli, che la memoria di lui era per anche in grandissima venerazione presso l’esercito d’Illiria, per aver Pertinace riportate con esso, imperante Marco, molte vittorie contro i tedeschi, e date loro prove grandi di virtù militari nella sua prefettura d’Illiria, e a’ popoli di benignità e di modestia nel reggimento civile. Per la qual cosa, adorando essi la memoria di questo principe, gl’inferociva il pensiero della crudeltà usata contro di lui.
Severo dunque co’ suoi non si lasciava scappar di mano l’occasione di tirarli alle sue voglie, fingendo di non esser mosso dall’imperio, o dall’ambizione di esser primo, ma da desiderio di vendicare l’assassinio di quel gran principe. Non sono quella gente da tanto di po ter chiarirsi degli artifizj che seco loro si adoperano, perchè come han corpo gigantesco e robusto, e alla battaglia e all’uccisione prontissimo, altrettanto riescono d’ingegno tardo e grossolano. Talché persuasi che Severo avesse in animo di vendicare la morte di Pertinace, sì fattamente gli si affezionarono, che lo nominarono imperadore, e gli dettero il potere supremo. Poiché Severo fu venuto in chiaro del pensare degli ungheri, con ricchi doni trasse a se tutti i governatori di quelle vicine nazioni che soggette sono all’imperio romano. Possedendo egli lacciuoli a gran dovizia, non isgomentava per simular benevolenza di giurare e spergiurare, ed una cosa avea sulla lingua, ed un’ altra nel cuore.
Tirata dunque alla sua tutta l’Illiria, e tutti i governatori di quelle provincie, e riuniti quanti più potè di soldati, prese il soprannome di Pertinace, che s’immaginava non solo agl’illirj, ma a’ romani eziandìo dover essere gratissimo; e, fattigli venire tutti nel campo, in tal guisa arringogli: Quanta sia la fede vostra, e la religione inverso gl’Iddii, pe’ quali avete giurato, e quanto onore e riverenza abbiate agl’imperadori, si pare principalmente nello sdegno che vi anima contro quei reggimenti urbani i quali, servendo alla pompa ed alieni alla virtù, commisero il nefandissimo eccesso. Ed io pure, che a tanta speranza mi veggo elevato, e sempre fui, come voi sapete, a’ nostri principi fedele, ho meco stesso deciso di farvi godere del vostro desiderio, nè sofferire che l’imperio romano, renduto da’ nostri maggiori venerevole alle genti, vergognar si debba della sua stessa fama. Quando esso cadde nelle mani di Comodo, benché per la giovinezza di lui fosse diserto, tuttavia la nobiltà del principe, e la memoria del padre cuoprivano ogni vergogna. I suoi errori erano meritevoli più di pietà che di sdegno, e ne avevano colpa, più di lui, gli adulatori, e coloro che con pessimi consiglj lo facevano malvagio. Finalmente fu trasferito l’imperio in quel santissimo vecchio, la cui cara e buona memoria ci è ancor fissa nella mente, e la cui esemplare virtù, anziché servirgli di scudo contro quei scellerati, gli fu cagione di crudelissima morte. Ma, dopo lui, non so chi vilissimo uomo ha qual vile possessione comprato all’incanto l’imperio della terra e del mare. Odialo il popolo, come voi sapete, ed ì soldati stessi, che si sono visti ingannati, non gli sono niente fedeli. Ma se pure costoro avessero in animo di difenderlo, non si vogliono essi eguagliare con voi, nè per numero, nè per valore. imperocchè venendo voi spesso alle mani co’ barbari, avvezzandovi ad ogni spezie di fatiche, a disprezzare il caldo ed il freddo, a camminare sopra i fiumi ghiacciati, a ber acqua non attinta, ma tagliata colla scure, a vegliare tutta notte per tener lontane le fiere, divenuti siete sì valorosi ed esercitati nell’arte della guerra, che non credo vi sia chi possa contrapporvisi. E certo la fatica fa il soldato, e non la mollezza: e quei che mollemente sono sì lungo tempo vivuti, non si vogliono tenere da tanto di potere la voce vostra, non che la battaglia, sostenere. Ma se vi fosse chi si spaventasse de’ sirj, potrà egli ritrarre idea della loro fiacchezza e debile speranza dal non aver essi ardire di muoversi e di venire verso Roma, e per lo meglio, là rimanersi, dandosi a credere che i giornalieri passatempi sieno premio sufficiente di un poter contrastato. Sono i sirj di loro natura dediti a’ giuochi ed a’ motteggi, e si crede che quei di Antiochia massimamente favoriscano Negro. Imperocché le altre nazioni e città, non vedendo nessuno che degno sia dell’imperio, e capace di governare con animo grande e con modestia la repubblica, fingano per ora di obbedirlo. Venuti poi in cognizione che l’esercito d’Illiria si è creato un altro principe, ed udito che avranno il nome nostro a loro non oscuro nè incognito, per aver noi eziandìo quelli governato, e non ci potendo essi tacciare di poltroneria e di viltà, non vorranno venire a prova del nostro valore, ed aspettare l’impeto di voi altri, cui nè per grandezza di corpi, nè per esercizio di armi, sono in guisa alcuna comparabili. Marciamo dunque, più presto che possiamo, sopra Roma sede dell’imperio, ed alle altre cose darem sesto dipoi, affidandoci a’ divini voleri, ed alle forze de’ corpi vostri e delle armi. Avendo in tal guisa parlato Severo, gli fu corrisposto da’ soldati con liete grida ed applausi, chiamato augusto e Pertinace, ed offertogli di mettersi per lui ad ogni rischio.
Ma Severo, non gli parendo dover frapporre il menomo indugio, comanda loro d’indossare più presto che possono le armi, e li fa porre in marcia per Roma. Distribuendo quindi le razioni e tutt’altro che occorre, restrigne a più potere il cammino, e senza posare in alcun luogo, dava spazio appena a’ soldati di respirare dalla fatica durata. Egli poi, posto in bando ogni lusso e mollezza imperiale, affratellandosi, anzi versando sempre fra’ primi travagli, era in modo accetto a’ soldati, e sì da loro venerato, che per esso avrieno ardito ogni estremo. Ma poiché traversata l’Ungheria, se ne venne su pe’ monti d’Italia, precedendo la fama istessa di celerità, la paura, che uscia dalla vista di quel grand’esercito, sbigottì tutte le città italiane, per essere i popoli d’Italia da gran tempo dalla guerra rimossi, ed attendere all’agricoltura e alla pace.
Gl’italiani in Roma libera, e quando erano scelti i generali dal senato, furono sempre sulle armi, e soggiogati i greci ed i barbari si acquistarono l’imperio della terra e del mare, e volsero le aquile romane in ogni parte del mondo; ma poiché Augusto si prese il tutto, scemò fatica agl’italiani, tolse loro le armi, e patteggiando co’ soldati a mercede per difendere lo stato romano, i suoi confini trincierò di fiumi vasti, di fossi e monti asprissimi, di luoghi deserti ed inabitati. Per la qual cosa non è, da stupire se inteso l’arrivo di Severo alla testa di un numeroso esercito, essi da tal nuova atterriti, e non osanti di fronteggiarlo o resistergli, andassero ad incontrarlo coronati d’alloro, e lo accogliessero a porte spalancate.
Egli poi si tratteneva tanto quanto bastava pe’ sagrifizj, e per le allocuzioni ai popoli, e ripigliava subito il cammino verso Roma. Di che itone l’avviso a Giuliano, gli cadde ogni speranza e si tenne per ispacciato. Imperocché udiva quanto numeroso e potente venisse l’esercito d’Illiria, e poco si fidava del popolo, cui si vedeva essere in odio, nè molta speranza faceva de’ soldati, che gli era in cuore avere ingannati. Radunato dunque da ogni parte un gran numero di denari, o de’ suoi o degli amici, e di quei eziandìo che potè rapire a’ templi ed agli altri pubblici luoghi, fece pensiere di spartirgli a’ soldati per riconciliarsi la loro benevolenza. Costoro però, sebbene di molti doni presentati, non gliene avevano la menoma obbligazione, avendo in animo che questi si dessero in adempimento de’ debiti seco loro contratti, e non mai a titolo di donativo. Del resto confortato Giuliano dagli amici a uscir fuori coll’esercito, ed occupnre le gole delle alpi, non ebbe ardire di lasciare la città. Sono le alpi altissimi monti, e in Italia di ogni altro monte maggiori, elevanlisi su di lei, e circondatila in guisa di muri, come se la natura abbia voluto alle altre felicità di questo paese aggiugnerle eziandio questo schermo che dal mare di settentrione sporge fino a quello di oriente. Rimaso dunque in città faceva pregare i soldati di armarsi, di fare gli esercizj, di scavare fosse intorno ai muri, e quivi ogni ordine ed apparato di guerra restrignea. Intendeva poi ad assuefare quegli elefanti ch’ erano da pompa e da spettacolo a soffrirsi uomini sul dorso, datosi a credere che i soldati e cavalli d’Il liria si atterrirebbero alla vista di quelle da loro non mai viste sterminatissime bestie. Si prestava la città tutta a fabbricare armi, e tutte quelle cose ammannire che pertinenti sono alla guerra.
Mentre però i soldati di Giuliano menano le cose alla lunga, e si preparano a combattere; ecco venir nuova che Severo si appressa alla città. Aveva questi inviato in essa di tempo in tempo molti de’ suoi soldati, i quali entrati per diverse vie, e sotto abito cittadinesco tenendo ascose le armi, quivi lo attendevano. I nemici erano in casa, e Giuliano in letargo non sapeva a che partito attenersi. Il popolo allora, ciò vedendo, preso da subita paura e intimorito dalla potenza di Severo, s’infigneva di favorirlo. E scagliando vituperj a Giuliano come vile ed eifemminato, ed a Negro come pigro ed inerte, dicevano maraviglie di Severo ch’era sòl punto di entrare entro Roma. Imperocché Giuliano spaventato e povero di consiglio, riunito il sanato, deliberò di mandar lettere a Severo per pattuire un accordo, e dividere seco lui l’imperio. Il senato, benché a tal consiglio deliberasse, visto però che Giuliano, disperando di sua salute, era quasi fuor di se per la paura, si traeva tutto al partito di Severo. E due o tre giorni dopo, inteso che Severo era alle porte, fa cendosi beffe di Giuliano, si radunarono tutti nella curia per comandamento de’ consoli, cui affidata è la salute pubblica, ogni qual volta è in pendente l’imperio. Questi senatori dunque riunitisi in gran numero, deliberarono sopra quello che fare si dovesse, mentre Giuliano, essendo ancora a palazzo, si querelava compassionevolmente della sua disgrazia, e con preghiere chiedeva che gli fosse permesso lasciare l’impero, ed a Severo ogni autorità sua rinunciare.
Ma il senato, inteso lo sbigottimento di lui, e che le guardie interrorite lo avevano lasciato in abbandono, decretò che fosse morto, e dichiarò Severo imperadore. Partono tosto ambasciadori insigniti di magistrature o di autorità grande in senato per recargli tutti gli onori, co’ quali è costume di onorare gli augusti. Commesso è poi ad un de’ tribuni di disfarsi di Giuliano. Costui il misero e avvilito vecchio, il quale s’era con gran somma l’infelice fine comperato, già da tutti abbandonato, e vituperosamente piagnente, ammazzò.
La quale occisione poiché Severo ebbe intesa, ponendo tosto l’animo a cose maggiori, stabilì d’impadronirsi di tutti quei soldati che avevano assassinato Pertinace. Onde, mandate occultamente delle lettere a’ colonnelli e capitani, con lunghe promesse gli esorta a persuadere i soldati della guardia a mettersi nelle sue mani. Quindi fa esci re un editto che, lasciate le armi al quartiere, vengano fuori in abito pacifico, com’erano soliti di fare quando scortavano le funzioni, e celebravano i giuochi, e, giurata fedeità a Severo, si confortino di buona speranza, e stieno pronti a servire di corteggio al novello imperadore. Avendo quei data fede a tal parole, ch’erano loro persuase vere da’ colonnelli, gittano le armi, e vestiti in abito da festa con in testa corone d’alloro, vengono fuori. Ma giunti che sono all’esercito di Severo, e fai togli sapere essere a’ suoi ordini, comanda egli che sieno riuniti tutti nel campo, come per salutarli ed accoglierli affettuosamente. Venuti innanzi al tribunale del principe con lieti plausi ed unanimi, sono tutti, a un segno dato, arrestati. Aveva Severo dato ordine a’ suoi soldati che, vedutigli fissi ed attenti a’ suoi moti, si facessero a circondargli come si usa de’ nemici; e, senza ferirgli nè battergli, postigli in mezzo, brandiscano le bajonette e le aste, acciò la paura delle ferite levasse loro l’ardire da resistere, nudi com’erano, a uomini armati, e sì pochi contro un numero tanto maggiore. Stipati che gli ebbe per così dire di tante armi, e fatti suoi prigioni, con alta e fierissima voce così cominciò: Voi vedete co' vostri stessi occhi quanto più di voi siamo prudenti, forti, e numerosi. Noi non avemmo a durarfatica per impadronirci delle vostre persone, nè saremo a durarla per tenervi in nostro potere. Padrone della vostra vita, io vi riguardo qual vittime espiatrici. Ma qual supplizio potrà mai rinvenirsi ch'espiar possa la tanta vostra scelleragine? Non siete voi gli uccisori di quel santissimo vecchio ed ottimo imperadore, ch’era alla vostra cura e difesa affidato? Non siete voi i vili e vituperosi banditori di questo romano imperio di eterna gloria folgoreggiante, e che presso i nostri maggiori stato è sempre premio di nobiltà e di valore? Ed ora, uomini traditori e codardi, ora non avete osato neppure difendere e conservare colui che ardiste elevarci. Mille morti, se pur mille morti sono egual supplizio alla vostra colpa, mille morti voi meritate in espiazione di tanti misfatti e scelleratezze. Voi stessi non potete non accorgervi di aver chiuso ogni adito alla nostra pietà. Io però non vi farò morire, non volendo, come faceste voi, imbrattare le mie mani di sangue. Ma, ogni umano e divino diritto vietando che uomini spergiuri e le mani ancor sanguinose di civil sangue e imperiale abbino la da loro tradita custodia del principe, non aspettate che la mia misericordiasi pieghi ad altro che a concedervi la vita. Voi dunque, o miei soldati, restringeteli, e strappate loro la militare divisa, e nudi che saranno di qui fuori respingeteli. E voi, o vili, andatevene più che potete lontani: e giuro a Dio che il primo di voi che sarà veduto entro le cento miglia dalla città verrà punito di morte. Ciò detto, sono già sopra loro gl’ivi appostati soldati d’Illiria, che gli disarmano delle bajonette che tutte in oro ed argento pendeano per pompa a’ loro fianchi, e quindi strappate loro di dosso le cinture, le divise, e le altre militari insegne, tutti nudi fuori gli spingono. Vedendosi costoro presi a tradimento e con frode, si prestavano pazientemente a ogni cosa. E che far potevano pochi e senz’armi contro molti ed armati? Se ne andettero dunque raccomandandosi, e tenendosi a gran benefizio di avere scampata la vita. Dolevansi però e rammaricavansi, ch’essendo venuti fuori senz’armi, si fossero da per se stessi offerti a quella ignominia e vergogna. Ne pensò un altra ancora Severo. Stando in dubbio che quei così cacciati ed inviliti non facessero ritorno a’ loro alloggiamenti, e quivi corressero perdutamente alle armi, fece traggettare per alcune occulte vie i più bravi de’ suoi, comandando loro di scagliarsi nell’abbandonato pretorio, e toltene le armi far petto a quei che avessero idea di ritornarvi. Tale fu la pena che patirono gli uccisori di Pertinace.
Fatto ch’ebbe questo Severo, se ne venne coll’esercito tutto in armi verso Roma, ove i romani si stavano attoniti e pieni di paura, riguardando seco stessi il grande ardire e fortuna di lui. Il senato ed il popolo lo ricevettero coronati tutti di corone di alloro, siccome quello che tra’ guerrieri ed imperadori fu il primo che compì tanta impresa senza sangue e senza il menomo scalpore. Erano in quest’uomo virtù maravigliose, e sopra tutto grande acume d’ingegno, tolleranza nelle fatiche, e confidenza somma di porre coll’audacia in effetto ogn’impresa. Poiché fu con liete evviva ricevuto dal popolo, ed ebbe accolto l’universal senato che venne a fargli riverenza in sulle porte della città, se ne andette a visitare il tempio di Giove, e fattovi il sagrifizio, passò similmente a visitare secondo l’usanza gli altri tempj, e quindi si ridusse a palazzo. Il giorno appresso si condusse in senato, e colla massima dolcezza fece un discorso lusinghiero, e di ottime speranze condito, tutti insieme e privatamente ciascheduno carezzando, e dicendo loro esser venuto in Roma per trar vendetta dell’assassinio di Pertinace, e per porre nelle mani loro le redini del governo: che nessuno a suo tempo perderebbe nè beni, nè vita senza legittimo processo: sbandirebbe le spie, ed emulatore di Marco, non prenderebbe il nome solo di Pertinace, ma la mente eziandìo. Discorrendola in tal guisa, e fede e favore si concigliava. Qualcheduno però de’ più vecchj, che, avendolo in pratica, col loro senno entro i suoi pensieri miravano, avvertiva segretamente essere costui uomo doppio, di natura falsa e bugiarda, simulatore e dissimulatore impareggiabile, e disciolto a ogni iniquità, purché gli quadrasse a’ suoi fini. L’avvertimento de’ vecchj fu poi confermato dall’evento.
Severo si trattenne pochi giorni nella città, e fatti magnifici doni alla plebe e a’ soldati, come pure scelti i più valorosi di loro a formare i reggimenti della guardia in luogo de’ licenziati, senza più stare, si ammanisce alla spedizione contra Negro, che irresoluto e lento si perdeva intorno alle delizie di Antiochia, gli parendo doversi affrettare per essere sopra lui quando meno se l’aspettava. Intimato dunque a’ soldati di prepararsi alla partenza, riunisce d’ogni parte le sue truppe, fa una coscrizione dell’italiana gioventù, comanda a’ reggimenti illirici che rimasti erano nella Tracia di accelerare la marcia per riunirsi seco lui, mette insieme eziandìo una gran flotta, e le galere, tratte da tutta Italia che la componevano, di valorosa ciurma fornisce: insomma apparecchia ad un tratto numerosissime truppe di terra e di mare. E bene era accorto che gli abbisognava fare ogni sforzo contro quelle nazioni abitatrici al dirimpetto di Europa, le quali tutte parteggiavano unanimemente per Negro.
Tali erano i modi, co’ quali conducea Severo la guerra. Uomo però, qual’era, prudènte ed avveduto, gli rimaneva un cotal dubbio nell’animo dell’esercito d’Inghilterra, comandato da Albino, personaggio di stirpe senatoria e patrizia, vivuto sempre tra i piaceri e le ricchezze. Severo dunque pensò con astuzia d’imbenevolirselo, acciò l’essere ricco, nobile, accreditato, e generalissimo, non gli martelli nella mente ambizione di regno, per cui potrebbe impadronirsi di Roma che non dista grande spazio d’Inghilterra, allorché esso intendesse alla guerra orientale. Statuì dunque d’inescarlo sotto spezie di onore, sendo egli di natura leggiero e semplicissimo in modo da essere irretito da’ suoi giuramenti. Chiamatolo dunque a parte dell’imperio, gli dà il nome di Cesare, e con tale esca previene i suoi stessi desiderj. Inviagli parimente lèttere cordialissime, scongiurandolo a prendere le redini dello stato, abbisognante di nobil uomo e maturo, sendo egli vecchio e gottoso con figliuoli ancora bambini. Alle quali sue proteste prestando Albino pienissima fede, accettò di buon grado questa onorificenza, rallegrando sì di averla senza colpo di spada, e senza alcun suo pericolo acquistata. Severo poi per dare a tali cose un’apparenza maggiore di verità ne dà parte al senato, ordina che si conj moneta coll’impronta di lui, che si rizzino statue, e similmente altri onori gli fa conferire, da esser fuori di dubbio che si darebbe fede a tante lusinghe.
Provveduto avendo a ciò con prudenza sì grande, ed isgombrato ogni sospetto dell’Inghilterra, riunì d’intorno a se gli eserciti illirici e tutt’altro che gli necessitava, e prese via per marciare contro Negro. Ma in quai luoghi per tal viaggio si fermasse, quali a questa o a quell’altra città discorsi tenesse, quai prodigj apparissero, i traversati paesi, le battaglie, e quanti per parte fossero uccisi, son cose queste delle quali hanno scritto copiosamente assai storici, e massime i poeti che presero per materia la vita di Severo. Io non ho per iscopo che raccorre in fascio quegli avvenimenti, de’ quali ho piena cognizione, e che sotto diversi principi in settant’anni sono accaduti: onde principierò a narrare le principali e le più eccellenti imprese operate da Severo, senza adombrare la verità in favore di persona (come si pare aver fatto molti scrittori di que’ tempi ) e senza trasandare cosa che sia degna di memoria.
Fine del Libro Secondo.