Il secolo galante/La signora Geoffrin
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LA SIGNORA GEOFFRIN
Quando, dalla modesta casa della nonna materna, Teresa Rodet recavasi tutte le mattine ad ascoltare la messa nella chiesa parrocchiale di San Rocco, dove il suo contegno modesto e raccolto formava l’edificazione dei devoti, nessuno avrebbe potuto predire nè ella stessa si sarebbe mai immaginata quale posto la aspettava nella società del secolo XVIII.
Nata a Parigi nel 1699 da un domestico della Delfina di Francia, rimasta orfana a sette anni e piuttosto ricca, perchè Pietro Rodet aveva accumulato una discreta sostanza, fu accolta dalia nonna, madama Chemineau, poco lungi da quell’altra casa di via Sant’Onorato nella quale doveva poi trascorrere la sua lunga vita gloriosa e che il viaggiatore curioso o sentimentale può ritrovare anche oggi al n. 372 quasi di contro alla cappella della Assunzione; ritrovare, s’intende, nel suo aspetto esterno semplice e severo; chè del resto tutto fu mutato e nulla più esiste nè della distribuzione degli appartamenti, nè dello scalone arricchito di statue e illuminato dalla magnifica lampada di ferro battuto che tanti dolci e discreti riflessi doveva raggiare sugli ospiti illustri di quelle sale. Un negozio di chincaglie e curiosità del genere occupa ora il grande salotto del primo piano; ma occupandolo lo ha frazionato e non vi si ammirano più le splendide tappezzerie di Beauvais, i medaglioni di Van-Loo, il pendolo di Guyard, il busto di Racine, più nessuno degli oggetti preziosi che vi si trovavano riuniti con tanto buon gusto nell’armonia di un lusso discreto e di una continua ricerca del bello.
Se la nascita di Teresa Rodet fu molto modesti, più modesta ancora appare la sua educazione, poiché non ebbe nessun maestro; imparò a leggere dalla nonna ed a scrivere da se stessa, non senza qualche errore di ortografia che le rimase per tutta la vita, anche quando le vicende singolarissime del suo destino la posero in corrispondenza amichevole con re e con regine. Nascondo così poco la mia simpatia per il sistema educativo della nonna Chemineau, che propongo, come tema dei più seri alla meditazione di chiunque ha fanciulle da allevare, questi aforismi della brava donna: «Se la mia nipotina è una stupida, l’istruzione le darebbe una confidenza in se stessa che non potrebbe mancare di renderla insopportabile; se invece ha dell’intelligenza e della sensibilità, tutto il resto è inutile; quando poi la sua ragione sarà matura, saprà scegliere ella stessa ciò che le converrà meglio di sapere e lo imparerà subito».
Ottima madama Chemineau, perchè non le assomigliano tante e tante moderne pedagogiste!...
«Mia nonna (scriveva la futura signora Geoffrin) aveva molto ingegno e una testa ben fatta; quantunque mancasse di istruzione, la sua intelligenza era così luminosa, sagace e attiva che non l’abbandonava mai. Essa si trovava sempre al posto del sapere». E questa testa ben fatta le suggeriva appunto la via migliore, la sola per ottenere uno scopo che non sia quello di allevare delle scimmie sapienti. Non le insegnava a scrivere, è vero, ma la faceva leggere molto spiegandole ogni lettura. E le insegnava a pensare, a ragionare, a formarsi dei criteri lucidi e positivi sulle persone e sulle cose. Incoraggiandola a confidarsi in lei, le era facile guidarla, rettificando le sue incertezze e i suoi errori, per cui l’allieva non aveva nulla da nascondere ad una così tenera educatrice. L’educazione per tal modo era continua ed invisibile, lieve nella forma, penetrante nello spirito, riproducendo quasi sull’organismo morale l’azione che ha il sangue sopra tutti i tessuti del nostro corpo.
Il punto di partenza di questa oscura borghese del secolo passato non è molto dissimile da quello che Rousseau più tardi, e più tardi ancora Spencer dovevano sviluppare in teorie ed in sistemi destinati a procurar loro la gloria pubblica; ma resterà sempre a base di ciascuna di queste glorie l’ignoto germe che una donna di semplice buon senso trasmette prima col sangue e poi col lento assorbimento di ogni i giorno, di ogni ora, in parole, in silenzi, in esempi alle generazioni uscite dal suo grembo.
Teresa Rodet, allevata a questo modo, bellissima, modesta e pia, attrasse l’attenzione di un uomo dabbene, il signor Francesco Geoffrin, ricco negoziante e parrocchiano modello, il quale, vedendo tutte le mattine l’avvenente fanciulla nella chiesa di San Rocco tanto assorta nelle sue preghiere da sembrare un angelo del buon Dio, se ne innamorò e la chiese in isposa. Teresa Rodet aveva quattordici anni; Francesco Geoffrin quarantotto ed era vedovo — tuttavia il matrimonio si conchiuse con soddisfazione delle due parti. Sono cose che a quei tempi non sembravano affatto singolari. I documenti dell’epoca ci informano che la sposa portò in dote centottantacinque mila e cinquecentotrentotto lire più quindici soldi. Lo sposo aveva di suo dugentocinquantaquattro mila e sessantaquattro lire, senza contare la casa di abitazione. Questa sostanza, già abbastanza considerevole per i tempi, venne in seguito accresciuta da Francesco Geoffrin con fortunate speculazioni fino i parecchi milioni di lire.
La signora Geoffrin non conobbe dunque mai le strettezze economiche, quantunque, abituata modestamente e sposa di un uomo anche più modesto, l’andamento della sua casa fosse quello di una buona massaia che si occupa anzitutto della economia domestica, felice in una esistenza oscura e senza fasto. Neanche la sproporzione dell’età pare sia stata di ostacolo alla pace dei coniugi Geoffrin, poiché mai e poi mai nella sua lunga vita la signora Geoffrin prestò il fianco alla maldicenza, e ciò riesce tanto più meritorio in un secolo, in una città e in un ambiente che rimasero celebri nei fasti della galanteria. Assorbita nelle cure dei due figli avuti durante i primi anni del suo matrimonio e di un giovane fratello che viveva con lei, dedicava il resto del tempo ad una minuta sorveglianza delle spese quotidiane, di cui teneva un registro scrupoloso, non facendo mai un soldo di debito nessuno. Lo stesso criterio giudizioso la guidò pure nelle spese dell’abbigliamento, poiché non amava i gioielli, nutriva per i fronzoli un profondo disprezzo e non seguì mai i capricci della moda. La civetteria, sotto tutte lei sue forme, le rimase affatto ignota.
Eppure questa donna era stata molto bella. Dei quattro o cinque ritratti che esistono ancora, uno solo la rappresenta relativamente giovane, ma è i! ritratto di una Dea. Noi possiamo ammirarne la riproduzione. L’originale è di Nattier, pittore manierato, ma non privo di un certo gusto. È la signora Geoffrin a trentanove anni, vestita con una specie di peplo a larghi svolazzi michelangioleschi che lasciano tuttavia indovinare le forme elette della persona. Appoggiata a un tronco d’albero, collo sfondo di una foresta tanto più immaginaria in quanto che ella non abitò la campagna in nessun giorno della sua vita e lasciò Parigi una sol volta, quando’ era già vecchia, per il famoso viaggio in Polonia che vedremo poi, la nostra eroina appoggia la mano sinistra sopra un libro e tiene la destra distesa in una posa che per essere accademica non ci riesce di biasimare del tutto, essendo intonata col fare largo, direi quasi olimpico, di tutto il quadro. Da questa figura, che appare alta e slanciata, la testa emerge piccolissima, i capelli ravviati semplicemente intorno alla bella fronte, oblungo il volto, le fattezze nobili e pure, una dolce serietà diffusa nell’espressione degli occhi e della bocca.
Non è così certamente che si potrebbe immaginare la signora Geoffrin dopo aver lette le memorie del secolo XVIII, nelle quali viene generalmente descritta come una vecchierella ravvolta in una mantiglia color pulce, appariscente solo per la biancheria dove ella faceva consistere tutto il suo lusso e che riuniva sempre i due requisiti aristocratici di una finezza straordinaria e di un candore ineccepibile. Ma appunto perchè gli scrittori non parlano della sua giovinezza dobbiamo esser grati al pittore che ce l’ha trasmessa; essa ci sarà di aiuto per l’impressione di profonda simpatia che esercitò fino alla più tarda vecchiaia, conservando nella semplicità dei gusti e dell’abbigliamento una ricerca squisita di delicatezza che era come la cornice armonica di una beltà sulla quale le passioni non avevano avuto impero.
Gli anni migliori della signora Geoffrin trascorsero ignorati nelle condizioni già esposte di ritiro, di semplicità, di modestia assoluta. Nessuno la conosceva, nessuno si occupava di lei; ella stessa, come avviene del resto alla maggior parte delle persone destinate alla celebrità, non avrebbe mai creduto di dover uscire dal fondo tranquillo e monotono dove sembrava averla relegata la sorte.
Quando i grandi del tempo la avvicinarono e che il suo salotto a poco a poco divenne il centro di tutto ciò che racchiudeva allora Parigi in fatto di ingegno, di posizione e di fortuna, ella era già sul declinare degli anni; è quindi naturale che nella impressione dei più, di coloro principalmente che devono fissare il di lei nome nelle cronache mondane, ella sia rimasta sotto l’aspetto meno fortunato in rapporto di una bellezza appassita già nell’ombra. E non tocca nemmeno a noi rimpiangere un tesoro di cui ella stessa non seppe che farsene, che lasciò sfiorire naturalmente come le rose nei boschi, senza usare nessuna di quelle arti che la vanità femminile suggerisce al limite dell’età ingrata.
Questa mancanza dell’elemento sensuale nei trionfi della signora Geoffrin è assai interessante, molto più se la si confronta colle sue coetanee celebri, nessuna esclusa, le quali vissero tutte di passione, di galanteria o di libertinaggio e qualcuna delle tre cose contemporaneamente. Si potrebbe anche, ritorcendo contro di lei i suoi stessi meriti, accusarla di una certa freddezza, che le fu certamente di aiuto; ma l’ardore che ella dimostrò nell’amicizia limita il ghiaccio, se ghiaccio vi fu, a ciò che di meno elevato vi è nella passione, e troppe furono le persone amate! e beneficate da lei perchè l’accusa di freddezza regga ad un onesto esame. Diciamo piuttosto che vi erano in lei bisogni più complessi, aspirazioni più positive che non si trovino nella maggioranza delle donne e che le solite soddisfazioni femminili non potevano appagare; non la civetteria, non il lusso, nemmeno l’amore, nemmeno forse la maternità. Infatti, se ella prestò le prime cure a’ suoi figli, rimasta per la morte del maschietto coll’unica figlia, non si riconosce in tutta la sua condotta quella tenerezza speciale che sgorga dal cuore di una madre che sia veramente donna. Sotto questo aspetto solo si desidererebbe nella signora Geoffrin un maggiore slancio anche a costo di qualche debolezza di più.
La prima persona che deviò una così tranquilla ed assennata borghese da abitutidini che forti già di due o tre generazioni sembravano destinate ad compagnarla nella tomba, fu la marchesa di Tencin, la peggiore intrigante, la donna più malvagia e più dissoluta, quella che per la sua nascita, la sua posizione ed i suoi scandali si trovava agli antipodi della signora Geoffrin, tanto che non ci riesce coi nostri criteri moderni a tenere riuniti neppure per un istante i nomi di due personalità diametralmente opposte, e bisogna rifarsi col pensiero a quella società singolarissima, dove la tolleranza aveva varcato ogni confine di virtù al punto da raggiungere il confine opposto.
Di nulla bisogna meravigliarsi quando si tratta del secolo XVIII. Esso ci mostra madamigella Aïssé, semplice ed onesta creatura, legata d’amicizia colla marchesa di Parabère favorita del Reggente e di tanti altri insieme che sarebbe impossibile nominarli tutti, donna di voluttà e di capriccio, a cui mancava affatto il senso morale, quel senso appunto che dominò invece tutta la vita di madamigella Aïssé. E ci mostra la severa, la casta, l’incensurabile Geoffrin cedere al fascino senile di colei che, monaca dapprima, aveva buttato il velo per darsi alle maggiori dissolutezze e perfino al delitto; chè certamente fu delitto l’assistere impassibile della marchesa di Tencin all’uccisione di uno de’ suoi amanti; e delitto anche maggiore l’abbandono che ella fece di un figlio avuto in una delle tante avventure galanti sui gradini di una chiesa, esposto a tutti i rigori di una notte d’inverno....1 È duopo dire che ella era abilissima a fingere. Quando Marmontel, lasciando la nativa provincia, venne a Parigi e le fu presentato, ne era quasi in estasi. Solo più tardi, ricredendosi, scrisse nelle sue memorie: «Non posso esprimere l’illusione in cui mi metteva la sua aria di semplicità e d’abbandono. Ah! quanta finezza di spirito, quale ingegno elastico e proteiforme si nascondeva nella sua apparente ingenuità. Rido ancora della dabbenaggine colla quale esclamavo lasciandola: Che buona donna!»
Vecchia, malaticcia, ritirata dalla Corte, nella impossibilità di darsi più nè agli uomini nè al diavolo, la marchesa riceveva ancora in un piccolo appartamento della via Sant’Onorato alcune persóne d’ingegno che ella sapeva intrattenere con un brio meraviglioso sopravvissuto al naufragio di tutto il resto. La vicinanza, la noia da una parte, la diminuzione delle risorse dall’altra, attirarono le due donne e fu per la signora Geoffrin la rivelazione di un mondo! L’ambizione o meglio forse quel bisogno di elevamento che sonnecchiava in lei si ridestò al contatto delle persone illustri che frequentavano il salotto della marchesa; le discussioni degli enciclopedisti la interessarono; incominciò a guardare più in là del suo libro delle spese e delle funzioni della parrocchia; tutta la sua giovinezza sepolta risorse, mise fronde e fiori e cantarono tra i suoi rami illusioni nuove. Le persone illustri non mancarono di renderle le visite e per essi si dischiusero gli arrugginiti battenti della calma e solitaria dimora.
Chi non vide di buon occhio codeste innovazioni fu il marito, il devoto e pacifico signor Geoffrin, che si trovò a poco a poco invasa la casa da una turba di letterati chiacchieroni e nemici della religione per giunta. Tutte le sue idee ne furono turbate, urtati i suoi gusti, scosse le sue abitudini, e come se ciò non bastasse, i banchetti si aggiunsero alle visite, andando a ferire nel fondo della sistematica indifferenza dove stava adagiato sonnecchiando il più grosso peccato del signor Geoffrin: l’avarizia.
Ne nacquero scene e baruffe, nelle quali il buon uomo dovette conoscere a proprie spese quanto sia difficile giudicare che cosa sarà a trentanni una fanciulla di quattordici angelicata ai piedi di un altare. La resistenza della signora Geoffrin era forte per il lungo approvvigionamento di energie, per una volontà indomabile, perchè infine cominciava allora a vivere e pretendeva e voleva la sua porzione di felicità. Il marito era il più debole e dovette rassegnarsi. Quando la signora stabilì definitivamente i suoi pranzi del mercoledì, non gli rimase che la magra consolazione di preparare egli stesso la lista delle vivande, procurando di conciliare il decoro coll’economia; e per molli anni i commensali di quelle agapi che dovevano restare celebri lo videro, immobile e muto di fronte a sua moglie, assistere senza interesse ma con tacita dignità alle dissertazioni dei filosofi, finché nel 1740 morì tranquillamente e oscuramente come era vissuto.
Da allora in particolar modo data il grande slancio del salotto della signora Geoffrin. Essendo morta quasi contemporaneamente anche la marchesa di Tencin, la società di quest’ultima passò tutta intera alla sua amica e rivale. Montesquieu il grande scrittore, Vauvenargue disgraziato di corpo e d'animo bellissimo, Suard spirito fine, carattere amabile, elastico, imbevuto sufficientemente di belle lettere, parlando bene, scrivendo bene, il tutto con molta discrezione; e poi Marivaux dal cui nome si chiama ancora in Francia un genere di poesia leggera, inconsistente e graziosa (marivaudage), Marmontel scrittore di secondo ordine ma uomo culto, Voltaire, il dotto e onesto Morellet autore di una storia dei Papi, erano fra gli assidui del mercoledì, a cui si aggiunsero più tardi Galiani, Hume, Grimm, d’Alembert. Vi appariva pure qualche volta il poeta Piron, ma di rado, benché si ingegnasse di entrare nelle grazie della signora inviandole sonetti™ e madrigali, ai quali ella rispondeva con regaleci di zucchero, caffè e cioccolata. La marchesa di Tencin, quando era in vita, aveva invece l’abitudine di regalargli a capo d’anno (a lui ed a qualcun altro) un’auna di velluto per farsi un paio di brache. Sempre curioso quel secolo XVIII!
In mezzo a questo circolo di dotti il primo posto era riservato a Fontenelle, il famoso centenario e altrettanto famoso egoista; quantunque parlando di lui bisogna togliere al vocabolo egoista quel non so che di antipatico che vi crea intorno una interpretazione soverchiamente volgare. Fontenelle non conosceva che le cose dello spirito, e nella sua mente lucida come cristallo l’idea imperava sul sentimento, ecco tutto. È facile che una tale attitudine venga interpretata come egoismo, essendo in realtà niente altro che distrazione dalle cose visibili; bastava avvertirlo però e la signora Geoffrin, col suo spirito di carità, vi riusciva a meraviglia, ottenendo da lui tutto il danaro che voleva per le sue beneficenze. Del resto il suo criterio impeccabile suppliva agli slanci del cuore, e dissero di lui che fu il più utile degli amici perchè il più sicuro dei consiglieri. La signora Geoffrin era ben fatta per ammirarlo e farsene quasi un modello e un prototipo. Egli ebbe molta influenza sulla seconda parte della sua vita, comunicandole le sue opinioni nei più svariati argomenti e dando quasi col suo esempio una sanzione a quella specie di rigidità che era pure nel temperamento di lei.
Nè qui si arrestò l’ambizione intraprendente di una donna che senza nascita, senza cultura, con una bellezza passata, andava ogni anno accrescendo il suo prestigio e facendosi un nome in quel Parigi dove pure tante signore meglio dotate e portanti i più bei nomi di Francia avevano già accaparrato il fiore della intellettualità mondana. Con uno slancio veramente geniale, rompendo in visiera i pregiudizi che tenevano lontani dalla società gli artisti, pittori, scultori e musici, ella seppe allargare fino ad essi la sua intelligenza vigilante ed attiva, sempre in cerca di un merito da incoraggiare e da proteggere; e come i letterati avevano il loro posto stabilito al pranzo del mercoledì, ebbero gli artisti il pranzo del lunedì. Ricordiamoci che allora il pranzo ricorreva poco dopo mezzogiorno e fu anche questa degli inviti a pranzo una innovazione della signora Geoffrin. In tutte le altre case gli inviti si facevano per la cena.
Avendo accennato a qualcuno degli amici del mercoledi, è giusto notare anche i frequentatori del lunedì, quantunque, dice Pietro Ségur: «Dare la lista dei convitati equivale a nominare senza eccezione tutti coloro di cui la matita, il pennello o il cesello portarono così alto il nome dell’arte francese in quel secolo; per non citare che i più celebri, ecco Bourcher, gaio parlatore, dagli aneddoti leggeri, qualche volta, come il suo pennello; La Tour, il pastellista melanconico; Giuseppe Vernet, di cui la signora Geoffrin apprezzava particolarmente l’ingegno ed al quale commise non meno di otto quadri di marine; Vien, Lagrenée, Drouais, lo scultore Bouchardon, il disegnatore Cochin che ella colmò di benefizi ricevendone per compenso un affetto figliale, e finalmente il buon Carlo Van-Loo, il preferito, il suo pittore in titolo».
I quadri ch’ella commise e che pagò generosamente sommano a non meno di settantatrè, dei quali s’è trovata la nota insieme a quella di tutte le altre spese tenute e registrate con un ordine scrupoloso. Alcune cifre a titolo di curiosità:
Al puntuale pagamento del prezzo ella aggiungeva regali al pittore, alla moglie od ai figli che variavano dalle trecento alle duemila lire. La sua generosità per la famiglia Van-Loo, che dopo la morte del pittore si trovava in grandi strettezze, giunse al punto di suggerirle ai vendere a due signori russi, che se ne erano particolarmente incapricciati, due tele di Van-Loo al prezzo di cinquantamila lire. Ella, che le aveva pagate quattromila, ritirò questa piccola somma e diede il resto alla vedova Van-Loo.
Rameau e Mozart portarono a quelle riunioni la melodia dell’arte loro, e perchè la sua amicizia fosse sempre più profittevole, la signora Geoffrin attirò in casa sua mecenati potenti, quali il duca della Rochefoucauld, il marchese di Marigny, l’abate di Saint-Non, e seppe mischiarvi con fine tatto qualcuno fra i letterati che meglio sapessero imprimere alla conversazione un carattere di polemica elevata, di emulazione semolatrice.
No, non potevano bastare i lauti pranzi — come ebbero a dire gli immanchevoli maligni — per stringere intorno ad una piccola borghese la schiera; di amici raccolti in tutto ciò che di superiore vantava l’intelligenza. Nemmeno le straordinarie, principesche beneficenze profuse, molte della quali non, si conobbero che dopo la sua morte, spiegano il successo c giustificano l’elogio della signora Geoffrin.
Sempre vi furono mense imbandite e scrigni aperti. No, il segreto non è qui ! Ove un concetto idealistico e ben fermo, ben deciso, non avesse guidato tutti gli atti della signora Geoffrin, dalla parola alata, ch’ella gettava come un razzo fra i crocchi brillanti, alla operosità serena ed infaticabile della sua vita privata, non avrebbe potuto questa donna per quasi mezzo secolo conservare al suo circolo la fisionomia caratteristica che lo distingue dai tanti altri che gli facevano corona. Appunto perchè ghiotta era l’esca, poteva diventare in mano di un’altra donna centro di corruzione o barca senza guida lasciarsi trascinare alla deriva in mezzo a tante correnti opposte. Riconosciamo certamente che il largo censo le permise di realizzare il suo ideale, ma conviene stabilire anzitutto che l’ideale esisteva e questo è l’importante.
Non avendo concesso nulla alla passione propriamente detta, ella non portò nelle amicizie intellettuali gli avanzi di un cuore corrotto e logoro a somiglianza della Tencin e della Du Deffant, o gli strascichi sanguinosi delle ferite d’amore come madamigella Lespinasse. Tutto ciò che vi era in lei di intelligenza e di sentimento, nobile ambizione, bisogno d’affetto, bisogno sopratutto di darsi di prodigarsi, questo bisogno sommamente femmine che non aveva trovato il solito varco comune a tutte le donne, capitalizzò, per modo di dire, fondi e interessi, onde ella potè offrire, quando le parve di avere finalmente trovata la sua strada, un cuore vergine e delle forze intatte.
Che la signora Geoffrin guidasse il movimento del suo salotto anzichè lasciarsene guidare o sopraffare, risulta dalla sua fermezza nel respingere alcune persone che non erano di suo genio per quanto onorate o stimate o potenti, come il maresciallo di Richelieu e come Federico il Grande, di cui non volle mai saperne. Risulta pure dal bilancio delle sue finanze ch’ella seppe conservare intangibile, in mezzo a tutti i pranzi, i ricevimenti e le innumerevoli beneficenze. Si trova in questa donna una fusione interessantissima a studiarsi delle migliori qualità femminili con alcune caratteristiche proprie del sesso forte, per esempio l’istinto dominatore, — non a fine di tirannia, ma di affetto — perocchè le occoresse stringere ben solide nel suo piccolo pugno le persone che amava e non le avrebbe amate se non avesse potuto volta a volta imperare su di esse e chinarsi ad asciugare le loro lagrime.
Una delle sue amiche, lady Hervey, scriveva, parmi con esatta conoscenza del soggetto: «Vi sono poche teste organizzate meglio della sua: non vi è un cuore che sorpassi l’affettuoso calore del suo.» E se di ciò si potesse dubitare pensando ad altre donne che tutte si immolarono all’amore, la ragione va cercata probabilmente non in una sovrabbondanza di affettività, ma spesso in una deficienza di criterio. Non è difficile collo stesso argomento ribattere un’altra accusa fatta alla signora Geoffrin. Dissero che quando ella aveva esaurito ogni mezzo per sollevare un infelice, se proprio non riusciva, gli voltava le spalle per occuparsi d’altri, concludendo che era solo l’amica dei fortunati. Non mi par giusto.
I denari che ella stessa portava nelle soffitte non erano certo dati ai favoriti della fortuna, e se è anche vero che dinanzi ad alcune miserie irrimediabili si ritraesse, poiché la vediamo correre in cerca di nuove miserie e prodigare nuove generosità, non dobbiamo arrestarci alla esiguità del fatto, ma riflettere che ella era anzitutto un temperamento d’azione, insofferente di sentimentalismi platonici. Soldato più che sacerdote della carità, può darsi che in qualche caso ella abbia abbandonalo il morente al suo destino per correre in aiuto di chi aveva ancora un filo di vita. Oseremo biasimarla, noi, disillusi oramai dalla rettorica parolaia che semina per lo meno tanto male quanto dice di fare del bene? Anche l’accusa di dispotismo fattale dai suoi migliori amici si risolve in quella imperiosità di bene che fu la sua maggiore caratteristica e che non riesce a renderla antipatica. Sia che sgridasse Fontenelle o Walpole, Marmontel o Burigny, Suard, Morellet o Diderot — tutti passati sotto la sferza tirannica ed affettuosa del suo dominio — ella è sempre guidata da un concetto di giustizia, da un bisogno ardente di giovare, di beneficare, che la fa trascorrere ad una violenta irritazione quando lo stesso beneficato sembra opporsi al proprio vantaggio trascurando i di lei consigli. Eccesso forse, ma eccesso di una qualità nobilissima e rara.
La fama intanto diffondeva per quasi tutta Europa il nome di questa donna così semplice nelle sue abitudini, modesta nel suo contegno, saggia nella sua grandezza. Nessuno straniero di qualità sarebbe allora giunto a Parigi senza farsi presentare alla signora Geoffrin, ove — dice Sainte-Beuve — i principi si recavano come semplici privati e gli ambasciatori non si muovevano più da quando vi avevano posto il piede.
Ma se tutto il Parnaso era già sfilato negli appartamenti della via Sant’Onorato l’Almanacco di Gotha vi teneva dietro con pari zelo, dal principe di Kaunitz a Gustavo III di Svezia ed a Caterina II di Russia, la quale, se non venne di persona, scrisse tante lettere alla sua buona amica Geoffrin da annoverarsi anche questa fra le cose singolari di una società che non può a meno di apparire fantasmagorica ai nostri occhi dischiusi dopo la terribile rivoluzione.
All’apogeo de’ suoi trionfi, onorata di amicizie, regali, la giudiziosa nipote di madama Chemineau, che non aveva punto migliorata la propria ortografia, ma che conservava intera la solidità del buon senso ereditario, non credette di alterare menomamente l'ordine rigoroso che presiedeva all'impiego del suo tempo. Alzata alle cinque, sia d’estate che d’inverno, vestita e pronta in breve tempo senza aiuto della cameriera, si occupava subito dell’amministrazione della sua casa dando ordini precisi e minuziosi, non trascurando nessun particolare per intimo che rosse. Le vivande, i vini, le conserve de’ suoi pranzi famosi non sfuggivano ad una vigilanza che aveva di mira tanto la bontà della scelta quanto la convenienza dei prezzi; faceva venire i polli da Caen e ordinava la marmellata di fiori d’arancio alle monache di Poissy: trentanove lire ventiquattro vasi. Regolate così le questioni d’ordine domestico, attendeva alla corrispondenza, scrivendo non meno di due lettere e spesso sette od otto per mattina; una mattina che finiva alle undici. Allora si metteva la cuffia nera, la mantiglia color pulce ed usciva. Erano visite ad amici intimi, visite ad ammalati, visite agli studi degli artisti ai quali aveva commesso dei lavori; erano pure corse nei negozi, qualche volta per sè, più spesso per conto degli altri. Gli stranieri di passaggio, conoscendo il suo gusto e la sua abilità, la incaricavano di quelle compere difficili e preziose destinate ad arricchire una raccolta artistica od a portare nei salotti esotici la nota elegante della vita parigina. Ma erano più spesso ancora corse di carità, quella carità inesauribile e intelligente che ella amava compiere in segreto senza fasto e senza rumore. Dopo una mattina così bene impiegata rientrava e non occupavasi più che dei ricevimenti, i quali si seguivano dal pranzo alla cena quasi senza interruzione. Difficilmente usciva durante il giorno e non la si vedeva mai nè al teatro, nè alle serate mondane, nè ai tavolini da giuoco così in voga fra le signore della Corte e della città. Alla domenica non riceveva e quel giorno (lo si sejipe più tardi) veniva da lei impiegato a preparare e suddividere le somme che andava poi a distribuire ella stessa ai bisognosi. In quella solitudine del giorno santo maturava i suoi piani di beneficenza; i bambini che fece allevare a sue spese, i vecchi amici che raccolse nella sua stessa casa per poterli assistere meglio, tutti i mezzi ingegnosi e delicati coi quali veniva in aiuto degli artisti poveri e delle loro famiglie, per cui si può dire che metà de’ suol redditi passava In beneficenze.
Incerta era fra i contemporanei la somma precisa delle sostanze che andavano ad alimentare tante opere di misericordia, mantenendo nello stesso tempo il decoro di una casa che aveva dieci persone di servizio e mensa quasi sempre aperta; ma dalle note precise conservate nella famiglia degli eredi risultò un reddito di cento cinquanta mila lire, sul quale doveva pure essere prelevala la dote della figlia. Questa figlia aveva sposato a diciotto anni il marchese della Ferté-Imbault, ma rimasta vedova quasi subito non si rimaritò e visse sempre nella casa paterna, più o meno in armonia colla madre. Le due donne non si somigliavano affatto: la marchesa aveva una vivacità di carattere spesso inconsiderata, turbolenta, bizzarra, che urtava troppo la ragionevolezza di sua madre. Anche nella scelta delle relazioni, mentre la signora Geoffrin aveva sempre accentuata la sua predilezione per le persone di ingegno, la marchesa frequentava di preferenza la gente di Corte; le piaceva a divertirsi, a ridere, a scherzare, a fare delle follie, e mentre si rassegnava a passare l’inverno presso sua madre, nella bella stagione correva dall’uno all’altro castello, dall’una all’altra villeggiatura, ricercata per il suo brio; e per la sua posizione di vedovella indipendente e ricca. Non vi furono dei veri dissidi tra madre e figlia, ma in complesso più che amarsi si sopportavano a vicenda.
Il caso intanto doveva preparare alla marchesa della Ferté-Imbault una singolare occasione di rendere a sua madre le osservazioni piccanti che costei le faceva sulla sua manìa per la Corte. Bisogna ritornare indietro col tempo, quando cioè la signora Geoffrin trovavasi ancora abbastanza giovane. Nel 1741 era capitato a Parigi il conte Poniatowski e, naturalmente, le era stato presentato. La loro amicizia divenne in breve così cordiale e la Geoffrin gli rese tanti piccoli servigi che egli la chiamava scherzando sua moglie, dicendole che le avrebbe mandato un giorno tutti i suoi figli come ad una madre di adozione per farsi amare e guidare da lei. I figli vennero infatti uno dopo l’altro, specialmente Stanislao Augusto, che le si affezionò in modo particolare e durante i cinque mesi che rimase a Parigi la tenne veramente come guida e consigliera, accettandone di buon grado non solo gli avvertimenti, ma anche le repressioni dispotiche che ella usava con tutti quelli a cui voleva bene. Cinque mesi tuttavia sembrano pochi per mettere le radici di un affetto che resistette al tempo, alla lontananza ed ai fortunosi avvenimenti che trasformarono Stanislao da semplice signore in re di Polonia. Anche qui è necessario riconoscere che solo doti veramente eccezionali potevano così aiutare il destino. Stanislao, divenuto re, non la dimenticò ed ecco la signora Geoffrin già amica di una imperatrice, divenire madre putativa di un re.
Il giovane polacco, che aveva sempre conservata corrispondenza con lei, la aveva messa a parte dei suoi amori burrascosi e de’ suoi timori e delle sue speranze, si affrettò pure ad annunciarle di sua propria mano l’avvenimento al trono, assicurandola che le nuove grandezze non avrebbero mutato l’antico affetto, chiamandola ancora mia cara mamma, soggiungendo tante frasi tenere e gentili, che per la prima volta in vita sua la signora Geoffrin sentì montarle alla testa i fumi dell’orgoglio e se ne inebbriò fino all’esaltazione. Conveniamo che altri lo farebbe per molto meno. Alcuni servigi d’indole politica che ella potè rendere al neo-re presso il ministro di Francia, la consolidarono ne’ suoi successi, seminando nella sua mente la prima idea di varcare le seicento leghe che la separavano da Varsavia per andare a vedere de visu in qual modo si comportasse coi sudditi il suo caro figliuolo.
Il grande avvenimento si compì nel 1766. Ella era più prossima ai settanta che ai sessant’anni, e non si era mai allontanata da casa sua più di venti leghe; ma era sana, intrepida, senza paura. Una cosa sola la preoccupa; a Varsavia l’acqua è buona? Lo chiede ripetutamente al re, rammentandogli che ella ha l’abitudine di berne due grandi tazze tutte le mattine e due la sera e parecchie altre durante i pasti, e che quando ha l’acqua buona non le occorre altro. Stanislao rassicura che l’acqua è leggera, fresca e chiara: «Vi vedrete dentro come in me stesso».
Non restava che ad organizzare la spedizione, il buon re, per dire il vero, temeva i pericoli di un viaggio così lungo attraverso vie disagevoli e mal sicure, specialmente in Polonia, per una donna vecchia, dalle abitudini sedentarie; ma ella era decisa. Fin da un anno prima, maturando lentamente il progetto, ordinò al suo fabbricatore di carrozze una berlina larga e solida, capace di andare, e sopratutto di ritornare, dal reame sassoso del suo figliuolo. Intanto ella si allenava, per usare un vocabolo in corso, facendo tutti i giorni delle piccole gite intorno a Parigi.
Non è a dire se questi maneggi insoliti eccitassero la curiosità dei suoi amici, ai quali ella non aveva palesato nulla, e se fra lo stupore generale non corressero le voci più contradditorie a proposito di un viaggio così straordinario, preparato nel mistero. E chi ci volle vedere un segreto di alta politica, chi una missione confidenziale presso le Corti del Nord, chi questo, chi quello; l’assurdo fu all'ordine del giorno. I più sorpresi ed indignati però furono i commensali dei due giorni fissi di lunedì e mercoledì. La progettata assenza costituiva per essi una infedeltà, una specie di violazione di quarantanni di diritto; ma la signora Geoffrin non era donna da preoccuparsi per sì poco. Sapeva benissimo che il ritorno avrebbe cancellato i torti della partenza.
La preoccupazione maggiore era quella di stabilire l'itinerario del viaggio. Molti, quando si decise a parlarne, la consigliavano a passare da Berlino, fra questi Grimm, che essendo amico del grande Federico, insisteva per fargliene fare la conoscenza. Noi sappiamo già che il re filosofo non entrava nelle simpatie della nostra eroina, la quale lo giudicava nè grande nè virtuoso, assicurando che fra cinquantanni non si parlerebbe più di lui e che egli era del resto troppo brutto per invogliare menomamente a vederlo. Per tutte queste ragioni, preferì la via di Vienna, dove Maria Teresa l’aspettava con vivissimo desiderio, curiosa di conoscere una donna di cui tutti si occupavano. E così la partenza, che aveva assunto le proporzioni di un avvenimento europeo, ebbe luogo precisamente il mercoledì 21 maggio dell’anno 1766 a tre ore dopo mezzogiorno.
Ebbene, si dica quel che si vuole, ma anche dopo centotrent’anni, il fatto è interessante.
Questa vecchia signora che incomincia a girare il mondo quando gli altri finiscono, calma, serena, impiegando diciotto giorni da Parigi a Vienna, 1 senza provar mai nè stanchezza, nè noia, nè imbarazzo alcuno, così comoda, in una berlina come nel suo salotto, non interessandosi affatto al (paesaggio, ma portando tutto il suo mondo e le [sue risorse, dentro di se, è un tipo abbastanza raro perchè anche noi lontani posteri vi possiamo trovare qualche profitto non le impedisce di alzarsi un’ora prima del solito, alle quattro invece che alle cinque, e va lei stessa a svegliane le due cameriere che la accompagnano perchè alla loro volta sveglino i due domestici, e così regolarmente tutti i giorni finché la piccola carovana, dopo una sosta a Durlach, giunge a Vienna preceduta da uno strombazzamento di ordini a tutte le poste dell’Impero, di tenersi pronte sul passaggio di così illustre viaggiatrice.
Appena arrivata a Vienna, la sua camera è presa d’assalto. Paggi, messaggeri, ambasciatori di tutte le Corti, signori che ella aveva appena conosciuto a Parigi e dei quali non si ricordava nemmeno più, una folla insomma desiderosa di vederla e di poter dire di averla veduta. L’Imperatore, che la incontra a passeggio, fa fermare la propria carrozza c ’viene a riverirla allo sportello della sua, non permettendole di discendere. L’imperatrice la invita a Schoenbrunn, dove ella può ammirare Maria Teresa, circondata da tutti i suoi figli, fra i quali Maria Antonietta dodicenne la colpisce particolarmente per la sua grande bellezza. E tutti gareggiano nel colmarla di cortesie.
Da Vienna a Varsavia il viaggio doveva necessariamente sembrarle più brusco. Dieci giornate attraverso regioni semi-barbare, sentieri appena tracciati, le soste nelle stalle, il pane immangiabile e sopratutto oh! sopratutto l’acqua cattiva, ecco di che mettere alla prova la pazienza di una parigina, abituata a tutti gli agi. Ella era tuttavia così padrona di sè che si consolava con un ragionamento; diceva che dove altri erano passati poteva ben passare anche lei. Questo si chiama esser filosofi.
Il 24 giugno scriveva da Varsavia a sua figlia: «Sono arrivata qui il 22 verso le ore cinque di sera. Fu un mese al 21 che lasciai Parigi ed ho fatto e vedute molte cose da allora! Compii questo viaggio in perfetta salute; il cambiamento di aria e le diverse qualità d’acqua non mi hanno fatto nulla e giunsi a Varsavia come se mi fossi alzata dalla mia poltrona. Mi sono divertita molto a Vienna, ma qui mi trovo addirittura fra le delizie. Sono stata ricevuta dal re con trasporti di gioia e di riconoscenza, che non so come esprimere». Qualche giorno dopo scrive ancora: «Sto benissimo e ricevo continuamente tanto dagli uomini, quanto dalle signore i complimenti d’ammirazione sulla freschezza del mio volto, come se avessi quindici anni. Vivo qui come a Parigi. Mi alzo alle cinque, bevo le mie due granai tazze d’acqua calda; prendo il mio caffè; scrivo quando son sola, ciò che è raro. Pranzo tutti i giorni col re, faccio delle visite al dopo pranzo, assisto a qualche spettacolo e rincaso alle dieci; bevo la mia acqua calda e mi corico. Il giorno dopo ricomincio la stessa cosa. Mangio così poco a questi grandi pranzi, che sono spesso obbligata a bere una terza tazza d’acqua per acchetare la fame. Devo alla severità di questo regime la mia buona salute; gli sarò fedele fin che vivo».
Il soggiorno della signora Geoffrin a Varsavia durò tre mesi, durante i quali, se ebbe parecchie soddisfazioni non mancò di urtare in qualche disinganno. Il regno di suo figlio, povero regno, dilaniato da discordie intestine, da antichi pregiudizi, dalla tirannia dei nobili e dalla miseria del popolo, visto e studiato da vicino, dissipò molti dei castelli in aria che ella vi aveva fabbricati, onde t* lecito supporre che il distacco da Stanislao le fosse addolcito dalla prospettiva del ritorno nella sua pacifica via di Sant’Onorato, tra i vecchi amici che l’attendevano colle braccia aperte. Infatti, rimesso il piede nella sua casa, parve che nulla fosse mai stato commutato. I commensali ripresero il loro posto a tavola, i visitatori la loro poltrona nel salotto, i poveri l’abitudine di fidare in lei. Il suo credito fu solennemente confermato, e in quell’anno stesso Delille alludeva a lei nel poema la Conversazione coi seguenti versi:
Il m’en souvient, j’ai vu l’Europe entière |
Non avendo attinta la celebrità nè dalla bellezza nè dalle avventure galanti, ella ebbe il vantaggio di vedersela continuare fino alla più tarda vecchiaia. I diritti naturali della donna da lei in parte strozzati o meglio deviati verso altre mete, le diedero pure frutti d’amore e di maternità. Quell’amore che non conobbe e quella maternità che conobbe così poco si trasformarono nel crogiuolo del suo cuore caldo e bisognoso d’affetti. Si direbbe quasi che la mancanza di sensualità l’avesse resa repugnante all’ufficio di femmina e di procreatrice, pur lasciandole una larga onda di tenerezza, che prese nella sua vita i due nomi di amicizia e di beneficenza; ed è singolarissimo il confronto tra le lettere asciutte che scrive alla figlia del suo grembo, dove la frase più affettuosa è belle marquise, e quelle dirette al re di Polonia con abbondanza di mon fils, mon Stanislas! Non v’ha dubbio che l’eccesso di ardore da lei consacrato alle persone che rappresentavano una idea, era stato preventivamente tolto a chi avrebbe potuto vantare diritti di sangue; ma non sarebbe giusto dare qui un giudizio di criterio comune, poiché è evidente che ci troviamo davanti ad una eccezionalità.
Mi piace insistere tuttavia sul carattere elevato che ebbero tutti gli slanci di questa donna e sul disinteresse veramente ammirevole delle sue beneficenze, diversa anche in questo dalle persone del suo sesso, che danno sempre sotto un impulso di simpatia. Ella beneficò amici e nemici, simpatici ed antipatici, tutte le volte che le parve ben fatto. Un esempio toccante è, fra molti altri, la sua condotta con Diderot. Questo squilibrato di ingegno non aveva mai potuto entrare nelle sue grazie, un po’ per gli scritti licenziosi e sovversivi, ma molto per l’incredibile volgarità dei modi. Quando fu presentato a Pietroburgo a Caterina II, questa scrisse alla signora Oeoffrin: «Ce Diderot est un homme bien extraordinaire! Je ne me tire pas de mes entietiens avec lui sans avoir les cuisses meutries et toutes noires. J’ai été obligée de piacer une table entre lui et moi pour me meìtre à l’abri de sa gesticulation.» La signora Oeoffrin, a quanto pare, era meno tollerante dell’imperatrice di tutte le Russie, perchè non perm se mai a Diderot di varcare la soglia di casa sua^ quantunque si recasse di tanto in tanto a trovare la di lui povera moglie, innocua e disgraziata creatura, a cui nessuno badava, mal sopportata dal marito e derisa dagli amici di lui. Fu compiendo quest’opera di pietà che si accorse dello stato miserabile in cui si trovava l’abitazione del filosofo, e senza dir motto a nessuno, secondo il solito, gli fece l’improvvisata di rinnovargli tutti i mobili; spinse anzi la generosità, conoscendo l’amore di Diderot per la pittura, fino ad ornargli le pareti del salotto con tele pregevoli. E quando Diderot, per il decreto reale che gli toglieva il privilegio di pubblicare l’Enciclopedia, trovossi in completa rovina, fu lei che intervenne con una somma ingente presso l’editore perchè l’opera fosse continuata. Non ini riesce, dopo un tale fatto, di sottoscrivere l’opinioue del critico che, pur riconoscendo la liberalità della signora Geoffrin, trova che le manca «una certa fiamma celeste.» Non è abusare un po’ delle parole?
Durante i quarant’anni del regno della signora Geoffrin molti furono gli attori messi fuori di combattimento o dalle vicende della vita o da quelle più terribili ancora della morte; è la grande tristezza dell’invecchiare.
II nomi cambiano fatalmente. Verso la fine vediamo apparire la signora Neker, madre della Stael; vediamo stringersi in viva amicizia la relazione con d’Alembert e colla sua indivisibile compagna Clara di Lespinasse, per la quale la Geoffrin risenti una simpatia così viva da ammetterla, sola eccezione del suo sesso, ai pranzi del mercoledì. Colla manìa generosa che le conosciamo e coi criteri poco rigorosi che vi erano allora sulla dignità del ricevere beneficenze, non ci sorprende di trovare anche d’Alembert ed anche madamigella Lespinasse fra loro che fruivano di una rendita vitalizia, e la marchesa della Ferté-Imbault consegna alle sue memorie il fatto della vendita di alcuni quadri di Van-Loo per pagare i debiti della Lespinasse. Quest’ultima vampata d’ardore, forse per la qualità speciale delle due persone che ne erano l’oggetto, forse perchè appariva più pericolosa, nella gravezza dell'età, ebbe il potere di rendere gelosa la marchesa di Ferté-Imbault, che gareggiò allora di zelo per tenere lontani i due complici, ai quali ella rimproverava sopratutto la mancanza di religione, ed essendo morta in questo frattempo la Lespinasse e la signora Geoffrin colpita da un attacco di paralisi, ella venne a capo del suo intento facendo chiudere l’uscio a d’Alembert e con lui a tutti i suoi colleghi della Enciclopedia.
L’idea di una prossima dipartita entrò calma e piena di rassegnazione nel cervello sempre forte della signora Geoffrin. Ne parlava senza terrore e senza ostentazione, facendo i suoi preparativi posatamente come se si trattasse di un secondo viaggio. Non dimenticò nulla e nessuno. In causa della paralisi non scriveva più ella stessa, dettando le lettere a sua figlia, ma prima di morire fece uno sforzo supremo e vergò questo estremo saluto per il re di Polonia: «Je vous aime de tout mon cœur.» I domestici, vecchi domestici che le erano profondamente affezionati, e pochi amici scelti dalla marchesa fra coloro che, secondo lei, non avrebbero portato turbamento alla solennità degli ultimi momenti, circondarono il suo letto fino agli estremi. Ella soccombette ad una crisi del male il 6 ottobre 1777. Per suo ordine i funerali furono modestissimi, e dei filosofi, artisti, scrittori, che ella aveva per tanti anni accolti e beneficati, ma oramai dispersi o perduti, tre soli seguirono il carro: Thomas, Morellet, d’Alembert.
- ↑ D'Alembert.