Istoria dell'Imperio dopo Marco (De Romanis)/Libro III
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dell’imperio
DOPO MARCO.
LIB. III.
argomento.
Negro, avendo saputo che Severo avea occupato l’imperio e si preparava alia spedizione di oriente, si dà egli ancora a fare i più gran preparativi per quella guerra. Severo, entrato in Asia, vince i soldati di Negro a Ciuco, poi in Bitinia, e s’impadronisce della Cappadocia. Quindi, superate le trincee del Tauro, e traversata la Cilicia, viene alle mani con Negro al seno Issico, e dopo furiosa battaglia lo vince e fuga fino ad Antiochia, ove detto Negro venne ucciso. Di poi, scoppiati fuori i rancori tra Severo ed Albino, dettero loro cagione di guerra. Centro della quale fu Lione: e quivi dopo un incerto combattimento vinse Severo, prese la città, e troncata la testa ad Albino la mandò in Roma. Se ne andò poi Severo nuovamente in Asia: invase l’Armenia e l’Arabia felice: ed entrato nel paese degli atrenj, assediò Atra, e uopo lunga oppugnazione dovette ritrarsene. Ma trasportato nella Partia ottenne una compiuta vittoria, e così se ne ritornò in Roma trionfante. E quivi, dandosi tutto a’ pubblici e privati interessi, ammogliò ad Antonino la figliuola di Plauziano: il quale, convinto da Saturnino tribuno d’insidiatore della vita di Severo, fu penato di morte. In ultimo avendo Severo impresa una spedizione contro l’Inghilterra, mentre ancor durava la guerra, venne a morire. Passò l’imperio ad Antonino ed a Gela, i quali, abbandonata l’Inghilterra, se ne tornano in Roma.
Abbiamo discorso nel libro precedente la morte di Pertinace e di Giuliano, la venuta in Roma di Sevèro, e la da lui tosto intrapresa spedizione di Negro. Poiché Negro, contro ogni sua aspettazione, ebbe inteso che Roma stata era occupata da Severo, e che il senato avealo nomi
nato imperadore, e ch’oltre a ciò contro lui marciava tutto l’esercito d’Illiria, scortato da altre numerose truppe di mare e di terra, fièramente perturbato, scrive a’ governatori delle provincie, che custodiscano diligentemente i passi tutti ed i porti. Fa pregare di ajuto i re di Partia, di Armenia, e dell’Atrenia. Quel degli armeni rispose di voler essere neutrale, e difenderebbe solo i suoi stati, se gli sopraggiugnesse Severo. Il re de’ parti, che ordinerebbe a’ suoi capitani di riunire insieme l’esercito, come usano fare negli apparecchi di guerra, non tenendo essi nè mercenarj nè truppe di linea. Barsemio poi, che allor regnava agli atrenj, gli mandò in ajuto alcuni battaglioni di arcieri. Il resto dell’esercito si formò in gran parte di que’ soldati, i quali si ritrovarono, e di marmaglia eziandio, spezialmente antiochena, la quale sospinta da giovenile leggerezza, e sviscerata di Negro, si fece con più audacia che prudenza arrotare.
Intanto Negro fortificava le gole del monte Tauro e suoi luoghi dirupati con mura fortissime ed altri propugnacoli, dandosi a credere che quelle rocce impraticabili sarieno per essere di schermo validissimo all’oriente. Imperocché il monte Tauro, elevando il suo dorso fra la Cappadocia e la Cilicia, divide le orientali dal le settentrionali nazioni. Guarnì eziandio Bisanzio città assai grande e felice di Tracia, e allora di molte forze e ricchezze fiorente: che, per giacere ella in su lo stretto di Gallipoli, fornita è dal mare di dazj e di pescagione: e, possedendo in terra ampj campi e fruttuosi, de’ due elementi, per dir così, si arricchisce. Fu dunque Negro d’avviso di por guarnigione in questa città, e difendere in quegli stretti alle flotte e navilj il passaggio di Europa nell’Asia. Era la città fortificata di mura grosse e validissime, si tra loro di pietre milesie strettamente congiunte, da non parere di molti, ma di un solo pezzo composte. E oggi stesso le ruine di loro e i rimasugli confondono di meraviglia i riguardanti, si per l’artifizio de’ fabbricatori, che per le forze di coloro che le hanno poi demolite. In questa guisa dunque Negro alle sue cose provvedea con avvedimento, a suo parere, assai prudente e savissimo.
Intanto Severo forzava più che potea la sua marcia senza idea di riposo, e inteso della guarnigione di Bisanzio, che sapea esser piazza inespugnabile, si volse a Cizico. Saputosi ciò da Emiliano, che stato era nominato da Negro generalissimo di quella guerra, marciò anch’esso verso Cizico con tutti i suoi coscritti, e quei che gli avea Negro inviati. Scontratisi i due eserci ti, vennero alle mani, e dopo aver tra loro fieramente combattuto, rimase la vittoria a Severo con la rotta e con lo sbaraglio dell’esercito di Negro. Si chiuse allora a ogni speranza l’animo degli orientali, e invigorissi a’ maggiori quel degl’illirj.
Ma Emiliano fu da taluni tacciato di tradimento, ritratto dalle due seguenti cagioni. Molti asserivano per invidia di Negro, cui preceduto avendo nel governo di Siria, non gli gareggiava vedersi ora superiore, ed averlo tra istanti a padrone. Altri che vi fu indotto da’ figliuoli che, ristretti in Roma da Severo, gli raccomandavano pietosamente la vita. Imperocché Severo fu anche in questo avveduto e prudente. Solea Comodo ritenere con se i figliuoli di quei che partivano per governare le provincie, quasi statichi e garanti della loro benevolenza e fedeltà. Onde Severo appena fu imperadore, essendo ancora in vita Giuliano, fece involare da Roma i suoi figliuoli, acciò non cadessero in altrui potere. Esso poi, venuto che fu entro Roma, tolti seco i figliuoli de’ generali, e di coloro che avevano magistrature nell’Asia, gli tenea sotto guardia, affinchè non reggesse dinanzi alla pietà de’ figliuoli la fede paterna, o se reggesse, ne fosse in mani sue la vendetta.
I soldati di Negro, vinti a Cizico, corsero fuggendo lontanissimi, prendendo via, chi al di là delle montagne di Armenia, chi per l’Asia e per la Galazia, affrettandosi di valicare il monte Tauro, e porsi in salvo entro le fortezze. Intanto l’esercito di Severo, traversando il contado di Cizico, marciava sopra la confinante Bitinia.
Ma poiché la fama ebbe divulgata la vittoria di Severo, corse a un tratto la discordia e la sedizione per quelle città, non tanto per odio o amore che avessero agl’imperadori, quanto per essere esse di loro natura contenziose, emulatrici, e sempre gareggianti, e da funesta invidia infestate. Vizio antico de’ greci, che mentre prendono a quistionare, e a deprimere qualunque punto s’inalza, han già messo a soqquadro la patria. Così, disertandosi e rodendosi l’un l’altro, ebbero duopo di racconciarsi prima al freno di Macedonia, e poscia inforcati dal giogo romano. E oggi stesso il fiero impeto di questa invidia rabbiosa crolla e mette in fondo fioritissime città.
In Bitinia dunque, dopo la battaglia di Cizico, la città di Nicomedia si volse a Severo, ed inviogli ambasciadori ad offrirsegli per alloggio dell’esercito, e per tutto ciò che potesse occorrergli. All’incontro quei di Nicea, stimola ti dall’emulazione, parteggiavano per Negro, ricovrando que’ suoi soldati che erano scampati dalla fuga, e quei che venivano a difendere la Bitinia. Per la qual cosa, di ambedue le città, sortendo quasi da’ quartieri loro i soldati, vennero di bel nuovo alle mani, e, dopo ferocissima zuffa, rimase di gran lunga superiore la parte di Severo. I soldati di Negro che sopravvissero, voltate le spalle, si ricoverarono alle gole del monte Tauro, e si trincerarono entro le sue collegate trincee. Ma Negro, lasciata quivi quella guarnigione che credeva sufficiente, partì per Antiochia con animo di ragunare e gente e denari.
Infrattanto l’esercito di Severo, valicata la Bitinia e la Galazia, e scorso in Cappadocia eziandìo, dette l’assalto alle trincee che gli presentarono strana e dismisurata fatica: il cammino era aspro e stretto: i nemici, ruotolando loro addosso gran sassi, valorosamente combatteano, ed erano in istato di prevalere per la superiorità del sito a numero assai maggiore. Imperocchè ha esso via per due angustissimi sentieri, l’un de’ quali è dove il monte si dirupa, e l’altro rimane impaludato dall’acqua che ne divalla, ed ambedue, per nuove fortificazioni aggiuntevi da Negro, si rendeano impraticabili.
Procedendo in tal guisa le cose di Cappadocia, gli asiatici si sbranavano tra loro; quei di Laodicea accanili contro gli antiocheni dan loro addosso: nè si tacquero i fenicj di Tiro che han sempre avuto in mortale odio i beritii. I laodicesi dunque ed i tirj, saputa avendo la fuga di Negro, lo privarono d’ogni onore e acclamarono Severo. Il che avendo inteso Negro allora dimorante in Antiochia, benché di sua natura assai mansueto e benigno, montato in furore per tal ribellione e dileggio, spedi contro loro tutti quegli arcieri mori che avea, unendovi buon numero de’ suoi gittatori, con ordine di non perdonare a nessuno la vita, e tutto a ferro e fuoco mandare. I mori di natura anelatrice di sangue, e ardimentosa a segno di non dar mente, a par di chi dispera, nè a’ pericoli nè alla morte, si scagliarono improvvisamente su i laodicesi, subbissarono la città, e contro i suoi cittadini crudelissimamente incrudelirono. Quindi marciarono a Tiro, e, venuti spietatamente alle ruine ed al sangue, la misero a fuoco.
In tale stato erano le cose di Siria, e di Negro che attendea ad arrolare truppe, quando i soldati di Severo battevano le trincee del monte Tauro, ma freddamente e senza speranza di espugnarle, per essere esse fortificatissime, e dall’ertezza del monte, e abisso che sotto lui si va neggia, difese. Onde, già stracchi, e nulla più tementi gli assediati, eccoli che una notte vien giù dal cielo un diluvio d’acque, e tutto è coperto di neve, rigorosissimo essendo sempre in Cappadocia l’inverno, e massime al monte Tauro. Talché improvviso sgorga furioso un torrente, che trovandosi in petto i ripari, ingrandisce maggiormente ed infuria di modo, che scossine i fondamenti non atti a resistere a tanto impeto, ne sboccò fuori, e gli aperse. Della qual cosa accortisi i difensori, e vedendo che dileguate le acque, non rimanea più luogo a difesa, abbandonarono la piazza e si dettero alla fuga. Di che lieti i severiani, e saliti in maggiori speranze, come se gl’Iddìi gli menassero per mano, vista la fuga della guarnigione, traversarono senza ostacolo il monte Tauro, e si gittarono sulla Cilicia.
Venuto avviso di ciò a Negro, che avea già raccolto un grande esercito, ma di non usi nè alle fatiche nè alle armi, si sospinse a marce forzate, seguito da molta gentame, quasi tutta gioventù antiochena assai volenterosa, ma di valor non pareggiabile agli illirj. Affrontaronsi ad Issico in cotale pianura, che posta a’ piedi di spessi poggi si spaziava e distendea in forma di teatro assai da lungi sul mare, in guisa che si direbbe aver la natura a lei dato tal for ma, per ritrarne un campo di battaglia. Dicon poi che in questo stesso luogo fosse Dario da Alessandro, in quella ultima e grandissima battaglia, sconfitto e preso, rimanendo anche in tal circostanza i settentrionali a’ meridionali popoli superiori. Si eleva ancora in sul monte a trofeo di tanta vittoria una città detta Alessandria, ed il ritratto in bronzo di quegli da cui ebbe il luogo tal nome. Avvenne dunque che venissero alle mani nel medesimo luogo gli eserciti di Negro e di Severo, e sortissero eziandìo parità di fortuna.
Ambedue dunque gli eserciti stettero sino a sera ordinati a combattere, e la notte per orridi presagimenti stettero desti ed ansiosi. Appena era dì, che, aizati da’ loro generali, si serrano ambi a battaglia, assalendosi con ardore incredibile per isperanza che la fortuna dispositrice dell’imperio ultimerebbe quivi ogni contrasto. Fu il combattimento atrocissimo, e tale la mortalità, che i fiumi, i quali per mezzo quella pianura s’adimano, venivano più dall’impeto del sangue che da quel delle acque al mare sospinti. All’ultimo piegarono gli orientali, e si dettero alla fuga, inseguiti a tergo dagli illirj, che gli atterrati da ferite precipitano in mare, e fanno man bassa di coloro che rifuggiti si erano a’ monti. Così venia tagliato a pezzi non solo l’e sercito di Negro, ma insieme con esso una lunga tratta di gente convenuta dalle città e luoghi vicini, con certa fiducia di veder da quelle alture, senza rischia, il combattimento.
Negro, montato sopra un bravo cavallo, si ridusse, seguito da pochi, in Antiochia piena tutta di sospiri, pianti, e alti guai, e con misero modo risuonante delle grida di coloro che aveano perduti i figliuoli e i fratelli. Di maniera che, perduta ogni speranza, si dette di nuovo alla fuga, e si ascose in un de’ sobborghi. Ma, sopraggiunto dalla cavalleria che lo inseguiva, gli fu quivi recisa la testa. Tal fine ebbe Negro, purgando così la sua irresolutezza e i suoi indugi, con riputazione però di essere sialo nella sua vita pubblica e privata d’indole non malvagia.
Ucciso Negro, di subito Severo mandò a trucidare tutti gli amici di lui, così que’ che lo avevano favorito di necessità, come coloro che lo aveano fatto volontariamente. Fece però proporre l’impunità a quei soldati, che il terrore avea portati al di là del Tigri tra’ barbari. Eran questi in sì gran numero, che que’ barbari han di poi combattuto più valorosamente i romani, non essendo prima che arcieri a cavallo vestiti di lunghe e larghe zimarre, senza difesa di armature, nè capaci del maneggio delle aste o delle spade, fuggenti sempre, e nel fuggire solo saettanti. Ma dappoiché ebbero tra loro i soldati romani, e con essi si furono eziandìo condotti a vivere de’ fabbricatori di ferro, non mancarono loro nè armi nè virtù da maneggiarle.
Ite tanto prosperamente le cose d’oriente, e ordinate come fu paruto più a proposito, venne voglia a Severo di recar guerra al re degli atrenj, e invadere quel de’ parti come fautori di Negro. Ma , riserbandosi di porre in esecuzione tal progetti a più propizia stagione, andò seco stesso pensando come potrebbe senza sospetti far suo e de figliuoli l’imperio. Imperocché, lettosi dinanzi Negro, rimaneva Albino, che poco gli garbava, correndo già voce che con superbia inestimabile e arroganza si paoneggiasse del nome di Cesare, e che molti principali senatori gli avessero inviate nascostamente lettere esortandolo a ritornarsene in Roma, mentre Severo si trovava in lontane parti occupalo. Ed in vero tutta la nobiltà preferiva d’avere per imperadore Albino, che, oltre appartenere a nobilissima prosapia, mostrava esser giovane di buona aspettazione.
Le quali cose conoscendo Severo, fu di avviso di non iscuoprirsegli contrario, nè dargli addosso manifestamente colle armi, non parendo onesta cagione di palliarle, ma sì tastarlo colle insidie e la frode. Per la qual cosa gli spedisce alcuni suoi fidatissimi, del numero di quei corrieri che sogliono portare i dispacci imperiali, con lettere ed ambasciate, imponendo loro che, rimesse pubblicamente le lettere, dicessero dovere a lui comunicare alcune cose in segreto, e che, partite le guardie, gli si scagliassero addosso e l’uccidessero. Forni loro eziandìo certi veleni acciò s’ingegnassero di farli meschiare da quei che lo servivano in tavola ne’ cibi o bevande a lui destinate.
Ma gli amici di Albino dubitavano fortemente della lealtà di Severo, e non cessavano d’ammonirlo a guardarsi dalle insidie e dalle trame che costui, per l’effetto de’ suoi malvaggi pensieri, continuamente gli ordiva. Era a Severo fruttata più certa infamia di traditore dall’avere (come qui sopra dicemmo) indotti prima per mezzo de’ figliuoli i generali di Negro al tradimento, e poiché n’ebbe ottenuto l’intento, l’uni e gli altri spietatamente trucidato. Per si bestiai segno mostrato aveva avere e cuore e braccia a tal mestiere disciolte, e duopo essere ad Albino di tenersi, come si teneva, in guardia di lui. Cosicché tutti coloro che venivano da parte di Severo non gli erano intromessi che senza spada, e dopo fatte loro le più diligentissime ricerche.
Appena dunque arrivarono quei corrieri, presentarono loro lettere ad Albino, dicendo dovergli dire qualche cosa in disparte. Avendo però Albino volto sempre il pensiere a paventare tradimenti, ordinò subito che venissero arrestati. Quindi esaminatigli, e tratta di loro tutta la confessione della trama, gli giudicò rei e gli mandò alla morte. Dopo di che, spiegando contro Severo condizion di nemico, manifestamente si apparecchiava alla guerra.
Inteso ciò Severo, di cui non fu visto spirito più superbo, si accese tutto di furore, e più non intìngendosi, convocò l’esercito, e in questa forma parlò: Non mi si dia colpa di leggerezza, tacciando le passate mie operazioni, nè mi si accusi di menar l’arte degli accorgimenti e delle coperte vie a danno di colui che mi teneva in conto di amico. E in che ho io mancato all’amicizia? Non misi Albino a parte del regno, e di regno non vacillante ma stabilissimo, concedendo a lui ciò che a’ fratelli stessi si niega, e dividendo seco quel dono che voi, o prodi, a me solo faceste? Che valuti sono cotanti benefizj? La più nera ingratitudine! Perchè, beffandosi egli del nostro valore, e fatto dimentico della fede a noi data, vuole per cupidigia rapir quello, che noi senza alcuna sua briga avevamo a lui partecipato. E par ch’egli abbia Dio stesso in disdegno: Dio, pel quale tante volte ha giurato: e nulla pare che pregi quei disagi, che voi con tanta gloria e virtù avete per noi sopportati. E che? Forse non abbiamo a lui largito il frutto delle nostre vittorie? Non gli notavamo noi che avremmo premiata la fèdeltà di lui colla più bella parte e colla migliore? Or però si vuol riguardare, che se ha infamia d’ingiusto colui che è principio e cagione de’ mali, nome vergognoso di dappochi invilisce coloro, i quali non pongon mano a vendicare le ingiurie. Quando noi guerreggiammo Negro, non si colorava quella guerra di tanta giustizia? Perchè non andammo noi a disperdere un usurpatore del nostro imperio, ma egli ed io si movemmo per occupare la sella di lui ch’era vuota. Ma Albino, che pe’ suoi giuramenti ci dovea lasciar sedere in quella, ed essere a noi devoto, per avergli dato più che a figliuolo, Albino ha in cuore più d’inimicarcisi, che farii schermo delta nostra benevolenza. Di maniera che, come prima gli facemmo onore, e grandi benefizj gli compartimmo, così presentemente l’anima di lui imbelle e malnata correggeremo colle armi. Imperocché non potrà un esercito di pochi isolani tener petto alle nostre forze. E come mandare in dubbio, che voi, i quali colla virtù vostra e col coraggio sortiti siete vincitori di tante battaglie, e tutto l’oriente vi avete sottomesso, ora di tante forze accresciuti (che tutto parati qui vedere il nerbo del romano esercito) non siate per isbaragliare poche truppe capitanate da un genende ebbro e voto d’ogni valore? E chi di voi ignora eli egli è rotto a ogni vizio di lussuria, e che si sta come porco in brago, e tiene a vile i pregj che proprii sono di un generale di esercito? Marciamo dunque contro di lui con quell’animo e con quella virtù che ci distingue, ponendo ogni maggiore speranza negl’Iddìi, che ha e gli empiamente spergiurati, e insieme ricordevoli delle dispregiate nostre vittorie. Così avendo parlato Severo, subito tutto l’esercito grida Albino nemico, e con lieti plausi ed evviva festeggia Severo: e , mostrando esser tutti per lui, a tale impresa maggiormente lo infiammano. Sicché, presentati i soldati di grandissimi doni, gli fece tosto marciare contro Albino, e nel medesimo tempo mandò ordine in Tracia, che si cignesse di assedio Bisanzio, la quale ancora pe’ generali di Negro si tenea. Questa città dovette per fame darsi in man de’ nemici, onde fu tutta guasta e disfatta; e, distrutte le sue terme, i teatri, e ogni altro ornamento, fu ridotta in forma di borgo, e aggiudicata a’ perintj, come Antiochia lo era stata a’ laodiceni. Pro vide ancora Severo grandi somme di denaro per rifare e racconciare quelle città che furono guaste da’ soldati di Negro. Egli intanto senza intermissione alcuna marciava a grandi giornate, non si curando nè di feste, nè di fatiche, e freddo e caldo sprezzando, spesse volte nel colmo di rigidissimo inverno, e sotto il crudo cielo di altissimi monti fasciati di nevi che fioccano di quell’aria che senza tempo n’è tinta, se ne andava a capo scoperto , per dar animo a’ suoi soldati, ed invigorirli col proprio esempio. Per la qual cosa non per paura o comandamento che avessero, ma solo per non esser da meno del loro imperadore si mettean tutti ad emularlo. Mandò ancora ad occupare le gole delle Alpi, e a stringere i passi che tendono in Italia.
Albino inteso ch’ebbe non si arrestare Severo, ma venir contra lui rapidissimo, essendo fino a quel tempo vivuto di lascivie e infingardo, si sentì tutto commovere della paura, e subito passò d’Inghilterra in Francia: e posti i suoi accampamenti lungo quel liltorale , scrisse lettere a’ governatori di quelle provincie, chiedendo loro di fornire i suoi eserciti di denaro e di vettovaglie: de’quali chi l’obbedì, ebbe poi a pentirsene amaramente, divenuti dopo la guer ra fiero pasto della crudeltà di Severo. Quei poi che si ricusarono, più felici che prudenti, non ne soffrirono alcun danno, dipendendo in tal guisa dalla fortuna e dagli avvenimenti i consigli degli uomini. Pervenute che furono in Francia le truppe di Severo, succedettero alcuni piccioli combattimenti, o piuttosto scaramuccey fino a che presso a Lione, grande e ricca città, fu combattuto con tutte le forze. Imperocché standosi Albino entro le mura, mandò fuori l’esercito a battaglia. Fu il combattere vario, dubbio, atroce, ora a questi ora a quelli infelice, non la cedendo gl’inglesi agl’illirj nè per crudeltà nè per gagliardia. Cosicché nel primo assalto di que’ due valorosissimi eserciti non si vedea dove la fortuna penderebbe, e, come asseriscono alcuni veraci e non adulanti scrittori di que’ tempi, la battaglia inclinò in favore di Albino da quella parte dove Severo combatteva, in forma che Severo si fuggì, e fuggendo cadde da cavallo, e gittata la porpora imperiale si ascose. Seguitandolo con vincitrici grida gl’ inglesi, ecco repente sboccar fuori Leto generale di Severo con gente fresca, nè ancora entrata in battaglia. Costui si era arrestato ad arte per coglier tempo di far suo colla ruina comune l’impero, nè si mosse a combattere che dopo aver saputo che Severo era sta to gittata da cavallo. E gli eventi posteriori, anziché frangere, invigorirono questi sospetti; perchè essendo già le cose tranquille e in sicuro stato, e avendo Severo gratificato gli altri generali tutti di grandissimi doni, solo Leto, ricordevole del suo tradimento, fece (come si convenia) punire di morte. Ma tutto questo ebbe luogo dipoi. Allora, veduto che fu Leto, si aperse a nuove speranze l’animo de’ severiani; i quali, rimesso a cavallo Severo, e indossatogli il manto purpureo, voltansi contro i loro sparpagliati vincitori, che, vedendosi con tanta furia e da fresche truppe assaliti, fecero da prima qualche resistenza, ma finalmente piegarono, e messi in fuga e grande uccisione furono inseguiti colla spada a’ reni fin sotto la città. Il numero de’ morti e de’ prigioni dell’una e l’altra parte venne dagli scrittori di quell’età variamente ed a capriccio numerato. La città di Lione fu arsa e tolta via, e ad Albino troncata la testa e presentata a Severo. Il quale, dopo tante vittorie ed in oriente ed in settentrione, non teme competitori che possano essergli messi in confronto da chi porrà mente all’esercito numeroso, alle barbare nazioni commosse, alle tante battaglie, e alla maravigliosa celerità delle rapidissime sue marce. Imperocché le imprese di Cesare contra Pompeo con soldati romani dall’una e l’altra parte furono certo grandissime. Similmente quelle di Augusto contra Antonio, ovvero contro i figliuoli di Pompeo, e quelle eziandio di Siila e di Mario con civili guerre e straniere. Ma chi solo, tre già fatti imperadori si levasse dinanzi, chi le truppe civiche custoditrici di Roma e del Palatino per suoi accorgimenti irretisse, chi de’ tre imperadori l’uno nel palazzo imperiale uccidesse, l’altro in oriente governante il tutto e nominato Augusto da’ romani, e similmente il terzo fregiato del nome e degli onori di Cesare nelle sue forze recasse: chi, dico, tutte le dette cose abbia operato, nessun altro che Severo noi rinverremo. Così fini di vivere Albino, avendo egli per assai breve spazio goduto il funesto onor dell’imperio.
Severo poi fece strazio e scempio crudelissimo de’ suoi parenti ed amici, e tosto mandò in Roma il reciso capo di lui, con ordine che fosse appeso pubblicamente alla forca còn sotto un cartello, nel quale, dopo aver notiziato il popolo della sua vittoria, ci avea posta questa giunta: aver dato ordine che quel teschio in pubblico fosse affisso , perchè non si partisse dinanzi al volto loro l’esempio di quanto aveano meritato. Dato dunque sesto alle cose d’Inghilterra, diviso in due governi il reggimento dell’isola, e similmente ordinata a suo modo la Francia, e tutti gli amici di Albino trucidati, e i loro beni banditi senza distinzione di .chi lo avea favorito per necessità, e di chi lo avea fatto spontaneamente, prese subito la via di Roma, menando seco tutto l’esercito, per quivi giugnere più spaventoso e tremendo. £ corso, come avea in uso, con rapidissima celerità questo cammino, entra la città orribilmente infuriato contro gli amici di Albino. Gli corse incontro tutto il popolo inghirlandato di alloro, facendogli onori e acclamazioni grandissime. Il senato egualmente tutto in corpo andette a fargli riverenza, benché i più, fuori di se per la paura, non operando alcun bene da cotal’uomo di sangue, e invaghito a incrudelire per menomissime cagioni, in ispezie allora che potea palliarsi di plausibili pretesti.
Poiché fu entrato il tempio di Giove, e fatti ch’ebbe secondo il costume tutti i sagrifizj, se ne tornò al palazzo, e per festeggiare la conseguita vittoria presentò magnificamente tutto il popolo romano, e co’ soldati largheggiò di denari e di molte altre cose, le quali non aveano essi per innanzi giammai potuto ottenere. Imperocché accrebbe egli loro la misura del grano, menò buono che s’inanellassero di anelle d’oro le dita, e che convivessero nelle loro case con femmine, cose tutte abborrite dalla militar di sciplina, ed atte a infingardirli alla gnerra. Egli fu il primo che gli distolse dal vitto duro e grossolano, dall’essere faticatori, disciplinali, e rispettosi a’ loro generali, infemminendoli co’ denari e colle mollezze.
Avendo dunque ordinato, a suo parere ottimamente, tali faccende, se ne venne in senato, e, asceso il trono imperiale, cominciò con minaccioso discorso a infierire contro gli amici di Albino, esibendo alcune lettere in cifra che area presso quello ritrovato, scagliando improperj a quelli che diceva aver presentato Albino di magnifici doni, e apponendo agli altri la soverchia loro dimestichezza con Negro, ovvero con esso Albino. Con tali pretesti i principali senatori, e quanti vi eran di più nobili e di più ricchi, tutti senza differenza alcuna mandava alla morte; dicendo vendicarsi de’ suoi nemici, ma più veramente gratificando la sua avarizia, della quale più che alcun altro principe fu vilissimo schiavo. Imperocché siccome ogni più lodatissimo non potrebbe vantaggiarlo di costanza d’animo, di perseveranza nelle fatiche, e di gloria nell’arte militare, così la rabbiosa fame dell’oro non gli facea sparagnare per accumularlo nè assassinj crudelissimi, nè veruna spezie di scelleragini: di maniera che in tutto alieno dall’affezionarsi la benevolenza comune, reggea gli ani mi col terrore della sua crudeltà. Nulladimeno ambiva sommamente di rendersi popolare, festeggiando il popolo di varj e magnificentissimi spettacoli, in molti de’ quali uccise furono centinaja di fiere, che da lutti i paesi e nostri e barbari faceva ricercare. Largì eziandìo larghissimi doni, e propose diversi giuochi, traendovi istrioni ed atleti. Vedemmo similmente a suo tempo i teatri tutti aperti e brillanti di ogni sorte di spettacoli, supplicazioni, e veglie simili a’ mister) di Cerere. Avevano questo nome di ludi secolari, e si celebravano, come dicono, ogni tre età, e givano per tutta Roma ed Italia banditori a bandire l’invito a tali feste non mai per innanzi vedute, nè mai di poi da vedersi, mostrando in tal guisa , che dalla passata alla futura festività era intervallo maggiore che l’età di alcun’uomo.
Dopo aver Severo dimorato in Roma per qualche tempo, e chiamati i figliuoli a parte dell’imperio, ponendo mente che dovea la sua gran fama alle guerre civili soltanto, delle quali avea ricusato il trionfo, determinò di nobilitarsi eziandìo colla ruina de’ barbari. Per la qual cosa, sotto pretesto di vendicarsi di Barsenio re degli atrenj che avea seguito la parte di Negro, condusse l’esercito in oriente, e già era per invadere l’Armenia quando sopraggiunsero messi dì quel re, che, dati statichi e doni, dimandava in grazia di stringer seco amicizia e alleanza. Onde Severo, vedendosi secondato dalla fortuna, si volse agli atrenj, ed in cammino incontrossi con Augaro re degli atrenj che a lui sen fuggia, e che, lasciatigli in pegno della sua fede i figliuoli, gli mandò ancora in ajuto molli battaglioni di arcieri. Quindi , traversata la Mesopotami a_e le campagne adiabeniche, corse tutta l’Arabia, che dicon felice perchè vi allignano quelle erbe odorifere che a noi producono spezierie ed aromati. Quindi, avendo presi più luoghi e città, e guastando tutto il contado, passò nel paese degli atrenj, ed assediò la città d’Atra posta in su di un monte al tissimo, cinto di grosse e fortissime mura, e difesa da un copioso numero di espertissimi arcieri.
L’esercito di Severo dunque baltea questa città con grandissimo valore, e tempestava quelle mura con ogni spezie di macchine, e niente ometteva che sollecitar ne potesse l’espugnazione. Dall’altra parte gli atrenj coraggiosamente difendeano la città, e scagliando di luogo alto sassi e saette, macellavano i severiani, sopra i quali giltavano eziandìo vasi cretacei di certe venefiche besticciuole ripieni, che, o vibrandosi agli occhi o ferendo le aperte parti del corpo, recavan loro grandissima noja. E già 1e malattie prodotte dall’ardente sole di quel cocentissimo clima, facevano più strage de’ romani, die non il ferro de’ nemici. Così essendo tutti stracchi e malmenati, e mal riescendo l’assedio, nel quale ormai vi era più a perdere che a guadagnare, si determinò Severo a partire innanzi che gli accadesse di lasciarvi tutto l’esercito. Il quale, avendo fallita l’impresa, se ne veniva via rabbuffato tutto e dolente, siccome quello, che sortito essendo vincitore di tante battaglie, si dava a credere avere in quella soccombito, per non averne riportata vittoria.
Ma presto gli disgravò di ogni tristizia la fortuna favorevole, prosperandogli di vittoria maggiore di quella che sarebbe potuta loro cadere in pensiere. Perchè messisi in acqua, ed sforzandosi di approdare alle spiaggie romane, furono dall’impeto dell’onde e del vento potentissimo che poggiava in contrario sospinti al paese de’ parti non molto lungi dalla città di Ctesifonte capitale del regno. Quel re si vivea allora sicuro e tranquillo, non gli passando affatto per la mente che la guerra di Severo contro gli atrenj avesse a recargli il menomo disturbo: e però se ne stava senza prender nessun partito, come persona che non ha punto di timore. Ma l’esercito di Severo quivi sospinto dalla forza della fiumana, prese terra, e scorrendo in furia i villaggi, ogni cosa predava: e dopo che gli ebbe arsi e distrutti, tutt’ora innanzi procedendo, trasse alla regia città di Ctesifonte ove dimorava il gran re Artabano. Quivi, trovati quei barbari spensierati, tagliava a pezzi quanti da prima facevano resistenza, e desolata la città, i fanciulli e le femmine in servitù trascinava. Solo il re ne scampò con alquanti cavalli, ma i tesori, arredi, ed altre ricche suppellettili furono preda del vincitore, il quale più alla fortuna che a se stesso dovette sì bella vittoria. Avuti questi prosperi successi mandò Severo al senato e popolo romano lettere, nelle quali parlava con magnificenza di se, unendovi pitture in tavole ov’erano istoriate le sue battaglie e le vittorie. Il senato gli decretò quanti onori poté maggiori, denominandolo de’ nomi delle debellate nazioni.
Finita in tal guisa la guerra di oriente, se ne tornò a Roma Severo co’ suoi figliuoli già grandi, e terminato il suo viaggio, e le provincie a suo modo ordinate, e fatta la rassegna degli eserciti di Mesia e d’Ungheria, entrò entro la città in trionfo tra gli evviva e le adorazioni del popolo. Egli dal suo lato lo compensò con festività, con sagrifizj, e con molti altri celebratissimi spettacoli: e, dopo averlo magnificentissima mente presentato, solenneggiò de’ giuochi in nome della conseguita vittoria. Quindi si trattenne parecchi anni in Roma, tenendovi ragione, e intentissimo all’amministrazione delle cose civili, accudìa eziandìo sommamente all’ educazione de’ suoi figliuoli.
Ma quei giovanetti adescati dalle soverchie ed effemminatrici delizie della città, e immersi a tutt’ore negli spettacoli e nello studio del correre é del danzare, si erano rotti a ogni vizio. Rissavan sempre fra loro, da prima con gare puerili di coturnici, galli, e fanciulli, prendendo ciascun di loro partito a tutte quelle cose che ne’ teatri udivano o vedevano, e sempre tra loro dissententi, ciò che all’uno piacea venia all’altro in fastidio. A questa dissensione istigati eran massimamente dalle lusinghe degli adulatori e cortigiani, che con tali arti si studiavano di cattivarsi la loro benevolenza. Le quali cose conoscendo Severo, si sforzava di emendargli e riunirli. Così a Bassiano, ch’era il primogenito, e si trovava già insignito degli onori imperiali col nome di Marco Severo Antonino, dette in moglie la figliuola di Plauziano comandante della guardia.
Questo Plauziano (secondo che si dice) fu da prima uomo di condizione assai umile, e per sedizioni ed altre scelleratezze più volte accusa to e mandato in esilio; ma, essendo africano, ebbe in sorte di nascere concittadino di Severo, e, come alcuni credono, eziandìo suo parente, volendo altri che ne’ suoi verdi anni gli si aggraduisse per istupro. Severo lo elevò da bassissimo stato l’invidiosa fortuna, ed aggiudicatigli i beni fiscali, lo straricchi, e solo si rimase dal concedergli la partecipazione dell’imperio. Egli però, abusando villanamente delle sue ricchezze e del suo potere, non lasciava languire, per soddisfare le sue voglie, nessuna spezie di crudeltà e di violenza, e si sorpassò in questo genere a’ più spietatissimi principi. La figliuola dunque di costui fu maritata da Severo a suo figliuolo Antonino, il quale poco contento di questo matrimonio, cui gli era duopo annuire contro voglia, si accese d’odio fierissimo contro la fanciulla e il genitore di lui, in forma ehe non volle avere seco comune nè letto nè abitazione: e tanto in odio l’avea, che tutto dì la minacciava, che pervenuto all’imperio ucciderebbe lei ed il padre. Il che quella spesso riferendo a lui, e l’abborrimento in cui era al marito, suscitogli nell’animo grandissimo sdegno. Onde Plauziano, vedendo Severo già vecchio e pieno di malanni, ed Antonino giovine feroce e spirito bizzarro, sempre minacciante, atterrì e si determinò ad agire piuttosto che soggiacere. Oltre ciò gli si affacciavano alla mente molte idee, le quali ad ambire l’imperio infiammavanlo: ricchezze più che di privato, soldati più che obbedientissimi, onori per tutto sopraggrandi. Egli poi non usciva in pubblico che vestito col rubone a bolle d’oro, e quando era in senato, sedea immediatamente dopo i consoli. Teneva inoltre a’ suoi fianchi la spada, e tutte le altre divise del potere supremo: e quando trascorrea per alcun luogo, si mostrava così pien di orgoglio e di fierezza, che tutti non solo si riteneano dall’appressargli, ma se casualmente ci si fossero imbattuti, volgeano gli occhi in altra parte. Anzi ovunque andava si facea precedere da’ lacchè, che avvertivano doversi tutti tener lontani dalla sua persona, nè fissarlo cogli occhi, ma tenergli bassi ed altrove rivolti.
Le quali cose conoscendo Severo fieramente se ne attristava, e diminuendolo di riputazione, s’ingegnava di persuaderlo ad ammorzare quel fasto insolente . Premendo questi avvertimenti al cuor di Plauziano, lo indussero a rivolgere i suoi pensieri all’usurpazione dell’imperio, e per riesci rvi ordì questa trama. V’era un Saturnino tribuno, il quale gli appariva in vista di tanta riverenza e fedeltà, che sebbene s’ingegnassero tutti di fare altrettanto, non egualmente ci riescivano. Non gli girando dun que per mente il menomo dubbio della fedeltà di costui, anzi tenendosi sicuro della sua segretezza e obbedienza, lo fece verso sera venire in sua casa. Ove ognun licenziato, da solo a solo, così gli parlò: Ora è quel tempo da far valere il lungo studio e il grande amore che hai sempre avuto verso di me, e che io possa rendertene quel guiderdone che meriti. È in tua mano l'eleggere, se vuoi diventare quello che in oggi son io, ovvero, disubbidendomi, finire in questo punto di vivere. Nè ti spaventi la grandezza della cosa, o i nomi degl’imperadori. Imperocchè entro la camera ove dormono puoi di nascosto introdurti in questa notte che sei di guardia, e senza impedimento il voler tuo mettere in esecuzione. Nè i miei comandamenti sono per frapporti il menomo indugio. Va di presente a palazzo, e dì che io ti mando per cose segrete e della più alta importanza: e, cogliendo animosamente il tuo tempo, ammazza nelle stanze loro e il vecchio e il fanciullo. E siccome verrai così a pareggiarti meco ne’ pericoli, io saprò compensartene col porti a parte degli onori. Queste parole, sebbene atterrissero il tribuno, non gli chiusero però la mente in modo da sbigottirne: e come persona accorta (quali sono generalmente gli orientali e i sirj suoi concittadini) avvedutosi di quel pazzo e terribile furore non osò di contradirlo, per la paura che gli dava la vista dell’imminente pericolo. E perciò, mostrando sentir ciò con piacere grandissimo, prima gli si genuflesse e l’adorò come imperadore, poi gli chiese il biglietto della commissione. Perchè usano i tiranni, quando vogliono far morire uno senza processo, darne commissione per poliza, acciò l’esecutore la possa mostrare. Plauziano, dalla mala sua cupidigia accecato, gli dà il biglietto, e accuratamente lo avverte che, uccisi i due principi, mandi subito per lui acciò esser possa in palazzo prima che la cosa si spanda.
Parte il tribuno con questi ordini, e, come sempre solea , traversa liberamente il palazzo, dove veduta la grandissima difficoltà di poter lui solo uccidere in separate stanze due principi, andò a Severo, facendo fretta a’ portieri per essere intromesso, e dicendo loro dover comunicare cose che interessano la salute del principe. Il che avendo essi annunziato a Severo, ebbero da lui ordine di tosto introdurlo. Entrato dentro il tribuno: O signore, disse, io qui vengo per darti, secondo si crede chi mi ha mandato, la morte, ma secondo il mio ardentissimo desiderio la salute e la vita. Plauziano, ambendo d'appropriarsi con male arti l’imperio, mi commise di uccidere te e il tuo figliuolo, nè mi diè tal comando a parole, ma per biglietto. Me ne fa testimonianza questa poliza. Io la presi, accio la mia ricusa non la ponesse in altre mani. Ecco però che qui volai per porti in istato di non temere i suoi furori. Alle quali cose, affermate dal tribuno con voce di dirottissimo pianto, Severo da principio dava poca fede, perchè ancora gli si affacciavano in cuore i segni dell’antica benevolenza. Egli era in sospetto che suo figliuolo, inimicissimo di Plauziano, e odiante mortalmente la figliuola di lui, avesse ordito questa trama calunniosa. Onde, fattolo a se venire, gravemente lo riprese dell’animosità e mal talento col quale procedea inverso di un uomo amicissimo e famigliare. Antonino da principio giurava di nulla intendere, poi volto al tribuno ch’era in ismanie ed isguardava loro sott’occhi il biglietto, gli facea cuore a svelare il delitto. Il tribuno, si avvedendo allora che rischio fosse per correre con Severo ancor tutto amore per Plauziano, e che crudelissima morte lo attendesse se non gli facea occare con mani il tradimento: Quale indizio, disse, o signori, potrò io darvi maggiore di questo? Lasciate che io esca di palazzo, e che da persona di mia fiducia faccia avvertire Plauziano, che i suoi ordini sono stati eseguiti. Voi lo vedrete venire a gola aperta per ingojarsi il diserto palazzo. Allora tocca a voi di scuoprire la verità. Intanto date ordine che si faccia silenzio: perchè se gli passa per la mente il menomo sospetto, tutto va a monte. Così detto, piglia uno a se fedelissimo, al quale impone di correr tosto a Plauziano, e dirgli a suo nome, che non indugi, anzi voli; giacer morti ambo i principi; esser duopo occupare il palazzo prima che la cosa si divulghi, per invigorirsi e far parere non di aspirare all’imperio, ma di possederlo, acciò tutti di buona voglia o no sieno per prestargli obbedienza. Era già di notte, quando Plauziano, dando fede a queste parole e gonfio di alte speranze, arma sotto il vestito la corazza, e montato in carrozza si fa condurre frettolosamente a palazzo, tenendogli dietro assai poche persone che credeano fosse stato dimandato dagl’imperadori per affari d’importanza. Entrato che fu senza impedimento in palazzo: non passando per mente alle guardie ciò che dentro si machinava: gli si fa innanzi il tribuno, e con faccia di menzogna lo saluta imperadore: e posta la sua mano a quella di lui, lo mise dentro alle stanze nelle quali gli mentia giacer morti i due imperadori. Avea quivi Severo preventivamente appostate alcune guardie, acciò appena fosse dentro, gli mettessero le mani addosso Plauziano, che avea a tutt’altro il pensiere, entrato che fu nella camera, e dinanzi agli occhi gli fu apparsa la vista de’ due principi, i quali con la test’alta a lui se ne venivano, e nel tempo stesso ebbe sentito piombarsi addosso all’indietro le guardie ed arrestarlo, gli si arricciarono i capelli, e cominciò tutto atterrito a pregare e raccomandarsi, dicendo, esser lui da’ calunniosi raggiri circonvenuto, porsi in opera cose da scena per precipitarlo. Onde, rimproverandogli Severo i benefizj e gli onori, e dall’altra parte Plauziano sovvenendo alla memoria di lui le tante ed antiche sue prove di amore e di fedeltà, cominciava Severo a poco a poco a lasciarsi lirare alle sue proteste, e a porgergli fede, insino che per una delle aperture del vestito apparve la corazza. La quale veduta ch’ebbe Antonino giovine feroce e iracondo, e già dinanzi suo nemico: come sarai per palliare, gli gridò, queste due cose: venisti di notte senza esser chiamato a’ tuoi principi, e venisti armato di corazza. Usa forse venire a mensa o a corte colle armi? Così dicendo comanda al tribuno e agli altri che presenti erano di metterlo a fil di spada, come manifestamente convinto di fellonìa. Non fu soprattenuto neppure un attimo al comandamento del giovine principe, e il cadavere dell’ucciso venne gittato in istrada a ludibrio del popolo. In tal guisa Plauziano, uomo d’inesplicabile avarizia, finì di vivere con fine alla sua vita corrispondente.
Quindi Severo prepose alle guardie del corpo in luogo di lui due comandanti, e passando il suo tempo ne’ sobborghi, o ne’ luoghi marittimi della Campagna, accudiva alle cose civili, e soprattutto a educare di ottimi costumi i figliuoli. Imperocché si era egli avveduto che prendeano piacere a’ giuochi e spettacoli, assai più che a’ principi si convenisse. Di che si elevavano contese e discordie, le quali erano esca a tener gli animi loro occupati sempre a gareggiare d’inimicizia e di rivalità.
Assai però più dell’ altro era insopportabile Antonino; il quale, levatosi dinanzi Plauziano, facea tutti tremar di paura, ed in ispezie la moglie sua, figliuola di lui, per ispegner la quale non restava di tender lacciuoli. Era ella stata, insieme col figliuolo che avea partorito, rilegata da Severo in Sicilia con assegnamento non sopravvanzante il necessario, ad imitazione di Augusto che trattò nel medesimo modo i figliuoli di Antonio, divenutogli nemico. Egli poi adoperava ogni sforzo per riconciliare i figliuoli ed indurli ad essere in pace e concordi, raccontando loro le antiche istorie di que’ regni che avea perduti la fraterna discordia. Aggiugnea: che aver, come aveano, tesori e tempj col mi tutti di moneta ciascun giorno aggrandita dall’entrate dello stato ed ispendibile a imbenevolirsi la soldatesca, i reggimenti della guardia quadruplicati, e sì gran nerbo di truppe in su le porte della città da non ardire di cimentarsi seco loro nè di numero nè di corporal magnitudine nè di dovizia qualsivoglia forza straniera, non era punto a tenersi a gran pregio fra i pensieri della discordia e le gare intestine. Con questi discorsi sempre in bocca, e alle paterne ammonizioni meschiando le preghiere, s’ingegnava raffrenarli ed indurli ad amarsi, ma tutto era in vano, che già niun freno tenevano, volti sempre a far peggio, perchè, a quel bollor giovanile e incitamenti in ogni spezie di sfrenate libidini, aggiugnendosi i cortigianeschi raggiri, inferocivano vie maggiormente i loro animi e s’inimicavano. E tale arte malvagia adoperavano quegli adulatori che non solo si conduceano a compiacergli nelle basse e disoneste loro passioni, ma lutto dì architettavano qualche cosa che all’uno recasse noja, all’altro piacere. Alcuni di loro però, presi sul fatto, da Severo furono puniti di morte.
Mentre il vecchio imperadore incolleriva per la scostumata vita de’ figliuoli intenti tutti a’ giuochi ed agli spettacoli, vengon lettere dal governatore d’ Inghilterra colla notizia, che la provincia era tutta sossopra, e che i barbari mettevan tutto a preda e ruina : occorrere a tal'uopo un maggior nerbo di truppe, e sarebbe bene andasse a comandarle l’imperadore in persona. Severo ricevette questa notizia con grandissima allegrezza, che per appetito avidissimo di gloria desiderava congiungere a’ nomi ed alla fama delle orientali e settentrionali vittorie il trionfo eziandìo dell’Inghilterra. Oltre di questo avea in mente di allontanare da una città effemminala i suoi figliuoli, e avvezzarli in campo fra’ soldati alla vita sobria e militare. Onde decretò subito la spedizione d’Inghilterra. E benché vecchio e gottoso, avea tanto cuore quanto non mai giovine alcuno.
Mossa dunque la marcia, si faceva per lo più portare in lettica, e per tutto era egli presente. E fu sì rapidissimo, che scorse quel cammino, e navigò l’Oceano in men che si pensasse: e sceso in Inghilterra, immantinente intimò la rivista delle truppe, e, rafforzatile, si apparecchiava a dare addosso ai nemici. Ma gl’inglesi, spaventati dell’inaspettato suo arrivo, e udita la sterminata forza dell’esercito ch’era per piombar sopra loro, gl’inviano ambasciadori per discolparsi dell’errore, e con proposiziopi di pace. Severo poi prolungando con arte la risposta per non tornarsene in Roma con le mani vuote, senza compire alla bramosa sua voglia di vincere e onorarsi del nome di Britannico, rimandò indietro gli ambasciadori senza nulla conchiudere. E diligentissimamente provedendo la guerra, ebbe soprattutto cura che si girassero ponti sulle paludi, acciò i soldati starvi potessero con sicurezza, e a piè fermo combattervi. Che l’Inghilterra è tutta ingombra di pantani formati dall’inondazioni dell’Oceano che si distende su di lei e l’impaluda. Entro questi pantani i barbari si gitano a nuoto, e gli trascorrono coperti sino ai fianchi; e, avendo i corpi nudi, si bedano del fango. Ignorano essi l’uso delle vesti, ma ventre e collo circondano di ferro per opinione che gli adorni, e ad ostentare quelle ricchezze che altri barbari ostenterebbero nell’oro. Tratteggiano i corpi loro di pitture vaneggiami, e a figure di ogni spezie di animali. Il quale uso gli fa essere più restii-a quel di vestire, che asconderebbe que’ tratti. Uomini sono ferocissimi in guerra, e avidissimi del sangue e dell’uccisione. Si sodisfano di un piccolo scudo, dell’asta, e della spada che pende loro da’ nudi fianchi. Non adoperano né corazza, ned elmo, essendo di parere che sieno impacci a traversare le paludi, per l’alito delle quali quel cielo annerisce di foltissima nebbia.
Intanto Severo non lasciava indietro nessuna di quelle cose che a’ romani fossero utili, e a’ barbari di danno e impedimento. E quando gli parve esser tutto all’ordine, lasciò in quella parte dell’isola ch’era soggetta a’ romani il più giovine de’ suoi figli, che avea nome Geta, acciò presiedesse all’amministrazione civile, e vi tenesse ragione col consiglio di alcuni suoi vecchj e sperimentati amici. E menando seco alla guerra Antonino, condusse l’esercito al di là di quei fiumi e fossi che dividevano i barbari dalla provincia romana. Quivi accaddero certe zuffe disordinate, e talune scorrerie colla meglio de’ romani. Ma facilmente fra le selve, entro le paludi, e in altri luoghi a loro notissimi, si appiattavano i barbari. Le quali cose tutte contrarie a’ romani, la guerra prolungavano. In questo mentre Severo ornai vecchissimo fu assalito da una grave malattia che lo costrinse a rimanersene in casa, e spedire in sua vece alla guerra Antonino. Antonino però, poco o nulla curando de’ barbari, adoperava ogni pratica per imbenevolirsi l’esercito, ed essere investito esso solo del potere imperiale, e sbrigarsi dall’obbligo di dividerlo col suo fratello carnale. Entro se poi si consumava nel vedere che la malattia del padre andava a lungo, cosicché, non gli parendo poter attendere che chiudesse gli occhi natural mente, facea di tutto per indurre i medici e i famigliari di levargli d’attorno quel vecchio. Così Severo morì più dal dolore consumato che dalla malattia. Fu quest’uomo nelle imprese militari assai più chiaro di ogni altro imperadore, non avendo nessun di loro riportato tante vittorie o civili contro i suoi nemici, o straniere contro i barbari. Morì dopo aver retto l’imperio anni dieciotto, lasciandone la successione a’ suoi figliuoli, con tal somma di denari, quanta per innanzi nessuno, e sì valorosissimo esercito da recarvi a fine ogni più azzardosissima impresa.
La prima opera del nuovo principato di Antonino fu l’uccidere gli amici del padre, e così cominciò, come suol dirsi, dallo spazzare la casa. Fece morire que’ medici che non gli aveano obbedito quando gli comandò di affrettare la morte del vecchio, insieme a loro gli ai suoi e del fratello per aver provato di riconcigliarli, e nessuno lasciò di coloro che tenuto avessero a suo padre osservanza di amicizia, o stati fossero da lui onorati. Tutti poi i generali con grandi doni e maggiori promesse esortava a persuadere i soldati che lui solo imperadore dichiarassero, e con ogni raggiro procurassero di scavalcare il fratello. Non riesci però di nulla ottenere, perchè, ricordando ogn,uno che Severo fin da fanciullo gli avea pareggiati negli onori, voleano anch’essi non disuguagliarli nell’amore loro, e nella loro obbedienza.
Conoscendo allora Antonino di non far punto breccia nell’animo de’soldati, si accordò co’ barbarie, fatta la pace e ricevutine statichi, se ne venne ove rimasti erano la madre e il fratello. La madre tutto fece per fargli fare la pace, aitandola in questo quanti restavano degli amici e consiglieri di Severo. Di maniera che Antonino, trovando da per tutto ostacoli alle sfrenate sue voglie, per forza discese non a fare la pace ma a simularla. Così ambedue i fratelli, regendo con egual potere l’imperio, partirono d’Inghilterra e s’avviarono a Roma seco portando le reliquie paterne. Le quali erano le ceneri dell’arso corpo di lui, che asperse di balsami odorosi si eran raccolte in un vaselletto di alabastro da collocarsi in Roma ne’ depositi imperiali. Così coll’esercito vittorioso, traversato l’Oceano, pervennero in Francia.
Noi dunque abbiamo in questo libro narrato in qual modo finisse Severo di vivere, e come i suoi figliuoli assumessero l’impero.
Fine del Libro Terzo.