Filli di Sciro – Discorsi e appendice/Appendice/III
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PROLOGO E INTERMEZZI DI IPPOLITO AURISPA alla « Filli di Sciro » rappresentata nel 1619 in macerata. La finzione.
Quando nel petto di novello amante
insidioso Amor, fabro d’inganni,
quas’in fucina le sue fiamme avviva
per fabricar di speme aurea catena,
onde l’anima resti
fra soavi ligami
con frode occulta amaramente involta,
dai dolci sguardi e cari
di due luci pietose
trae le faville, ond’al principio ancora
lento foco ministra, e tal che pare
semivivo languente. Ahi, quando poi
su l’esca del desio forte s’appiglia,
di sua cara salute
quant’ei più spera, in disperar s’avanza,
che non cessa la fiamma,
perché d’amare lacrime si sparga,
se pur il pianto istesso,
le speranze e i sospiri,
le dolcezze e i martiri,
tutti son esca a l’amorosa arsura.
Oh che penosa vita
vive, misero, e tale
ch’assai men crudo è lo rigor di morte,
perché non puٍ de l’anima dogliosa
scoprir al caro oggetto
cosi le pene, com’il cor le prova.
E chi non sa ch’assai
più dannosa è la fiamma
ch’entro serpendo al cor l’alma divora?
Scote i gioghi più duri ai monti alpestri,
ed a l’ime radici
gli edifici superbi in terra adegua,
s’avvien che chiusa in sotterranea cava
di spirto marzïal gravida polve
spanda l’ardente e tempestosa vampa.
Se poi, fatta pietosa,
sua bella donna alfine
non sdegna a quelle piaghe
appor di sua pietà medica mano,
oh come cessa il duolo,
quando dolce le tratta e quando tenta
se sa tanto sanar quanto ferire,
e del gradito amante
s’addolcir puٍ col suo dolor la doglia!
Quai fermaci amorosi
a l’anima languente ella non porge?
Voci soavi e care
da sospiri interrotte,
e nel foco degli occhi il pianto occulto,
che, da Amor miste insieme
tai cose tutte, indi ei le tempra, dove
quasi viva fornace
di riverbero ardente
fa lo rincontro de’ pietosi sguardi.
Cosi con queste tempre e con tal’arti
l’anima si rinforza,
e verso que’ begli occhi
che la ferir vive saette invia,
d’amorosa vendetta
saettatrice ingorda.
Cosi l’un contro l’altro
dolcemente vibrando
su l’arco de’ sospir l’avido sguardo,
presto si atterra ogni rispetto vano,
e in tanti di pietà folgori e lampi
tosto la cornuti tema
d’inestinguibil foco anch’ella avvampa.
Oh come allor vivi messaggi poi,
non più d’occulta doglia,
ma di vera dolcezza,
tra i due felici amanti
volan soavi sguardi sospirati !
Son que’ sguardi e i sospiri
vive note d’un cor che dice: — Io moro
se tardi a darmi aita,
vita de la mia vita. —
Indi l’altro risponde:
— Anima del mio core,
non m’esser tu di tue dolcezze avara,
che di queste si pasce il cor che langue,
e sol questa mia vita
quanto ha vita da te tanto m’è cara;
vive negli occhi tuoi l’anima mia. —
Sin qui non è chi turbi
queste secrete lor prime dolcezze;
ma quando amor si stringe
con più tenace nodo,
come mill’occhi e mille
s’apron sopra di lor vigili e presti,
cosi tosto io v’accorro, e lor inspiro
novi modi, novi atti, altre sembianze
che di amante e d’amica.
Fallace inganno amor converso in sdegno
fo ch’altri creda, acciٍ che non discopra
invida gelosia frutti amorosi.
Io quella son che l’ire
d’un cor, cui sdegno amaramente fiede,
copro talor con simulata pace.
Ben mi riconoscete a questi manti,
di due nemici affetti
false vesti mentite,
onde si occulta non creduta frode.
Ambo l’inganno ordilli,
perché s’altri ama e i suoi furtivi amori
brama celar, tosto il nascondo e copro
sotto quest’atra e menzognera spoglia,
qual con mirabil magistero tinse
Amor ne’ laghi averni.
E s’altri odia, ben spesso
del mio candido manto il cingo intorno,
perché non si discerna
quanto di fosco chiude e di maligno
un cor che d’ira ferve.
Copre me lunga veste, e qual vedete,
cangiasi ogn’ora in color vari e mille.
Sembran le guancie mie rose vermiglie
talora, e talor sono
quasi ceneri spente essangui e smorte;
or son gli occhi di foco, or mostran chiari
de l’azurro celeste
colorati zaffiri;
or disdegnosa mostro
barbara crudeltà nel mio sembiante,
ride ora il labro, e tutto
spira ? bel volto mio grazia e vaghezza.
Altri non mi disprezzi
perché sola mi vegga
vagar quasi negletta,
ché ai magisteri miei,
intenti tutti a’ compartiti uffici,
tengo mille ministri e mille ancelle.
La Finzione io son, quella son io
ch’ebbi vita col mondo.
S’a me cotanto lice
finger in parte ed adombrare il vero
de l’origine mia, de le mie lodi,
dirٍ, se lice. E che son altro mai
le varie forme e tante, ond’è dipinto,
che del Fabro celeste
scolpite idee fuor de la mente eterna,
quai produr non potea
fuor di sé eguali a la sua propria essenza?
Cosi quasi pingendo le ritrasse
ne l’essenza creata,
imagini men pure e men perfette,
ove risplende foscamente il vivo
de l’eterna bellezza.
E che? forse io non sono
ai magisteri suoi fida ministra,
mentre l’occulto in su le sacre carte
con figurati enigmi, e spesso il chiamo
o colomba amorosa, aquila o pardo?
Se le vittime sacre
tra gli accesi carbon di rogo ardente
su l’are inceneri fiamma vorace,
fur simulacri finti,
ché lor vecchio costume
ne’ barbarici riti anco si serba.
E pur han viva forza
di preghiere e di voti
col suo muto spirar fumi odorati
e l’arabiche mirre e i sacri incensi.
Da me prima impararo
celar col finto e favoloso modo
l’antiche scole a le più impure menti
e gli arcani celesti e di natura.
Ditemi, che sia vero
forse mantien con smisurate membra
ricca soma di stelle il vecchio Atlante,
se da l’umano seme
crescer non puٍ giammai si vasta mole
ch’il pie prema la terra e ? tergo il cielo?
Atlante è quella eterna
providenza infinita
che ? mondo regge, e donde ha moto e vita
l’ordine di natura
dal terreo centro a le stellanti sfere.
Né mai Prometeo audace
giunse a rapir da la diurna lampa
fiamma vital con temeraria face,
ma tal fu che, sprezzando
l’aspro rigor del Caucaso gelato,
su la nevosa cima
si pose ad osservar l’eterea parte,
i suoi giri, i suoi moti,
e quai a vean co’ fissi
ordine e norma i vagabondi lumi ;
indi poscia calando, al freddo scita
recٍ del suo saper luce feconda.
O se dir meglio lice,
è quella parte agente
de l’umano intelletto
Prometeo, allor che col discorso arriva
ne la sfera del vero,
che quasi sole i lampi suoi diffonde,
ed ivi de le forme
ch’intender puٍ l’aurea facella avviva,
con la cui pura luce
dل quasi vita a la possibil parte
che per se stessa è tenebrosa e informe.
Proteo, che si trasforma
in varie guise, è l’antichissim’ile,
de le sensibil forme
tanto madre crudel quanto feconda,
che i suoi parti divora.
L’adultera Pasife,
ch’ad un tauro invaghita
pronta offerisce il maritai congresso,
di che madre infelice
ne resta poi di mostruosa prole,
certo è la mente umana,
figlia del vivo sole,
quando ? ciel non curando,
dietro impudico amor ebra insanisce:
del suo folle pensiero
gravida, partorisce
tra fetide lordure
Minotauro difforme,
piacer ch’insieme è velenoso e dolce.
Icaro che, volando
dal saggio padre oltre il vietato segno,
disfacendosi i vanni
die nome al mare in cui sommerso giacque,
l’intelletto figura
di troppo ambizioso egro mortale,
quando col volo d’incerate penne
l’intelligibil sfera
de la sua forza naturai sormonta,
e lassù folle spera
giunger, dove risplende il vivo lume
d’increata bellezza,
ch’altrui con chiara ed inesausta luce
comparte i lampi, ed è suo raggio il sole.
Misero, e che gli avviene?
Tenera cera di speranza frale
a quel raggio si strugge,
e si disfanno l’ali
che a Dedalo ingegnoso
prima impennٍ religiosa fede;
cade infelice al fine, e gli fa tomba
ne’ suoi fetidi gorghi Averno e Stige.
Frisso, che ? vello d’oro,
giunto a’ colchici liti,
sacrٍ devoto al sanguinoso Marte,
mostra a’ potenti regi
dove rivolgan l’uso de’ tesori
per ampliar gl’imperi
e per mieter da semi
di battaglia crudele
su ne’ campi di morte
con sanguinosa man frutti di pace.
Cosi gli eroi del gran Leone alato
godon l’antico impero,
e co’ bellici campi
serbano intatti a grand’ Italia il nome.
Gran Senato sovrano,
specchio del mondo altero,
al cui puro cristallo
non opponga giammai profana imago
chi di veder non cura
de l’ingiustizie sue macchiato il volto,
per te sol, per te spera
goder co’ figli suoi libera pace
la stanca Italia, e di tener lontani
dal seno afflitto i barbari tiranni.
Già veggio a gli ruggiti
del tuo Leon invitto
come s’arretra intimidito il Trace,
e ? barbarico orgoglio
ceder ne l’onde a’ tuoi volanti pini.
Taccio che non ignote
sono le glorie tue, mentre ch’io veggio
di tue vittorie tanti mari sparsi.
Ma che più mi raggiro
fra quest’ombre del vero
perch’i’ ne faccia poi fede a mía lode?
Sian de le forze mie
testimoni veraci
l’auliche torme entro le reggie sale,
dove finti sorrisi
manda a le labra invidioso core,
e dove atti sommessi
l’alma superba a tesser frodi invia.
Là di veleno asperso
tempra nettare al cor vana speranza,
e v’è chi se ne pasca, e chi per questo
sprezzi viver felice. O ciechi, o stolti,
ch’in questa vostra ambiziosa speme
ingoiate voi stessi,
più famelici sempre e più digiuni,
Tantali sitibondi
ch’in un mar di desiri
le fauci avete inaridite e secche!
Là lusinghier fallace,
dolce ministro di vivande amare,
osservato d’intorno
volge lo sguardo il lor tiranno avaro;
e pur v’è chi l’adore,
idolatra infelice,
ch’incensi de’sospiri,
vittime de’ martiri
sacra devoto al suo bugiardo nume.
Quanto v’è, tutto è finto,
e raro o mai là vi si scorge il vero,
se non quanto mie larve
copron l’ignude sue candide membra.
Che più dirٍ? Per l’universo tutto
sol si vive fingendo.
Ma che dich’io si vive? Anco fra loro
s’ imitan quasi ad arte
l’opere di natura,
che non han senso o pur appena han vita.
Mirate come il ciel finge la terra,
ne* be’ prati sereni
pingendo i vaghi suoi fiori stellati;
la terra imita il cielo,
ne’ prati di smeraldo
aprendo il sen de le fiorite stelle.
Imita i dolci baci
di labra innamorate
con bocca rugiadosa
il fior ch’or s’erge ed or s’inchina al rio;
ed imita i sospir d’un cor amante,
mentre ch’in tante lingue
su le frondose cime
alterna il volo suo l’aura vagante.
Voi pur su queste scene
ch’altro vedete mai, folli mortali,
che scherzi di fortuna
e i falsi colpi de G instabil mano,
dond’altro non traete
che chi finger non sa vive infelice,
scherno de l’altrui frodi?
Ma qual sent’io rimproverar mie lodi
lingua che mi saetta,
quasi io non sia de l’universo donna?
Ahi che pur troppo è vero
(mio mal grado il confesso)
ch’alma di vero amante
non sta soggetta al mio superbo impero;
sprezza le leggi mie
vero amor, vera fede,
né puٍ versar giammai lacrime finte
anima innamorata,
perché chiusa entro il vetro
di sue vive speranze
la pone Amor nel foco del desio,
cui sol nutre quasi esca
dolce piacer d’imaginato bene,
ed altro non è poi
dal lambicco del duolo
che se medesma il pianto che distilla.
Perché più mi trattengo
qui dunque, ov’in bellissimo teatro
mostra ? suo vero amor sagace amante,
ch’a’vostri lampi ardenti,
belle stelle d’amore,
sacra in scenica pompa il mare e l’etra?
Qui non vaglion mie larve
dov’amor mi denuda,
amor di generoso
nobil garzَn, di cui l’animo altero
ben scorgerete in parte
ne’ musici concenti e ’n varie scene.
Ma, lassa, mi dilungo
troppo dal mio sentiero:
non è mio peso di trattar il vero.
INTERMEDIO PRIMO
L’Anno in un carro tirato da due cavalli bianchi. Primavera,
Estate, Autunno, Inverno, Mercurio in una nuvola.
La scena di campagna senza verdura, qual è nell’inverno.
Primavera
Quando ch’in oriente,
sparso d’immortai fiamme aurato il crine,
fuor de l’onde marine
torna Febo nascente,
G. BoNARثLLi, Filli di Sciro. 18
mentre de le dolci ore mattutine
l’aure a’ tepidi ardori
liban co’ baci l’argentate brine
da le labra de’ fiori,
e scherzando tranquille ^
destan soavemente
ai dolci frutti i sonnacchiosi amori;
indi di bianche stelle,
quasi di ricche perle il seno ardente,
par che il prato lucente
emulo a’ rai del sol arda e sfaville;
tutto gioisce il mondo, e si riveste
il già vedovo di d’aura celeste.
Autunno
Torna fosco ed ombroso,
quando ch’in occidente
smorza nel seno ondoso
de la face diurna il lampo ardente.
L’Anno con le quattro stagioni insieme
Cosi a’ mortali il nostro giro alterno
porta l’arsura e ? gelo,
come tempra suoi rai volgendo il cielo.
Mercurio
descendente dal cielo in una nuvola che passa per il mezzo della scena
Del tuo carro fugace
deh ferma tanto le volubil rote,
ch’io spieghi in brevi note
quel che ne porto, messagger di pace.
Da l’alta eterea sfera
vengo nunzio celeste,
ed a voi Giove ne’ miei detti impera.
Non siate più, stagion, nemiche a queste
care piagge picene
co’ raggi estivi o col rigor del gelo,
ma sott’amico cielo
fecondate i lor campi
e, s’esser può, le non feconde arene.
Amor ne l’aria stampi
spiriti di dolcezza, aure vitali;
fuggan l’angoscie e i mali,
spiri amor chi respira,
e sol di gioia il tutto arda ed avvampi.
L’Anno
Al voler del gran Giove
non sia di voi chi d’ubidir contrasti,
se ben con leggi nove
al vostro usato giro il corso guasti.
Ei che tutto governa,
gran fabro de la luce e de l’aurora,
perché non puote ancora
frenar altrui, se l’universo move?
Folle è ben chi s’interna
nel vasto abisso della mente eterna.
Il Verno
Se cosi Giove impera,
le mie eterne ragion del stato mio
cederٍ lieto anch’io
a te, leggiadra e dolce primavera.
Ecco, l’urna ne chiudo,
ond’escon fuori a tempestar i campi
le piogge e le procelle.
L’aere sereno omai, di nembi ignudo,
ricamato di stelle
spieghi pur vago il manto de la notte;
né più d’Austro interrotte
cessin dai dolci scherzi aure volanti :
con più vaghi sembianti
escan tranquille fuore
dal grembo de la notte albe ed aurore.
Estate
Poiché gelido verno
a sé richiama i turbini piovosi,
scote i gioghi nevosi,
e lieto pur, come comanda Giove,
del fredd’imperio suo cede ? governo,
deh comincia tue prove,
ed apri il tuo fiorito erboso seno,
primavera gentile,
destando ai dolci di l’aure d’aprile.
Autunno
Mira, deh mira omai come d’intorno,
già serenato il cielo,
ogni pianta, ogni stelo
n’aspetta desiando il tuo ritorno.
Non più contende in guerra
Borea con Austro, anzi sol par che brami
per il libero ciel misto l’impero.
Odine l’aure di lor tregua araldi.
Par che di già spanda a’ tuoi pie la terra
gran manto di smeraldi,
perché su vi ricami
di più odorati fiori
quasi in serico vel tirii lavori.
appendice
Primavera
A che tai prieghi e tanti?
Forse io repugno a le celesti voglie?
Piovan pur dal mio sen fior, erbe e foglie.
Spieghin gli augelli erranti
per le selve frondose
de’ lor taciuti amor querele e canti.
Voi con voci amorose,
di mie gioie ministre,
richiamatene omai l’aure vezzose.
Tutto ’l Coro,
mentre Mercurio passa nella nuvola dall’altra parte
per il mezzo della scena
Apri l’ali rugiadose
dal bel regno d’oriente,
Euro, ed empi al verno algente
l’aspro sen di gigli e rose.
Primavera ed Estate insieme
Più non scocchi il ciel intorno
strai su l’arco d’aurei lampi,
ma di perle ai verdi campi
empia ? sen l’alba del giorno.
Replica tutto ’r. Coro
Apri l’ali rugiadose ecc.
Autunno e’l Verno
D’importuni austri spiranti
ceda pur l’empio rigore,
e dia campo a le dolci ore
de’ be’ zefiri vaganti.
Replica tutto ’l Coro
Apri l’ali rugiadose ecc.
INTERMEDIO SECONDO
II Chienti fiume. L’Apennino. Coro delle ninfe del
Chientí. Coro dell’aure.
La scena tutta de’ monti Apennini abbelliti di selve e di rivi,
che scorrono da essi per il piano della campagna con il Chienti
fiume.
Il Chienti
Questa, ch’in mezzo al verno
del superbo Apennin falde nevose
non vidi mai pompose
fiorir pur dianzi, ond’è ch’oggi discerno
carche di fiori e d’odorate rose?
Ond’è che dolce intorno
più che mai l’aura spira,
e ? carro ardente gira
per i campi del ciel più lieto il giorno?
Deh tu che porti adorno
il tuo canuto crin d’erbe e di fiori,
da’ freddi marmi fuori
esci, o padre Apennin, esci ed acqueta
il mio desir ardente:
deh discoprine omai, se ? ciel noi vieta,
perché lieto e ridente
t’orni fuor di costume al verno algente.
Apennino
Colmo di nova gioia e di dolcezza
chi puٍ frenar un core,
che taccia il suo gioir brevissim’ore?
Ogni angusto confín varca e disprezza
gioia che soprabonde;
si sparge e si diffonde,
qual suoi torbido fiume
per nova pioggia superar le sponde:
versa dagli occhi, dal sembiante fuore,
come candide spume
da chiusa conca di fervente umore.
Leggi le gioie mie nel lieto ciglio,
effetto sol di meraviglie nove
de gli amori di Giove,
o de’ miei colli alpestri umido figlio.
E se di saper brami
quello onde lieto anch’io mi meraviglio,
movi il tuo piede antico
verso ? sen d’Adria ondoso,
u’ siede in vista un bosco alto e frondoso:
a la reggia di Pico.
Là cento scorgerai
goder a l’ombra il voi d’aure tranquille
ninfe leggiadre, ed ivi una fra loro,
ch’a’ vivi lampi d’oro
del suo bel crin quai sia tosto saprai,
e vie più quando Amor d’anime mille
ne’ suoi begli occhi feritor vedrai.
Amoroso, tesoro
son le due nere e lucide pupille
di que’ pungenti strali,
che, con l’infausto annunzio
d’acerbissima sorte,
fatti a l’alme fatali,
escono tinti nel color di morte.
Per questa il gran Tonante
fuga da questi colli i nembi e ? gelo,
perché fattone amante
trasporta in terra il bel seren del cielo.
Non fia più che si vante
del suo felice clima Arabo omai,
o s’altra è lieta parte,
a cui d’amiche stelle i vivi rai,
prodigo amante, il ciel tempra e comparte.
Il Chienti
Se giunger mai sopra l’eterea sfera
a goder l’aure eterne
in van per noi si spera,
che sol tra nostre ninfe
altro ciel non abbiam ch’ampie caverne,
per quest’umide vie de le mie linfe
colà tosto m’invio,
perché dir possa anch’io:
— Lieto pur vidi il cielo,
e, qual in ciel si serra,
splender nova bellezza aperta in terra. —
Apennino
Teco ne vengo anch’io:
dunque non han quest’occhi desiosi
da veder tanta luce?
Al nostr’alto desio
cosi bella cagion sia scorta e duce.
Il Chienti
Andiam; e voi, selve beate, addio,
addio, ne’ vostri orrori
di chi viver felice ama e desia,
dolcissimi riposi.
Pria che tramonti il giorno,
cari alberghi amorosi,
darammi il ciel ch’i’ faccia a voi ritorno?
Andiam, padre Apennino,
andiam. Ma qual dolcissim’armonia,
quanto più m’avvicino,
sento nel voi de’ zeffiri vezzosi ?
Coro dell’aure
Giovinetta gentile,
che l’alme involi co’ begli occhi tuoi,
godi, godi, or che puoi,
di tue bellezze il desiato aprile.
Apennino
Non fu già si canoro
sul grand’ Ida selvoso
de l’aure lusinghiere amabil coro,
né si vaghi e si spessi
apri fiori novelli il prato erboso,
allor che desioso
Giove si strinse ai coniugali amplessi,
e coprendo i dolcissimi congressi,
quasi tetto amoroso,
stillar sopra di loro
nettare rugiadoso
con rosati contorni i lembi d’oro,
come son queste note
ch’emuli invidiosi
alternan fra di lor l’aura e gli augelli,
come i fiori novelli
di questi prati erbosi,
e come il vivo gelo
con che imperla quest’erbe amante il cielo.
Coro dell’aure
Di tue luci amorose
rivolgi misto con pietà l’ardore,
pria che fosco pallore
tolga a le labra tue le vive rose.
Apennino e ’l Chienti
Gioite pur, gioite
con primavera eterna,
mille grazie d’Amor, piagge fiorite.
Coro dell’aure
I
Chi non sa, chi non vede
che bellezza mortai tosto si perde?
Pianta che non rinverde,
a cui sol un april fugge e non riede.
Il Chienti
Ecco pur giunsi al fine
a riverir que’ rai
che di veder bramai.
Bellezze pellegrine,
chi fia che non v’ammiri e non vi cante,
se, di voi fatto amante,
sprezza il gran Giove in ciel l’aure divine?
Su, da la cava algosa,
mie ninfe, uscite, e qui liete con noi
riverite ancor voi
questa di mortai dee schiera amorosa,
fuor dai liquidi argenti,
dai spumosi cristalli,
a l’armonia de’ venti
tessendo dolci canti e lieti balli.
Coro delle ninfe del Chienti
Ecco fàglie de l’onde,
devote a tanta luce
onde splende e riluce
sereno il di su quest’erbose sponde,
tutte liete e gioconde,
al vivo lume santo
sacriam de’ be’ vostr’occhi e l’alme e ? canto.
Una delle ninfe del coro
che canta mentre un altro coro fa un balletto
Beato core,
che co’ bei dardi
de’ vostri sguardi
lo piaga Amore !
Non aspro è ? foco
de’ vostri lumi,
s’ivi il consumi
Amor per gioco.
Che è lieta sorte,
s’ivi invaghita
farfalla ardita
prova la morte.
Soavi pene,
se il foco sente
l’anima algente
del caro bene.
Tutto ’l coro
Ahi qual dolcezza prova
un’alma che per voi arda e sospiri!
che nel duol, ne’ martiri,
quant’ha di dolce Amor, tutto ritrova.
II Chienti
Giusto è ben che si lodi
cosi leggiadra schiera,
ma più colei che con soavi modi,
bella d’Amor guerriera,
dal centro de’ mortali
vibra fin su nel ciel folgori e strali.
L’Apennino, il Chienti e ’l coro delle ninfe
Di voi si canti, a la cui luce pura
cedon le chiare stelle,
amorose facelle.
De’ semi di que’ lampi
ch’escon da voi prova ogni cor l’arsura,
né puote esser si dura
anima, che vi miri e non avvampi
(se siete in ciel d’amore
stelle fatai) del vostro proprio ardore.
INTERMEDIO TERZO
Amore con le tre Grazie, discendenti in una nuvola dal cielo.
La scena mostra un cielo, sotto di cui si scorgono molte lon-
tananze di vari paesi.
Amore e le tre grazie
cantano l’infrascritto madrigale, mentre s’apre il cielo e la nuvola descende.
De’ bei sereni campi
lasciato il bel soggiorno,
ove risplende il giorno
con aurea luce in sempiterni lampi,
l’aura fendendo intorno,
portate a vol su velocissim’ali
di più candida nube,
liete scendemmo in terra a voi mortali.
Amore
Che men lieto sarei
dissi, o figlie di Giove,
se menassi nel ciel vita fra’ dei.
Di meraviglie nove
s’empí l’Olimpo allora,
e s’armٍ contro me d’ira e di sdegno,
quasi che di là fuora
dal bel celeste regno
non abbia etereo nume onde si bei.
Ed or ne’ detti miei
perché si scorga il vero,
bella schiera vedrete
di mortai dee, ch’avanza ogni pensiero.
Ed è ragion, s’io son Amor, che sia
ov’è tanta bellezza
il ciel di mia dolcezza.
Non fia mai ver, non fia
che resti in ciel mia deità delusa,
ch’ella soffrir non usa
dai men forti di me gli oltraggi e l’onte.
Vergognosa bugia
non riprovino i dei ne la mia fronte.
Una delle Grazie
Qual insolito affetto,
de l’istess’armi tue piaga e veleno,
del celeste diletto
turba a le gioie tue l’almo sereno?
Che s’agguagliar non lice
altra beltà a la beltà immortale,
e quanto è in terra è sol caduco e frale,
come puٍ far altrui lieto e felice
fuggitiva bellezza egra e mortale?
Una delle Grazie
Via men sereno giorno
Febo ne l’aria accende
di quel ch’arde e risplende
quando volge suoi rai Venere intorno.
A un raggio de’begli occhi
Giove depone i folgori mortali ;
a un soave sorriso
che da le labra sue placido scocchi
son le membra di Marte inermi e frali;
a un lampo del bel viso
tutti i raggi del Sol non sono eguali.
Or come a tanta altezza
osi portar, Amor, fragil bellezza?
Un’altra delle Grazie
Ella de’ vanti suoi mesta si spoglie,
né giri, a serenar l’ira di Giove,
per, le piagge del ciel beate e belle
con amorose prove
gli ardenti rai de le pietose stelle,
se bellezza mortai pregio le toglie.
Tutte le Grazie
Ahi che pur troppo cede
beltà mortale a la beltà celeste!
Cieco Amor nulla vede.
Amore
Voi ch’a Venere in ciel donate il vanto,
e sopra la beltà d’ogni altro nume
l’inalzate cotanto,
ditemi, e di che nacque,
se non di frali spume,
che nel franger de l’onde imbiancan l’acque?
Ma poi tanta bellezza
cosi lassù tra i dei celesti piacque,
tanta grazia e vaghezza,
ch’ebbe loco fra loro,
ancor ch’invida Giuno
turbasse ostando il bel celeste coro.
Perché dunque non lice
tanto conceder a l’umana prole,
se spesso anch’ella suole
esser de’ dei del ciel madre felice?
Non turbi mie ragion candido velo
perché gli occhi mi copra,
che de’ superni dei
misteriosa è l’opra,
acciٍ co’ vivi rai de’ lumi miei
non arda il mondo e non s’accenda il cielo.
Quasi temprato ardore
d’un picciol raggio ch’indi sol traluce
è quant’arde d’Amore;
ma de G intensa luce
provan anco il vigor le brine e ? gelo.
Cosi ristretta è la mortale arsura
de la mia fiamma ardente,
perché s’unisca a l’opre di natura,
né sian le forme dal mio incendio spente.
Cieco mi fanno i sciocchi,
che veggo più, s’ho bendati gli occhi.
Tutte le Grazie,
mentre la nuvola dilatandosi finisce di scendere
Cieco Amor che ? tutto puoi,
scopri il bel che tieni ascoso,
rendi l’aere luminoso
col seren de’ lampi suoi.
Amore
Qua pur vi scٍrsi, o fortunate dive,
a la gran reggia altera
ch’a le picene rive
con scettro d’or superbamente impera,
perché de’ detti miei
testimoni veraci
torniate in cielo a’ sempiterni dei.
Replica il coro delle Grazie
Cieco amor che ? tutto puoi ecc.
Amore
Ecco ? mio bel tesoro.
Mirate pur se tante
chiude vive bellezze il ciel stellante
del grande empireo coro.
Ceda pur, ceda omai
ogni lume celeste a tanti rai.
Che più? Mirate il gran Tonante, assiso
su quella nube d’oro
vagheggiar lieto un bel sereno viso,
e fatto in terra amante,
provar da due begli occhi
qual arco io tenda e quanti strali scocchi.
Una delle Grazie
Pur ë ver ch’io discerna
beltà ch’in terra occhio beato ammira?
Ebro ? mio cor delira,
perché novo gioir l’alma governa.
Tutte le Grazie
Ben hai ragione, Amore,
per cotanta beltate
lunge lasciar a’ dei l’aure beate.
Amore
Or ch’ostinato gelo
si strugge ai rai di si tranquilla luce,
ritornatene pur felici al cielo.
Ma se punto riluce
in voi per tal beltà viva favilla,
piovete in lor, piovete
quante nel vostro sen grazie chiudete.
Coro delle Grazie,
mentre ritornano su la nuvola in cielo con Amore
Apriam l’eburnea mano,
e miste tra’ be’ gigli e tra le rose
spargiam grazie celesti ed amorose.
Né turbi il caro dono
rigor d’invido gelo,
anzi raddoppi in lor sue grazie il cielo.
G. Bonarëlli, Filli di Sciro. 19
INTERMEDIO QUARTO
Glauco, Circe, Scilla, Egle, ninfa del Chienti, Teti, Net-
tuno, Coro di Sirene.
La scena è di mare, col promontorio di Circe e un antro ma-
rittimo, con altri scogli e lontananze di paesi.
Glauco
Misero, e che mi giova
d’esser immortai dio dei regni ondosi,
se fra i mلrtir penosi
l’acerbo mio dolor pace non trova?
Non crescono a favilla
quest’ incendi amorosi,
che i begli occhi di Scilla
rendon ognor più gravi e più focosi;
né cresce a stilla a stilla
il mar de le mie lacrime dolenti:
s’aggiunge mare a mare,
e di fiamme cocenti
cresconsi l’Etne ai Mongibelli ardenti.
Qual più crudo martire,
o quai doglie più amare
fedel amante nel suo petto asconde,
quanto ch’in grembo a l’onde
arder di tante fiamme e non morire?
Doloroso languire,
che tormentando il cor qua mi traesti,
forma a magica dea querela ardita,
onde pietosa appresti
dolce rimedio a l’aspra mia ferita.
Eccola appunto uscita
. pagina 291
fuor de la fatai porta;
fate, o sospiri, a’ miei lamenti scorta.
— O dea figlia del Sole,
unica speme a le mie piaghe acerbe,
odi le mie parole,
tu, cui i magici incanti
tutti son noti e le virtù de l’erbe,
e strugger l’alme puoi d’aspri diamanti:
se favilla pietosa
t’accese mai l’alma ad amor soggetta,
a mia vita penosa
non sia dal tuo poter grazia interdetta.
O bella Circe e cara,
di tue mille virtù gli almi tesori
dai paterni splendori
di compartirne altrui pietosa impara.
Mira com’ei comparte
di sua luce immortale il raggio ardente
agli eoi d’oriente,
e sotto ? plaustro a la gelata parte,
a l’indico occidente,
e dove di più ardor fervon ripiene
sotto ? suo carro l’affricane arene.
Né men ei colorisce
nel bel sereno cielo
gli aurei piropi de la notte algente,
come ancor n’abbellisce
su bel fiorito prato
d’aureo candore il mattutino gelo.
L’infruttuoso faggio
ed il mirto odorato
provan eguai ardor dal suo bel raggio.
Cosi tu non negare
un raggio di pietate ai desir miei,
bench’io tra i sommi dei
non goda in ciel l’aure felici e chiare;
ti rammenta chi sei,
e si diffondi le tue grazie care,
che s’eguali si denno
render, anch’io a tuo cenno
farٍ tranquillo e tempestoso il mare. —
Circe
E qual vago sembiante
di marin nume l’anima m’infiamma,
ch’appena il vidi, e ne rimasi amante?
Ben provo, ahimè, ch’a l’amorosa fiamma
non ha ritegno un core.
Impetuoso ardore
che ? varco non offende
è la fiamma d’amore,
che l’occhio non l’apprende
altro che come un raggio di pietate,
che poi crudel a l’anima si stende.
O bellissimo nume
di quest’onde argentate
da le candide spume,
chiedi, che non si niega
grazia giammai dove bellezza prega.
Glauco
Su la tirrena riva
bella ninfa vid’io scherzar con l’onde,
che con sue treccie bionde
l’incauto cor mi prese;
indi l’anima accese
col puro ardor che da’ begli occhi usciva.
Ma fugge questa ingrata a’ prieghi miei;
ond’io, miser, piangendo
cresco col pianto mio l’onde tirrene,
quant’in me crescon pene.
A te dunque ricorro, a te che sei
mia sola speme onde l’aita attendo:
non sian miei preghi indarno, o bella diva;
deh fa che se m’infiamma,
senta ella parte ancor de la mia fiamma.
Circe
Meglio certo ti fora,
nume de le sals’onde,
seguir sol chi t’adora,
non chi niega al tuo cor dolce mercede.
Tanta in te grazia infonde
Amor a gli occhi miei,
ch’altrui seguir, altrui pregar non dèi ;
e s’al mio dir non nieghi
prestar dovuta fede,
non lunge hai chi ti prieghi :
io t’offro Pamor mio,
che pur dea sono, e figlia
del luminoso dio;
io, cui d’erbe e di carmi
è nota ogni secreta meraviglia,
frenar l’eterne rote
posso, ed altri cangiar come più parmi.
A te non sono ignote
le forze mie nel voi de la mia fama.
Dunque volgi, o mio bene,
a me. le luci tue chiare e tranquille,
ch’a mille gioie e mille
il mio desire in questo sen ti chiama;
d’altre dolcezze preziosi inviti,
vie più che queste amene,
daratti il labro mio baci graditi.
Deh sdegna chi ti sdegna,
e rivolgi il desio verso chi t’ama,
che natura ed Amor tai leggi insegna.
Glauco
Assai mi pesa, o diva,
il non poter cangiar voglia e pensiero,
che non pria ? cieco arciero
saetta un cor, che di sua voglia il priva.
D’ogni dolcezza è schiva
alma soggetta a l’amoroso impero,
da quella in fuor che dal suo ben deriva.
Ahi lasso, a’ tuoi desiri
cosi volger potessi i pensier miei !
Come n’addolcirei
con la pietà ch’io cerco i tuoi martiri!
Ma poi che ciٍ mi vieta
dura legge d’Amore,
sostien’ch’io t’ami come
più posso amarti e come più vorrei.
Vivi almen di ciٍ lieta,
e nel doppio dolore
ch’or mi tormenta i tuoi desiri acqueta.
Circe
Come dunque tu vuoi
ch’io ministri a’miei danni altrui dolcezze,
se tu sei l’alma mia, se tanto io t’amo?
Dunque l’altrui bellezze
godran per mezzo mio de’ baci tuoi,
quegl’istessi ch’io bramo?
E qual legge d’Amore,
qual legge di natura, ohimè, comanda
che corra volontario a morte un core?
Che ben vi corre allora e ben s’uccide,
mentre l’anima sua da sé divide.
Pur se nieghi d’amarmi,
non mi negar almeno
raccolto in questo seno
de’ bei frutti d’amor quanto puoi darmi.
E quest’anco negarmi
vorrai, crudel, che puote a le mie voglie
dar qualche pace ed al tuo amor non toglie?
Glauco
Ahi, ch’è tropp’amarezza
l’abbracciar senz’amore
simulacro d’amante;
un misto d’amarissima dolcezza
è ? goder senza core
un vivace cadavero spirante.
Come natura aborre
che prima n’escan fuore
i frutti e i fior, che nate sian le piante,
cosi non si puٍ cَrre
frutto amoroso pria
che l’albero d’Amor nato non sia.
Circe
Indarno non si spera
ne’ successi d’Amor gioia futura,
benché non sembri intera
questa prima di lui gioia immatura.
Non sai tu che ben spesso
de le dolcezze estreme
quel che par frutto è un amoroso seme?
Glauco
Poiché ? mio duolo amaro
trova quella pietà che il cor non chiede,
insidiaran mia fede
l’empie lusinghe del tuo volto avaro?
No, no, crudel ! Ma già che nulla impetra
il tristo suon de’ miei dogliosi accenti
da si rigida pietra,
fuggirٍ lunge, e tra i spumosi argenti
per l’ondose contrade
con austri di lamenti
turbarٍ disdegnoso
ai navigli del mar l’umide strade.
Forse indarno non oso
da que’ begli occhi sui
trovar qualche pietate ai voti altrui.
Circe
Cosi mi fuggí, ingrato?
cosi sprezzi i miei preghi,
né l’alma cruda a le mie voglie pieghi?
Non vada, empio crudele,
non vada invendicato
l’oltraggio e ? duol che mi tormenta il petto:
turbarٍ ? tuo diletto,
nemica e non più amante
meschiarٍ nel tuo dolce assenzio e fiele.
Ecco, or di mille piante
sugo fatai sopra quest’onde aspergo,
e dal tartareo albergo
invoco te, possente dea triforme:
tu cambia in strane forme
l’amata ninfa del marino dio,
nel tuo nome spargo io
tre volte l’onde, e tre m’inchino ed ergo.
SCILLA
Or ch’in mezzo del ciel Febo lampeggia
con più fervid’ardore,
e ne guida ? pastore
a l’ombre amiche la lanosa greggia,
qui non è chi mi veggia
per le vicine sponde
bagnar l’ignudo pie ne le sals’onde.
Glauco,
mentre Scilla si bagna nel mare
Volgasi al mio desire
benigno il cielo: io rapirolla al fine,
se non trova altra aita il mio languire.
Dove ne fuggirai,
crudel, ch’io non ti giunga ed abbia omai?
Me che veggo? Oimè lasso,
opra di tua fierezza, o dea spietata,
la bella ninfa mia conversa in sasso !
La vendetta bramata
facesti pur de la mia fé costante.
Chi mi consola, oimè, miser amante?
Teti
uscita da un antro marittimo su una conchiglia tirata da due delfini
Degno premio a l’orgoglio
de la tua donna ingrata
è che resti cambiata
ai furori de l’onde orrido scoglio.
Ma perché, sacro nume,
tanto ti duol perdita lieve e frale
di bellezza mortale?
Scaccia ? vano dolor dal petto forte,
ché di piceno fiume
a più bella de l’onde immortal figlia
fra se stesso consiglia
il gran padre Ocean farti consorte.
Or or tua bella sposa,
col gran Nettuno e coro di sirene,
per dar fine a tue pene
verrà solcando la campagna ondosa.
Glauco
Mal si puote in un punto
sanar il duol d’un’amorosa piaga.
Pur s’è il vostro voler, numi, congiunto
ch’io volga a novo amor l’anima vaga,
perché debbo ritroso
mostrarmi a voi? Datemi, o sacri numi,
datemi a nova ninfa amante e sposo.
Nettuno con il Coro delle sirene,
ed Egle, ninfa del Chienti
Scendi, Imeneo, ne l’onda,
scendi lieto e ridente,
e con tua fiamm’ardente
accendi oggi del mar l’alga profonda.
Non teme i nostri salsi umidi regni
la tua face feconda.
Una delle sirene
Se altera figlia di piceno fiume
entro le cave anguste
vivesti prima, or di marino nume
ricca sposa godrai fra dive auguste.
Tanti mar solcherai
entro conca di perle e di coralli,
tra i liquidi cristalli,
quanti ne scorge il sol co’ suoi be’ rai.
Teti
Ecco tua bella sposa:
prendi da le sue labra i primi baci,
sian sempre i vostri ardor puri e vivaci.
Voi de la reggia ondosa,
liete di novo in compagnia d’Amore,
invocate Imeneo, ninfe canore.
Replica il Coro delle Sirene
Scendi, Imeneo, ne l’onda, ecc.
Glauco
Aure de’ miei lamenti,
ch’ai porto di dolcissimo gioire
guidaste il mio martire,
cessate omai dai rigidi tormenti !
Ma non già si rallenti
il corso ai vostri spiriti fugaci,
aure d’Amor possenti,
ma più liete e vivaci
meco godete quei rubini ardenti,
voi sospirando allor ch’io suggo i baci.
Nettuno
Non son nozze d’un dio vile e negletto;
ciascun festeggi e cante,
raddoppi l’armonia l’onda sonante.
Nettuno, Glauco, Teti, Egle e Coro delle sirene
Trionfi Amor ne l’onde,
e nel suo bel trofeo
secondi i nostri canti oggi Imeneo. ^
Ne le reggie profonde
dei gran regni spumanti
godan eterna pace i novi amanti.