Della Nuova Istoria/Libro I
Questo testo è completo. |
Libro II | ► |
DI ZOSIMO
CONTE ED AVVOCATO DEL FISCO
DELLA NUOVA ISTORIA
–o()o()o–
È qui mestieri che dagli eventi stessi tragga pruova di quanto espongo. Dalla fine della troiana guerra insino alla battaglia di Maratona2 si pare che i Greci nè entro nè fuori della patria nulla operassero degno di rimembranza. Assaliti in allora dai prefetti e dalle infinite schiere di Dario, otto mila Ateniesi3 animati da incitamento divino ed impugnate armi comunque venute loro alla mano, di gran cuore movendo contro al nemico, riportaronne sì gloriosa vittoria che giunsero, fattane strage di cinquanta mila, a discacciarne dalle proprie frontiere il resto; così i Greci crebbero in fama. Quando poi, morto Dario, Serse con truppe assai maggiori, conducendo Asia tutta a guerreggiarli, empieva di navi il mare e di cavalli e fanti la terra, e quasi gli elementi stessi, al valicar dell’esercito in Europa bastevoli non fossero ad accoglierlo senza usurparsi a vicenda i loro diritti, eresse un ponte sopra l’Ellesponto ad agevolare il transito delle genti pedestri, e traforò l’Ato onde ricevesse col mare le navi; spaventata la Grecia dalla sola voce del formidabilissimo apprestamento, diè con ogni sua possa di piglio alle armi. Venuta quindi a battaglia navale presso Artemisio ed in seguito non lunge da Salamina4, conseguì assai più illustre vittoria dell’antecedente, mettendo il re in precipitosa fuga dopo perduta la massima parte delle truppe, e la sconfitta delle altre a Platea5 pose il colmo allo splendore della Grecia; mercè di che ella ridonò la libertà a’ suoi nazionali dimoranti nell’Asia, e dì quasi tutte le isole acquistò l’impero.
Che se di continuo rimasi fossersi uniti e paghi della presente loro fortuna, nè gli Ateniesi e gli Spartani pigliato avessero a separarsi gli uni dagli altri contrastandosi a vicenda la capitananza de’ Greci, e mai più obbedito avrebbero a stranieri padroni. Ora dalla guerra del Peloponneso6 menomatone l’esercito e ridotte all’indigenza le cittadi, aprironsi le porte a Filippo voglioso di aggrandire con arti e furberie un regno derivatogli per successione ben inferiore di forze a quanti lo avvicinavano. Allettando egli dunque col danaro sue truppe e quelle seco de’ confederati, potè da piccolo farsi grande, e venire cogli Ateniesi a battaglia presso Cheronea. Uscitone vittorioso e mostrandosi a tutti piacevole e benigno, volgea di già il pensiero ad assalire la persiana monarchia, se non che nell’apprestatisi fu da morte spento.Alessandro,asceso il trono e subito dato ordine alla Grecia nel terzo anno del suo impero con poderose milizie passò in Asia. Vinti assai di leggieri i satrapi suoi avversarj corse a rintracciare Dario, il quale preoccupato avea con oste senza numero i luoghi appo Isso. Quivi appiccatavi battaglia ed inalzato un trofeo superiore ad ogni espressione, costrinse il re a voltare le spalle. Visitò poscia la Fenicia, la Siria e la Palestina; le sue geste presso Tiro e Gaza trovansi nelle opere di coloro che ne trasmisero alla posterità le imprese. Proceduto oltre nell’Egitto venerò Ammone, e stabilitovi l’occorrente alla fabbricazione d’Alessandria, fecesi indietro a terminare la guerra persiana. Rinvenuti ogni dove segni di amicizia, viaggiò nella Mesopotamia, ove udito che Dario trovavasi alla testa di genti molto più numerose delle prime andò colle truppe allora seco ad incontrarlo, e sopra il campo d’Arbela tanto lo vinse, quanto voleavi per distruggergli quasi l’intiero esercito e scompigliare, fuggito il re con pochi, quell’impero.
Da Beso quindi ucciso Dario, Alessandro pur egli, tornato dalle Indie in Babilonia, soggiacque all’estremo fato. Divisosi allora il macedonico regno in satrapie ed affievolito dalle continue intestine guerre, la fortuna soggettò ai Romani le reliquie d’Europa, i quali poscia spedite genti nell’Asia a guerreggiare i re del Ponto, Antioco e da ultimo i prìncipi dell’Egitto, ogni anno aumentarono, sino a che l’autorità senatoria fu in vigore, il dominio loro, gareggiando i consoli a superarsi vicendevolmente con gloriose azioni; ma posta in seguito a soqquadro la repubblica dalle guerre civili di Silla e Mario, di Cesare e Pompeo mettono in abbandono il governo degli ottimati per creare dittatore Ottaviano, e fidatone al suo arbitrio tutto il reggimento, non considerano di aver posto a ripentaglio le universali speranze, ed assoggettata la sorte di così vasta dominazione al potere ed alla cupidigia di solo un uomo. Poichè l’eletto se brama reggere con rettitudine e giustizia lo stato, non è bastevole tuttavia a compiere le molte bisogne della sua magistratura, avendocene di quelle assai lontane, cui non può speditamente provvedere, nè rinvenire tanti ministri di conformità al fattone giudizio, nè accordarci tampoco con talmente variati costumi; se poi, violando i limiti della conferitasi autorità, aspira alla tirannide, sconvolgendo le funzioni de’ suoi officiali, trascurando i delitti, col danaro acquistandosi un venale diritto, schiavi estimando i sudditi (come praticarono molti imperatori, o meglio ancora, di pochi all’infuori, tutti), il costui importabile governo per necessaria conseguenza addiverrà pubblica sciagura. Mentre gli adulatori, colmi di largizioni e di onoranze, occuperanno ì più elevati impieghi, ed i modesti e tranquilli cittadini, disamando simile tenor di vita, non comporteranno molestamente di andarne privi. Quindi le città empierannosi di sedizioni e tumulti vedendo inalzate a civili e militari cariche persone avide del guadagno; renderassi la togata vita ai più discreti spiacevole ed acerba, e verrà meno nelle guerre il militar valore. Che tale corrano gli avvenimenti la stessa esperienza loro e quanto di subito accadde sotto l’impero d’Ottaviano lo comprovano assai bene. Di fatti e la danza pantomimica, sconosciuta per lo avanti, cominciò in que’ tempi a comparire, essendone primi autori Pilade e Batillo, ed altre novità ancora introdotte vennero, le quali infino ad oggi proseguono con molto danno. E’ sì pare nondimeno che Ottaviano governasse moderatamente la repubblica obbedendo ai consigli dello stoico Atenodoro. il successore Tiberio datosi ad una estrema crudeltà, e discacciato dai sudditi7, addivenuto loro intollerabile, andò a finire i suoi giorni ascoso entro un’isola. Caio Caligola, costui spento, superandolo in ogni maniera di scelleraggini, fu morto da Cherea, liberando così l’impero da inumanissima tirannide. Dopo che Claudio ebbe commesso ad eunuchi libertini le sue faccende e posto fine turpemente alla vita, Nerone ed altri, seguendosi, ascesero il trono. Di questi per verità ho divisato non dir verbo, disdegnando che rimanga memoria delle inique e mostruose loro azioni. Vespasiano e Tito, sua prole, inalzati all’impero con assai più moderazione ressero i popoli. Domiziano, specchio senza pari di lussuria, di crudeltà e di avarizia, manomessa la repubblica per la durata di quindici anni intieri, ed alla fine ucciso da Stefano liberto, ebbesi con tal morte il gastigo de’ suoi misfatti. Uomini probi di poi, vo’ dire Nerva, Traiano, il pio Antonino ed i due germani, Vero e Lucio, ottenuto il supremo comando, ripararono a molte calamitadi, tornando al possesso non solo del perduto dai loro antecessori, ma eziandio aggiungendovi qualche nuovo acquisto. A Comodo, figlio di Marco, inclinato così alla tirannide come alle più orribili scelleraggini, e spento dalla concubina Marcia, armatasi d’animo virile, tenne dietro Pertinace; se non che i pretoriani soldati, mal comportandone il rigore nell’esercizio e nella disciplina militare, lo trucidarono. Poco mancò allora non andasse Roma in isconvolgimento, poiché le truppe destinate alla custodia del pretorio usurpandosi il diritto di nominare il monarca, ne toglievan forzevolmente la scelta al senato. Messo pertanto l’impero in vendita, Didio Giuliano, istigato dalla consorte, anzi per balordaggine che per saggio consiglio a contanti ne fa mercato, dando uno spettacolo mai più veduto per lo innanzi, condotto essendo al pretorio non preceduto dai senatori nè da qualunque legittimo corteo: accompagnato bensì da quei soli militi che eletto aveanlo, venitegli da loro stessi di forza consegnato il palazzo con quanto eravi entro. Pur egli non di meno, addivenuto vittima de’ suoi elettori medesimi, regnò, a mo’ di notturno sogno, brevissimo tempo. Ricorsi novamente al senato per deliberare cui porre in capo l’imperiale corona, Severo fu il trascelto. Ma usurpatosi ad un tempo il trono da Albino e Negro, sursero infra loro guerre civili nè di poco momento8, le città reciprocamente discordi parteggiando chi per l’uno e chi per l’altro. Suscitatosi dunque nell’oriente e nell’Egitto non lieve scompiglio, i Bizantini favoreggiatori ed albergatori di Negro si esposero ad estremo pericolo. Ucciso costui trionfarono gli aderenti a Severo, il quale, morto a simile Albino, senza competitori governò la repubblica. Questi rivolse ogni sua cura ad emendare il male operato, ed innanzi tutto punì rigorosamente i militi che ucciso aveano Pertinace e messo in trono Giuliano. Ordinato quindi con senno l’esercito ed assaliti i Persiani, occupò di subito Ctesifonte e Babilonia. Fattosi poscia in quel degli Arabi nomati dalle tende loro Sceniti, ridusse in poter suo l’Arabia intera, e compiè valorosamente altre non poche geste. Era di più implacabile contro ai malfattori, le cui sostanze, giudicati rei, metteva nel fisco. Ornate a simile di magnifici edifizj molte città, destinò a succedergli Antonino sua prole, e pervenuto agli ultimi della vita gli diè a compagno Geta, altro figlio, dichiarando loro tutore Papiniano, uomo giustissimo e superiore a quanti furonvi e sono giureconsulti nella scienza ed esposizione delle leggi. Questi, mentre esercitava l’ufficio di prefetto del pretorio, osservando Antonino avverso a Geta, e postosi del suo meglio ad allontanarne le insidie cadde, senza poterne addurre altro motivo, in sospetto dell’imperatore germano, il quale volendo liberarsi da tale impaccio ne commise alle truppe l’uccisione. Colta inoltre la opportunità privò della vita il fratello, non riuscita essendo neppure l’accorsa madre a strapparglielo dalle mani. Non guari dopo Antonino portò la pena del fraticidio, rimanendone sempre occulto l’ucciditore, ed i soldati a dimora in Roma surrogarongli Macrino, prefetto del pretorio9, e quelli nell’oriente innalzarono all’impero un giovinetto Emiseno, stretto alla genitrice di Antonino con legami di parentela. Fermi entrambi gli eserciti nel sostenere le proprie elezioni, surse civile discordia; le truppe dell’Emiseno Antonino avviansi a Roma col protetto loro, e la soldatesca di Macrino esce d’Italia ad incontrarli. Si viene alle armi presso Antiochia della Siria, e Macrino, tocca una compiuta sconfitta, abbandona, fuggendo, il campo, ma nello stretto infra Bisanzio e Calcedone, arrivatolo, soggiacque per le molte ferite a morte10. Il vittorioso Antonino11 vendicatosi di coloro, quasi nemici, che seguito aveano le parti di Macrino, pigliò a menare turpe e ribalda vita in mezzo a cerretani e maghi. I Romani pertanto mal comportandone la sfrenata licenza e l’alterigia dierongli morte, e smembratone il cadavere posero in trono Alessandro discendente pur egli dalla famiglia di Severo. Questi, ancor giovinetto, d’ottima indole ed animante ognuno a sperar bene sotto il suo governo, creò prefetti del pretorio Flaviano e Cresto, personaggi sapevoli di strategia e capaci di amministrare ottimamente le civili bisogne. Se non che dalla imperiale genitrice aggiunto loro a soprantendente e quasi compagno Ulpiano, sommo giureconsulto ed assai profondo nel dirigere gli affari della giornata, e provvedere agli eventi futuri, le truppe adiratesi tramargli clandestina morte. Mamea, informatane, a prevenire tali macchinazioni fa torre la vita agli autori di sì malvagi consigli, e quindi la prefettura del pretorio è soltanto a lui commessa. Ma venuto pur egli in uggia agli eserciti (nè posso indicarne la precisa cagione variando in proposito gli scrittori) e congiuratogli contro, giace spento, l’imperatore stesso adoperatosi indarno a recargli soccorso. I militi quindi, a poco a poco disaffezionata la persona d’Alessandro, lenti mostravansi a farne i comandi, e nel timore non fosse castigata lor codardia provocavano a tumulti; ammutinatisi finalmente, inalzarono all’impero un Antonino, il quale sapendo i suoi omeri inetti a tanto peso, di fretta scomparve. Scelto allora un Uranio di servile condizione e presentatolo colla porpora ad Alessandro, era fomite d’odio contro all’imperiale persona. La quale titubante ne’ pericoli che da ogni parte attorniavanla, erasi affatto cangiata di corpo e di mentali facoltadi, e datasi in preda al morbo dell’avarizia, solo pensava ad accumulare danaro depositandolo presso alla madre12. Tali essendo i non ottimi suoi diportamenti, gli eserciti di stanza nella Pannonia e nella Misia, già mal disposti verso di lui, ora vie meglio allettati sentivansi alla ribellione. Rivoltavi dunque lor mente inalzarono Massimino, duce allora della Pannonica legione, all’impero. Questi, fatta massa di tutte le sue genti, camminò alla volta d’Italia, persuaso di assalire con minor disagio l’imperatore non postosi ancora sulla difesa. Alessandro trovavasi colle truppe soggiornanti al Reno, donde, nunziatogli quanto avveniva, corse viaggiando seguitamente a Roma, e promesso avendo tanto a Massimino quanto alle sue genti il perdono se ritraessersi dall’impresa, nè riuscito a richiamarli al dovere, espose, in certo modo, al suo fine la propria vita. Mamea intanto e di prefetti usciti del pretorio per sedare i tumulti, incontranvi morte. Venuto Massimino al possesso del già destinatogli impero, surse grande generale pentimento, cambiato avendo un moderato governo con acerba tirannia. Poiché Massimino, di basso lignaggio, ammantatosi non a pena di porpora, fidando nel potere ed oscurando le virtù ricevute dalla natura in dono13, rendeasi insopportabile non solo co' suoi ingiuriosi modi verso i personaggi in dignità costituiti, ma eziandio col trattare crudelissimamente gli affari e coltivare, ad eccezione di ogni altro, li calunniatori dinunzìanti que’ vogliosi di quiete come in debito verso al fisco imperiale. Passato in fine alle stragi dichiarava in proprio tutte le città per ispogliarle de' loro beni municipali. Laonde i popoli ai Romani soggetti comportavanne assai a malincorpo le sevizie, e de’ manifesti usurpamenti non poteano a meno di attristarsi. Il di che i Libici, nomati ad imperatori Gordiano ed il figlio, spedirono a Roma, unitamente ad altri ambasciatori, Valeriano, uom consolare e poscia salito in trono. Il senato, di ottimo grado approvate le antecedenti cose, apparecchiavasi a discacciare il tiranno, eccitando le truppe alla ribellione, e rammentando al popolo le villanie dai singoli in privato e da tutti pubblicamente sofferte. Avutosi concorde il generale parere, e cerniti dal corpo senatorio venti personaggi valenti nelle imperiali funzioni, costituisconsi intra di essi due con sommo potere, Balbino e Massimo14, e speditili a Roma pronti si tengono alla difesa. Massimino fatto sapevole di tali rumori, corre anch’egli la via di Roma colle Mauritane e Galliche truppe, ed essendogli da militi difensori d’Aquilea chiuse le porte, cingeli d’assedio. Osservando in seguito che i suoi parteggiatori alla per fine abbracciato aveano la causa della prosperità pubblica e consentitito al volere di quanti addimandavano la sua morte, ridotto ad estremo pericolo presentò alle truppe il figlio supplichevole, qual mezzo idoneo a trarlo dallo sdegno alla compassione. Quelle in cambio addivenute più irose uccidono la prole e quindi il genitore. Fuvvi in seguito chi avvicinatosi al cadavere e spiccatone dall’imbusto il capo, portollo a Roma in piena testimonianza della vittoria. Ma spenti in mare da veementissima burrasca gli inviati a Roma15, fu dal senato conferito il supremo comando a Gordiano16 figlio d’uno di essi, e lui imperante la città diede bando alla tristezza de’ tempi andati, il monarca divertendone il popolo cogli scenici e ginnastici ludi. Allorché poi tutti riavuti furonsi quasi da profondo letargo, si apprestano contro al monarca clandestine insidie, Massimo e Balbino mandandogli sotto mano parecchi soldati, per la cui presura soggiacquero a morte così gli autori stessi come non pochi altri complici della trama. Non guari dopo i Cartaginesi anch’eglino disaffezionatisi dal principe inalzano Sabiano17 all’impero; ma le truppe africane, richiamatele e tornate a prestargli obbedienza, consegnangli l’aspirante alla tirannide, e della commessa fellonia impetrato il perdono, liberansi dai sovrastanti perigli. Gordiano sposò intrattanto la figlia di Timesicle, addottrinatissimo personaggio, e ponendone il genitore alla prefettura del pretorio fe’ mostra di puntellarsi, a motivo della troppo verde età sua, nella pubblica amministrazione. Consolidato l’impero, tenevasi non i Persiani ad assalire le orientali nazioni attendessero la venuta di Sapore al trono dopo Artaserse, che toltolo ai Parti riunito avealo novamente ad essi. Imperciocché dopo Alessandro di Filippo ed altri successori del macedonico regno, comandando Antioco a tutte quelle più elevate satrapie, il Parto Arsace, a motivo dell’oltraggio fatto al germano Tiridate, mossa guerra al satrapo di lui, appianò la via a’ suoi nazionali di conquistare quel trono. Gordiano adunque compiati i necessarj apprestamenti si diresse a combattere i Persiani. Ora nel primo aringo, mentre si parea essere per uscirne vittoriosi i Romani, la morte di Timesicle prefetto del pretorio, molto diminuì l’imperiale fiducia intorno alla sicurezza del suo reggimento, poiché surrogato Filippo al defunto, la benivolenza dall’esercito portatagli a poco a poco scomparve; essendosi egli nativo dell’Arabia, iniquissima gente, nell’ascendere con pari malvagità a più grande fortuna lasciato sovvertire, appena ricevuta la magistratura, dalla cupidigia dell’impero, iva istigando con blandimenti ciaschedun milite ad imprendere novitadi. Vedendo inoltre mettere alla vela navi cariche di vittuaglia per le truppe, dimorando tuttavia l’imperatore alla testa loro presso i Carri e Nisibi, comandò che il marittimo convoglio trasferito fosse nell’interno, onde que’ soldanieri travagliati dalla fame e dalla penuria de’ bisogni della vita spinti venissero a garbugli. Il divisamento non diede in fallo. Le truppe dalla mancanza del fodero pigliata occasione assalgono, dimentiche affatto del proprio onore. Gordiano come per sua colpa elleno perissero di fame, e datagli morte vestono Filippo, giusta il convenuto, di porpora. Questi mediante giuri amicatosi con Sapore e sopita la guerra, viaggia a Roma, aescando gli animi de’ militi con generose largizioni, e spedisce messi alla città onde annunziassero la morte di Gordiano per malattia. Giuntovi di poi egli e con modesta allocuzione guadagnati gli animi de’ personaggi conscritti nell’ordine senatorio, stabilì conferire le più insigni magistrature a’ suoi maggiori benevolenti. Elesse pertanto il germano Prisco alla capitananza degli eserciti nella Siria, e prepose il genero Severiano alle coorti della Misia e della Macedonia. Ritenendosi di tal modo fermamente stabilito in trono, pose mano alla spedizione contro de’ Carpi già predatori de’ luoghi prossimani all’Istro. Venuti a battaglia, nè potendo i barbari far petto all’impeto dei nostri, riparano colla fuga in un castello, ove poscia vengono assediati. Ma vedute lor genti qua e là disperse novamente riunirsi, pieni d’animo uscendone attaccano i nemici. Se non che inetti a respignere l’urto de’ Mauri, cominciano a parlare d’accordi, e Filippo volentieri consentitovi abbandona quel luogo. Suscitatisi intrattanto nella repubblica tumulti, altre delle orientali provincie gravate essendo, nè poco, dalle riscossioni de’ tributi, ed in altre addivenuto Prisco, a motivo del commessogli rigido comando, incomportabile a tutti, scelsero Papiano18 a loro capo, ed i Misj ed i Pannonj dichiararonsi ligj di Marino. Filippo conturbatosi, udendone, pregava il senato che volesse o aitarlo ne’ sovrastanti mali, o, disapprovando il suo impero, accettarne la rinunzia. Non avendone risposta, Decio, fregiato di tutte le virtù, e di sangue ed onoranze illustre: indarno, disselli, abbandonarsi al timore, poiché ogni tumulto da sè stesso recherebbesi a nulla, i ribelli non potendo in conto alcuno resistere lungamente. Ma sebbene a tali congetture in effetto corrispondessero gli eventi, duratasi pochissima fatica a togliere di mezzo Papiano e Marino, Filippo non cessava da’ suoi timori, nota essendogli l’avversione dalla soldatesca portata ai tribuni e comandanti di que’ luoghi. Scongiurava pertanto Decio che si mettesse a capitanare le coorti site nella Misia e nella Pannonia; questi vi si rifiutò, estimando l’offerta nè a lui nè a se stesso conveniente. Filippo allora ricorso ad una Tessala persuasione, come suol dirsi, non iscompagnata da costringimento, lo manda nella Pannonia a gastigarvi i fautori di Marino nella congiura. Se non che le truppe al mirar Decio coll’ordine di punire i colpevoli risolverono, estimandolo miglior consiglio, rimovere il pericolo innanzi ai loro piedi, scegliendosi un imperatore più adatto al reggimento della repubblica, e molto esperto nelle militari e civili faccende, onde con minor disagio vincere il regnante. Vestito adunque di porpora lo stesso Decio, obbligandolo, suo malgrado e molto di sè stesso paventando, a trattare le redini del governo. Filippo uditone e messi in punto gli eserciti, muove a dargli la stretta. I Deciani, quantunque conoscessero di aver che fare con avversarj molto superiori di numero, fidavano tuttavia nella perizia e generale prudenza del comandante loro. Venuti alle armi gli eserciti l’uno più forte di gente e l’altro per la militare bravura del condottiero, molti del primo caddero, infra cui Filippo stesso ed il figlio19, dal genitore inalzato all’onoranza di Cesare. Non altramente Decio pervenne all’impero. Surtì del resto, colpa la codardia di Filippo, da per tutto scompigli, que’ della Scizia, valicato il Tanai, ivano tempestando con iscorrerìe i luoghi prossimani alla Tracia. Il perchè Decio, assalitili, e vincitore mai sempre ne’ combattimenti, lor toglie la fatta preda, e ad impedirne il ritorno alle proprie case tenta ogni mezzo, chiudendo i passi, di affatto sterminarli, ond’e’ non avessero in seguito a rivenire con nuove truppe. Al qual uopo consegnato a Gallo sufficiente milite, e postolo a guardare la ripa del Tanai, egli, condottiero delle rimanenti legioni, vie più avvicina il nemico. Procedendo giusta i suoi desiderj la impresa, Gallo rivoltosi a macchinar novitadi, invia messi ai barbari esortandoli a seco unirsi per tendere insidie all’imperatore. Queglino, cupidissimamente accogliendone la proposta, nè abbandonando il traditore i margini dell’antedetto fiume, divisi in tre schiere, pongono la prima attelata laddove il luogo presentava di fronte la palude. Quivi, dopo molta strage di essa fatta dalle genti Deciane, sopraggiunge eziandio la seconda, e similmente fugatala compariscono pochi militi della terza lunghesso la palude. Ora Decio, consigliato dal fellone d’investirli lì entro, imprudentemente, non conoscendo il suolo, inoltratovisi colle truppe avviluppato rimane dalla melma; gli Sciti allora saettando da ogni parte dando così morte ad esso ed a tutte le sue genti, nessuno affatto riuscito essendo a togliersi da quell’impaccio. Decio, retto egregiamente l’impero, soggiacque a tal fine. Non a pena salito in trono Gallo e dichiarato augusto il figlio di Volusiano, per indurlo a tacere le sue insidie contro alla vita di Decio e delle truppe, gli Scitici affari pigliarono a correre prospera fortuna. Imperciocché oltre all’accordar loro qualche annuale somma di pecunia20 ed il retrocedere nelle proprie frontiere colla preda, tollerò che seco trasportassero i più illustri personaggi rinvenuti in molto numero, conquistata Filippopoli della Tracia, nella caterva de’ prigionieri. Terminate nell’antedetto modo queste faccende, Gallo, a grandi speranze elevatosi per gli accordi stipulati co’ barbari, entrò in Roma, e nel principio del suo governo con onore e benevolenza rammentava Decio, adottandone eziandio l’unico sopravvivente figlio; ma quindi pigliato da timore non gli avvezzi a macchinare tumulti, dirizzando qualche volta lor menti alle regali paterne virtù, mettessene la prole in trono, apprestale, smenticando la fattane adozione e l’onesto, insidiosa morte. A cagione poi del suo trascurato reggimento gli Sciti, da prima ricolme di terrore le prossimane genti, e poscia inoltratisi pian piano, guastavano le regioni poste vicino allo stesso mare; cosicché nessun popolo della Romana signoria andava esente dai costoro ladroneggi, anzi tutte, sarei per dire, le città non murate ed anche la maggior parte di quelle aventi mura, venivano da loro assalite. Nè meno della generale guerra un contagioso morbo21 quindi sopraggiunto consumò il resto della umana stirpe, recando strage mai più udita ne’ secoli trascorsi. In tale condizione di cose i monarchi, impossibile veggendo il difendere tolta la repubblica, trascuravano per intiero ogni luogo posto fuori di Roma. Laonde i Gotti novamente, i Borani, gli Urugundi e li Carpi, saccheggiando le città dell’Europa spogliavanle di quanto vi rimanea. I Persiani invadevano l’Asia, ed occupata la Mesopotamia, procedevan oltre nella Siria medesima insino ad Antiochia. Espugnata alla perfine questa metropoli di tutto l’oriente, uccisa parte de’ suoi abitatori, parte condotta in ischiavitù, e distrutti gli edifizj di privata e pubblica ragione senza incontrarvi ostacolo, riparavano pieni di ricchissimo bottino alle proprie case. E certo riusciti sarebbero ad impadronirsi dell’Asia tutta se allegri della fatta preda e bramosissimi di conservarla, divisato non avessero di trasferirsi con essa in patria. Gli Sciti poi, quanti erano a dimora in Europa, menandovi sicurissima vita, messo ora piede anche nell’Asia, portato aveano lor armi devastatrici nella Cappadocia, in Pisinunte ed Efeso. Il di che Emiliano imperante le Pannoniche legioni, animatele come seppe il meglio, poco disposte essendo a cimentare la prospera nemica fortuna, diedesi improvviso ad assalirli; fattane grandissima strage, ne travalicò i confini, e data morte a quanti raggiunsene, fuor d’ogni speranza tornò al Romano impero i giacenti sotto al barbarico furore, ed in premio dell’operato i suoi militi lo innalzarono al trono. Ragunate poscia le schiere di que’ luoghi, addivenute mercè la ottenuta vittoria più coraggiose, mosse alla volta d’Italia per chiamarvi a battaglia lo sprovveduto Gallo. Costui, affatto all’oscuro delle orientali faccende, iva fortificandosi del suo meglio, e deputava il duce Valeriano a condurre le Galliche e Germane legioni. Emiliano con prestezza somma trasportata avendo in Italia sue genti, all’avvicinarsi degli eserciti le truppe di Gallo vedendosi molto inferiori di numero, ed in pari tempo considerando la infingardaggine e negligenza del comandante loro, uccidonlo insiem col figlio, ed una parte di esse corre ad unirsi all’esercito d’Emiliano; il fatto sì parea dare stabilità all’impero. Valeriano passato in Italia colla soldatesca in gran numero raccolta di là dalle Alpi, ritenea vincere prontamente Emiliano; le costui genti allora mirandosi comandate meglio alla foggia militare che a quella imperiale, come disadatto al trono mettonlo a morte. Valeriano con generale approvazione asceso al supremo potere, dedicatasi a comporre idoneamente le comuni bisogne. Gli Sciti a que’ dì oltrepassarono i proprj confini, ed i Marcomanni anch’eglino, guastando con iscorrerie i luoghi presso alle Romane Frontiere, sospinsero Tessalonica ad estremo periglio. Se non che li suoi abitatori animosamente e con grandissima fatica resìstendo al nemico, obbligarono, abbandonato l’assedio, a ritirarsi. Tutta la Grecia era sottosopra. Gli Ateniesi misuravano lor mura, trascuratele affatto dopo l’epoca in cui furono da Siila rovinate. Que’ del Peloponneso circondavano anch’essi l’istmo di muro, ed in tutta la Grecia aveanvi pubbliche guardie a difesa della regione. Valeriano, osservato il perìcolo minacciante ovunque il proprio dominio, associasi nell’impero Gallieno, sua prole, e, da ogni banda incalciandolo gli affari, piglia la via d’oriente per tenere indietro i Persiani; consegna gli eserciti d’Europa al figlio, esortandolo a guerreggiare con essi i barbari approssimantisi ostilmente da per tutto. Gallieno esperimentati li Germani più nocivi d’ogni altro, molestando con maggiore asprezza le Galliche nazioni non lunge dal Reno, attende a proteggere le costoro frontiere. Ordina parimente a’ suoi duci cogli eserciti per l’Italia, l’Illirico e la Grecia di combattere chiunque procacciasse raccorre preda in que’ luoghi. Egli poi, custodendo i valichi del Reno, ora impediva del suo meglio ai barbari il passo, ed ora opponeva ai tragettanti le truppe in armi. Con tutto ciò, fornito di assai poca milizia contro a sì numerose scorrerie, le cose ridotte erano di già alle strette; legatosi allora con tal principe della Germania, parve in qualche modo il pericolo scemato, vietando questi al nemico il continuo valicare del fiume, e respingendo chiunque armata mano procedeva innanzi. Tale era la condizione degli abitatori presso a quelle acque. I Borani similmente, i Gotti, i Carpi e gli Urugundi (nomi delle nazioni a dimora presso l’Istro) non lasciavano luogo veruno dell’Italia e dell’Illirico esente da molestia, ponendone tutta la regione, senza incontrare oppositori, a ruba. I Borani adoperavansi altresì nel metter piede in Asia, e riuscironvi aiutati dagli abitatori del Bosporo, i quali, anzi da timore indotti che da buona volontà, fomironli di navi, e fecersi loro guide nel tragitto. Imperocché eglino durante il governo de’ proprj regi ed al padre succedendo il figlio, stretti così di amicìzia e commerciali vantaggi al popolo Romano, come per le annue largizioni ricevute, impedivan sempre gli Sciti dal recarsi in Asia; ma spenta la regale schiatta, e vili ed abbietti personaggi postisi al governo loro, dottando per sè stessi, consentivano ai barbari lo entrare pel Bosporo in Asia, trasportandoveli di più coi proprj vascelli, e quindi riconducendo questi indietro. Laonde gli Sciti, predatori di quanto paravasi loro innanzi, eran cagione che i domiciliati ne’ lidi marittimi del Ponto abbandonassero il suolo nativo per trasferirsi in quello mediterraneo, dando la preferenza ai luoghi fortificati. Da principio eglino tentarono Pitiunte circondata di muro grandissimo ed avente assai comodo porto. Ma Sucessìano, ivi ai comando, assalitili colle sue truppe costrinse a retrocedere, e queglino temendo, al divulgarsi la fama dell’avvenuto parimente negli altri castelli, non tutti que’ popoli unitisi alle milìzie di Pitiunte cercassero disterminarli, pigliata ovunque ne rinvennero immensa copia di navi con sommo pericolo e ben minorati di numero per la strage tocca nella Pitiuntina guerra, tornarono alle terre natali. Per verità gli abitatori del Ponto Eussino, salvati dal condottiero Sucessiano, fiduciavano che mai più i nemici accingerebbonsi ad attraversarlo, stati essendo nell’indicato modo battuti. Se non che da Valeriano richiamatosi il duce per nomarlo prefetto del pretorio, e seco lui combinare gli affari ed il ristauramento d’Antiochia, i barbari novamente, provveduti dai Bosporani di vascelli, tragittano quello stretto. Ritenuti quindi i legni, nè (giusta l’operato innanzi) concesso ai padroni di rimenarli seco, navigano lungo il Fasi dove raccontano sorgere il tempio intitolato a Diana Fasiana e la reggia di Eeta; indarno accintisi ad occupare il primo, corrono direttamente a Pitiunte. Vinto il castello e discacciatene le guardie procedon oltre. Favoriti da propizia stagione, tutta quasi la state, e ricchi di navi e mancipj periti nel trattare il remo, batton la via di Trapezonte, grande e popolata città, la quale a rinforzo del consueto presidio ricevuto avea altri dieci mila guerrieri, ed avvegnachè cingesserne d’assedio il doppio muro, e’ neppure in sogno speravanne la dedizione; viste impertanto quelle truppe amanti della infingardaggine ed ubbriachezza, nè più sollecite a difenderlo, immerse ognora nelle gozzoviglie e beverie, accostanvi dalla parte accessibile di già preparati alberi, e con tal mezzo nelle ore notturne pian piano superatolo conquistano la città. Molti del presidio allora spaventati dalla improvvisa comparsa là entro del nemico metton lor vita in salvo fuggendo per altre porte, ed il resto cade vittima del ferro. I barbari venuti al possesso dì Trapezunte raccolgonvi immense ricchezze e molti prigioni, tutti confinanti essendovisi ricoverati come luogo munito. Distrutti finalmente i templi, gli edifìci e quanto aveavi dì elegante e sontuoso, travagliata inoltre con iscorrerie nel suo interno tutta la contrada, tornano, sopra copiosissimo naviglio alle abbandonate loro sedi. I popoli di permanenza alle costoro frontiere, vedutone l’opulento bottino condotto in patria, ed incitati dalla cupidigia di fare altrettanto, posti eransi a fabbricare navi coll’opera degli schiavi e di altri, dall’indigenza costretti, giuntivi ad aiutarli. Stabilirono tuttavia di non curarsi del suolo visitato colla navigazione dai Borasi, poichè lunga e malagevole riuscirebbe l’andata per luoghi messi già a ruba. Aspettato dunque il verno lasciano a sinistra il Ponto Eussino accompagnati celeremente dalla soldatesca a piede lungo, quanto meglio da lei si potea, i margini, ed oltrepassato l’Istro, Tomea ed Anchialo, riescono al lago Fileatina, il quale, verso il solstiziale occidente di Bisanzio, giace presso del Ponto. Qui fatti sapevoli che i pescatori del lago ascosi eransi colle barche loro nelle vicine paludi, mediante promesse ottengonne l’amicizia, e locate le pedestri coorti sopra que’ legni, avviansi a tragittare lo stretto infra Bizanzio e Calcedone. Ora sebbene da questa sino al tempio costruito alla bocca del Ponto avessevi una guernigione assai più forte de’ barbari là diretti, parte nientemeno di essa abbandonò il luogo, pretestando farsi ad incontrare il duce spedito dall’imperatore, e parte fu da così grave timore sorpresa, che alla prima voce di quanto era per succedere si volse con frettoloso passo in fuga. Laonde i barbari, trapassato senza opposizione lo stretto, ed occupata Calcedone, predaronvi armi, danaro ed altre doviziosissime suppellettili. Di là camminano a conquistare Nicomedia, vastissima città, avventurosa ed assai celebre per le sue ricchezze e copia di tutto. Ma quantunque, precedutone il grido, i cittadini fossersi già colle amovibili sostanze allontanati, pur eglino, maravigliati di quanto rimaneavi, trattavano Crisogono con ogni maniera d’onoranza e rispetto, perchè da pezza indotti aveali ad intraprendere quel viaggio. Scorrazzate poi coll’egual metodo e Nicea, e Cio, ed Apamea e Prusa, avviaronsi a Cizico. Qui rinvenendo il fiume Rindaco gonfiato dalle piogge e corrente carichissimo d’acque, e’ tentatane vanamente il trapasso fecersi indietro: mandate quindi a fiamme e fuoco Nicea e Nicomedia, e posta la preda sopra carra e navi, risolveronsi tornare in patria, mettendo così fine al secondo scorrimento. Valeriano uditi gli sconci della Bitinia, non osava per diffidenza commetterne la difesa contro de’ barbari ad alcun duce; spedito dunque Felice a guardare Bizanzio, egli, abbandonata Antiochia, inoltrò infino alla Cappadocia, e solo di passaggio visitando le cittadi retrocedeva. La peste messo piede negli eserciti e spentane la maggior parte, Sapore assalito l’oriente appropriatasi il tutto. Valeriano intanto, colpa la sua effeminatezza e codardia, disperando sollevare la repubblica da tante e così gravi angustie, pensò col danaro terminare la guerra, e spediti all’uopo ambasciatori, il re accommiatolli senza conchiuder nulla, chiedendo che lo stesso imperatore si recasse a favellar seco intorno ad affari di sua pertinenza. Egli privo affatto di senno consentendo alla proposta, e sconsigliatamente direttosi con assai ristretto corteo alla volta del nemico per trattare di pace fu subito arrestato dalle regali truppe, e costretto a terminare la vita prigioniero in Persia con disonore sommo, presso ai posteri, del nome Romano. Così andando le orientali faccende, aveavi generale bisogno d’ordine e difesa. Tutti gli Sciti, gente e nazione, formato di comun accordo un sol corpo, ivan con parte de’ loro mìliti predando l’Illirico e guastandone le città; entrati col resto nell’Italia procedevan oltre dirigendosi alla stessa capitale. Il senato, in assenza di Gallieno tutto intento alle Germaniche guerre di là dalle Alpi, vedendo la città esposta a gravissimi disastri, fatte impugnare le armi alle truppe ivi di stanza, ed ai più valorosi della plebe, mise in assetto un esercito maggiore dello Scitico, ed il nemico intimoritosi abbandonò Roma, non cessando impertanto di maltrattare da ogni banda, quasi dissi, l’Italia. Ridotto agli estremi l’Illirico dalle costoro vessazioni, ed il Romano impero sconvolto in modo che più non sapea se fosse tuttavia per sussistere, fecevi comparsa tanto grave pestilenzioso morbo quanto giammai per lo addietro, a memoria d’uomini, stato era, il quale rendea meno penose le barbariche scelleraggini, reputandosi gli incolti da esso beati, e pur beate le cittadi infette e addivenute per la grande mancanza di abitatori deserte. Gallieno, turbatosi all’annunzio di tante miserie, tornava a Roma onde respignere le Scitiche armi portate contro all’Italia; quivi macchinavangli insidie Cecrope Mauritano, Auriolo, Antonino e molti altri, pagandone quasi tutti il fio; Auriolo solo proseguiva a contradiare l’imperatore. Postumo, comandante della milizia presso ai Celti, rivolse anch’egli in appresso l’animo a ribellione, e colle truppe disertale seco battè la via tendente ad Agrippina, vastissima città sita al Reno, assediandovi Salonino figlio di Gallieno, e minacciandolo che non partirebbesi di là prima di averlo in sue mani. Costretta la guarnigione dall’assedio a rassegnare il duce e Silvano destinatogli dal padre a governatore, il fellone, uccisi ambedue, si fe’ padrone dei Celti. Mentre gli Sciti22, espugnata la stessa Atene, ivano disastrando in funestissima guisa la Grecia, Gallieno divisò combattere que’ venuti già al possesso della Tracia, e perduta ogni speranza intorno agli affari d’oriente, addimandò soccorso a Odanato, nativo di Palmira, ed onorato grandemente infin dal tempo de’ suoi antenati dagli imperatori. Questi, unito avendo le numerosissime sue truppe ai Romani eserciti quivi a dimora, affrontò valorosamente Sapore, ed impadronitosi di molte città ligie della Persiana monarchia, distrusse, vinta colle armi, la stessa Nisibi dal re soggiogata ed unita al resto del suo dominio. Nè solo una volta, ma due inoltratosi a Ctesifonte chinsevi, rincacciati entro le munizioni loro, i Persiani, felici se con la prole e le donne riuscir potessero a campare la vita. Quindi riordinò del suo meglio, come oprar solea, la guastata regione. Odanato ritiratosi poscia in Emisa, e serbandovi tal quale nativa rinomea, fuvvi insidiosamente ucciso. Zenobìa, sua donna e d’animo virile fornita, assunse allora il maneggio degli affari, ed assistita dai famigliari del consorte appalesavasi non meno esperta nel condurli a buon fine. Tale addivenuta la condizione dell’oriente, giunge avviso a Gallieno, sempre avvolto nella Scitica guerra, che Aureliano23, comandante delle milizie in arcione e destinato a tener d’occhio presso la città di Milano il passaggio nell’Italia di Postumo, brogliava cercando appianarsi la via del trono. Conturbatosi, udendone, corre alla volta d’Italia, fidando il proseguimento di quella guerra a Marciano, espertissimo duce nelle belliche imprese. Intanto che questi felicemente capitanava le truppe, Gallieno, battendo sempre il cammino ver l’Italia, cadde in insidie. Eracliano, prefetto del pretorio, associatosi nella trama a Claudio, il quale si parea governar dovesse la repubblica spento Gallieno, studiasi dargli morte. Avendo all’uopo trovato nel condottiero delle genti Dalmate un prontissimo esecutore, commetterli la stabilita uccisione. Presentatosi costui all’imperatore stante al desco cenando, e dettogli che una spia riferito avea prossimo l’arrivo d’Auriolo colle truppe, bastò a spaventarlo. Fattesi dunque portare le armi e salito in sella, accennava ai militi di tenergli dietro armati, nè attese tampoco le sue guardie, diede degli sproni al cavallo, il sicario pertanto, osservatolo senza difesa, tosto l’uccide. Le milizie, per comandamento de’ loro capi, rimase immobili, Claudio ottiene l’impero, stato essendogli per comun voto anche da prima consentito. Auriolo a bastanza lungamente guardatosi dal cadere in potestà di Gallieno, mandò ambasciadori a Claudio con proposte di pace; arrendutosi, ha morte dalle milizie circondanti il principe, fervente in esse tuttavia lo sdegno a motivo dell’oltraggio l’atto, disertando, alle imperiali bandiere. In questo tempo tutti gli Sciti sopravviventi, baldanzosi per la buona riuscita delle intraprese spedizioni, pigliati a compagni gli Eruli, i Peuci ed i Gotti, fecero massa appo il fiume Tira, versante le sue acque nel Ponto; di là fabbricate sei mila navi e postivi sopra trecento e venti mila guerrieri, mettono alla vela dirigendosi al Ponto; assalita quindi Tomis, città murata, furonne respinti. Proceduti oltre pervengono a Marcianopoli, della Misia, nè giunti a conquistarla sempre più inoltrano favoriti da propizio vento. Navigato in seguito allo stretto della Propontide le moltissime navi inette a reggere alla celerità del flusso, e disordinatamente in moto, non avendovi più ai timoni piloti, urtavansi a vicenda, cosicchè numero di esse affondò, e parte colle genti sopravi, parte vuote, raggiunsero i lidi con perdita d’uomini e di naviglio. Laonde ritiratisi da quello stretto navigarono a Cizico. Pur da quivi partiti a man vuote, dirizzarono le prore lunghesso l’Ellesponto; arrivati al monte Ato e racconciativi i legni, assediarono Casandria e Tessalonica, alle cui mura condotte le macchine, erano per addivenirne possessori. Ma udito l’avvicinamento del principe con truppe indirizzaronsi ai luoghi mediterranei saccheggiando tutto il suolo presso Dobero e Pelagonia. Nel quale scorrimento, sopraggiunti all’imprevista dalla Dalmata cavalleria, giuntarono tre mila guerrieri. Appiccatasi dal resto battaglia coll’esercito imperiale, e molti dall’una e dall’altra parte spenti, i Romani erano per voltare le spalle; se non che pe’ sentieri non vedendo impresse mortali orme assalirono di sorpresa i barbari uccidendone da cinquanta mila. Qualche numero di Sciti passatisi nella Tessaglia e nella Grecia poneano dappertutto a sacco le contrade, nè potendo espugnarne le città, munitesi accuratamente di muro e d’ogni necessaria difesa, menavan seco le genti rinvenute ne’ campi. Mentre i dispersi Sciti ivano errando siffattamente e perdendo gran quantità dei loro, Zenobia, mirando a più nobili geste, spedisce Zabda24 nell’Egitto, un Timagene di là signoreggiare volendo l’Egiziaca Palmira. Il duce pertanto raccolto un esercito di Palmireni, Sirj e barbari, e venuto alle armi con cinquanta mila Egiziani esce dall’arena di gran lunga vincitore, e posta nella città una guernigione di cinque mila combattenti, volge indietro i suoi passi. Probo25, mandato dall’imperatore a purgare il mare dai pirati, alla nuova che i Palmireni occupavano l’Egitto combatteli colle sue truppe unitamente agli stessi Egiziani loro avversarj, e ne discaccia il presidio. Ricomparsi non di meno i vinti con esercito, e Probo a simile raccolte Egiziane ed Africane milizie, la vittoria dichiarassi uovamente per queste, le quali fugarono dai loro confini i Palmireni. Dopo di che il Romano duce occupato avendo un poggio vicino a Babilonia, e di là postosi ad impedire ai nemici il transito nella Siria, Timagene assai pratico di que’ luoghi, ascesa con due mila Palmireni la sommità del monte, piombò addosso agli imperiali, col pensiero ben lunge da tale sorpresa, e ne fe’strage. Infra costoro egli s’impadronì dello stesso Probo, il quale diedesi morte colle proprie mani. Addivenuto l’Egitto conquista de’ Palmireni, tutti i barbari campati dalla battaglia tra Claudio e gli Sciti disputata a Naisso, nell’avviarsi provveduti di carra in Macedonia, oppressi dalla fame per mancanza di vittuaglia, uomini e quadrupedi, giacean morti. I Romani cavalieri proceduti oltre, e raggiuntili, molti ne uccisero, e costrinsero gli altri a calcare la via d’Emo. Quivi circondati interamente dal Romano esercito incontravan nuova e non lieve perdita. Surte poscia contese infra’ pedoni ed i cavalieri, l’imperatore estimò spedire i primi contro ai barbari; passati a battagliare, i Romani abbandonavano il campo, nè basso era di già il numero de’ loro morti, quando arrivata la cavalleria si potè in gran parte rimediare allo sconcio per la mala condotta de’ fanti sofferto26. Allontanatisi gli Sciti perseguitati sempre dai Romani, quelli che sopra navi trasferiti eransi a Creta e Rodi si partirono senza imprendere nulla meritevole di ricordanza. Tutti poi stati essendo incolti dalla moria, gli uni uscirono di vita in Tracia, e gli altri in Macedonia, ed i pochi sopravvissuti o militarono sotto i Romani vessilli, o rinvenuto suolo da coltivare dedicaronsi all’agricoltura. Dopo che il pestilenzioso morbo cominciato avea parimente a menar strage de’ Romani, estinguendone alto numero in ispecie nell’esercito, Claudio pur egli terminò sua vita, personaggio quanto dir si può ricolmo di virtudi, lasciando gran desiderio di sè presso l’universale. Fu quindi elevato all’impero Quintillo, germano del defunto, ma vissuto pochi mesi e nulla fatto da tramandarsi alla posterità, vien conferito ad Aureliano il trono. Intorno poi alla morte di Quintillo riferiscono alcuni istoriografi che i suoi affini stessi persuaso avendogli, non a pena divulgatosi il comun voto per l’inalzamento di Aureliano all’impero, di apprestarsi la morte, per cederlo volontariamente a chi avea meriti di gran lunga maggiori, egli v’acconsentisse, e tagliatagli la vena da un medico lasciasse correre il sangue infino alla estinzione della vita27. Aureliano rassicurato l’impero uscì di Roma, e pervenuto ad Aquilea accostasi quindi alle Pannoniche nazioni, sapendo ch’elle andrebbero tra poco soggette alle Scitiche scorrerie. Mandò poscia esploratori coll’avviso di portare nelle città le vittuaglie, i quadrupedi, e quant’altro esser potea profittevole ai nemici; e’ pensava rendere di questa guisa operando maggiore la fame che travagliava di già gli Sciti. Valicatosi da costoro il fiume e battagliato nella Pannonia con dubbia sorte, il calar delle tenebre lasciò ad entrambi incerta la vittoria. Nella notte medesima i barbari tornati a tragittare il fiume, comparsa non a pena l’aurora inviavano messi per trattare di pace. L’imperatore informato che gli Alamanni, legatisi colle più remote nazioni confinanti, stabilito aveano di molestare con iscorrerie l’Italia, pose nella Pannonia un grosso presidio, e curante a buon diritto assai più Roma ed i vicini luoghi, viaggiò a quella volta, e nei confini di lei presso l’Istro cimentata la sorte delle armi distrusse molte migliaia di barbari. In Roma trattanto accusati furono alcuni senatori siccome partecipi delle insidie tese al principe, e condannati al supplizio estremo28. La città venne a que’ dì cinta di mura, non avendone per lo innanzi, ed incominciatesi da lui ebbero compimento sotto l’impero di Probo29. All’epoca stessa caddero in sospetto di congiure Epitimio, Urbano e Domiziano, messi detto fatto agli arresti soggiacquero al dovuto gastigo. Condotti non altramente gli affari d’Italia e della Pannonia, l’imperatore divisava por mano ad una spedizione contro de’ Palmireni conquistatori de’ popoli Egiziani e dì tutto l’oriente insino ad Ancìra della Galazia; costoro di più erano per estendere il proprio dominio alla stessa Calcedone della Bitinia, se quelle genti, all’udire l’innalzamento d’Aureliano al trono, rigettato non avessero la Palmirena dominazione. Il principe dunque inoltratosi coll’esercito occupò Tiana30 e tutte le città infino ad Antiochia, ove trovata Zenobia alla testa di numerose genti, apparecchiatosi pur egli alla pugna, come era di ragione, movea ad incontrarla. Se non che osservando i cavalieri Palmireni coperti di greve armatura, quindi invulnerabili, ed anche assai più valenti de’ suoi nel cavalcare, locò in disparte la fanteria di là dal fiume Oronte, e commise ai militi in sella di non venire eglino stessi a battaglia con tutta la cavalleria nemica, bensì alla costei impetuosa affrontata fingerebbero mettersi in fuga, continuandola finattantochè la mirassero, fiaccata dal caldo e dal peso delle armi, cessare dal perseguitarli. I Romani cavalieri, obbedienti al comando, non a pena osservati gli avversarj stanchi e fermi sugli affaticati cavalli, volto il corso investironli, ed al cader giù d’arcione di lor posta ne fecero strage, gli uni avendo morte dal ferro, e gli altri tanto dai proprj destrieri, quanto da quelli Romani, ed i pochi sottrattisi dallo sterminio fuggendosi si ridussero in Antiochia. Zabda, condottiero de’ militi di Zenobia, paventando non gli Antiocheni cittadini, al divulgarsi il tristo esito della battaglia, prendessero ad inveire contro de’ suoi, avvenutosi ad uom mezzo canuto, ed avente in certo qual modo l’imperial volto ed aspetto, vestito a simile come solea Aureliano battagliando. In conduce nel centro della città, quasi pigliato avesse vivo l’imperatore. Con quest’arte ingannati gli Antiocheni e di notte tempo col resto dell’esercito abbandonata la città, giunse, menando seco Zenobia ad Emisa. Aureliano propostosi di scacciare da tutti que’ prossimani luoghi, all’alba del seguente giorno, i vinti e fugati nemici, richiamava le pedestri coorti, ma informato della scomparsa di Zenobia entrò in Antiochia, accoltovi con massimo giubilo dalla popolazione. Udito poi che molti seguaci della fuggitiva allontanati eransi da quelle mura per tema di soggiacere a qualche infortunio, mandati da per tutto bandi esortavali a tornare, attribuendo lor passate vicende meglio a costringimento e necessità, che ad arbìtrio e proprio volere. L’imperatore accolse benignamente costoro al restituirsi, in virtù degli annunzj, nella città, ed accomodate le urbane faccende passò ad Emisa. Conosciuto in seguito che alcuni Palmireni occupato aveano un colle a cavaliere del sobborgo Dafne, estimandolo per la grande ertezza impedimento al transito de’ suoi, egli animólli ad ascenderlo tenendo insiem congiunti gli scudi e serrate le file, di questo modo se per avventura lanciati fossero dal nemico dardi o sassi, ributtati verrebbero dall’addensamento della falange; tutti mostraronsi di buon grado pronti ad eseguire il comando. Saliti il ripido monte giusta le prefate istruzioni, e livellatisi affatto co’ nemici li posero in fuga, nella quale molti al cadere per que’ dirupi fracassaronsi le membra, ed il resto, quanti lassù ricoverati eransi, cadde sotto il ferro de’ persecutori. Dopo la riportata vittoria Aureliano, apertosi un valico libero da timore ed opposizione, mettea piede in Apamea, Larissa ed Aretusa. Vedendo poi l’esercito de’ Palmireni a campo davanti Emisa, e saputone il numero, compresi gli aiuti, ascendere a settanta mila combattenti, steccossi loro di contro i Dalmati, Misii e Pannonj a cavallo, aggiuntivi parimente i Norici ed i Rezii, Celtiche legioni. Eranvi inoltre i guerrieri più cospicui, e sopra tutti chiarissimi per nome di valore, della pretoriana coorte. Di più avea seco i Mauritani cavalieri e le Asiatiche milìzie di Tiana, della Mesopotamia, Siria, Fenìcia e Palestina coraggiosissimi di verità nelle pugne. I Palestinesi finalmente alle consuete armi univano mazze e bastoni. Venuti all’aringo gli eserciti, parve ripiegasse la Romana cavalleria per non rimanere occultamente e fuor d’ogni aspettazione circondata dalla moltitudine de’ cavalieri Palmireni superiori di numero e posti all’intorno dell’imperiale ordinanza. Costoro, al ritirarsi del nemico abbandonate le file per incalciarlo, travolserne affatto i divisamenti, poichè trovandolo ben inferiore di numero assai lo tempestavano. Dopo molta strage in fine l’esito di tutta la zuffa si ridusse a dipendere dalla bravura de’ pedoni, i quali osservato lo schieramento de’ Palmireni rotto, pigliarono ad assalire i disordinati qua e là sparsi. Ebbevi allora eccidio, gli uni colle armi consuete molestando gli avversarj, ed i Palestinesi colle mazze e bastoni menando colpi ai coperti di metalliche o ferree loriche, foggia di combattere cui è uopo attribuire gran parte della vittoria, sbigottirono gli avversari colle percosse di nuovo conio. I Palmireni fuggendo precipitosamente calpestavansi a vicenda, e riportavan morte dal nemico. Apparve di poi il campo della battaglia pieno di cadaveri d’uomini e cavalli, ed i sottrattisi dallo sterminio ripararono in Emisa. Zenobia afflittissima, nè a torto, per la tocca sconfitta, iva consultando premurosamente intorno al da farsi nelle attuali faccende. Tutti da ultima convennero di abbandonare ogni speranza rapporto alle bisogne Emisene, i cittadini stessi, ora avversi a lei, seguendo le parti Romane. Volersi dunque occupare Palmira, e riposta la propria salvezza in quella munita città, volgere con maggior quiete il pensiero alle presenti urgenze. Detto fatto, non avendovi chi si opponesse a tale deliberazione. Aureliano, udita la fuga di Zenobia, entrò in Emisa lietamente accoltovi dalla cittadinanza, ed impadronitosi delle ricchezze che la fuggitiva potuto non avea trasportar seco, di subito avviossi coll’esercito a Palmira. Giuntovi e circondatala di trincee persisteva nell’assedio postovi, fornite essendo le truppe di vittuaglia dalle vicine genti. I Palmireni fra questo mezzo beffavano il nemico, inespugnabili estimando le difese mura; se non che mentre da taluno era svillaneggiato con oltraggiose dicerie l’imperatore stesso, un Persiano lo avvicina dicendogli: Comandami, o Sire, e tosto mirerai privo di vita il maldicente. Riportatone l’imperiale consentimento, egli, fattosi riparare da alcuni militi onde non dar nell’occhio, tende l’arco ed assettatovi un dardo lo scocca; questo di subito andato a conficcarsi in chi girando tuttavia gli occhi fuori de’ merli prose dal muro, spettatori essendone il principe e le truppe. Gli assediati perseveranti nella difesa, pieni di speranza che il nemico per diffalta d’annona scioglierebbe l’assedio, nel durar saldi in essa vidersi pur eglino in difetto di alimenti. Ragunalisi dunque a consiglio statuiscono ritirarsi all’Eufrate, e di là chiedere aiuto ai Persiani per cominciare nuove imprese contro degli imperiali. Venuti a tale partito, Zenobia montata su d’un camello femina (quadrupede velocissimo e superiore nel correre agli stessi cavalli) esce della città. Aureliano, dispiacentissimo della costei fuga, non rallentando il naturale suo impeto, ordina tosto a genti in sella di seguirne le tracce. Questi raggiuntala in procinto di valicare l’Eufrate, la conducono, trattala dalla nave, all’imperatore, il quale a così inopinato spettacolo abbandonossi ad una somma esultanza; non di meno ripensando, ambizioso di natura, che presso ai posteri sarebbe per derivargli poco splendore dalla ottenuta vittoria sopra una femina, provavane qualche rincrescimento31. Parte degli assediati Palmireni voleano si difendessero ad ogni rischio e pericolo quelle mura, ed a tutto potere andasse avanti la Romana guerra; parte in cambio dai merli facean supplichevoli gesti addimandando perdono dell’avvenuto, ed essendo accolti lor prieghi dall’imperatore, incoraggiandoli a deporre ogni tema, usciti fuori delle porte recavangli vittime e doni. Egli, prestato il debito onore alle prime e ricevuti gli altri, accommìatavali sani e salvi32. Impadronitosi della città, di tutte le sue richezze, delle suppellettili e de’ sacri bronzi fe’ ritorno ad Emisa, ove intraprese il giudizio di Zenobia e di quanti parteggiato aveano seco lei. Questa perorando la propria causa discolpava se stessa e molti accusata di averla, femina essendo, tradita, non perdonando neppure a Longino, scrittore di opere utilissime a tutti coloro che bramano addottrinarsi; e’ convinto delle accuse prodottegli contro soggiacque ad imperiale sentenza di morte, soffertala con tale coraggio da confortare i suoi compassionevoli per tanta sciagura. Altri parimente chiamati in colpa dall’accusatrice non poterono sottrarsi dal meritalo gastigo. Qui mette conto narrare le vicende che precedettero lo sterminio de’ Palmireni, quantunque, giusta il progetto della nostra opera, da me riferito nel proemio, si parrebbe mio ufficio lo scrivere in compendio la presente istoria. Laonde espostosi da Polibio come i Romani vennero in brevissimo tempo ai possesso dell’impero, io dovrei ora palesare in qual modo susseguentemente, pe’ loro delitti, e’ ridussersi in pochi anni a perderlo. Ma di tale argomento oecuperommi quando la istoria fornirammene più acconcio luogo. Dai Palmireni, per tornare ad essi, conquista non piccola parte del Romano impero, molti divini annunzj pronosticarono loro la sopravegnente distruzione, e quali si fossero aceingomi a raccontare. In Seleucia, nobile città della Fenicia, aveavi un tempio d’Apollo, nomato Sarpedonio, ed oracolo in esso. Quanto è riferito del Nume, ch’egli accordasse a tutti gli aggravati da innondamento di locuste le Seleucidi (uccelli dimoranti presso del tempio e destinati a volare all’intorno ove hannovi tali insetti, e, beccateli, a disterminarne quasi in un batter di ciglia immensa quantità, liberando le popolazioni da sì penosa molestia) lascio alla buona ventura di quelle genti, rinunziato avendo a questo divin benefìcio l’età nostra33. I Palmireni del resto consultato l’oracolo se fossersi per ottenere il Romano impero, ebbero in risposta dal Nume: Frodolenti, malvagi e sempre increscevoli agli immortali Iddìi, partitevi dai nostri abituri. L’oracolo a simile richiesto intorno alla Romana spedizione contro de’ Palmireni, profferì le seguenti parole: Solo un falco precede con lutto detestabile molte colombe, che tuttavia non cessano di temere il nemico. Altro che parimente dell’egual tenore intervenne ad essi. In Afaca, sita fra Eliopoli e Biblo, evvi un tempio intitolato a Venere Afacitide, con da presso un lago simile ad artifìziale cisterna. Mirasi poi non lunge dal primo e dalle sue adiacenze un fuoco, quasi di lampada o globo allorquando, in epoche determinate, vanno a riunirvisi le assemblee, fenomeno anche a’ nostri tempi osservato. I visitatori del lago recavano alla Dea offerte d’oro, di argento, ed anche tessuti di lino, di bisso e d’altra materia dì maggior valore: se gli ultimi, alla foggia de’ primi addivenuti gravi, calavano al fondo, riteneasi accetto il dono; ma se questo riusciva discaro ed immeritevole di ricevimento, vedevansi galleggianti sopra l’acqua così li tessuti come i lavori d’oro e d’argento o di simigliante specie comunque, i quali di lor natura stare non possono a fior d’acqua, ma debbono affondare. Dai Palmireni dunque l’anno avanti al rammentato sterminio, colà pervenuti all’epoca dell’adunanza, messi nel lago presenti d’oro e d’argento e di tessali, ogni cosa venne sommersa, ma nella riunione di quello successivo i doni gettativi galleggiarono, accennando così la Dea quanto sarebbe loro per accadere. Non altramente per verità mostrossi il Nume benigno verso de’ Romani infintantochè rispettate furono le sacre cerimonie. Ma quando perverremo a que’ tempi, in cui il Romano impero a poco a poco dando qualche saggio di barbarie34, restrinse di molto i suoi confini, e cadde in generale affievolimento, non tacerò allora le cagioni delle sue disgrazie e adopereranni, secondo le mie forze, nel rammentare gli oracoli annunziatori delle future vicende. È tempo omai di tornare a bomba, onde non restino imperfette le fila della storia. Al partire di Aureliano verso l’Europa conducendo seco Zenobia, il figlio e gli altri tutti avvolti nella ribellione, corse il grido che la prima sia per malattia, sia per astinenza dai cibi, si morisse: il resto, eccettuatone il figlio35, sommerso fosse nel mezzo dello stretto infra Calcedone e Bizanzio. Aureliano di poi, mentre viaggiava alla volta d’Europa, ebbe a sapere che taluni a dimora presso Palmira abbattutisi in Apseo, promotore delle passate loro faccende, scoperto aveanlo tentare Marcellino, prefetto della Mesopotamia e capo della orientale amministrazione, a farsi ornare della imperiale veste, e lento mirandolo nel risolvere non cessavano d’insistere onde v’acconsentisse; ma egli sempre temporeggiando con ambigue risposte appalesare volea ad Aureliano quanto erasi propizio di operare. I Palmireni tra tanto, vestito Antioco di porpora, non dilungavano dalla città loro. Aureliano, uditone, partì di lancio, come si trovava, prendendo la via d’oriente. Arrivato in Antiochia e presentatosi al popolo intento ai giuochi equestri, lo intimorì colla sua repentina comparsa; di là condusse le truppe a Palmira, e conquistatala senza por mano alle armi l’atterrò, nè curossi punto d’Antioco, non estimandolo tampoco degno, a motivo della viltà sua, di gastigo. Fatto quindi con prontezza rinsavire eziandio gli Alessandrini rei di eccitamento a sedizioni, entrò in Roma trionfante, ed ebbevi onorificentissima accoglienza dal popolo e dal senato. Inalzò allora un magnifico tempio al Sole, ornandolo de’ sacri tesori portati seco da Palmira, e locandovi i simulacri del Sole e di Belo. Dopo queste cose ed assai di leggieri vinti Tetrico36 e gli altri congiurati, giusta lor meriti castigolli. Distribuì parimente al pubblico una nuova moneta, ordinandogli ad una di consegnare tutta la falsificata di cui era in possesso, onde togliere nel commercio ogni abuso; fatta inoltre al popolo Romano largizione di pane 37, e regolati tutti gli affari abbandonò Roma. Intrattenutosi a Perinto, ora detta Eraclea, furongli tramate le seguenti insidie. Aveavi nella sua corte un Eros38 di nome e referendario delle imperiali risposte. Aureliano minacciato avendolo per qualche mancamento lo intimorì, e costui, ad evitare che dalle parole si venisse ai fatti, strinse lega con alcune guardie conosciute da lui temerarissime, ed, appalesando loro varie lettere finte a norma delle auliche (versatissimo già da pezza in tale ribalderia) postele in sospetto d’una imminente morte (contenendone esse chiari indizj) le persuase a tentarne l’uccisione. Gli assalitori dunque osservato il principe fuori della città seguito da pochi militi del corpo, vannoglì addosso e trafiggonlo a morte. Fu di poi magnificamente sepolto nello stesso luogo dall’esercito, memore delle sue geste e dei pericoli a favore della repubblica incontrati. Tacito, asceso il trono, vedendo que’ della Scizia, valicata la Palude Meotide, proceder oltre per l’Eussino Ponto nella Cilicia mettendovi da per tutlo a sacco la regione, li assale e, riportatane vittoria, parte egli stesso ne dìstermina, e del resto commette a Floriano, prefetto del pretorio, l’abbattimento; dopo di che nel trasferirsi in Europa viene da insidie ridotta agli estremi la sua vita. Egli commesso avea il governo della Siria al parente Massimino, il quale trattando con asprezza somma i principali della repubblica mosseli a sdegno e timore, donde generatosi odio, si passa infine alle trame, e chiamativi in società gli uccisori di Aureliano, questi mettonlo a morte; datisi quindi a perseguitare Tacito, mentre levava il campo, rendonlo cadavere39. Qui tornarono le civili discordie, altri nell’oriente inalzando al trono Probo, ed altri in Roma Floriano. Il primo trovavasi al governo della Siria, della Fenicia, della Palestina e dell’intero Egitto; il secondo amministrava le regioni tutte della Cilicia infino all’Italia; obbedivangli inoltre le transalpine genti, i Galli e gli Spagnuoli, coll’isola Britannica e la universa Africa unitamente alle Mauritane popolazioni. Ambedue preparatisi alla guerra, Floriano calcata la via di Tarso stabili piantarvi il campo, lasciando compiuta per metà la vittoria sopra gli Sciti nel Bosporo; il perchè, mentre già erano da ogni intorno assediati, aprì loro il varco di retrocedere alle proprie case, Probo intanto mandava per le lunghe la guerra, avendo assai minori truppe. Sopraggiunto poi nella state un gran caldo in Tarso, i militi di Floriano, Europei essendo i più, non assuefattivi, percossi da fiero morbo uscivano di questo mondo. Probo allora stabilì profittare della opportunità cimentando il nemico. I mìliti di Floriano anch’eglino, meglio di quanto lor forze comportassero, abbandonate le trincee venivano a schermugi davanti alla città, non eseguendo tuttavia gesta meritevole di ricordanza; separati quindi gli eserciti, alcuni guerreggianti sotto i vessilli di Probo inoltratisi e tolto a Floriano l’impero, tengonlo qualche tempo in guardia; ma fatto osservare dal nemico non essere nell’operato concorso il volere di Probo, egli veste novamente la porpora; se non che i messi retroceduti colle risoluzioni del rivale procurarono la morte valendosi delle stesse truppe da lui capitanate40. Probo insignoritosi dell’impero, andando oltre, diede principio al suo reggimento con azione per verità meritevole di lode, volendo puniti gli insidiatori di Tacito e quelli di Aureliano. Non fece tuttavia eseguire pubblicamente le sue risoluzioni per tema di qualche tumulto, ma scelto un numero di soldati e commessane la impresa alla fede loro, invita a banchettar seco i promotori della carneficina. Convenutivi speranzosi di partecipare la imperiale mensa, Probo, ritiratosi nella parte superiore del palazzo, donde veder potea ogni cosa, fe’ segno d’operare ai trascelti militi, e questi assalendo gli inermi recano a tutti morte, ad eccezione soltanto d’uno, il quale poscia caduto nelle sue mani, come autore della scelleraggine, soggiacque al supplizio del fuoco. Dopo queste faccende, Saturnino, di schiatta Mauritano41 e famigliarissimo di Probo, il perchè stata eragli confidata l’amministrazione della Siria, mancógli di lealtà col volgersi a pensieri di ribellione. L’imperatore stabilito avendo reprimerne i conati, fu prevenuto dalle orientali truppe, le quali spensero con Saturnino stesso la congiura. Acquetò eziandio altra sedizione, suscitatasi nella Britannia, per colpa di Vittorino traente origine dalla Mauritania, alla cui esortazione dichiarato avea reggente dell’isola il ribelle; mercè di che addimandato Vittorino stesso e ripresolo del consiglio da lui ricevuto, lo diputa ad emendare quel mancamento. Questi recatosi nella Britannia con sagace tratto uccide il sedizioso. Condotte a fine, giusta il narrato, le precedenti cose, Probo riportò vittorie sopra i barbari in due guerre, l’una capitanata dalla sua persona, e commessa a un duce l’altra. Estimando poi necessario il soccorrere le città in vicinanza del Reno ed infestate dai barbari, dirizzò il passo con truppe a quella volta. Cominciata la guerra e da per tutto opprimendo la fame, una dirotta pioggia recò insiem col l’acqua frumento in copia tale che in molti luoghi formavansene di per sè mucchj. Sorpreso ognuno da cotanto incredibile miracolo, non aveavi da princìpio chi ardisse toccarlo, e valersene contro alla fame. Se non che fattasi la necessità superiore a qualsivoglia temenza, cotto il pane e mangiandolo e’ ristoravansi, e terminavano, per la buona ventura del comandante, quasi direi senza fatica al mondo vincitori, que’ marziali cimenti; ad altre imprese ancora pose di leggieri fine. Di più, forte pugnò co’ Logioni, popolo della Germania; rottili, fatto prigioniero il duce Sennone col figlio, e addivenuti quindi supplichevoli accordò loro la sua protezione, ricuperati di questo modo i mancipj e tutto il bottino di che erano possessori, accommiatolli, mediante alcuni patti, unitamente al duce stesso col figlio. Guerreggiò in seguito i Franchi, e superatili valorosamente col mezzo de’ suoi capitani, si dispose ad assalire i Burgundi e Vandali, ma vedendosi minore di forze pensava come distaccarne qualche parte dai nemici e contr’essa tentare da prima la sorte delle armi. Propizia nel secondare il divisamento mostroglìsi la fortuna, poiché occupate dagli eserciti le ripe del fiume, e dai Romani chiamati a battaglia, i barbari, di contro a campo sulla opposta riva, quanti di essi ebberne mezzo valicarono il fiume, e venuti alle prese molti soggiacquero a morte, ed altri caddero in poter del nemico. Il resto addimandata pace, ed ottenutala coll’obbligo di restituire per intiero il bottino ed i prigionieri, non consegnò il tutto. Laonde Probo montato in collera42 mentre si ritiravano fu loro addosso, ed a buon diritto ne pigliò vendetta, molti uccidendone ed impossessandosi del comandante Igillo. Mandò poi nella Britannia i rimasi in vita e caduti nelle sue mani, ove giunti a stabilirsi, ogni volta, che tramate eranvi sedizioni rendeano utili servigi all’imperatore. Narrate le guerre da Probo sostenute lungo il Reno, è uopo non passar con silenzio neppur quelle dagli Isauri cagionate. Lidio43, Isauro di stirpe e cresciuto ne’ ladroneggi, raccolta gente dell’egual suo calibro dava il guasto a tutta la Panfilia e la Licia. Riunitesi le truppe onde toglier di mezzo que’ ladroni, egli, conoscendosi nella impossibilità di far petto al Romano esercito, si trasferì a Crimna, città della Licia in dirupato luogo, ed in parte da altissima fossa munita. Rinvenuti di molti ivi a ricovero come in luogo forte e cinto di mura, ed osservato che il nemico intento all’assedio stringeva fortemente il sito, ridussene, atterrati gli edifizj, il terreno a coltura, e col grano derivatone alimentava la popolazione. Al mirare col tratto successivo là entro somma diffalta d’annòna, fecene partire tutti coloro d’ambo i sessi che per età recargli non poteano alcun profitto. Ma i Romani, accortisi della nemica risoluzione, tornavano a respignere nella città que’ miseri, ed allora egli ordinò di precipitarli entro le fosse all’intorno delle mura. Formato quindi un condotto d’ammirabile costruzione, e dall’interno della città al di fuore prolungandolo oltre le nemiche trincee, inviava i suoi a predare bestiame e cibo, provvedendo così tratto tratto gli assediati di copiosa vittuaglia, infinattantochè la truppa da una donna, mediante indizj, ebbene contezza. Lidio tuttavia neppure allora disammossi, ma iva togliendo a poco a poco agli assediati il vino, e sottraendo loro parte del consueto frumento. Al crescere non di meno ognora i bisogni della vita, fu costretto a spegnere quanti aveanvi là entro, eccettuati gli uomini a lui occorrenti e idonei alle funzioni del presidio, e poche donne capaci di attendere ai comuni e generali servigj. Ora, determinatosi a superare costantemente ogni pericolo, dopo tutto il fin qui rammentato, gli occorsero le seguenti vicende. Avea seco taluno esperto nel comporre macchine di assai grande utilità per avventare dardi colla massima esattezza, di maniera che essendogli ordinato di colpire qualche nemico, il proiettile indubitatamente dava in brocco. Laonde accennatogli altro degli avversarj perchè lo colpisse, egli, vuoi a caso, vuoi a disegno, fallì il colpo. Lidio allora, spogliatolo delle vesti, lo vergheggiò crudelmente, minacciandolo anche di morte. Il meschino dunque montato in collera a motivo delle battiture, e spaventato dalle peggiori minacce, fugge, colta l’opportunità, da quelle mura. Avvenutosi quindi ad imperiali militi, e fatti consapevoli del suo operato e del gastigo sofferto, mostra loro una finestra nel muro donde Lidio solea indagare quanto passava nel campo; mentre questi pertanto, non dipartendosi dal suo costume, irebbe aocchiando al dì fuori, egli prometteva colpirlo di dardo. Dal comandante delle truppe, a tale riferta, accolto costruì la macchina, e postosi innanzi qualche soldaniero per tenersi occulto ai nemici, vedendo Lidio attento a spiare dal consueto luogo, scoccato ìl dardo mortalmente lo piaga. Il ferito, dopo tale sinistro, diportatosi con barbarie verso alcuni de’ suoi, e stretto il resto con giuro a non cedere agli assediatori, trasse in fine l’ultimo spiro. Allora tutti i rinchiusi là entro più comportar non potendo l’assedio, si arrenderono ai Romani. Tale ebbe fine quella ladronaia. Tolemaide, sita nella Tebaide44, ribellatasi anch’ella dall’imperatore ed intrapresa piccolissima e breve guerra, Probo col mezzo de’ suoi duci ridussela insiem coi Blemmj all’obbedienza. Permise inoltre ai Bastarni, gente Scitica, di stabilirsi, accordando loro sedi nella Tracia, ov’eglino costantemente seguirono le Romane leggi e costumanze. I Franchi parimente dati essendosi all’imperatore ed ottenuti luoghi per fermarvi dimora, parte di essi tramata poscia una sedizione e fatto grande acquisto di navi, mandò tutta la Grecia sozzopra. Apportata poscia in Sicilia ed assalitavi Siracusa vi commise grande strage. Venuta da ultimo a riva nell’Africa e respinta, riuscì senza danno veruno a tornare presso de’ suoi colle truppe condotte seco da Cartagine. Sotto l’impero di Probo altresì ottanta gladiatori, congiuratisi insieme ed uccìse le guardie, mettean a ruba, inoltrando nella città, quanto presentavasi ai loro sguardi, molti, come suole avvenire, parteggiato avendo con essi; ma l’imperatore comandò che fossero dalle truppe disterminati. Dopo le narrate geste di Probo, il quale egregiamente e con giustizia resse l’impero ........................................ Manca il fine di questo libro ed il principio del seguente.
- ↑ Ciò avvenne sotto Perseo, e ne trionfò P. Emilio.
- ↑ Questa guerra contro Dati, prefetto dì Dario, capitanata era da Milziade.
- ↑ Dieci mila, dice Giustino, oltre i mille ausiliari di Platea.
- ↑ Sotto gli auspicj di Temistocle.
- ↑ Da Pausania ed Aristide sbaragliato Mardonio satrapa reale.
- ↑ Guerra durata venti anni, protestando gli Spartani essersi dagli Ateniesi violata la greca libertà, Pericle in cambio eccitando i suoi alla guerra.
- ↑ Zosimo in questo luogo è discordante da Svetonio, il quale dice (lib. III, cap. 40): Tiberio si trasferì a Capri sommamente dilettatosi di quell’isola, nè fa menzione alcuna ch’egli fosse cacciato dal popolo, e di subito, prosegue, con preghiere continue venne dai sudditi richiamato. I quali dobbiam credere non sarebbonsi ver lui così diportati se lo avessero da prima violentemente fatto partire.
- ↑ Delle quali guerre e di quanto all’uno ed all’altro duce avvenne parla Erodiano in Severo.
- ↑ Dione ed Erodiano asseriscono conferito l’impero a Macrino dimorante nell’oriente, ed averlo egli perduto col mettersi tardi in viaggio per entrare in Roma.
- ↑ Mozzatogli il capo, dice Erodiano.
- ↑ È questi l’Eliogabalo, nomato dalla romana plebe Tiberino, Truttisio, Impuro. V. Lampridio.
- ↑ Delitto attribuito alla madre da Erodiano (lib. VI, verso la fine).
- ↑ Erodiano ed il Silburgio non ammettono vestigio alcuno di virtù in Massimino.
- ↑ Detto eziandio Pupieno.
- ↑ Fa meraviglia la grandissima discrepanza infra Zosimo ed Erodiano, il quale asserisce morti i Gordiani prima dell’assedio posto da Massimino ad Aquilea, il padre, cioè, perseguitato da Capelliano, spento di laccio ed il figlio ucciso di ferro innanzi alle cartaginesi mura.
- ↑ Secondo Erodiano al nipote per parte della figlia del vecchio Gordiano. I bramosi poi di correggere queste discrepanze consultino la Musa settima di Erodoto, nella quale presso che tutto il filo della narrazione trovisi ben diverso da quanto Zosimo scrive.
- ↑ Altri leggono Sabiniano.
- ↑ Nomato da altri Jorapiano.
- ↑ D’animo, giusta varj scrittori, così perverso, da meritare il titolo di brutalissimo.
- ↑ Annuale tributo di cento dramme.
- ↑ Derivato dall’Etiopia, e per anni quindici menato avendo strage in tutte le contrade.
- ↑ Meritevole di ricordanza è il consiglio d’un barbaro, il quale vedendo i suoi compagni insistere perchè si dessero primi d’ogni altra cosa alle fiamme i libri: Risparmiamo, diceva loro, un tale smacco a quelli codici, ne’ quali mentre i Greci più studiano, meno idonei rendonsi alla guerra.
- ↑ Quanto leggiamo in Treb. Pollione ci fa avvertiti doversi al nome Aureliano sostituire quello di Auriolo, due volte costui dichiaratosi ribelle, come a sufficienza è chiarito dalle seguenti parole del nostro autore.
- ↑ Saba, Poll.; Zaba Vobisco.
- ↑ Probato, secondo Pollione.
- ↑ «I soldati di Claudio, dopo conseguita una piena vittoria, inorgoglitisi di lor prospera fortuna abbandonatasi talmente a raccorre preda, che più non pensavano di poter essere da pochi tormentati. Il di che mentre coll’animo e corpo attendevano al bottino, nella vittoria stessa trucidati furonne quasi due mila da due mila di que’ barbari, i quali testè dati eransi alla fuga.» Treb. Poll.
- ↑ Pollione diversamente narra il fatto: «Quintillo poi a motivo della breve durata del suo reggimento nulla potè operare che lo dichiarasse meritevole dell’impero. Egli nel diciassettesimo giorno di sua elevazione al trono manifestandosi vero principe col suo fermo e rigoroso contegno verso le truppe, fu di vita tolto nella stessa guisa di Galba e Pertinace.»
- ↑ A ragione dice - siccome insidiatori - «stati essendo anche parecchi nobili del corpo senatorio incolpati unicamente, da una testimonianza di nessun momento e vile, di qualche lieve indizio, che un più mite principe disdegnare potea». Vopisco.
- ↑ Dice Vopisco: Consigliatosi col senato dilatò le mura di Roma.
- ↑ Dove a que’ dì vivea il famosissimo e celebre, per la rinomea anzi di prestigie, che di veri miracoli, Apullonio Tianeo, al quale devesi, narra Vopisco, la conservazione di Tiana, minacciata di sterminio da Aureliano.
- ↑ Aureliano per lo contrario scrivendo a Mucapore, chiaramente mostra di non aver tenuto sì tanto vile questo trionfo onorando Zenobia col degnissimo elogio di aver combattuto non da femmina, quasi paventando la morte.
- ↑ La lettera da Aureliano mandata a Ceionio Basso comincia nel seguente modo: Non è uopo che le spade dei militi vadan oltre, si è già ferita ed uccisa bastevol quantità di Palmireni.
- ↑ Nulla di meglio attendersi potea da un pagano, il quale fornito d’animo alienissimo dai cristiani dogmi, al presentarglisi l’occasione, è molto facondo nell’oltraggiarli.
- ↑ Pretta maldicenza da respingersi meritamente contro l’autore.
- ↑ Accordatagli, dice Pollione, da Aureliano la vita, che passò coi figli di Romana matrona, ed una possessione vicino a Tivoli nomata pur oggi Zenobia.
- ↑ Tetrico non solo ebbe grazia della vita, ma venne da Aureliano eletto a governatore di tutta l’Italia. Pollione.
- ↑ In Roma accrebbe d’un’oncia il pane co’ tributi Egiziani; del che non poco gloriasi nella lettera mandata al prefetto dell’annona.
- ↑ Vopisco narra che un Mnesteo si valesse dell’opera di Musicapore nell’estinguere Aureliano; in tutto il resto non differisce da Zosimo.
- ↑ Secondo alcuini autori trucidato fu insidiosamente dai militi nel sesto mese nel suo impero. Vopisco.
- ↑ Fu spento in Tarso dai soldati, udito avendo l’inalzamento di Probo, eletto dall’intero esercito, al trono. Vopisco.
- ↑ Originario delle Gallie lo fa Vopisco, dichiarandone gli abitatori la più iniqua gente che dir si possa, ed avida sempre o di eleggere il principe, o d’imperare.
- ↑ In ispecie poi, consentendovi gli stessi capi, ebbero punigione quanti non restituirono con fedeltà la preda. Vopisco.
- ↑ Vopisco nomalo Polfurio, aggiungendo che venne arrestato ed ucciso da Probo.
- ↑ Copto e Tolemaide, leggiamo in Vopisco, da lui liberate furono dal barbarico servaggio ed aggiunte alla Romana giurisdizione.