Frammenti letterari e filosofici/Prefazione
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PREFAZIONE
I.
O Lionardo, perchè tanto penate?
Codice Atlantico, f. 71 r.
La biografia di Leonardo, nelle sue linee essenziali, è la storia del nascere, dell’accrescere, dell’ingigantirsi e dell’espandersi di un amore intellettuale verso la natura, intento a riprodurne le forme e a conoscerne le leggi. Questo amore, nato in un’umile casa di Anchiano poco dopo il 1452, si allarga con un progressivo svolgersi ad abbracciare la natura nell’infinità delle spazio, del tempo e delle forme.
Il primo ricordo, che il Vinci ci serba nei manoscritti, tra i frammenti che risguardano la sua fanciullezza, sembra quasi una profezia: Nella prima ricordazione della mia infanzia, scrive egli rievocando una giovanile visione, e' mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venisse a me, e mi aprisse la bocca colla sua coda, e molte volte mi percotesse con tal coda dentro alle labbra. (C. A., 161 r.) Una tradizione ellenica narra, che le api annunziarono al mondo in Demostene il più dolce e squisito oratore politico; il nibbio non sembra qui preannunziare il più alto e limpido descrittore della natura? Leonardo stesso è compreso da questo superstizioso dubbio: la vita sua deve essere l'adempimento dell'arduo compito di palesare agli uomini i segreti naturali. Egli segna, accanto alle linee precedenti, questa espressione rivelatrice: par che sia mio destino.
All' aprirsi della sua vita d'artista, attorno al 1472, lo studio del Vinci è di risuscitare nella propria fantasia la figura delle cose esterne, «andare co’ la imaginativa ripetendo li lineamenti superfìziali delle forme» (Ash . I, 26 r.); e, come la sua mente, il piccolo libro di note, che porta sempre seco, è pieno di profili di visi soavi e mostruosi, di disegni d’animali e di piante, di roccie e di monti. (C. A., 27 r.) Questo studio, da prima subordinato alla pratica, si cambia a poco a poco in un desiderio, indipendente da ogni applicazione concreta, di comprendere il meccanismo dei fenomeni naturali, nei suoi processi e nelle sue leggi; l’arte della pittura diventa «una sottile invenzione, la quale con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme» (Ash. I, 20 r.); e il piccolo libro di note, che porta sempre seco, si riempie di considerazioni e di principi prospettici e anatomici, zoologici e botanici, meccanici e idraulici. (R., § 4.)
Penetrare colla mente nell’ignoto, indagare la natura nelle sue fibre più riposte diventa la passione dominante in Leonardo: «E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran commistione delle varie e strane forme fatte dalla artifìziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale — restando alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa — piegato le mie rene in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, colla destra mi feci tenebra alle abbassate e chiuse ciglia. E spesso piegandomi in qua e in là per vedere dentro vi discernessi alcuna cosa, questo vietatomi per la grande oscurità, che là entro era, e stato alquanto, subito si destarono in me due cose: paura e desiderio; paura per la minacciosa oscura spelonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa.» (R., § 1389.) La natura è il grande mistero che Leonardo cerca d’investigare.
Ma quanto la sua mente penetra più nella conoscenza delle cose, tanto la coscienza superstiziosa e il pregiudizio dei suoi tempi si sollevano contro di lui. Da prima sono i timidi amici di Dio, che lo rimproverano di trascurare le pratiche esterne e la preghiera, per l’amore entusiastico della natura. «Ma tacciano tali riprensori, risponde Leonardo, chè questo è il modo di conoscere l’Operatore di tante mirabili cose, e questo è ’l vero modo d’amare un tanto inventore.» (Lu., § 77.) Poscia sono i suoi amici medesimi, che rimpiangono quella lenta e progressiva diserzione dall’arte, che portava inesorabilmente Leonardo a smarrirsi nel laberinto senza fine della scienza. Il Verini lo celebrava allora massimo tra i migliori:et forsan superat Leonardus Vincius omnes.
tollere de tabula dextra sed nescit:
e cercava la causa di questa lentezza nella sua incontentabilità:
et instar
Protogenis multis unam perficit annis.1
«Hebbe bellissime invenzioni, dirà poi l’Anonimo, ma non colorì molte cose, perchè si dice mai a sè medesimo avere satisfatto.2» E il Vasari, come un’eco di questi primi contrasti, ripeterà l’accusa e la tramanderà ai posteri — giustificandola, come il Verini e l’Anonimo, con il concetto di un’eccessiva incontentabilità di Leonardo.3
Intanto il cartone di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, la Testa della Medusa, l’Adorazione de’ Magi rimangono imperfetti «come quasi intervenne in tutte le cose sue.»
Nel 1482 il Vinci abbandona Firenze. Il concorso aperto dal duca di Milano per una statua equestre a Francesco Sforza non era stato che la causa occasionale di questa partenza, frutto in realtà della propria miseria e del disgusto suscitato negli altri per lavori assunti e non condotti a termine.4 Il calore col quale il Vinci palesò un’idea grandiosa; il buon nome che godeva già in Lombardia per qualche sua opera, forse non ignota; l’essere scolaro del Verroechio, che la statua al Colleoni rendeva allora famoso, lo fecero prescegliere in questa fortunata occasione ad altri artisti. Si presentò dunque in Milano; donò al duca una bellissima lira in forma di teschio di cavallo, forse anche a nome di Lorenzo de’ Medici; e scrisse quella lettera famosa, nella quale, manifestando le proprie molteplici attitudini pratiche, veniva già, in modo celato, a rivelare i grandiosi progressi teorici della sua mente.5
Ma anche in Milano la sua vita è una lenta ribellione ai suoi tempi. Da prima egli dipinge con attività, compone e scompone modelli per la statua equestre, fabbrica disegni di cupole per il duomo, si dà alla costruzione di edifìzì pubblici e privati, immagina strumenti guerreschi e opere idrauliche: ma inesorabilmente il suo intelletto lo porta alla investigazione scientifica. Per un lento progresso Leonardo dal Cenacolo è ricondotto a quel Trattato di luce ed ombra, a cui aveva già dedicate le prime cure in Firenze; dal Monumento allo Sforza al Trattato sulla anatomia del cavallo e sui metodi della fusione in bronzo; dalle varie opere di architettura militare e civile al Trattato sui pesi e sui moti e a quello di Idraulica6 L’aneddoto stesso, narrato dal Vasari a proposito del Cenacolo, è un’eco dei contrasti che suscitava in questo tempo il suo modo di vivere essenzialmente speculativo. Prima del 1499 nel Vinci è ormai scomparso il pratico; egli deposita il pennello nelle mani dei suoi discepoli; abbandonando la cerchia degli artisti, si pone nel bel mezzo degli scienziati milanesi, ormai spinto da un solo scopo: risolvere gli infiniti problemi che la natura gli presentava incessantemente. «La natura è piena di infinite ragioni, che non furono mai in esperienza.» (I, 18 r.)
Il secolo XY era ostile a questo passaggio: spinto dalla sete di un rinnovamento domandava non di pensare, ma di fare. Leonardo era invece nato per il travaglio del pensiero. La poesia, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, le invenzioni della stampa, della polvere e di strumenti meccanici, le scoperte geografiche, nel loro più meraviglioso fiore, era ciò che il Rinascimento vedeva e ammirava
- la legge astratta non veniva apprezzata nel suo giusto valore, quasi non si intendeva la sua ragionevolezza. Leonardo invece passa, per un prepotente bisogno, dal concreto all’astratto, dalla pratica alla teorica, dall’arte alla scienza, portando a sviluppo quella stessa tendenza degli spiriti che, nata intorno a lui, doveva pienamente manifestarsi solo due secoli dopo.
Nel 1500 il carattere della vita del Vinci è ben definito: l’idea dominante è svolgere e condurre a compimento le sue ricerche naturali; il proposito fermo è fare al secolo le minori concessioni possibili, Nel 1502 ingegnere militare di Cesare Borgia, sente che le angustie della pratica gli tolgono le larghe visioni della teoria: si ritrae allora in Firenze. Nel 1501 aveva avuto sollecitazioni da Isabella d’Este, per mezzo del generale dei carmelitani Pietro da Nuvolaria «perchè facesse uno quadretto de la Madonna devoto e dolce, come è il suo naturale.» Il Vinci aveva promesso caldamente, e poi, smarrito nelle indagini scientifiche, non ne aveva fatto nulla. «Per quanto me occorre, aveva risposto il frate alla gentile marchesana di Mantova, la vita di Leonardo è varia et indeterminata forte, sì che pare vivere a giornata. Ha facto solo dopoi che è ad Firencie uno schizo d’uno cartone, (dove) finge uno Christo bambino de età circa uno anno. Altro non ha facto se non che dui suoi garzoni fano ritracti, et lui alle volte in alcuno mette mano. Dà opra forte alla Geometria, impacientissimo al pennello.» Ora il 13 maggio 1504, dopo una vana attesa, Isabella ritorna alla carica domandandogli per lettera «uno Christo giovinetto, di età di anni circa duodici, che seria di quella età che 1 havea quando disputò nel tempio; et facto cum quella dolcezza et suavità de aiere, che havete per arte peculiare in excellentia.» Il 27 maggio, quattordici giorni dopo, un incaricato, Angelo del Tovaglia, le risponde: «Lui troppo me ha promesso di farlo ad certe hore et tempi, che li sopravanzeranno ad una opera tolta a fare qui da questa Signolia. Io non mancherò di solicitare et esso Leonardo et etiam lo Perugino de quella altra: l’uno et l’altro mi promette bene, et pare habbino desiderio grande di servire la S. V. Tamen me dubito forte non habbino a fare insieme ad gara de tarditate: non so chi in questo supererà l’altro: tengho per certo Leonardo habbi a essere vincitore.» Pietro Perugino adempiva sollecitamente al suo impegno; Leonardo intraprendeva allora il dipinto della Battaglia d’Anghiari, spinto dal bisogno e dalle preghiere dei Fiorentini.
Nel 1506 Alessandro Amadori, zio del Vinci, prende a cuore il desiderio della marchesa d’Este, e si fa promettere dal nipote il compimento di un quadretto soave e dolce: «Et lui al tutto me ha promesso comincerà in breve l’opera per satisfare al desiderio di V. S., alla cui grafia assai si raccomanda.» Isabella risponde poche righe sfiduciate; poi tacque per sempre. Passò il tempo, e Leonardo nulla fece, dimentico della promessa e del pennello. Quasi a compenso delle durezze del Vinci, il suo discepolo Salai, in questi giorni appunto, mostrava «gran desiderio di fare qualche cosa galante per la Marchesa.» La sua profferta non fu accettata.7
Intanto la Battaglia di Anghiari, cominciata a disegnare con ogni cura e entusiasmo, fu abbandonata alle prime mosse, allo stesso modo del cartone d’Adamo ed Eva, della Testa della Medusa, dell’Adorazione dei Magi, «come quasi intervenne in tutte le cose sue.»
Quale era la causa di questa insofferenza al dipingere? come mai Leonardo non soddisfece alle istanze di una gentile principessa, nè a quelle universali della sua città natale? Poche date risponderanno luminosamente. Al 1504 risale il Codice sul volo degli uccelli (V. U., 5 r.); al 1505 P opera matematica intorno alle sezioni sferiche. (R. § 1374.) Le ricerche di prospettiva, iniziate già prima del 1482; quelle di anatomia, condotte sistematicamente fino dal 1489; quelle di meccanica, che lo tenevano intento prima del 1497, sono continuate in Firenze dopo il 1500, insieme agli studi sulla canalizzazione dell’Arno, che diedero germe e vita ai moderni principî dell’idraulica e della dinamica terrestre. Il 22 maggio 1508, come a coronamento di un lungo periodo di indefessa attività scientifica, spunta nella mente di Leonardo l’idea di un provvisorio generale riordinamento delle sue note manoscritte: «E questo fia un raccolto sanza ordine, scrive egli iniziando il Codice del Museo Britannico, tratto di molte carte, le quali io ho qui copiate, sperando poi metterle per ordine alli lochi loro, secondo le materie di che esse tratteranno. » (R., 4.)
Questa insofferenza all’arte produttrice, cominciata appena che alla pratica empirica della pittura si sovrappose il concetto che per creare bisogna conoscere le forme e le leggi dei fenomeni; divenuta nefasta in Firenze dopo il 1472; dimenticata per un momento in Milano dopo il 1482; riaffermatasi con maggiore violenza dopo il 1494; divenuta un bisogno all’aprirsi del nuovo secolo XVI; continuata in mezzo a contrasti ormai più deboli fino alla morte, sembrò un delitto ai contemporanei. Essi non conoscevano altra forma d’attività che quella pratica e artistica: la scienza s’era rifugiata nei chiostri, e si chiamava teologia; s’era smarrita nei penetrali della cabala, e si chiamava magia.
Leonardo da Vinci era trascinato dai tempi all’arte, e il suo genio lo portava alla scienza; era spinto dai tempi alla costruzione meccanica, e il suo genio io portava alla costruzione matematica. Tutto ciò che egli ha compiuto in pittura e in architettura, per quanto grandioso, fu una concessione fatta al suo tempo, ma una violenza fatta al suo carattere.
Egli si avvia col Perugino e col Credi, col Bramante e col Sangallo sul fecondo cammino della pratica, e solitario si smar- nsce nella scienza; le necessità della vita e 1 indole del tempo lo inducono a riaf¬ ferrare per un istante rarte> ma rintimo della sua mente lo trascina di nuovo alla investigazione teorica e astratta; la sto¬ na della sua vita è il ripetersi di questa perpetua vicenda, che infrange e rovina opera e la potenza sua : non è la serena vita della tradizione, ma il naufragio di- tutto un essere, che anela a ciò che il suo secolo gli vieta, che vuole ciò che il suo secolo gli toglie.
Veduto sotto questo aspetto Leonardo a Vinci compare nella sua luce storica:
i carattere « vario et indeterminato forte »
della sua esistenza si comprende nelle sue intime ragioni; l’incompiutezza della sua opera artistica è rivelata nelle sue vere cause e cessa d’esser 1‘ opera del capriccio individuale: l’ignoranza dei contemporanei in riguardo al Vinci scienziato è giustificata nel suo carattere.
Il giudizio del secolo XVI o dei successivi cade necessiti iamente.
«Condusse a termine pochissime opere, aveva detto Sabba da Castiglione, spinto da naturale leggerezza e volubilità di talento:» perchè «quando doveva attendere alla pittura, nella quale senza dubbio un nuovo Apelle riuscito sarebbe, tutto si diede alla Geometria, alla Architettura e Notomia.8» E il Vasari, raccogliendo poi dalle bocche dei pittori del tempo suo il fallace giudizio, aveva scritto: «Egli si mise a imparare molte cose, e cominciate poi l’abbandonava.9»
Noi dobbiamo capovolgere questo giudizio dei contemporanei. Essi misurarono l’intero Leonardo dalle sue manifestazioni pratiche, e lo definirono vario, instabile, mutabile; noi, contemplando la sua vasta teoria, alla quale dedicò le forze di tutta la vita, dobbiamo definirlo intento ad un solo proposito e fermo di fronte ad ogni contrasto. Dagli anni primi della giovinezza fino alla morte egli infatti drizzò le sue forze ad un unico intento: la conoscenza delle leggi dei fenomeni, la descrizione delle forme naturali.
Quando Michelangelo rimprovera a Leonardo con un pungente motto, sedendogli accanto sulla pancaccia di Gerì degli Spini,10 le opere lasciate a mezzo; egli, come tutti i suoi contemporanei, non considera che l’opera esterna, visibile, non l’interno, grandioso lavoro affidato ai manoscritti, che doveva naufragare per quattro secoli per approdare nel nostro. Quando il Vasari dice che il Vinci molto più operò con le parole che co’ fatti; egli non sa che la scienza è altrettanto importante dell’arte, e che il viso pieno di dolcezza e di soavità della Gioconda non è un’opera meno potente della scoperta di quelle leggi prospettiche e ottiche, che ci servono a vederlo. Quando Leonardo, «a molti cittadini ingegnosi, che allora governavano Firenze,» mostrava voler alzare il battistero di San Giovanni o rizzare il corso deH’Arno, «con sì forti ragioni lo persuadeva, che pareva possibile, quantunque ciascuno, poi che e’ si era partito, conoscesse per sè medesimo l’impossibilità di cotanta impresa.11» Ma quale mai di questi «ingegnosi cittadini», condannando il proposito pratico, si sarà fatto a domandare al Vinci quali fossero i principi meccanici o idraulici che lo inducevano a ritenerlo fattibile? S’egli non ha sollevato il San Giovanni, nè incanalato l’Arno, questo non monta: la sua opera vera sta nel Trattato del moto locale e delle ^percussioni e pesi e delle forze tutte, dove precorre, e in qualche punto avanza, i Dialoghi delle nuove scienze del Galilei; in quello Del moto e misura delle acque, dove è contenuto il meglio che poi diedero il Castelli e il Guglielmini. Aristotile Fioravanti, qualche tempo prima di Leonardo, sollevava una torre in Bologna, e la trasportava da un luogo ad un altro;12 Luca Fancelli, poco tempo prima di Leonardo, dava i disegni per la canalizzazione dell’Arno, onde bonificare la pianura d’Empoli e i dintorni;13 ma nè l’uno nè l’altro precorrono il Vinci nella teoria, nella quale egli resta gigante o insuperato nel tempo suo e per un secolo ancora.
Noi dobbiamo giudicare Leonardo non dalla frammentarietà della sua pratica, ma dalla pienezza della sua teorica. La Battaglia di Anghiari non doveva essere altro, se non l’applicazione di quei principi, che Leonardo aveva meditati e svolti nel Trattato della pittura; allo stesso modo che la macchina per volare, la quale, dall’alto di Monte Ceceri presso Fiesole, nella Primavera del 1505, doveva librarsi su Firenze, non sarebbe stata se non un’effettuazione materiale e caduca delle grandiose leggi scoperte sulla elasticità dell’aria, sulla struttura e sulle funzioni dei volatili. L’opera teorica fu compiuta, l’applicazione pratica rimase imperfetta; ma lo scopo della vita del Vinci furono le leggi prospettiche e antropologiche, le leggi meccaniche e matematiche, fondandosi sulle quali egli e i secoli venturi avrebbero colti i frutti più maturi dell’arte e della scienza.
Vi è una espressione del Vasari che ci rivela la falsità del giudizio comune diffuso su Leonardo: «Ancora che il Vinci molto più operasse con le parole che co fatti, per tante parti sue sì divine, il nome e la fama sua non si spegneranno giammai14»
No, rispondiamo noi, è appunto perchè egli ha operato più con le parole che co’ fatti che il nome e la fama sua non si spegneranno giammai. I soldati guasconi hanno distrutto con l’archibugio il modello della statua a Francesco Sforza; il tempo col suo incessante trasformare ha scolorito il Cenacolo; la critica artistica annienta con l’acuto sguardo l’opera pittorica del Vinci. Ciò che non l’archibugio dei soldati guasconi, nè il tempo, nè la critica artistica potranno distruggere, è la gigantesca costruzione della natura, che, sorta nella mente di Leonardo sugli albori della vita moderna, si compì in lui con quelle medesime forme, con le quali doveva poi organizzarsi nei secoli che precedono il nostro e nel nostro medesimo.
Nel 1513, quando Leonardo va a Roma con Giuliano de’ Medici, «che attendeva molto a cose filosofiche e massimamente all’Alchimia,15» l’artista era pressochè morto, e lo scienziato giganteggiava nella piena coscienza del proprio valore. Prima di agire bisogna conoscere e pensare. La fecondità della teoria è fondata sulla condizione che la legge abbia a proprio fondamento il senso e l’esperienza, e a propria espressione la matematica. Tutto ciò che eccede il senso e l’esperienza, tutto ciò che non si può dimostrare «per nessuno esemplo naturale,» siede nel regno della fantasia, e fluttua nel sogno. I problemi sulla essenza delle cose, sul fine, sulla natura dell’anima e di Dio, restano quindi nel campo delle infeconde discussioni.16
Questo momento dovette essere solenne nella vita del Vinci; infermo per la intensità del travaglio, la gran somma dei suoi manoscritti, messa insieme con un lavoro costante di ogni giorno, dovette apparirgli l’opera più alta e solenne della sua vita. Una nota del Codice Atlantico ce lo mostra in Belvedere nello studio fattogli dal Magnifico, assorto in notturne esercitazioni di matematica. Un’altra nota ce lo presenta a Monte Mario tutto intento a ricercarvi i segni di un passato antichissimo, quando il mare copriva ancora il terreno, sul quale poi doveva sorgere Roma. La fossa di Castel Sant’Angelo gli dà campo ad alcune osservazioni di acustica. I giardini del Vaticano gli offrono materia d’investigazioni zoologiche e botaniche, di esperimenti sul volo degli uccelli. L’Ospedale di Roma apre i suoi battenti a Leonardo, onde le note anatomiche dei manoscritti diventino più piene e numerose.
La passione per lo studio, il fare misterioso di Leonardo, che gli avevano già attirato in Firenze il rimprovero di qualche timorato di Dio, ora, verso il chiudersi della sua vita, destano nella società romana, assorta negli splendori del rinascimento pagano, un certo terrore misto a sospetto. Un Giovanni Tedesco, geloso delle simpatie che Giuliano de’ Modici prodigava al Vinci, trova terreno favorevole a seminare la maldicenza, tantochè uno screzio personale finisce in una vera e propria persecuzione allo scienziato. Un giorno, recandosi all’Ospedale per continuarvi quelle ricerche, che sembravano profanazione alle menti ancora avvolte nelle nebbie medievali, Leonardo trovò il divieto formale d’entrarvi, per ordine superiore.
Fu un momento straordinariamente triste, e il malanimo si diffuse e divenne più cupo: «Quest’altro, dice Leonardo in uno di quei frammenti pieni di sconforto che risalgono a questo tempo, m’ha impedito la Notomia, col Papa biasimandola e così all’Ospedale.» (C. A., 179 r.) In un’altra lettera, che sembra quasi un’autodifesa, egli contrappone ai sospetti contro la sua persona, la propria vita tutta intenta alla conoscenza del vero, (R., § 1358.) Giuliano de’ Medici lo liberò dal peggio; ma quando il 9 di gennaio 1515 questi partì verso la Savoia, tratto da amore di donna, Leonardo si affrettò ad abbandonare Roma, dove il suo spirito nuovo trovava qualche contrasto.17 Tale è il motivo della partenza del Vinci da Roma. svisato da tutti i biografi: il Vasari lo cerca nel prossimo arrivo di Michelangelo;18 l’Anonimo in un disaccordo con Leone X per una pittura.19 Con la tristezza nell’animo Leonardo, poco tempo dopo, nel 1516, abbandonava l’Italia. Ad Amboise nel castello di Cloux, colpito ben presto da paralisi nella mano destra, egli rivolge la lucida mente alla canalizzazione della Francia e alla costruzione, di un castello per Francesco I. Il cardinale d’Aragona, come racconta il giornale di Antonio de Beatis, recatosi nel 1517 a visitare il Vinci, lo trovò, inabile del tutto alla pittura, in mezzo alle sue note anatomiche, prospettiche, idrauliche, aneora sconosciute al mondo: «Infinità di volumi et tutti in lingua vulgare, quali se vengono in luce saranno profiqui et molto delectevoli.»20 Uno sconforto profondo offusca l’anima di Leonardo in questi ultimi giorni; la vita sua era stata l’affannosa ricerca delle leggi naturali, ma il contrasto col tempo ne aveva infranta la fibra, e condannata l’opera a rimanere incompiuta. Circondato dai suoi discepoli e da uomini di chiesa, il Vinci cerca di rinnovare nel proprio animo la fede ingenua della sua fanciullezza, ma la morte lo coglie il 2 maggio 1519.
La prima cura del suo testamento era stata quella di lasciare a messer Francesco Melzi, gentiluomo di Milano, «per remuneratione de’ servitii, ad epso grati, a lui facti per il passato, tutti et ciaschaduno li libri, che il dicto testatore ha de presente.» (R., § 1566.)
II.
Lodovico il Moro, tutto intento a innalzare la Corte milanese all’altezza delle altre Corti italiane, si compiaceva di circondarsi di artisti e di uomini di scienza, onde adornare la propria persona dello splendore delle arti e degli studi. Leonardo non fu solo un pittore, uno scultore, un architetto, un musico, nella società milanese del secolo XY, ma fu uno squisito parlatore. Un «Prospectivo Milanese dipinctore», nelle sue Antiquarie prospetiche Romane, assomiglia Leonardo nel parlare all’antico Catone;21 il Giovio lo celebra come il più squisito dicitore del tempo;22 l’Anonimo afferma che «fu nel parlare eloquentissimo;23» e il Vasari raccogliendo la tradizione giunta fino a lui dice, nella prima edizione delle sue Vite: «Con ragioni naturali faceva tacere i dotti;» e nella seconda: «Ed era in quell’ingegno infuso tanta grazia da Dio ed una demostrazione sì terribile, accordata con l’intelletto e memoria che lo serviva; e col disegno delle mani sapeva sì bene esprimere il suo concetto, che con i ragionamenti vinceva, e con le ragioni confondeva ogni gagliardo ingegno. » — «Era tanto piacevole nella conversazione, che tirava a sè gli animi delle genti.» — «Con lo splendore dell’aria sua, che bellissimo era, rasserenava ogni animo mesto, e con le parole volgeva al sì e al no ogni indurata intenzione.24»
Di questa potenza di ragionamento ci resta anche diretto ricordo nell’opere dei contemporanei. Matteo Bandello ci riferisce che — quando il cardinale Gurcense il Vecchio, scendendo una mattina d’estate ad ammirare il Cenacolo, ancora incompiuto, in Santa Maria delle. Grazie, ebbe ad esprimere il suo stupore per le onoranze, che Lodovico il Moro prodigava agli artisti — il Vinci gli rispose con elevate parole. Poi, partito il cardinale, rivolto ai suoi discepoli e ai gentiluomini, che lo circondavano, «narrò una bella historietta » di Lippo Lippi fra i Turchi, per mostrare come in tutti i tempi siano stati apprezzati gli artisti. Il racconto delP aneddoto che il Bandello raccolse dalle labbra stesse dell’artista fiorentino, conserva in sè un po’ della freschezza primitiva e della potenza immaginosa propria di Leonardo.25
Quando il Vasari vuol cercare la causa del favore, che il Vinci godette alla corte dello Sforza, la trova nella sua arte di parlatore: «Sentendo il Duca i ragionamenti tanto mirabili di Leonardo, talmente s’innamorò delle sue virtù, che era cosa incredibile.26» Il memorabile passo dei Manoscritti, che insegna il modo di entrare nelle grazie altrui con l’accorto discorrere, mostra che il puerile racconto ha nel suo fondo qualche cosa di vero. (G, 49 r.) Che che ne sia, è certo che quella parte dei codici leonardiani che conserva qualche sentenza arguta e gentile, che le novelle e le allegorie, le profezie e le facezie, prima di assumere quella veste mirabilmente letteraria, con la quale ci sono conservate, dilettarono le conversazioni piene di cortesia della Corte milanese del secolo XV.
Leonardo fu elegante parlatore perchè sul labbro suo suonava il dolce idioma toscano, lo fu anche per la natura dell’anima sua delicata e ingenua, piena a volte di vivacità, di vaghezza, di grazia.
Il Vinci parlatore si rispecchia nel Vinci scrittore, con l’aggiunta di quella potente riflessione, che, penetrando nel cuore dell’uomo e nei segreti della natura esterna, coglieva le più profonde ragioni del buono, del vero e del bello, L’idea che Leonardo sia uno scrittore trasandato, nella spontaneità e rudezza del suo discorso, deve oggimai cadere.
Lo scopo supremo di Leonardo è la massima chiarezza nella massima concisione; quel modo di scrivere ridondante e numeroso, primo nemico della purezza del pensiero, nato con le novelle boccaccesche, o perpetuato nella prosa accademica lino ai nostri giorni, sembra sia stato a lui sconosciuto. Una grande semplicità di mezzi, con la maggiore intensità di espressione, non è soltanto la legge della pittura e della scoltura del Vinci, ma è anche quella delle sue dimostrazioni scientifiche, delle sue descrizioni e narrazioni. I manoscritti sono pieni di cancellature, ed ogni cancellatura deterge una lieve oscurità, che vela l’apprendimento del concetto: la lingua, atteggiata nello stile, è il terso vetro al di là del quale si distende limpido il pensiero. La definizione della Prospettiva è ripetuta da Leonardo più di dieci volte con un incessante mutar di spoglie, onde rivestirla della forma più evidente e più semplice (A, f. 3 r. 10 v.); una lettera a Giuliano de’ Medici è scritta e riscritta con continui pentimenti, perchè il pensiero si adegui alla sua forma con la maggiore identità di segno e di significato. (C. A. 278 r.) Allo stesso modo che il Vinci cercava nelle figure esterne della natura la più mirabile figura, onde esprimere in un quadro la propria eccelsa immagine, così nel dolce idioma toscano, che possedeva tutto nella sua varietà e nella sua vivezza, rintracciava le parole adatte all’alto senso, che il suo spirito, interprete della natura, gli suggeriva. Leonardo da Vinci è anche un artista del linguaggio: l’opera sua letteraria paragonata alla prosa ridondante degli oziosi imitatori dell’antico, fa lo stesso effetto di un raggio di sole sulla campagna oppressa da un oscuro nembo, raggio preannunziatore di un novello risveglio della vita.
La chiarezza si ottiene solo con la precisione dei termini, come la concisione non è possibile se non con la precisione del pensiero. La precisione del linguaggio è ricercata da Leonardo in una serie di studi che i manoscritti ci conservano; la precisione del pensiero è un effetto della sua stessa natura, nemica dell’indeterminato.
Nel Codice Trivulziano vi sono lunghe enumerazioni di parole talora raggruppate secondo l’affinità del loro senso, talora, accompagnate da una breve definizione. Questo catalogo di vocaboli, che ha suggerite le più strane ipotesi agli studiosi del Vinci, fino a quella di ritenerlo pedagogo del giovinetto principe Massimiliano, non è che lo sforzo del fondatore della prosa scientifica italiana di precisare l’esatta significazione dei termini. Leonardo aveva compreso che la scienza, a differenza della poesia, esigeva d’essere poggiata sull’uso costante e ben definito delle parole. Gli studi grammaticali e linguistici, iniziati per il latino nel manoscritto II, continuati per il volgare nel Codice Trivulziano, tolgono di mezzo quella leggenda che solo all’ingenua spontaneità, della propria lingua nativa, e non alla riflessione, affidasse Leonardo l’espressione del proprio pensiero. Quando nel Codice Atlantico si trova questa nota, «Donato,» noi dobbiamo pensare al Donatus, De octo partibus orationis latine et italice, Venezia, 1499 (C. A., 207 r.): quando troviamo la frase «Retorica nova,» siamo portati al Laurentius Guilelmus de Saona, Rethorica Nova, Sant’Albano, 1480 (C. A., 207 v.); allo stesso modo che «Nonio Marcello, Festo Pompeo, Terenzio Varrone, » ci suggeriscono la raccolta Nonij Marcelli, De proprietate sermonum; Festi Pompeij, De verborum significatone; M. T. Varronis, De lingua latina, Milano, 1500. (R., § 1470). Nel manoscritto F è ricordato finalmente un «Vocabulista volgare e latino,» cioè, senza dubbio, il Vocalista ecclesiastico latino e vulgare utile et necessario a molti, di fra Gio. Bernardo, Milano, 1489. (F, cop. r.) .
I codici vinciani per la varietà e l’altezza del loro contenuto, per esser vergati al rovescio dell’uso comune, lasciati come dono prezioso a Francesco Melzi, dispersi da prima nell’Italia, poi nell’Europa intera, furono e sono ancora, per una gran parte, sconosciuti. La inesatta trascrizione che un pittore milanese presentava al Vasari, poco dopo il 1550, della parte di questi codici, che riguarda strettamente la pittura, rimasta sepolta nella Vaticana, e diffusa in modo tronco dall’intransigenza religiosa, è tutt’altro che adatta a dare un’adeguata idea di Leonardo da Vinci come scrittore.*27 Il Trattato del moto e misura dell’acque, che riproduce, con poca fedeltà, una parte dei frammenti di Leonardo riguardanti l’idraulica, è scarsamente diffuso, e per il carattere severamente scientifico dell’opera, quasi impossibile a divulgarsi. La raccolta del Richter, nitida nella forma, ma confusa e inesatta nel contenuto; le pubblicazioni integrali, compiute dal Ravaisson, dal Beltrami, dal Piumati, con successo e perfezione crescenti, sono pressochè inaccessibili alla maggioranza dei lettori.28 Leonardo da Vinci è ancora sconosciuto al più come scrittore, e sembrava ormai giunto il momento perchè una modesta raccolta di frammenti ne divulgasse in qualche modo la conoscenza.
Difficoltà molteplici si opponevano al compimento di un simile lavoro. La inesatta trascrizione dei manoscritti esigeva un confronto continuo con la riproduzione eliotipica dei codici o con gli originali medesimi. L’assenza della naturale divisione delle parole e di ogni segno ortografico rendeva necessaria una faticosa interpretazione preliminare.
Non minori difficoltà presentava la scelta: il proposito d’eliminare ogni frammento di indole schiettamente scientifica, per lasciar solo il posto alle espressioni di idee larghe e facilmente intelligibili, imponeva un continuo discernimento.
Nel disordine originario dei manoscritti, che rende necessario alla mente del lettore il passaggio alle idee più disparate, era poi impossibile trovare un filo conduttore, che desse una norma per l’ordinamento della scelta. Fu quindi neccessario indagare nel contenuto stesso dei singoli frammenti il criterio dell’ordine, in modo che ogni concetto si legasse all’altro con una specie di progressione logica, onde ne derivasse un senso compiuto. Questo sopratutto per le parti che riguardano i pensieri di Leonardo sulla Conoscenza, sulla Natura, sulla Morale e sull’Arte.
Le opere schiettamente letterarie, raccolte dalla loro originaria dispersione, già pei il loro carattere stesso distinguibili in alcuni gruppi ben determinati, furono da me ordinate secondo quello che presumibilmente sarebbe stato il concetto del Vinci. Le Favole di Leonardo, preparate dalla secolare elaborazione del Medio Evo, allargano la loro scena dal mondo animale a quello vegetale e inorganico. Le Allegorie, che nel loro complesso formano un vero e proprio Bestiario, sebbene per la maggior parte non originali, conservano le traccie di un’elaborazione nuova e degna di essere apprezzata. Le Descrizioni e i Ritratti, dove si manifesta lo scopo letterario combinato a quello pittorico; le Profezie e le Facezie, dove si palesa lo spirito arguto di un ricercatore combinato con quello di un uomo di mondo, compiono il ciclo delle opere schiettamente artistiche.
Un’ardua questione doveva essere trattata collateralmente allo svolgersi della raccolta dei frammenti, ed è quella della loro originalità. Le Note, che seguono passo per passo la scelta, e sono da ritrovarsi alla fine del volume, indicano la fonte alla quale ha attinto Leonardo questo o quello dei suoi frammenti: ma la questione più generale della originalità della sua opera in ogni sua parte è trattata da me in una monografia Intorno alle fonti dell’opera letteraria e scientifica di Leonardo da Vinci, che verrà quanto pnma pubblicata.
Debbo avvertire da ultimo, che le noticine a piè di pagina non hanno altro scopo, che di facilitare al lettore l’intelligenza del testo leonardiano, e di togliere quei dubbi, che potessero offuscare il senso delle espressioni.
I richiami alle opere, che hanno servito di base a questa raccolta, sono stati fatti per ogni frammento nei Sommarii e Riferimenti, con opportune sigle.
Note
- ↑ De illustratione urbis Florentiae. Parigi, 1583, pag. 27.
- ↑ Arch. Storico Italiano. Firenze, 1872, serie III, voi. XVI, pag. 222.
- ↑ Le Vite (ed. Milanesi). Firenze, Sansoni, 1879, voi. IV, pag. 22.
- ↑ Uzielli, Ric. int. a L. d. V. Torino, Loescher, 1896, pag. 61.
- ↑ L. d. V., The literary works (ed. Richter). Vol. II, pag. 395-396
- ↑ Pacioli, Divine proportione. Venezia, 1509, e. I v.
- ↑ Luzio, I precettori d’Isabella d’Este, Ancona, Morelli, 1887,
- ↑ Ricordi. Venezia, 1555, c. 51 v.
- ↑ Le Vite, vol. IV, pag. 18, 49.
- ↑ Anonimo, Breve vita. Arch. Storico Italiano, serie III, voi. XVI, pag. 226.
- ↑ Le Vite, vol. IV, pag. 50-51, 21.
- ↑ Libri, Histoire des Sciences mathèm . en Italie. Parigi, Renouard, 1840, vol. IV, pag. 17.
- ↑ Uzielli, Paolo dal Pozzo Toscanelli. Roma, Rac. Colomb., 1894, pag. 520.
- ↑ Le Vite, vol. IV, pag. 50-51.
- ↑ Vasari, Le Vite, vol. IV, pag. 4G.
- ↑ Solmi, Studi sulla filosofia naturale di L. d. V. Modena, Vincenzi, 1898, pag. 57.
- ↑ Cfr. G, cop. r.: “Partissi il magnifico Giuliano de’ Medici a dì 9 di Gennaio 1515 in sull’aurora da Roma, per andare a sposare la moglie in Savoia, e in tal dì ci fu la morte del re di Francia. „
- ↑ Le Vite, vol. IV, pag. 47: «Lionardo intendendo ciò, partì ed andò in Francia.»
- ↑ Arch. Storico Italiano, serie III, vol. XVI, pag. 226.
- ↑ Uzielli, Ricerche intorno a L. d. V. Roma, Salviucci, 1884, pag. 459.
- ↑ Cfr. Atti della R. Accademia dei Lincei. Roma, 1876, serie II, vol. III, pag. 13.
- ↑ Bossi, Del Cenacolo di L. d. V. Milano, Stamperia Reale, 1810, pag. 19-22.
- ↑ Arch. Storico Italiano, serie III, vol. XVI, pag. 222.
- ↑ Le Vite, col. IV, pag. 21, 49.
- ↑ Bandello, Novelle. Londra, Harding, 1740, vol. I, c. 3B3-364. Si ricordi come Matteo Bandello fosse ascritto al convento di Santa Maria delle Grazie. Cfr. Quetif et Echard, Script. Ord. Prcedicat., vol. II, pag. 155.
- ↑ Le Vite, vol. IV, pag. 28-29.
- ↑ Du Fresne, Il trattato della pittura di L. d. V.. Parigi, 1651.
- ↑ Si riscontri la Tavola delle sigle.