Filli di Sciro – Discorsi e appendice/Appendice/III

Prologo e intermezzi di Ippolito Aurispa alla Filli di Sciro rappresentata nel 1619 in Macerata

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Prologo e intermezzi di Ippolito Aurispa alla Filli di Sciro rappresentata nel 1619 in Macerata
Appendice - II Appendice - IV


[p. 263 modifica]PROLOGO E INTERMEZZI DI IPPOLITO AURISPA alla « Filli di Sciro » rappresentata nel 1619 in macerata. La finzione.

          
          Quando nel petto di novello amante
          insidioso Amor, fabro d’inganni,
          quas’in fucina le sue fiamme avviva
          per fabricar di speme aurea catena,
          onde l’anima resti
          fra soavi ligami
          con frode occulta amaramente involta,
          dai dolci sguardi e cari
          di due luci pietose
          trae le faville, ond’al principio ancora
          lento foco ministra, e tal che pare
          semivivo languente. Ahi, quando poi
          su l’esca del desio forte s’appiglia,
          di sua cara salute
          quant’ei più spera, in disperar s’avanza,
          che non cessa la fiamma,
          perché d’amare lacrime si sparga,
          se pur il pianto istesso,
          le speranze e i sospiri,
          le dolcezze e i martiri,

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          tutti son esca a l’amorosa arsura.
          Oh che penosa vita
          vive, misero, e tale
          ch’assai men crudo è lo rigor di morte,
          perché non puٍ de l’anima dogliosa
          scoprir al caro oggetto
          cosi le pene, com’il cor le prova.
          E chi non sa ch’assai
          più dannosa è la fiamma
          ch’entro serpendo al cor l’alma divora?
          Scote i gioghi più duri ai monti alpestri,
          ed a l’ime radici
          gli edifici superbi in terra adegua,
          s’avvien che chiusa in sotterranea cava
          di spirto marzïal gravida polve
          spanda l’ardente e tempestosa vampa.
          Se poi, fatta pietosa,
          sua bella donna alfine
          non sdegna a quelle piaghe
          appor di sua pietà medica mano,
          oh come cessa il duolo,
          quando dolce le tratta e quando tenta
          se sa tanto sanar quanto ferire,
          e del gradito amante
          s’addolcir puٍ col suo dolor la doglia!
          Quai fermaci amorosi
          a l’anima languente ella non porge?
          Voci soavi e care
          da sospiri interrotte,
          e nel foco degli occhi il pianto occulto,
          che, da Amor miste insieme
          tai cose tutte, indi ei le tempra, dove
          quasi viva fornace
          di riverbero ardente
          fa lo rincontro de’ pietosi sguardi.
          Cosi con queste tempre e con tal’arti

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          l’anima si rinforza,
          e verso que’ begli occhi
          che la ferir vive saette invia,
          d’amorosa vendetta
          saettatrice ingorda.
          Cosi l’un contro l’altro
          dolcemente vibrando
          su l’arco de’ sospir l’avido sguardo,
          presto si atterra ogni rispetto vano,
          e in tanti di pietà folgori e lampi
          tosto la cornuti tema
          d’inestinguibil foco anch’ella avvampa.
          Oh come allor vivi messaggi poi,
          non più d’occulta doglia,
          ma di vera dolcezza,
          tra i due felici amanti
          volan soavi sguardi sospirati !
          Son que’ sguardi e i sospiri
          vive note d’un cor che dice: — Io moro
          se tardi a darmi aita,
          vita de la mia vita. —
          Indi l’altro risponde:
          — Anima del mio core,
          non m’esser tu di tue dolcezze avara,
          che di queste si pasce il cor che langue,
          e sol questa mia vita
          quanto ha vita da te tanto m’è cara;
          vive negli occhi tuoi l’anima mia. —
          Sin qui non è chi turbi
          queste secrete lor prime dolcezze;
          ma quando amor si stringe
          con più tenace nodo,
          come mill’occhi e mille
          s’apron sopra di lor vigili e presti,
          cosi tosto io v’accorro, e lor inspiro
          novi modi, novi atti, altre sembianze

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          che di amante e d’amica.
          Fallace inganno amor converso in sdegno
          fo ch’altri creda, acciٍ che non discopra
          invida gelosia frutti amorosi.
          Io quella son che l’ire
          d’un cor, cui sdegno amaramente fiede,
          copro talor con simulata pace.
          Ben mi riconoscete a questi manti,
          di due nemici affetti
          false vesti mentite,
          onde si occulta non creduta frode.
          Ambo l’inganno ordilli,
          perché s’altri ama e i suoi furtivi amori
          brama celar, tosto il nascondo e copro
          sotto quest’atra e menzognera spoglia,
          qual con mirabil magistero tinse
          Amor ne’ laghi averni.
          E s’altri odia, ben spesso
          del mio candido manto il cingo intorno,
          perché non si discerna
          quanto di fosco chiude e di maligno
          un cor che d’ira ferve.
          Copre me lunga veste, e qual vedete,
          cangiasi ogn’ora in color vari e mille.
          Sembran le guancie mie rose vermiglie
          talora, e talor sono
          quasi ceneri spente essangui e smorte;
          or son gli occhi di foco, or mostran chiari
          de l’azurro celeste
          colorati zaffiri;
          or disdegnosa mostro
          barbara crudeltà nel mio sembiante,
          ride ora il labro, e tutto
          spira ? bel volto mio grazia e vaghezza.
          Altri non mi disprezzi
          perché sola mi vegga

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          vagar quasi negletta,
          ché ai magisteri miei,
          intenti tutti a’ compartiti uffici,
          tengo mille ministri e mille ancelle.
          La Finzione io son, quella son io
          ch’ebbi vita col mondo.
          S’a me cotanto lice
          finger in parte ed adombrare il vero
          de l’origine mia, de le mie lodi,
          dirٍ, se lice. E che son altro mai
          le varie forme e tante, ond’è dipinto,
          che del Fabro celeste
          scolpite idee fuor de la mente eterna,
          quai produr non potea
          fuor di sé eguali a la sua propria essenza?
          Cosi quasi pingendo le ritrasse
          ne l’essenza creata,
          imagini men pure e men perfette,
          ove risplende foscamente il vivo
          de l’eterna bellezza.
          E che? forse io non sono
          ai magisteri suoi fida ministra,
          mentre l’occulto in su le sacre carte
          con figurati enigmi, e spesso il chiamo
          o colomba amorosa, aquila o pardo?
          Se le vittime sacre
          tra gli accesi carbon di rogo ardente
          su l’are inceneri fiamma vorace,
          fur simulacri finti,
          ché lor vecchio costume
          ne’ barbarici riti anco si serba.
          E pur han viva forza
          di preghiere e di voti
          col suo muto spirar fumi odorati
          e l’arabiche mirre e i sacri incensi.
          Da me prima impararo

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          celar col finto e favoloso modo
          l’antiche scole a le più impure menti
          e gli arcani celesti e di natura.
          Ditemi, che sia vero
          forse mantien con smisurate membra
          ricca soma di stelle il vecchio Atlante,
          se da l’umano seme
          crescer non puٍ giammai si vasta mole
          ch’il pie prema la terra e ? tergo il cielo?
          Atlante è quella eterna
          providenza infinita
          che ? mondo regge, e donde ha moto e vita
          l’ordine di natura
          dal terreo centro a le stellanti sfere.
          Né mai Prometeo audace
          giunse a rapir da la diurna lampa
          fiamma vital con temeraria face,
          ma tal fu che, sprezzando
          l’aspro rigor del Caucaso gelato,
          su la nevosa cima
          si pose ad osservar l’eterea parte,
          i suoi giri, i suoi moti,
          e quai a vean co’ fissi
          ordine e norma i vagabondi lumi ;
          indi poscia calando, al freddo scita
          recٍ del suo saper luce feconda.
          O se dir meglio lice,
          è quella parte agente
          de l’umano intelletto
          Prometeo, allor che col discorso arriva
          ne la sfera del vero,
          che quasi sole i lampi suoi diffonde,
          ed ivi de le forme
          ch’intender puٍ l’aurea facella avviva,
          con la cui pura luce
          dل quasi vita a la possibil parte
          che per se stessa è tenebrosa e informe.

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          Proteo, che si trasforma
          in varie guise, è l’antichissim’ile,
          de le sensibil forme
          tanto madre crudel quanto feconda,
          che i suoi parti divora.
          L’adultera Pasife,
          ch’ad un tauro invaghita
          pronta offerisce il maritai congresso,
          di che madre infelice
          ne resta poi di mostruosa prole,
          certo è la mente umana,
          figlia del vivo sole,
          quando ? ciel non curando,
          dietro impudico amor ebra insanisce:
          del suo folle pensiero
          gravida, partorisce
          tra fetide lordure
          Minotauro difforme,
          piacer ch’insieme è velenoso e dolce.
          Icaro che, volando
          dal saggio padre oltre il vietato segno,
          disfacendosi i vanni
          die nome al mare in cui sommerso giacque,
          l’intelletto figura
          di troppo ambizioso egro mortale,
          quando col volo d’incerate penne
          l’intelligibil sfera
          de la sua forza naturai sormonta,
          e lassù folle spera
          giunger, dove risplende il vivo lume
          d’increata bellezza,
          ch’altrui con chiara ed inesausta luce
          comparte i lampi, ed è suo raggio il sole.
          Misero, e che gli avviene?
          Tenera cera di speranza frale
          a quel raggio si strugge,
          e si disfanno l’ali

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          che a Dedalo ingegnoso
          prima impennٍ religiosa fede;
          cade infelice al fine, e gli fa tomba
          ne’ suoi fetidi gorghi Averno e Stige.
          Frisso, che ? vello d’oro,
          giunto a’ colchici liti,
          sacrٍ devoto al sanguinoso Marte,
          mostra a’ potenti regi
          dove rivolgan l’uso de’ tesori
          per ampliar gl’imperi
          e per mieter da semi
          di battaglia crudele
          su ne’ campi di morte
          con sanguinosa man frutti di pace.
          Cosi gli eroi del gran Leone alato
          godon l’antico impero,
          e co’ bellici campi
          serbano intatti a grand’ Italia il nome.
          Gran Senato sovrano,
          specchio del mondo altero,
          al cui puro cristallo
          non opponga giammai profana imago
          chi di veder non cura
          de l’ingiustizie sue macchiato il volto,
          per te sol, per te spera
          goder co’ figli suoi libera pace
          la stanca Italia, e di tener lontani
          dal seno afflitto i barbari tiranni.
          Già veggio a gli ruggiti
          del tuo Leon invitto
          come s’arretra intimidito il Trace,
          e ? barbarico orgoglio
          ceder ne l’onde a’ tuoi volanti pini.
          Taccio che non ignote
          sono le glorie tue, mentre ch’io veggio
          di tue vittorie tanti mari sparsi.
          Ma che più mi raggiro

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          fra quest’ombre del vero
          perch’i’ ne faccia poi fede a mía lode?
          Sian de le forze mie
          testimoni veraci
          l’auliche torme entro le reggie sale,
          dove finti sorrisi
          manda a le labra invidioso core,
          e dove atti sommessi
          l’alma superba a tesser frodi invia.
          Là di veleno asperso
          tempra nettare al cor vana speranza,
          e v’è chi se ne pasca, e chi per questo
          sprezzi viver felice. O ciechi, o stolti,
          ch’in questa vostra ambiziosa speme
          ingoiate voi stessi,
          più famelici sempre e più digiuni,
          Tantali sitibondi
          ch’in un mar di desiri
          le fauci avete inaridite e secche!
          Là lusinghier fallace,
          dolce ministro di vivande amare,
          osservato d’intorno
          volge lo sguardo il lor tiranno avaro;
          e pur v’è chi l’adore,
          idolatra infelice,
          ch’incensi de’sospiri,
          vittime de’ martiri
          sacra devoto al suo bugiardo nume.
          Quanto v’è, tutto è finto,
          e raro o mai là vi si scorge il vero,
          se non quanto mie larve
          copron l’ignude sue candide membra.
          Che più dirٍ? Per l’universo tutto
          sol si vive fingendo.
          Ma che dich’io si vive? Anco fra loro
          s’ imitan quasi ad arte
          l’opere di natura,

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          che non han senso o pur appena han vita.
          Mirate come il ciel finge la terra,
          ne* be’ prati sereni
          pingendo i vaghi suoi fiori stellati;
          la terra imita il cielo,
          ne’ prati di smeraldo
          aprendo il sen de le fiorite stelle.
          Imita i dolci baci
          di labra innamorate
          con bocca rugiadosa
          il fior ch’or s’erge ed or s’inchina al rio;
          ed imita i sospir d’un cor amante,
          mentre ch’in tante lingue
          su le frondose cime
          alterna il volo suo l’aura vagante.
          Voi pur su queste scene
          ch’altro vedete mai, folli mortali,
          che scherzi di fortuna
          e i falsi colpi de G instabil mano,
          dond’altro non traete
          che chi finger non sa vive infelice,
          scherno de l’altrui frodi?
          Ma qual sent’io rimproverar mie lodi
          lingua che mi saetta,
          quasi io non sia de l’universo donna?
          Ahi che pur troppo è vero
          (mio mal grado il confesso)
          ch’alma di vero amante
          non sta soggetta al mio superbo impero;
          sprezza le leggi mie
          vero amor, vera fede,
          né puٍ versar giammai lacrime finte
          anima innamorata,
          perché chiusa entro il vetro
          di sue vive speranze
          la pone Amor nel foco del desio,

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          cui sol nutre quasi esca
          dolce piacer d’imaginato bene,
          ed altro non è poi
          dal lambicco del duolo
          che se medesma il pianto che distilla.
          Perché più mi trattengo
          qui dunque, ov’in bellissimo teatro
          mostra ? suo vero amor sagace amante,
          ch’a’vostri lampi ardenti,
          belle stelle d’amore,
          sacra in scenica pompa il mare e l’etra?
          Qui non vaglion mie larve
          dov’amor mi denuda,
          amor di generoso
          nobil garzَn, di cui l’animo altero
          ben scorgerete in parte
          ne’ musici concenti e ’n varie scene.
          Ma, lassa, mi dilungo
          troppo dal mio sentiero:
          non è mio peso di trattar il vero.
          INTERMEDIO PRIMO
          L’Anno in un carro tirato da due cavalli bianchi. Primavera,
          Estate, Autunno, Inverno, Mercurio in una nuvola.
          La scena di campagna senza verdura, qual è nell’inverno.
          Primavera
          Quando ch’in oriente,
          sparso d’immortai fiamme aurato il crine,
          fuor de l’onde marine
          torna Febo nascente,
          G. BoNARثLLi, Filli di Sciro. 18

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          mentre de le dolci ore mattutine
          l’aure a’ tepidi ardori
          liban co’ baci l’argentate brine
          da le labra de’ fiori,
          e scherzando tranquille ^
          destan soavemente
          ai dolci frutti i sonnacchiosi amori;
          indi di bianche stelle,
          quasi di ricche perle il seno ardente,
          par che il prato lucente
          emulo a’ rai del sol arda e sfaville;
          tutto gioisce il mondo, e si riveste
          il già vedovo di d’aura celeste.
          Autunno
          Torna fosco ed ombroso,
          quando ch’in occidente
          smorza nel seno ondoso
          de la face diurna il lampo ardente.
          L’Anno con le quattro stagioni insieme
          Cosi a’ mortali il nostro giro alterno
          porta l’arsura e ? gelo,
          come tempra suoi rai volgendo il cielo.
          Mercurio
          descendente dal cielo in una nuvola che passa per il mezzo della scena
          Del tuo carro fugace
          deh ferma tanto le volubil rote,
          ch’io spieghi in brevi note
          quel che ne porto, messagger di pace.
          Da l’alta eterea sfera
          vengo nunzio celeste,

[p. 275 modifica]

          ed a voi Giove ne’ miei detti impera.
          Non siate più, stagion, nemiche a queste
          care piagge picene
          co’ raggi estivi o col rigor del gelo,
          ma sott’amico cielo
          fecondate i lor campi
          e, s’esser può, le non feconde arene.
          Amor ne l’aria stampi
          spiriti di dolcezza, aure vitali;
          fuggan l’angoscie e i mali,
          spiri amor chi respira,
          e sol di gioia il tutto arda ed avvampi.
          L’Anno
          Al voler del gran Giove
          non sia di voi chi d’ubidir contrasti,
          se ben con leggi nove
          al vostro usato giro il corso guasti.
          Ei che tutto governa,
          gran fabro de la luce e de l’aurora,
          perché non puote ancora
          frenar altrui, se l’universo move?
          Folle è ben chi s’interna
          nel vasto abisso della mente eterna.
          Il Verno
          Se cosi Giove impera,
          le mie eterne ragion del stato mio
          cederٍ lieto anch’io
          a te, leggiadra e dolce primavera.
          Ecco, l’urna ne chiudo,
          ond’escon fuori a tempestar i campi
          le piogge e le procelle.
          L’aere sereno omai, di nembi ignudo,

[p. 276 modifica]

          ricamato di stelle
          spieghi pur vago il manto de la notte;
          né più d’Austro interrotte
          cessin dai dolci scherzi aure volanti :
          con più vaghi sembianti
          escan tranquille fuore
          dal grembo de la notte albe ed aurore.
          Estate
          Poiché gelido verno
          a sé richiama i turbini piovosi,
          scote i gioghi nevosi,
          e lieto pur, come comanda Giove,
          del fredd’imperio suo cede ? governo,
          deh comincia tue prove,
          ed apri il tuo fiorito erboso seno,
          primavera gentile,
          destando ai dolci di l’aure d’aprile.
          Autunno
          Mira, deh mira omai come d’intorno,
          già serenato il cielo,
          ogni pianta, ogni stelo
          n’aspetta desiando il tuo ritorno.
          Non più contende in guerra
          Borea con Austro, anzi sol par che brami
          per il libero ciel misto l’impero.
          Odine l’aure di lor tregua araldi.
          Par che di già spanda a’ tuoi pie la terra
          gran manto di smeraldi,
          perché su vi ricami
          di più odorati fiori
          quasi in serico vel tirii lavori.

[p. 277 modifica]

          appendice
          Primavera
          A che tai prieghi e tanti?
          Forse io repugno a le celesti voglie?
          Piovan pur dal mio sen fior, erbe e foglie.
          Spieghin gli augelli erranti
          per le selve frondose
          de’ lor taciuti amor querele e canti.
          Voi con voci amorose,
          di mie gioie ministre,
          richiamatene omai l’aure vezzose.
          Tutto ’l Coro,
          mentre Mercurio passa nella nuvola dall’altra parte
          per il mezzo della scena
          Apri l’ali rugiadose
          dal bel regno d’oriente,
          Euro, ed empi al verno algente
          l’aspro sen di gigli e rose.
          Primavera ed Estate insieme
          Più non scocchi il ciel intorno
          strai su l’arco d’aurei lampi,
          ma di perle ai verdi campi
          empia ? sen l’alba del giorno.
          Replica tutto ’r. Coro
          Apri l’ali rugiadose ecc.
          Autunno e’l Verno
          D’importuni austri spiranti
          ceda pur l’empio rigore,

[p. 278 modifica]

          e dia campo a le dolci ore
          de’ be’ zefiri vaganti.
          Replica tutto ’l Coro
          Apri l’ali rugiadose ecc.
          INTERMEDIO SECONDO
          II Chienti fiume. L’Apennino. Coro delle ninfe del
          Chientí. Coro dell’aure.
          La scena tutta de’ monti Apennini abbelliti di selve e di rivi,
          che scorrono da essi per il piano della campagna con il Chienti
          fiume.
          Il Chienti
          Questa, ch’in mezzo al verno
          del superbo Apennin falde nevose
          non vidi mai pompose
          fiorir pur dianzi, ond’è ch’oggi discerno
          carche di fiori e d’odorate rose?
          Ond’è che dolce intorno
          più che mai l’aura spira,
          e ? carro ardente gira
          per i campi del ciel più lieto il giorno?
          Deh tu che porti adorno
          il tuo canuto crin d’erbe e di fiori,
          da’ freddi marmi fuori
          esci, o padre Apennin, esci ed acqueta
          il mio desir ardente:
          deh discoprine omai, se ? ciel noi vieta,
          perché lieto e ridente
          t’orni fuor di costume al verno algente.

[p. 279 modifica]

          Apennino
          Colmo di nova gioia e di dolcezza
          chi puٍ frenar un core,
          che taccia il suo gioir brevissim’ore?
          Ogni angusto confín varca e disprezza
          gioia che soprabonde;
          si sparge e si diffonde,
          qual suoi torbido fiume
          per nova pioggia superar le sponde:
          versa dagli occhi, dal sembiante fuore,
          come candide spume
          da chiusa conca di fervente umore.
          Leggi le gioie mie nel lieto ciglio,
          effetto sol di meraviglie nove
          de gli amori di Giove,
          o de’ miei colli alpestri umido figlio.
          E se di saper brami
          quello onde lieto anch’io mi meraviglio,
          movi il tuo piede antico
          verso ? sen d’Adria ondoso,
          u’ siede in vista un bosco alto e frondoso:
          a la reggia di Pico.
          Là cento scorgerai
          goder a l’ombra il voi d’aure tranquille
          ninfe leggiadre, ed ivi una fra loro,
          ch’a’ vivi lampi d’oro
          del suo bel crin quai sia tosto saprai,
          e vie più quando Amor d’anime mille
          ne’ suoi begli occhi feritor vedrai.
          Amoroso, tesoro
          son le due nere e lucide pupille
          di que’ pungenti strali,
          che, con l’infausto annunzio
          d’acerbissima sorte,
          fatti a l’alme fatali,
          escono tinti nel color di morte.

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          Per questa il gran Tonante
          fuga da questi colli i nembi e ? gelo,
          perché fattone amante
          trasporta in terra il bel seren del cielo.
          Non fia più che si vante
          del suo felice clima Arabo omai,
          o s’altra è lieta parte,
          a cui d’amiche stelle i vivi rai,
          prodigo amante, il ciel tempra e comparte.
          Il Chienti
          Se giunger mai sopra l’eterea sfera
          a goder l’aure eterne
          in van per noi si spera,
          che sol tra nostre ninfe
          altro ciel non abbiam ch’ampie caverne,
          per quest’umide vie de le mie linfe
          colà tosto m’invio,
          perché dir possa anch’io:
          — Lieto pur vidi il cielo,
          e, qual in ciel si serra,
          splender nova bellezza aperta in terra. —
          Apennino
          Teco ne vengo anch’io:
          dunque non han quest’occhi desiosi
          da veder tanta luce?
          Al nostr’alto desio
          cosi bella cagion sia scorta e duce.
          Il Chienti
          Andiam; e voi, selve beate, addio,
          addio, ne’ vostri orrori
          di chi viver felice ama e desia,

[p. 281 modifica]

          dolcissimi riposi.
          Pria che tramonti il giorno,
          cari alberghi amorosi,
          darammi il ciel ch’i’ faccia a voi ritorno?
          Andiam, padre Apennino,
          andiam. Ma qual dolcissim’armonia,
          quanto più m’avvicino,
          sento nel voi de’ zeffiri vezzosi ?
          Coro dell’aure
          Giovinetta gentile,
          che l’alme involi co’ begli occhi tuoi,
          godi, godi, or che puoi,
          di tue bellezze il desiato aprile.
          Apennino
          Non fu già si canoro
          sul grand’ Ida selvoso
          de l’aure lusinghiere amabil coro,
          né si vaghi e si spessi
          apri fiori novelli il prato erboso,
          allor che desioso
          Giove si strinse ai coniugali amplessi,
          e coprendo i dolcissimi congressi,
          quasi tetto amoroso,
          stillar sopra di loro
          nettare rugiadoso
          con rosati contorni i lembi d’oro,
          come son queste note
          ch’emuli invidiosi
          alternan fra di lor l’aura e gli augelli,
          come i fiori novelli
          di questi prati erbosi,
          e come il vivo gelo
          con che imperla quest’erbe amante il cielo.

[p. 282 modifica]

          Coro dell’aure
          Di tue luci amorose
          rivolgi misto con pietà l’ardore,
          pria che fosco pallore
          tolga a le labra tue le vive rose.
          Apennino e ’l Chienti
          Gioite pur, gioite
          con primavera eterna,
          mille grazie d’Amor, piagge fiorite.
          Coro dell’aure
          I
          Chi non sa, chi non vede
          che bellezza mortai tosto si perde?
          Pianta che non rinverde,
          a cui sol un april fugge e non riede.
          Il Chienti
          Ecco pur giunsi al fine
          a riverir que’ rai
          che di veder bramai.
          Bellezze pellegrine,
          chi fia che non v’ammiri e non vi cante,
          se, di voi fatto amante,
          sprezza il gran Giove in ciel l’aure divine?
          Su, da la cava algosa,
          mie ninfe, uscite, e qui liete con noi
          riverite ancor voi
          questa di mortai dee schiera amorosa,
          fuor dai liquidi argenti,
          dai spumosi cristalli,
          a l’armonia de’ venti
          tessendo dolci canti e lieti balli.

[p. 283 modifica]

          Coro delle ninfe del Chienti
          Ecco fàglie de l’onde,
          devote a tanta luce
          onde splende e riluce
          sereno il di su quest’erbose sponde,
          tutte liete e gioconde,
          al vivo lume santo
          sacriam de’ be’ vostr’occhi e l’alme e ? canto.
          Una delle ninfe del coro
          che canta mentre un altro coro fa un balletto
          Beato core,
          che co’ bei dardi
          de’ vostri sguardi
          lo piaga Amore !
          Non aspro è ? foco
          de’ vostri lumi,
          s’ivi il consumi
          Amor per gioco.
          Che è lieta sorte,
          s’ivi invaghita
          farfalla ardita
          prova la morte.
          Soavi pene,
          se il foco sente
          l’anima algente
          del caro bene.
          Tutto ’l coro
          Ahi qual dolcezza prova
          un’alma che per voi arda e sospiri!
          che nel duol, ne’ martiri,
          quant’ha di dolce Amor, tutto ritrova.

[p. 284 modifica]

          II Chienti
          Giusto è ben che si lodi
          cosi leggiadra schiera,
          ma più colei che con soavi modi,
          bella d’Amor guerriera,
          dal centro de’ mortali
          vibra fin su nel ciel folgori e strali.
          L’Apennino, il Chienti e ’l coro delle ninfe
          Di voi si canti, a la cui luce pura
          cedon le chiare stelle,
          amorose facelle.
          De’ semi di que’ lampi
          ch’escon da voi prova ogni cor l’arsura,
          né puote esser si dura
          anima, che vi miri e non avvampi
          (se siete in ciel d’amore
          stelle fatai) del vostro proprio ardore.
          INTERMEDIO TERZO
          Amore con le tre Grazie, discendenti in una nuvola dal cielo.
          La scena mostra un cielo, sotto di cui si scorgono molte lon-
          tananze di vari paesi.
          Amore e le tre grazie
          cantano l’infrascritto madrigale, mentre s’apre il cielo e la nuvola descende.
          De’ bei sereni campi
          lasciato il bel soggiorno,
          ove risplende il giorno
          con aurea luce in sempiterni lampi,

[p. 285 modifica]

          l’aura fendendo intorno,
          portate a vol su velocissim’ali
          di più candida nube,
          liete scendemmo in terra a voi mortali.
          Amore
          Che men lieto sarei
          dissi, o figlie di Giove,
          se menassi nel ciel vita fra’ dei.
          Di meraviglie nove
          s’empí l’Olimpo allora,
          e s’armٍ contro me d’ira e di sdegno,
          quasi che di là fuora
          dal bel celeste regno
          non abbia etereo nume onde si bei.
          Ed or ne’ detti miei
          perché si scorga il vero,
          bella schiera vedrete
          di mortai dee, ch’avanza ogni pensiero.
          Ed è ragion, s’io son Amor, che sia
          ov’è tanta bellezza
          il ciel di mia dolcezza.
          Non fia mai ver, non fia
          che resti in ciel mia deità delusa,
          ch’ella soffrir non usa
          dai men forti di me gli oltraggi e l’onte.
          Vergognosa bugia
          non riprovino i dei ne la mia fronte.
          Una delle Grazie
          Qual insolito affetto,
          de l’istess’armi tue piaga e veleno,
          del celeste diletto
          turba a le gioie tue l’almo sereno?

[p. 286 modifica]

          Che s’agguagliar non lice
          altra beltà a la beltà immortale,
          e quanto è in terra è sol caduco e frale,
          come puٍ far altrui lieto e felice
          fuggitiva bellezza egra e mortale?
          Una delle Grazie
          Via men sereno giorno
          Febo ne l’aria accende
          di quel ch’arde e risplende
          quando volge suoi rai Venere intorno.
          A un raggio de’begli occhi
          Giove depone i folgori mortali ;
          a un soave sorriso
          che da le labra sue placido scocchi
          son le membra di Marte inermi e frali;
          a un lampo del bel viso
          tutti i raggi del Sol non sono eguali.
          Or come a tanta altezza
          osi portar, Amor, fragil bellezza?
          Un’altra delle Grazie
          Ella de’ vanti suoi mesta si spoglie,
          né giri, a serenar l’ira di Giove,
          per, le piagge del ciel beate e belle
          con amorose prove
          gli ardenti rai de le pietose stelle,
          se bellezza mortai pregio le toglie.
          Tutte le Grazie
          Ahi che pur troppo cede
          beltà mortale a la beltà celeste!
          Cieco Amor nulla vede.

[p. 287 modifica]

          Amore
          Voi ch’a Venere in ciel donate il vanto,
          e sopra la beltà d’ogni altro nume
          l’inalzate cotanto,
          ditemi, e di che nacque,
          se non di frali spume,
          che nel franger de l’onde imbiancan l’acque?
          Ma poi tanta bellezza
          cosi lassù tra i dei celesti piacque,
          tanta grazia e vaghezza,
          ch’ebbe loco fra loro,
          ancor ch’invida Giuno
          turbasse ostando il bel celeste coro.
          Perché dunque non lice
          tanto conceder a l’umana prole,
          se spesso anch’ella suole
          esser de’ dei del ciel madre felice?
          Non turbi mie ragion candido velo
          perché gli occhi mi copra,
          che de’ superni dei
          misteriosa è l’opra,
          acciٍ co’ vivi rai de’ lumi miei
          non arda il mondo e non s’accenda il cielo.
          Quasi temprato ardore
          d’un picciol raggio ch’indi sol traluce
          è quant’arde d’Amore;
          ma de G intensa luce
          provan anco il vigor le brine e ? gelo.
          Cosi ristretta è la mortale arsura
          de la mia fiamma ardente,
          perché s’unisca a l’opre di natura,
          né sian le forme dal mio incendio spente.
          Cieco mi fanno i sciocchi,
          che veggo più, s’ho bendati gli occhi.

[p. 288 modifica]

          Tutte le Grazie,
          mentre la nuvola dilatandosi finisce di scendere
          Cieco Amor che ? tutto puoi,
          scopri il bel che tieni ascoso,
          rendi l’aere luminoso
          col seren de’ lampi suoi.
          Amore
          Qua pur vi scٍrsi, o fortunate dive,
          a la gran reggia altera
          ch’a le picene rive
          con scettro d’or superbamente impera,
          perché de’ detti miei
          testimoni veraci
          torniate in cielo a’ sempiterni dei.
          Replica il coro delle Grazie
          Cieco amor che ? tutto puoi ecc.
          Amore
          Ecco ? mio bel tesoro.
          Mirate pur se tante
          chiude vive bellezze il ciel stellante
          del grande empireo coro.
          Ceda pur, ceda omai
          ogni lume celeste a tanti rai.
          Che più? Mirate il gran Tonante, assiso
          su quella nube d’oro
          vagheggiar lieto un bel sereno viso,
          e fatto in terra amante,
          provar da due begli occhi
          qual arco io tenda e quanti strali scocchi.

[p. 289 modifica]

          Una delle Grazie
          Pur ë ver ch’io discerna
          beltà ch’in terra occhio beato ammira?
          Ebro ? mio cor delira,
          perché novo gioir l’alma governa.
          Tutte le Grazie
          Ben hai ragione, Amore,
          per cotanta beltate
          lunge lasciar a’ dei l’aure beate.
          Amore
          Or ch’ostinato gelo
          si strugge ai rai di si tranquilla luce,
          ritornatene pur felici al cielo.
          Ma se punto riluce
          in voi per tal beltà viva favilla,
          piovete in lor, piovete
          quante nel vostro sen grazie chiudete.
          Coro delle Grazie,
          mentre ritornano su la nuvola in cielo con Amore
          Apriam l’eburnea mano,
          e miste tra’ be’ gigli e tra le rose
          spargiam grazie celesti ed amorose.
          Né turbi il caro dono
          rigor d’invido gelo,
          anzi raddoppi in lor sue grazie il cielo.
          G. Bonarëlli, Filli di Sciro. 19

[p. 290 modifica]

          INTERMEDIO QUARTO
          Glauco, Circe, Scilla, Egle, ninfa del Chienti, Teti, Net-
          tuno, Coro di Sirene.
          La scena è di mare, col promontorio di Circe e un antro ma-
          rittimo, con altri scogli e lontananze di paesi.
          Glauco
          Misero, e che mi giova
          d’esser immortai dio dei regni ondosi,
          se fra i mلrtir penosi
          l’acerbo mio dolor pace non trova?
          Non crescono a favilla
          quest’ incendi amorosi,
          che i begli occhi di Scilla
          rendon ognor più gravi e più focosi;
          né cresce a stilla a stilla
          il mar de le mie lacrime dolenti:
          s’aggiunge mare a mare,
          e di fiamme cocenti
          cresconsi l’Etne ai Mongibelli ardenti.
          Qual più crudo martire,
          o quai doglie più amare
          fedel amante nel suo petto asconde,
          quanto ch’in grembo a l’onde
          arder di tante fiamme e non morire?
          Doloroso languire,
          che tormentando il cor qua mi traesti,
          forma a magica dea querela ardita,
          onde pietosa appresti
          dolce rimedio a l’aspra mia ferita.
          Eccola appunto uscita

[p. 291 modifica]

. pagina 291
          fuor de la fatai porta;
          fate, o sospiri, a’ miei lamenti scorta.
          — O dea figlia del Sole,
          unica speme a le mie piaghe acerbe,
          odi le mie parole,
          tu, cui i magici incanti
          tutti son noti e le virtù de l’erbe,
          e strugger l’alme puoi d’aspri diamanti:
          se favilla pietosa
          t’accese mai l’alma ad amor soggetta,
          a mia vita penosa
          non sia dal tuo poter grazia interdetta.
          O bella Circe e cara,
          di tue mille virtù gli almi tesori
          dai paterni splendori
          di compartirne altrui pietosa impara.
          Mira com’ei comparte
          di sua luce immortale il raggio ardente
          agli eoi d’oriente,
          e sotto ? plaustro a la gelata parte,
          a l’indico occidente,
          e dove di più ardor fervon ripiene
          sotto ? suo carro l’affricane arene.
          Né men ei colorisce
          nel bel sereno cielo
          gli aurei piropi de la notte algente,
          come ancor n’abbellisce
          su bel fiorito prato
          d’aureo candore il mattutino gelo.
          L’infruttuoso faggio
          ed il mirto odorato
          provan eguai ardor dal suo bel raggio.
          Cosi tu non negare
          un raggio di pietate ai desir miei,
          bench’io tra i sommi dei
          non goda in ciel l’aure felici e chiare;

[p. 292 modifica]

          ti rammenta chi sei,
          e si diffondi le tue grazie care,
          che s’eguali si denno
          render, anch’io a tuo cenno
          farٍ tranquillo e tempestoso il mare. —
          Circe
          E qual vago sembiante
          di marin nume l’anima m’infiamma,
          ch’appena il vidi, e ne rimasi amante?
          Ben provo, ahimè, ch’a l’amorosa fiamma
          non ha ritegno un core.
          Impetuoso ardore
          che ? varco non offende
          è la fiamma d’amore,
          che l’occhio non l’apprende
          altro che come un raggio di pietate,
          che poi crudel a l’anima si stende.
          O bellissimo nume
          di quest’onde argentate
          da le candide spume,
          chiedi, che non si niega
          grazia giammai dove bellezza prega.
          Glauco
          Su la tirrena riva
          bella ninfa vid’io scherzar con l’onde,
          che con sue treccie bionde
          l’incauto cor mi prese;
          indi l’anima accese
          col puro ardor che da’ begli occhi usciva.
          Ma fugge questa ingrata a’ prieghi miei;
          ond’io, miser, piangendo
          cresco col pianto mio l’onde tirrene,

[p. 293 modifica]

          quant’in me crescon pene.
          A te dunque ricorro, a te che sei
          mia sola speme onde l’aita attendo:
          non sian miei preghi indarno, o bella diva;
          deh fa che se m’infiamma,
          senta ella parte ancor de la mia fiamma.
          Circe
          Meglio certo ti fora,
          nume de le sals’onde,
          seguir sol chi t’adora,
          non chi niega al tuo cor dolce mercede.
          Tanta in te grazia infonde
          Amor a gli occhi miei,
          ch’altrui seguir, altrui pregar non dèi ;
          e s’al mio dir non nieghi
          prestar dovuta fede,
          non lunge hai chi ti prieghi :
          io t’offro Pamor mio,
          che pur dea sono, e figlia
          del luminoso dio;
          io, cui d’erbe e di carmi
          è nota ogni secreta meraviglia,
          frenar l’eterne rote
          posso, ed altri cangiar come più parmi.
          A te non sono ignote
          le forze mie nel voi de la mia fama.
          Dunque volgi, o mio bene,
          a me. le luci tue chiare e tranquille,
          ch’a mille gioie e mille
          il mio desire in questo sen ti chiama;
          d’altre dolcezze preziosi inviti,
          vie più che queste amene,
          daratti il labro mio baci graditi.
          Deh sdegna chi ti sdegna,

[p. 294 modifica]

          e rivolgi il desio verso chi t’ama,
          che natura ed Amor tai leggi insegna.
          Glauco
          Assai mi pesa, o diva,
          il non poter cangiar voglia e pensiero,
          che non pria ? cieco arciero
          saetta un cor, che di sua voglia il priva.
          D’ogni dolcezza è schiva
          alma soggetta a l’amoroso impero,
          da quella in fuor che dal suo ben deriva.
          Ahi lasso, a’ tuoi desiri
          cosi volger potessi i pensier miei !
          Come n’addolcirei
          con la pietà ch’io cerco i tuoi martiri!
          Ma poi che ciٍ mi vieta
          dura legge d’Amore,
          sostien’ch’io t’ami come
          più posso amarti e come più vorrei.
          Vivi almen di ciٍ lieta,
          e nel doppio dolore
          ch’or mi tormenta i tuoi desiri acqueta.
          Circe
          Come dunque tu vuoi
          ch’io ministri a’miei danni altrui dolcezze,
          se tu sei l’alma mia, se tanto io t’amo?
          Dunque l’altrui bellezze
          godran per mezzo mio de’ baci tuoi,
          quegl’istessi ch’io bramo?
          E qual legge d’Amore,
          qual legge di natura, ohimè, comanda
          che corra volontario a morte un core?
          Che ben vi corre allora e ben s’uccide,

[p. 295 modifica]

          mentre l’anima sua da sé divide.
          Pur se nieghi d’amarmi,
          non mi negar almeno
          raccolto in questo seno
          de’ bei frutti d’amor quanto puoi darmi.
          E quest’anco negarmi
          vorrai, crudel, che puote a le mie voglie
          dar qualche pace ed al tuo amor non toglie?
          Glauco
          Ahi, ch’è tropp’amarezza
          l’abbracciar senz’amore
          simulacro d’amante;
          un misto d’amarissima dolcezza
          è ? goder senza core
          un vivace cadavero spirante.
          Come natura aborre
          che prima n’escan fuore
          i frutti e i fior, che nate sian le piante,
          cosi non si puٍ cَrre
          frutto amoroso pria
          che l’albero d’Amor nato non sia.
          Circe
          Indarno non si spera
          ne’ successi d’Amor gioia futura,
          benché non sembri intera
          questa prima di lui gioia immatura.
          Non sai tu che ben spesso
          de le dolcezze estreme
          quel che par frutto è un amoroso seme?

[p. 296 modifica]

          Glauco
          Poiché ? mio duolo amaro
          trova quella pietà che il cor non chiede,
          insidiaran mia fede
          l’empie lusinghe del tuo volto avaro?
          No, no, crudel ! Ma già che nulla impetra
          il tristo suon de’ miei dogliosi accenti
          da si rigida pietra,
          fuggirٍ lunge, e tra i spumosi argenti
          per l’ondose contrade
          con austri di lamenti
          turbarٍ disdegnoso
          ai navigli del mar l’umide strade.
          Forse indarno non oso
          da que’ begli occhi sui
          trovar qualche pietate ai voti altrui.
          Circe
          Cosi mi fuggí, ingrato?
          cosi sprezzi i miei preghi,
          né l’alma cruda a le mie voglie pieghi?
          Non vada, empio crudele,
          non vada invendicato
          l’oltraggio e ? duol che mi tormenta il petto:
          turbarٍ ? tuo diletto,
          nemica e non più amante
          meschiarٍ nel tuo dolce assenzio e fiele.
          Ecco, or di mille piante
          sugo fatai sopra quest’onde aspergo,
          e dal tartareo albergo
          invoco te, possente dea triforme:
          tu cambia in strane forme
          l’amata ninfa del marino dio,
          nel tuo nome spargo io
          tre volte l’onde, e tre m’inchino ed ergo.

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          SCILLA
          Or ch’in mezzo del ciel Febo lampeggia
          con più fervid’ardore,
          e ne guida ? pastore
          a l’ombre amiche la lanosa greggia,
          qui non è chi mi veggia
          per le vicine sponde
          bagnar l’ignudo pie ne le sals’onde.
          Glauco,
          mentre Scilla si bagna nel mare
          Volgasi al mio desire
          benigno il cielo: io rapirolla al fine,
          se non trova altra aita il mio languire.
          Dove ne fuggirai,
          crudel, ch’io non ti giunga ed abbia omai?
          Me che veggo? Oimè lasso,
          opra di tua fierezza, o dea spietata,
          la bella ninfa mia conversa in sasso !
          La vendetta bramata
          facesti pur de la mia fé costante.
          Chi mi consola, oimè, miser amante?
          Teti
          uscita da un antro marittimo su una conchiglia tirata da due delfini
          Degno premio a l’orgoglio
          de la tua donna ingrata
          è che resti cambiata
          ai furori de l’onde orrido scoglio.
          Ma perché, sacro nume,
          tanto ti duol perdita lieve e frale
          di bellezza mortale?
          Scaccia ? vano dolor dal petto forte,

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          ché di piceno fiume
          a più bella de l’onde immortal figlia
          fra se stesso consiglia
          il gran padre Ocean farti consorte.
          Or or tua bella sposa,
          col gran Nettuno e coro di sirene,
          per dar fine a tue pene
          verrà solcando la campagna ondosa.
          Glauco
          Mal si puote in un punto
          sanar il duol d’un’amorosa piaga.
          Pur s’è il vostro voler, numi, congiunto
          ch’io volga a novo amor l’anima vaga,
          perché debbo ritroso
          mostrarmi a voi? Datemi, o sacri numi,
          datemi a nova ninfa amante e sposo.
          Nettuno con il Coro delle sirene,
          ed Egle, ninfa del Chienti
          Scendi, Imeneo, ne l’onda,
          scendi lieto e ridente,
          e con tua fiamm’ardente
          accendi oggi del mar l’alga profonda.
          Non teme i nostri salsi umidi regni
          la tua face feconda.
          Una delle sirene
          Se altera figlia di piceno fiume
          entro le cave anguste
          vivesti prima, or di marino nume
          ricca sposa godrai fra dive auguste.
          Tanti mar solcherai

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          entro conca di perle e di coralli,
          tra i liquidi cristalli,
          quanti ne scorge il sol co’ suoi be’ rai.
          Teti
          Ecco tua bella sposa:
          prendi da le sue labra i primi baci,
          sian sempre i vostri ardor puri e vivaci.
          Voi de la reggia ondosa,
          liete di novo in compagnia d’Amore,
          invocate Imeneo, ninfe canore.
          Replica il Coro delle Sirene
          Scendi, Imeneo, ne l’onda, ecc.
          Glauco
          Aure de’ miei lamenti,
          ch’ai porto di dolcissimo gioire
          guidaste il mio martire,
          cessate omai dai rigidi tormenti !
          Ma non già si rallenti
          il corso ai vostri spiriti fugaci,
          aure d’Amor possenti,
          ma più liete e vivaci
          meco godete quei rubini ardenti,
          voi sospirando allor ch’io suggo i baci.
          Nettuno
          Non son nozze d’un dio vile e negletto;
          ciascun festeggi e cante,
          raddoppi l’armonia l’onda sonante.

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          Nettuno, Glauco, Teti, Egle e Coro delle sirene
          Trionfi Amor ne l’onde,
          e nel suo bel trofeo
          secondi i nostri canti oggi Imeneo. ^
          Ne le reggie profonde
          dei gran regni spumanti
          godan eterna pace i novi amanti.