Angoscia, Doglia e Pena le tre furie del mondo/Angoscia
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ANGOSCIA
la prima furia del mondo
PROEMIO
Non solamente stanco di mirare la donna mia, ma ancora sazio, rivolgeva gli occhi miei ora di qua ed ora di lá, guardando tutto quello che me occorreva, desiando di vedere cosa piú cordiale della mia donna. Perchè, pensando in ella e di lei ragionando, me son ridutto a tanto, che omai non conosco che cosa è riposo o quiete. Anzi son sforzato di fuggire tutte le donne, per l’asprezza della mia donna e li orribili costumi, per strani portamenti, per il parlar superbo, per diversi suoi vani desiri, per li continui moti, per la sua instabilitá, e finalmente per non contentarse mai di quello che io me contento. Perciò credo che mi serebbe piú utile di sorbire una tazza di veneno (come fece Socrate condannato a morte da ateniesi) che pascermi de cibo per vivere sempre con doglia di cuore, e per cagion della donna mia. Ma, se ciò non è lodato oggi, iudico essere meglio a l’uomo de diventare peregrino, overo essere eremita in qualche grotta o farse amico a fere selvagge, per potere abitare fra quelle senza comercio d’alcuna donna, che non è di godere la bellezza di qual vòi donna bellissima. Perchè, subito che averai detto «donna», hai detto tutto il male che si pò dir in una parola, non considerando perciò la donna come cagion della generazione umana: ma in qualunque altro modo la consideri, tu troverai essere la donna un vaso puzzolente, che amorba quanti passano d’appresso; perciò pensate quello che fa, quando l’uomo se accosta a lei. Di sorte, piú e piú giorni andando di pensiero in pensiero, non possendo liberarmi di sue catene, disiava di avere qualche amico, che m’insegnasse di avere qualche parte di pazienzia, poichè non poteva liberarmi dagli suoi lacci. Nè crederai perciò ch’io non sapesse che di sostenere virilmente gli affanni del mondo non si appartenga alla virtú. Nondimeno dirai: — Chi è quel animo tanto paziente, che non risponda almeno con parole al suo inimico, se della vendetta si astiene? — Pertanto, vedendo io assaissimi cavaglieri e baroni, gioveni e vecchi, immersi in favolosi e vani amori, (posti piú tosto in fèra selvaggia che in cosa umana, dalla quale senza avedersi son dissipati, di sorte che mai piú potranno riconciare il manto squarciato in piú di mille pezi), che dirò del corpo impiagato di insanabil ferite per certo di gran dolore? Cosa non ardisco dire, perchè mai non potria dire tanto, che molto piú non si convenirebbe. Pertanto, vuolendo vivere l’uomo senza alcun dolore insino alla morte, deve armare il suo animo di quelle virtú che sono contrarie alle frodi donnesche. Perciochè l’uomo piú facilmente sopporta i gran tormenti, il bando della patria, pestilenzial morbi, guerre e la fortuna di mare, che non fa una donna superba. Sí che, avendo armato me medesimo di infinita pazienzia, me adormentai sotto un verde lauro, appoggiando il mio capo sopra ad un marmo, dove io avea fatto scolpire la imagine di Socrate e di Nifo, mio maestro. Di sorte mi parve che tutti dua si presentasseno davanti a me, raggionando della mia donna. Il che dilettandomi, stava ascoltando; e, finito che ebbeno il suo ragionamento, me imposeno che sopra di ciò dovesse io scrivere il parere mio. Sí che, per obedienzia de’ miei maestri, sopra il loro raggionamento dirò quanto ho ricevuto
da la loro dottrina.Interlocutori:
Nifo e Socrate.
Nifo. Che cosa è donna?
Socrate.Fumo ed ombra vana,
furor, superbia e mar di venti pieno.
Biondo. Essendo rimosso alquanto dalla donna mia, come uomo carco di insopportabili affanni, da me medesimo talora mi sconfortava e confortava ancora: e la cagione del mio sconforto era esser condutto ad un suffio e maggior leggerezza di una picciol penna; e talora me confortava per trovarme nella magnifica cittá, dove amoreggiando ho consumato la maggior parte della mia vita, spezialmente vedendo assaissimi essercitarsi in quelli piaceri, che per natura sono concessi a ciascuno giovene nato sotto il pianeto di bella Venere, come io son nato. Di sorte giá non mi piaceva tanto il suavissimo cibo nè me contentava di possedere gran massa d’oro, quanto me delettava il ragionar della mia donna, di sua bellezze, di umanissimi costumi e gentilezze, di sua fronte chiara, del viso angelico, di vaghi occhi, che me parevano due stelle, del naso conforme al bellissimo aspetto, di labbri, di sua bocca, che con ogni parola spandeva la primavera di fiori, del mento, e di massele; iudicava, come Alessandro di bellissima greca, la canna, il petto, le braccia; e tutto il resto del suo corpo representava vera forma angelica. Sí che non me maravigliava che la mia mente, con tutto il pensiero, fusse posta in lei. Perchè io credeva che la mia donna fusse il piú perfetto animale al mondo (onde che era il piú imperfetto), la piú fruttuosa pianta, la piú dilettevole ombra e la piú util cosa che mai potesse gustarsi. Perciò, essendo ingannato infinitissime volte, e non trovando che la donna mia respondesse al mio concetto fatto di lei, ero sforzato da me medesimo altrimenti diffinirla, che io aveva fatto infino al presente, senza che io fosse ammonito da detti Nifo e Socrate. Sì che, vedendo io che non vi è cosa al mondo in cui l’uomo si fonda maggiormente che in donna, non sapendo fosse cosa buona o ria, dico che saviamente Nifo dimanda che cosa è donna, per non errare come fanno molti, ma volesse dire, iudico: — O Socrate, donna forsi è animale simile alla umile pecorella? — Ma egli respondesse: — No è — Dunque, che cosa è donna? dimando: forse è cibo della vita umana? — No è — rispondeva. — Perciò, che cosa è donna? — chiedea. — Forse è fontana di acqua viva? — No è, per certo. — Imperò, che cosa è donna? Forse gli è fidele amico? — Te inganni grandemente — giudico che rispondesse. Pertanto, perseverando, dimandava che cosa era la donna. — Forse è — diceva — via di salute? — Credo rispondesse: — Anzi è viaggio di perdizione. — Che cosa è donna? Forse è liquor di melle? — Anzi il suo gusto è di sapore d’assenzio. — Dimmi: che cosa è donna? Forse è qualche cosa sacra? — Non è. — Finalmente mi pareva dicesse Nifo: — Che me dirai essere donna? Forse qualche ospitale de’ poveri e peregrini? — Allora il savio vecchio rispose: — Tu me dimandi che cosa è donna? Dico che gli è un fumo amaro e scuro, come era quello della regina di assiri, la quale anteponeva la virtú virile, mentre che il suo marito visse; ma, doppo la sua morte, provocando a l’atto carnale i piú belli delli suoi soldati, mostròe quanto era amaro il suo fumo, perciochè doppo il fatto gli occideva. — Oh, che mala cosa oddo essere donna! E, di ciò considerando la cagione e che sembianza ha la donna col fumo, di sorte trovo il fumo essere un vapore nero e puzzolente, che esce dal fuoco ardente, di cui è tal natura che attrista l’uomo grandamente, ed ammorba ciascun che circonda piú d’ogni altro fetore, induce a lagrimare senza volontá, e pare che caccia il fiato a chi sta in mezzo il fumo, fa sentire nelle fauci un gusto amaro, per forza l’uomo ciccando, tenze ciascuna parte, dove passa, d’un color nero, anzi piú fusco di mezzanotte, quando nè luna nè stelle si vedeno; di sorte non credo giamai che a l’inferno sia piú scuro il tempo, nè si senta piú amaro gusto, che ha il detto fumo. Perciò dico che, essendo in donna tutte queste proprietá, gli è da credere che la donna sia fumo. E ciò vi acerta Lavinia, che fu cagion di guerra fra Turno e quel pio troiano; ciò Tullia vi mostra, col suo animo perverso, quando fece occidere il suo marito da Tarquin superbo. E la beltá di quella che fu cagion di gran lite fra Aristide e Temistocle, perochè da tutti dua era amata, vi dá a conoscere che Socrate saviamente disse donna essere fumo, perchè ella è amara, scura e nera, fa lagrimare quando a lei piace, e, conoscendo da l’uomo essere amata, il conduce in piú tenebrosa prigione delle tartaree ombre. Perciò dico che la donna è quella femina che fè non ha, come quella che ha rotto il laccio virginale che piú non è donzella. Imperò non senza cagione gli è negato per natura di orare publicamente, gli è vetato di toccare i vasi sacri, nè ha un punto di autoritá di vestire le vergine di sacro ordine, nè ancora gli è licito di spogliare una sacrata, nè iudicio di donna è di valore fra litigiosi, nè gli è accettata per procuratore in iudicio. Dunque dico donna essere simile a quel animale che immita tutti li gesti umani, volendo mostrare essere sí perfetta come è l’uomo, perciò non essendo altro che simia.
«Ombra vana» è detta la donna, perchè in sè non ha alcuna fermezza, anzi è essa vanitá del mondo. Perciò donna vana ha seco il vizio capitale, perchè il suo animo se muove indiscretamente, come si mosse Ottavia, sorella di Augusto, per essere cagione della dissension civile, overo come Cleopatra fu causa di gran guerra fra Ptolomeo e suo padre. Clitemnestra ancora, per essere vana, amazò il suo marito Agamennone, doppo il suo ritorno dalla espedizione di Troia, e ciò per amore di Egisto, col quale puttanegiava. Ma che dirò della vanitá delle altre? Per certo son sforzato de dire quello che si legge di Telesina, la quale, essendo sommamente vana, era dimandata la «dissoluta», e per vigore della legge era adultera e ciò per aversi gionto al decimo marito. Pertanto non trovo donna a cui non convenga l’«ombra vana»; ed è la incertezza, perchè nisuna cosa è piú incerta de l’ombra, qual, appena vi consola, che prestamente non vi coccia piú del sol ardente. Si che la donna è ombra vana, perchè ha per proprietá la vera pazzia; vana è ancora, perchè disia vani onori; cupidissima di lode, perciò è vanissima. Pertanto non vi maravigliate se li conviene il titolo di «ombra vana», specialmente essendo cosa manifesta che la donna va avantandosi di cose non sue, overo si gloria con gran giattanzia di quello che non è vero, anzi di menzogna si sforza fare la veritá: il che gli è ombra scurissima de la sua pazzia manifesta. Come fu quella di Messalina imperatrice, per cagione di cui Vezzio medico fu nobilitato. Costei era mogliere di Claudio Tiberio, la quale cominciò a corneggiare occultamente; poscia si espose publicamente, e quelli, che si astenivano dalla sua prattica per paura di Claudio Tiberio, gli occideva. Di sorte, accesa piú pazzamente, le sfrontate donzelle e maritate voleva in sua compagnia, di maniera tutti quelli che ricusavano la loro prattica in alcun modo, incrudelitta contra di loro, gli amazzava. Oh, vana ombra, quanto sei grande! Perciò non mi maraveglio che i savi del mondo per «ombra vana» abbino inteso la sua vanagloria, vizio capitale, padre de tutte le inormitá donnesche, le quali si conosceno nelle sue sette figliuole legittime. La prima è la inobedienzia, la qual oggi signoreggia grandemente; l’altra è giattanzia, virtú singolare di ciascuna donna; la terza, ippocrisia, quanta è non comprendo; la quarta, contenzione, dí e notte amata; la quinta, discordia, per piú rispetti osservata cordialmente; la sesta, presunzione, sfaciatissimamente accarezzata; la settima, pertinacia, senza rispetto in tutte le cose. Imperò non senza la cagione la donna è detta «ombra vana». Ma, per piú certezza vostra, dico che la donna per tre ragioni è degna di avere il nome «vano». E prima ragione è, perchè infinite volte disia quello che non è possibile di trovare, overo diventa molesta per volere le cose passate: il che non è licito di avere al principe nostro; non che a lei, simpliciotta, sia concesso di vedere. L’altra ragione è quando dimanda alcuna grazia piú tosto da l’uomo che da Iddio, come se stesse nel petto de l’uomo ciò di dargli, e non volesse. La terza ragione è che tutto quel che disia o dimanda, non sa a che fine: il che gli è di lá da l’ombra vana. Sì che, se non fosse in me un certo rispetto, vi ricontarebbe donne di nostri tempi, assai piú vane di quelle antiche, de le quali se favoleggia volgarmente. Perciò chi non conosce la vanitá di Atalanta, di Argia, di Cinzia, di Deianira, di Briseida, di Cidippe, di Ariadna, di Licaste, di Euridice, di Lamia, di lera, di Onfale regina lidia, e de infinite altre? Son certo che tutto il mondo è pieno de la vanitá di costoro: perciò vi dico che rare volte trovarete che una donna vana non accenda un’altra al van disio. Ed io conosco molte piene di vanitá; nondimeno sempre hanno invidia a cose vane. Imperò che sarebbe a tale sesso, quando mutasse la vanitá in vera gloria ed attendesse a far bene, imitando le buone opere? Per certo serebbe lodato publicamente, sí come è biasemato; e cosí piacerebbe non solo agli uomini, ma ancora a Iddio. Nondimeno molte donne oggi trovo che si vanno avantando di vana gloria, mentre che vanno giorgiulando per le contrade, balestrando con gli occhi quanto acutamente son mirate dal volgo. Pertanto quante, credete, sono che fanno professione di vanagloria? Dico che sono assai piú, che non sono quelli che dánno opera al veneno in Italia. O quante si trovano che hanno posto l’ultimo suo fine nella gloria del mondo? Per certo vi sono piú che non sono uccelli nel monte Peneo. Di sorte la donna tutte le sue vertú non dispone ad altro fine che in acquistare la detta vanitá: anzi diria cosa maggiore, se non fosse inteso; ma so che il savio m’intende. E, se pure disia gloria divina, non perciò vi spende un sospiro, nè troppo si consuma con le orazioni, ma nella vanitá umana si strugge senza modo e senza fine. Quante sono che non credeno a migliore dottrina di quella che hanno nella sua testa? Piú che serpenti in Egitto. Quante sono che pria vogliono morire che partirsi da la sua openione, per non concordarsi con la volontá della vicina? Piú che canne intorno al Tebro. Quante sono che, rissando, alzano la voce per insino al cielo, acciò non siano superate con parole d’un’altra? Piú che balene nel mare d’india. Pertanto giudico che l’uomo prudente, overo colui che sa vencere se medesimo, conoscendo vizi per li suoi gradi, conosce la cagione perchè la donna è chiamata «ombra vana», perchè la vanitá fu il primo vizio per cui rimase infetta la natura umana. Si che concludo che la vanitá è un falace diletto umano, un studio senza frutto, perpetua paura, pericolosa essaltazione, principio di falsa grandezza, senza alcuna providenza, e certissimo fine di grave penitenza. Imperò parmi che giamai è tanta scontentezza d’uomo di libertá filtrare in lacci, quanta tristezza è di sentire sempre diversi, vani disiri di quella che conosce essere amata da lui; di sorte dico che costui è posto in alto per cascare in grave ruina. Sí che non mai è tanta gloria d’un ricco maritaggio, quanta è l’infamia dopo che ’l cade in povertá per la vanitá di sua donna, che altro non dimanda che pompa del mondo. Nè credo che per altra cagione donna disia avere gran danaio, salvo per mostrare la sua vanitá nelle serve, nelle gioie e altri ornamenti d’oro e d’argento, nelle argentarle di sue credenze, nelli vasi fatti a l’antica, nelli superbi drappi, nell’ornamento di casa di lavor fiandresco; non perciò per alcuna sua utilitá nè per suo gran piacere, ma piú tosto acciò sia veduta da molti quanto è vana: sí come fu quella che edificò la superba Cartagine, emula giá d’imperio romano. E, non ostante che molti principi conoscesseno che vanitá era gran vizio al mondo, nondimeno assaissimi tiranni non restorno di seguire questa vanitá, anzi non satisfeceno ad alcuno suo appetito, innamorati di questa ombra vana. Come si legge di Nerone, di Marco Crasso, di Cesare qual vòi, di Ciro, di Lucullo, di Esopo tragico, di Menandro, padre di Protagora. E credo che re Mida non per altro dimandò la grazia da dio Bacco che ciascuna cosa che toccava diventasse oro, salvo per sodisfare alla vanitá del mondo. Sí che giudico che, seguendo lei, non hanno adempito alcun suo disio; anzi, innamorati d’ombra vana, hanno perso non solo i regni, ma la propria persona. Perciò, ciascuna donna essendo vana, dico che tutte le cose sue sono manifesta vanitá del mondo. Pertanto mi parrebbe cosa onesta che ciascun amante scrivesse in su le sue scarpe, di sopra i guanti, nelle barette, nei vestiti, nelle sale, nelle camere, per li cantoni della cittá, in piazza e li dove vanno a vagheggiare la donna, e finalmente in mezzo del suo cuore: «Ciascuna donna è vanitá di vanitade, perchè è summa vanitá». Imperò è da fuggire, per essempio, come la pompa del mondo, overo il favore del popolo: è fumo ed ombra. Sí, la donna è ombra fumosa e vana, perchè mai sta ferma, anzi si muove come la fronde e dispare come il vento; il che, ancora che alcuna volta piace, non è che ancora allora non induce un tacito dispiacere. E, pure quando diletta la sua presenza, dico che in quel tempo ancora dispiace, per la vanitá che si vede in lei specchiando. Perciò quanto è fallace la donna, son certo che sappete. Sí che, essendo cosa vilissima, è assimigliata alla vanagloria di quei, che sono gonfie le orecchie di vanitá del mondo. Pertanto vi aviso che la donna non è migliore di colui che di buono è diventato malvaggio, anzi è piú vana del glorioso soldato, il quale, quanto piú si loda ed estolle, tanto piú se biasima e piú scade dal militare onore. Sí che dico che la gloria di propria lingua, dove l’uomo è conosciuto, è piú vana di qual vòi ombra estiva. Pertanto sí una donna ornata di preciose spoglie, come un’altra vestita vilmente, è donna vana. Imperochè non giovano ornamenti ricchissimi, non corsieri feroci inanzi alle carrette, non preciosi portamenti del capo, non catene d’oro ed altri ornamenti del collo candido, nè anella di valore in su le deta; perchè son segni manifesti di vanitá del mondo, cose instabili, come sai, per essere sottoposte a l’ombra di tiranno e di ladro. Perciò dico che non c’è piú misera cosa, fra mortali, di vanitá; il che vi acerta Atalanta, Deianira, Briseida, Egina, Cidippe, Ariadna, Euridice, Cinzia ed Argia, la moglie di Telefo, la figlia di Priamo e la regina di Lidia, con infinite altre, le quali lasso come cosa notissima a voi. Per il che non so che omai piú dir possa Socrate essere donna.
Nondimeno non cessa di narrare maggior sue proprietá, dicendo essere «furore», il quale soverte povere e ricche famiglie, ruina ville, castelli e cittá, spiana le province, e regni ristringe: sí che non dirò, come disse Democrito, che nissun poeta poteva essere grande senza il furore (benchè un furibondo arde piú incredibilmente); nè per questo dico che ’l furore sia dote de l’animo, perchè piú delle volte gli è ira, sdegno e malignitá, a cui non vi è pare al mondo. E sappi che gli è poca differenza fra la pazia ed il furore, salvo che il furore cessa per alcun tempo, ma la pazia rare volte o mai; perchè la pazia è incostanza del corpo mal sano, ma il furore è un subito accendersi ad ogni cosa senza ragione: come si legge delle furiose figlie di re Preto, e di quella vecchia per nome chiamata Acco, la qual, mirando la propria imagine nel specchio e con lei paziando, diventò furiosa. Oh, che dannabil proprietá è del furore e di donna! Il che quanto nòce a l’uomo pacifico so, lettor mio, che ’l sai, perchè l’ira accesa è manifesto furore. Imperò, per maggior sodisfazzione di colui che ha la sua donna furiosa, dico che ciascuno conoscerá facilmente quanto è venenosa la donna, dalle infrascritte ragioni. Il furore è un accender di sangue colerico nelle vene vicino al cuore, overo è ira fervente del sangue, che sta circa il cuore, con l’aiuto del fele: e ciò è donna. Overo il furore è perturbazione della mente senza ragione: e ciò è donna. Furore è quel iracondo voler punire colui che t’ha offeso con ingiuria: e ciò è donna. Furore è gran disio di vendetta: e ciò è donna. Furore è un sdegno acceso, perciò è vizio contrario alla piacevolezza; furore è detto demonio: e ciò è donna. Furore è la perturbazion d’animo sdegnato: e ciò è donna. Donna quando non dá loco alla ira, ciò è furore. Donna non si duole del mal commesso: e ciò è furore. Donna non guarda chi offende, nè pensa quel che dice: e ciò è furore. Donna, essendo ingiusta, è piena di furore; donna, piena di sdegno e di ira, è piena di furore. Donna non fa cosa lodevole, mentre non si adira: e ciò è furore. Donna leggiadra ancora è piena di furore. Donna che governa la casa, sapendo che fa male, non vuol essere ripresa, gli è piena di furore per le cose che fa senza alcuno ordine. Donna, per essere animal pazzo, è piena di furore. Donna non simula l’ingiuria: perciò è manifesto furore. La donna sdegnosa spesso move la custione: però è furore. Donna ha il dire superbo ed aspro: perciò è furore. Donna è un sospiro pieno di sdegno, dimandato «furore», e per tal cagione gli è vetata la sua continua conversazione. Imperò voi, che ardete del fatto suo, guardative da lei come dal veneno, perchè è furiosa. Nè credete al suo Molza nè a l’Equicola, perché, se tre overo quatro si trovano accarezzati da lei, infiniti però si vedono da lei oltraggiati. E, se per caso alle mie parole non date fede, leggete gli angelici canti de l’Ariosto: per certo udirete molto piú cosa maravigliosa, che io non vi scrivo. Ma, se per caso dite che il dannar donna è un nuovo favoleggiare, ditemi, o amanti: perciochè voi difendete la donna? Non trovamo scritto appresso gli antichi greci e latini, come Omero e Virgilio, che la bella greca fu cagion di guerra di Asia e di Europa? Femina pose in arme il populo di Lapite biforme e selvaggio; femina rifece le guerre troiane in Italia, disiata, senza fine; femina è stata cagion alla cittá di Roma, appena desegnata, a prendere le crudele arme contra i Sabini. Se vede ancora oggi qualmente i doi capri per la capra, i doi montoni per la pecorella, ed i doi tori per cagion di femina, zuffandosi, concorreno. Anfiarao descese perfin a l’inferno per sodisfare alla sua donna d’una colana d’oro. Menelao pose in arme la adultera moglie. Per frodi di Clitemnestra mòrse il nobil amante. Sí che dico che ciascuna donna sotto alle amate mascelle nasconde, o furiosi amanti, i vostri lacci, vostro fuoco col quale vi abbruggia, il ferro col quale vi occide, e quel dardo mortalissimo col quale vi passa il cuore. Del veneno altro non vi dico, perchè, vedendo la donna, voi vedete manifesto veneno. E, se ciò ancora non vi basta a dare ad intendere che cosa è donna, per sodisfarvi dico che gli è quella che, per un vile ornamento, dá in man di nemici la sua patria: gli è la Medea, che con le man proprie amaza i suoi figliuoli; gli è Scilla, che segue il nemico di sua patria, avendo svelto il capillo al suo padre; gli è la Bibli, che ama vilmente il fratello; gli è la Mirra, che si suppose al suo padre (oh, cosa orrenda!); gli è la vecchia Semirami, che arde de l’amor dannoso del suo figlio; gli è una de le figlie di Belo, che la notte occide il suo marito; gli è una di quelle che fanno tagliare in pezzi Orfeo poeta; gli è la lussuriosa Pasife, la crudel Fedra, Rebecca ingannatrice; gli è Ippodamia, che inganna il padre; gli è finalmente donna Marzia meretrice, che fu cagion di morte d’imperatore Antonio Commodo. Però, se a voi altri non pare che la donna sia furore ingiusto, son certo che da le dette opere non potete giudicare altrimente, perchè se vede manifestamente che il furore invecchiato diventa odio grande; sí che la donna si può dire essere omai furore odioso overo odio furioso. Perciò non mi maraveglio che alla mia donna il furore pare una dolcezza, che infetta non solo il suo corpo, ma ancora il mio: perchè ha la mente pazza. E la pazzia, quanto piú dura, tanto piú corrompe il suo possessore. E sappiate che gli è maggiore odio di una donna furiosa che non fu l’impeto di Archita tarentino, il quale, contrastando con un villano, disse: — Giá te averia amazzato, s’io non fosse molto adirato. — Pertanto dico essere mala cosa a praticare con la donna piena di furore, perchè ha perso l’intelletto. E sappi che il furore è cagion d’ignoranza; anzi la mente, carca di furore, reputa il giusto essere ingiusto: perciò l’animo viziato è dura cosa di rimovere da mala opinione. Sí che la bellezza poco giova a quella donna che è impetuosa, perchè il peccato de l’animo imbratta la beltá del corpo, perchè il furore guasta un bel volto, ed un viso angelico il tenge di pallido mortale. Pertanto dimmi, lettore, di che sorte è l’animo di colei di cui l’imagine è bruttissima di fuori? Però, quanto a me, direi che costei è simile a monstri infernali, circondata di serpi venenosi in mezzo al vivo fuoco. O donna, quanto è mala cosa di avere a far teco, poiché tu sei sì gran furore! Imperò giudico che la peste non è sì venenosa quanto sei tu, essendo furiosa.
Che cosa dirò omai di donna, sotto il nome di «superbia», certo essere? Poichè giá mi mancano le forze, non per debilitá del corpo, ma per la malignitá che oddo essere donna. Nondimeno non trovo cosa che maggiormente dispiace a Dio di superbia, perciochè ancora dal cielo fu discacciata, come trovo scritto nelle sacre carte. Sí che non è da maravigliarsí che Socrate abbia detto donna essere superbia, perchè non si trova animale al mondo che disia maggiore grandezza di lei; perciò gli conviene il nome di «superba», perchè il volere eccellenzie, onori e lode, gli è la proprietá di superba, ed il disiare di preporse ad altrui è superbia. Sì come si legge de Niobe, la quale, per essere superba, ardiva di preporse a dea Latona. Perciò superbia è l’arroganzia che si trova in colui che amaestra altrui, e chi presume di sapere troppo è superbo; di sorte, se gli accade come intravene ad Aracne, che si preponeva a Pallade, non si maravigli. Imperò, quando tu vedi che una donna sprezza i simpliciotti ed in vil manto involti, dirai che gli è superba, iniqua e malvagia. Nondimeno dimmi, dolce lettore: chi piú di donna usurpa cose inconvenienti? Non trovo animale al mondo: perciò donna è vera superbia, che altro non vuol dire che volere essere superiore ad altrui. Sí che, non trovando chi sta piú su l’avantaggio, nè chi studia piú a ingiuriare di donna, però concludo essere donna veramente superbia. E, per essere donna sempre senza pietá, dico che sempre è superba. Superbia ancora è l’amaestrare arrogante: e ciò è donna; la qual per natura disprezza i simpliciotti e di vil manto coperti: e ciò è atto di superba. Pertanto dimmi, dolce mio lettore: chi piú di donna usa cose inconvenienti? Nissuno altro animale: perciò è vera superbia, che altro non sera che quel disio che l’accende di volere essere sopra gli altri. Sí che, non trovando chi studia piú, sopra alla ingiuria, di essa donna, dico che in sola donna si trova vera superbia, qual gli è il principio d’ogni peccato: il che altro non è che superbia. Donna sempre è senza pietá, pertanto sempre è superba. E, se me dimandi se da la invidia nasce superbia, dico de sí; ma non per contrario, perchè la donna sempre disia grandezze, il che non si fa senza invidia; di sorte, tal disio è cagion che gli se convenga il nome di superba. Perciò, s’è superbia regina d’ogni vizio, che dirò dunque esser la donna? Dirò che gli è serva del gran Plutone. Ma forse dirai: — Come fia questo? — Poichè non si conviene che un superbo diventi servo. Imperò io credo che questo intravenga per questa cagione. Qualunque donna ha un bello aspetto è faustosa, il che communalmente da tutte è disiato. Pertanto, ogni volta che la donna si appogia un poco ad alcuno, è diventata serva, perchè l’uomo l’ha per sua preda. Pertanto non giova che una faustosa o bella sia superba, se vuol essere amata, sí in questo come in quell’altro mondo.
Non possendo vivere senza fortuna, che dirò omai del «mare pieno di venti»? Giudico che si può dire quello che si conviene alla fortuna nembi tempestuosi. Adunque diremo donna essere mar travaglioso e pieno di fortuna. Sí che credo che la mia donna è fortuna, e la mia fortuna è donna. Ed il mare è detto per essere amaro; a cui assimigliandosi la donna, dico che è amara, e quel ch’è amaro, gli è inimico a l’uomo, perciò si fugge; dunque donna, come cosa amara, si deve fuggire. E, quando il mare è pieno di venti, come di levante, sirocco, ponente e tramontana, di greco levante, ostro garbin, ponente garbin e maestro tramontana, allora si levano onde dalle bassissime arene, e cercano di unirse al cielo un’altra volta, coprir la terra ed occupare il luogo di aere; e ciò è confusione, a cui solo Iddio provede che non sommerga, non tanto le nave date in preda al mare, ma ancora i scogli che stanno in mezzo al mare. Sí che detta confusione di mare e venti da ciascuno è chiamata «fortuna.» Il che se gli è cosa pericolosa, sanno quelli che solcano il mare. Ed io ancora conosco il travaglio, avendo la donna continuamente allato, la quale, essendo piena d’ingiurie, biasteme e villanie, èvi di maggior travaglio a me, che non è il mare tempestuoso alla fragile barca. Pertanto, avendo udito che il marinaio dimanda «fortuna» un mare pieno di venti, discorrerò la donna sotto il nome di «fortuna», per essere inteso. Fortuna di mare non è ventura, anzi è sciagura: che dirò perciò di te, donna iniqua! Fortuna rare volte o mai perdona alla quiete overo alla virtú di alcuno, anzi l’incalza, come fortuna di mare la nave carca di ricca merce: e tale è la mia donna. Fortuna spesso rimette l’uomo nelli pericoli mortali: nè altrimente fa ancora la donna maligna. Fortuna sempre ha invidia alla costanzia umana: e la donna non cerca altro che morte al suo uomo. O donna, tu sei piú pericolosa che non è il mare tempestuoso! Non mai fortuna di mare conduce tutte le nave in porto a salvamento: nè la donna rimette l’uomo nella quiete, anzi il cava di riposso per suo potere. Fortuna impedisce la felicitá di naviganti: la donna di quelli che viveno in riposso impedisce la via. Fortuna è amica alla varietá di cose: la donna è nemica di costanzia; perciò è piú perversa della fortuna di mare. E, perchè tutti li savi di Grecia hanno dimandato fortuna «pazzia», «cecitá» e «cosa selvaggia», pertanto dico donna essere tal fortuna pazza, cieca e malvaggia. Perchè la donna è piú volubile d’una palla di vento. Sí che mal va per colui che regge tal donna. Imperò, o gioveni, non vi fidate, nè ancora di donna bellissima, perciochè le cose umane non per altra cagion si mutano, salvo per cagione di donna maliziosa; perciò non vi meravigliate che la donna in ciascuna cosa abbia l’autoritá; e che faccia come la fortuna non è gran meraviglia. Sí che voi, vecchi ancora disamorati, credetemi che non si trova cosa che stia bene, sottoposta al governo di qualcuna donna. Pertanto mi maraviglio di coloro che segueno quella cosa che sempre hanno in odio: e ciò è donna, piú dannosa del mare pieno di venti, secondo Socrate.
Nifo e Socrate.
Nifo.Chi la governa?
Socrate. Non ha legge o freno,
ragion non teme, nè gli è cosa umana.
Avendo udito il savio Nifo che cosa era donna, non resta di volere intendere tutto quello che aspetta alla donna. Sí che, essendo di natura di fumo, vana come qual vòi ombra, non solo furiosa, ma esso furore, anzi un mare tempestuoso, procella piú potente che non è la furia di vento con pioggia, dimanda chi la governa o regge, sí come volesse dire: — La regge forse la legge commune? — Non è. — Li privati statuti forse la governano? — Non è. — Vive forse con timore della legge divina? — Non vive. — L’ammaestra forse la umilitá, qual deve essere nelli religiosi? — Anzi, per contrario. — Forse l’insegna l’antica disciplina, overo la governano li communi errori? — Non so. — La mente pudica e casta forse la guida? — Non si sa. — Adunque chi la governa o regge? — dimandava Nifo. Perciò Socrate, volendo mostrare veramente essere donna quello che ha detto di sopra, risponde e dice: — Non ha legge, perchè il fumo va per ogni parte senza alcun rispetto, come cosa non sottoposta alla legge. Ed ombra non ha freno, come sai, perchè corre via presto: il che ti dispiace. Il furore si move e ferma, sí come a lui piace ed al suo possessore. Superbia, per non avere nè voler temere la legge, tu sai quello che fece, qualmente fu cacciata dal cielo. Il mare, pieno di venti, fa fortuna piú volte, il che non vorrebbe il marinaio. Perciò concludo che la donna, essendo tale, non vive sotto alcuna legge. — Imperò hai a sapere, notando, quale gli è la donna senza legge. Perciochè tutti, dal principio del mondo, parmi che siamo nati sotto la legge di essa natura; nondimeno, eccettuando la donna, convien che veggiamo come si governa. Di sorte giudico che si governa come la volpe, che studia sempre a l’oltraggio, anzi è di natura insidiosa; nè è spogliata di proprietá di lupo, perchè sempre attende alla rapina; non si satolla mai, come la scrofa, perchè non pensa ad altro salvo che a l’ingrassare. Alcuna volta si assimiglia al nibbio; di civetta ha gli occhi e collo; la coda e voce di cornacchia; ad ogni carogna se accosta come la gatta; per tutto mette il naso, il muso come un bracco; se assimiglia al cane de l’ostaio; ed ha bontá di mula, che non sa trar che calzi. Sí che, avendo natura e costumi di questi animali che viveno senza legge, non se può riprendere. Pertanto chi non ha legge è pazzo, fuori di sentimento, di giusto a l’iniusto non fa diferenza alcuna, di oddio allo amore non fa comparazione, di piacere alla sconsolazione non fa caso, ama e disama nel medesimo tempo, non gode di contentezza nè si attrista di sconsolazione, non conosce il bene per non saper fuggire dal male. Pertanto dico: non ha legge chi sempre sta nella confusione, con la donna che vive senza freno. Ragion non teme chi è senza l’intelletto. Ma, acciochè possiate conoscere meglio chi non teme giustizia, overo la ragione, dirovi prima che cosa è la ragione, perchè subito poi conoscerete che cosa è donna, che non teme la giustizia, e quanto è iniqua, perversa e ria colei che di ragione non fa stima, omai intenderete. Dico che la ragione propria è quella forza del nostro animo, con la quale semo differenti dagli altri animali. E descrivesi in questo modo: la ragione è il moto della mente nostra a quelle cose che si dichiarano, discuteno, distinguendo ed abbracciando, come si deve; overo è quello discorso de l’animo nel conoscere il vero dal falso. Altrimenti: la ragione è quella cagione, la quale ne dimostra il vero di quel che cerchiamo sotto breve suiezzione; overo è l’imitazione di natura. Perciò confesso nisuna cosa al mondo essere buona senza ragione, nè essa donna, quando non imita la natura. Perciò, non avendo ragione e non amando giustizia, ciascuna donna, ingiusta e senza ragione, doverebbe essere scorticata viva, come fu scorticato il giudice di Cambise per avere dato l'iniqua sentenza. Pertanto gli è cosa manifesta che la ignoranzia è madre di ciascuna sceleraggine; e la vertú altro non è che in noi vera ragione, perché, essendo altrimente, nisuna donna serebbe ragionevole al mondo, nè mai con qual vòi opera verebbe imitare la natura. Pertanto, se la donna non teme la ragione, dico che non è ragionevole. Perché colui è dimandato ragionevole, che dice overo fa alcuna cosa con ragione; ma chi non teme la ragione è ingiusto, ed ingiusto è colui che possede cose d’altrui contra ogni ragione: perciò quando la donna non fa opere giuste, non teme la ragione. E chi sprezza le cose clarissime con ciascuna vertú, è un demonio de inferno: dunque la donna tale chiameremo «tenebre de inferno», perché la donna, senza splendore e senza ragione, supera l’inferno con tenebre, ed il demonio con la mala operazione, perché, essendo senza ragione, non puoi avere altre che tali proprietá. Ciò si legge di Anna, socero di Caifasso, pontifice ancora che fusse, l’uomo, il quale, avendo udito la veritá da Cristo, si squarciò la veste dal petto, come avesse udito la gran biastema: uomo senza ragione. Ma Olimpia, madre di Alessandro, accesa d’ira, essendo senza ragione, fece cavar da terra Iola morto, giá copiero di Alessandro, e ciò perché se diceva che egli avesse apparecchiato il veneno ad Alessandro; e, cosí cavato fuori di terra, il fece squarciare in minutissimi morsi e pezzi. Perciò donna, ingiusta e detrattrice, non teme la ragione. Imperò è volpe astuta, inimica del bene, discorde alla pace, impia verso i pietosi, senza divozione a’ religiosi, spietata a’ compassionevoli ed inumana: Perciò, dotata di tali e tante proprietá, la chiamaremo destruttrice, non solo de’ nemici, ma ancora de la repubblica. Imperò, se pur desiderate de intendere con che tempera la donna la sua iniquitá, leggete il resto di queste carte, perché intenderete a pieno. Dicovi perciò che la donna tempra la sua iniquitá con infinito disio e crudeltá, perché incrudelisse senza ragione, disiando oro e argento e gemme, e drento nel suo petto gli è amucchiata ogni sorte di vizio ed iniquitá. Non ama luce, essendo tenebrosa; nè li giova fingere l’ignoranzia, perché per natura non sa le parte di giustizia. Perché parmi che quanto piú invecchia la donna, tanto piú si sforza de imitare il pavone; quanto è men potente al piacevolissimo atto umano, tanto piú rappresenta la proprietá d’un stallone invecchiato, incitando la gioventú al suo dannaggio; e quanto piú si trova stracca dal detto piacevolissimo atto, tanto piú appetisse un leggiadro giovene, a guisa del capro invecchiato, al quale tanto piú cresce il disio, quanto piú se attempa; anzi ne l’ultimo della vecchiaia si slonga ed ingrossa, come il fatto del cane, il quale quanto piú diventa vecchio, tanto piú si ingrossa la sua facenda. O donna senza ragione, che vòi tu ch’io concluda de’ fatti tuoi? Per certo, ritrovandoti senza timore della legge, dico che sei animale pazzo, perciò non pòi essere giusta, sí come un savio non può essere ingiusto. E ciò vi narro secondo che mi mostra la ragione; imperò, mentre che la donna è pazza, non può essere giusta, perché gli è sottoposta a infiniti vani disiri, a’ quali per nessun modo può resistere. Pertanto chi non discerne il giusto dallo ingiusto, non teme la giustizia, nè vive con ragione. Né è cosa umana chi ha costumi di fèra selvaggia, perché se dice, chi ha cinto il cuore di superbia, di vanagloria: «È piú dannoso che non è un serpe venenoso». Ma, accioché sappiate che cosa è donna, essendo cosa inumana, convien che vi dichiara che cosa è donna. Perciò vi dico che la inumanitá è propriamente la superbia, inimica a ciascun bene, e nasce il detto vizio in mezzo al cuore inumano. Pertanto colui che, curiosamente e senza ordine, mira le cose mortali, non curandosi del cielo, è di schiatta di fere selvagge, inetto al mondo, pieno di falsa allegrezza, non senza infinita leggerezza d’animo, avendo il cervello eteroclito: perciò si mostra superba ed inumana donna vanagloriosa, e piena di malizia, per la quale vuol parere ad altrui piú santa de l’uomo. O arroganzia, inimica di tacita vertú, indegna tu te preponi, e lei degna si suppone, presontuosa donna, riputandosi degna di alti onori, piena de fizzione. E dice che non merita alcuna pena, per non aver peccato; dice essere libera, perciò vòl fare quel che gli piace senza alcun rispetto; consueta a sodisfarsi, imperò le cose orrende gli pareno cosa lecita. Perciò dico che la donna è cosa inumana. Disprezza ed abbraccia quando gli piace, si dole e tace, persuade e dissuade
a sua posta, impaziente di cose adverse: perciò è inumana. Disprezza ciascuno, e vòle essere accarezzata da ogniuno; ama e disama in uno istante, non si suppone al maggiore, anzi se prepone al suo uguale; di minore di sè non fa stima, ed in ciò è fondata la vertú feminile, perciò ancora la donna è cosa inumana.Nifo e Socrate.
Nifo Ha guida?
Socrate. Si, sfrenata voglia insana.
Nifo Quale sua arte?
Socrate. Impir d’inganni il seno.
Avendo udito l’amoroso Nifo finalmente la donna essere cosa inumana, gli parve cosa ragionevole di sapere chi è il suo guida. Perciò, con grande instanzia dimandando, dice: — O Socrate, dimmi se la donna ha guida o duce; per aver detto donna essere cosa inumana, perch’io credo che nessuno animal selvaggio ha altro guida che il senso naturale. — Perciò Socrate rispose, affirmando che ciascuna donna ha il suo guida, per nome dimandato «voluntá senza freno e piena di manifesta pazzia». Pertanto, poiché averemo veduto che cosa è un voler senza freno, vederemo perché tal volere si dimanda pazzo ed insano. Dico perciò che voluntá gli è l’appetito, il quale deve essere con ragione, e, dove manca la ragione al volere, non è voluntá lodata, e sappi che un pazzo ed uomo senza ragione disia cose impossibili. Pertanto ogni volta che si vede che l’avida voluntá d’alcuna donna osserva un mal consiglio, tal voluntá è sfrenata voluntá, dannabil guidardone. Sí che dico ancora piú oltra: un desiderare molto ed abbracciar poco gli è il guida suo; voluntá tarda al ben fare e presta a l’opra ria, gli è il suo guida; vita senza consiglio, intenta a fraudi, credula di poter sodisfarsi, nè mai essere d’altro volere che di contentar l’animo in quelle cose che piaceno ancora al corpo: perciò credetemi che la donna ha il cuore in mezzo alla lascivia. Pertanto un vizio, posto in voluntá de la donna, gli è il suo guida. Ma, se la sua voluntá fosse posta in desiderio di vedere i famosissimi trionfi romani, in appetito di vittoria de’ suoi inimici, simile alla vittoria di Agesilao, in nella unitá di mente delli suoi amanti, come era di Caligula, quando disiava che il populo romano avesse un solo cervello, acciò piú facilmente potesse, e ad un colpo, troncarli (o ladra voluntá e di uomo carnefice!) nondimeno forsi serebbe piú lodata che non è, essendo in mezzo di lascivia. Sí che non vi maravegliate, o amanti, quando vedete la vostra amata caduta in grave errore per cagione di detta voluntá, percioché chi ha la mala voluntá presto diventa meschino, anzi piú misero della propria possanza, con la quale suol sodisfare alla sua mala voluntá. E sappi che, se la donna non avesse pura possanza, libero arbitrio, non si domarrebbe per la propria voluntá. Sí che, se la donna fosse priva della sua possanza, la sfrenata voluntá non avrebbe loco in lei; ma, perché la natura, sua madre carissima, gli ha dato libera possanza, imperò mai cangiará la donna la sua ostinata voluntá, anzi secondo lei sempre si guidará, onde nasce la pazzia. Ed è quel guida il quale mena la donna nel piú profondo abisso de le tartaree caverne, dove non s’ode altro che pianto e voce orrendi. E, discendendo alla pazzia e pazza voluntá della donna, dico che, quando tu vòi conoscere chi è guida della tua donna, guarda quanto si diletta di cose vane e sensuali, perché specialmente la donna attende alla sensualitá. Imperò la voluptá gli è la vera ésca di voluntá della donna, e sappi che la voluptá è cagione che tutte le vertú se partino dal suo corpo. Perciò la tua donna assiniigliarai a una bestia, o vòi dire allo animale brutto, spezialmente quando tu vederai essere fatta diforme e brutta in quello atto, del quale diremo doppo, nel qual vuole essere sodisfatta da te summamente. Perciò tal sua voluptá è quella voluntá che chiamamo la sua pazzia, la quale se diffinisce voluntá della mia donna; e pazientissima pazzia, perché lei è paziente pazza ed ha a caro essere chiamata pazzarella. Ed il suo volere proprio è pazza voluntá, sfrenata, fidissimo duca di ciascuna donna.
Parendo omai al detto Nifo che nessuna cosa al mondo senza arte si possa fare, non resta de dimandare al prudente vecchio qual è l’arte della donna, perché, non facendo con arte l’officio al quale è data, gli pare che facilmente ciascuno da lei fuggirebbe piú tosto che si accostarebbe, spezialmente conoscendo la sua mala voluntá. Imperò, sapendo il mio maestro che oggi se vive con grande arte, dimanda: — O Socrate, dimmi, qual è la sua arte? — Sí come volesse dire: — È egli forse sua arte di sarcir retagli minuti, e di fare sensaria di robbe d’altrui; o di pistare le carulate droghe, per darle in bevanda alli malsani; o di latte ristretto, offerendo a’ villani di far mal peso, o d’impastare il puzzolente tridelo, per vendere a’ poveri e bisognosi, ridutto in pane; o cangiar moneta falsa, picigando quatrino a quatrino; o va offerendosi a chi la vuole per meno d’un baiocco? — Non è alcuna di dette la sua arte — rispose il savio vecchio. — Perché ha molto piú sottil arte che non è alcuna di queste, anzi è piú perfetta che non sono tutte le dette raccolte insieme, talmente che se vedesseno in un medesimo tempo operare da uno perfettissimo corpo. Percioché la donna con la sua arte supera e vence colui che avesse le sette arte liberali, percioché è piena d’inganni, anzi li suoi vestimenti sono strapuntati di laccio di fraude. Perciò voglio che tu sappi che alla donna di questi tempi cede la castitá di Dafne, qual per conservare la castitá propria sprezzò molti, ed esso Apolline, come si favoleggia; la pudicizia di Biblia romana, che alli suoi tempi fu specchio di castitá. Dula, qual pria vòlse morire d’arme del soldato che da lui essere violata; Fara, donzella che, lagrimando senza fine, diventò cieca, pria che volesse consentire al maritaggio; e le tedesche captive, che, per conservare la castitá, non impetrata la grazia da Mario che fosseno poste fra le caste monache, se suspesero per la canna, cedeno a l’arte de la mia donna. Imperò voglio che sappiate che cosa è suo l’inganno, perché cosí conoscerete la sua arte. Dico che l’inganno è ciascuna astuzia: overo astuzia, fallacia e sollicito pensiero d’ingannare; overamente l’inganno è opera astuta, trovata a essequire un tristo fine. E detto inganno pria si odde in parole, poi si vede in effetto. E, peroché gli è cosa d’uomo saputo di saper guardarsi dal detto male, imperò, per essere cosa diffícile di conoscere la fraude ed il fraudatore, perciò avisarò quel credulo amante, come per suo potere si saperá guardare dal detto male. Dicovi adunque che la fraude e l’inganno stanno fondati ne l’intelletto. E l’intelletto pose natura ed esso Iddio nella anima, la quale è principio mediante il quale vivemo. E detta anima ha il fondamento nel cuore, ma alberga nel cerebro. E della anima vi son tre dote e proprietá, ancora che sia simplice di sostanzia. E prima dote è l’intelletto, il quale primo intende le cose; poi vi è la ragione, la quale discerne il male dal bene; e vi è ultimo la memoria, la qual conserva ciò che l’intelletto comprende, e l’intelletto appresso molti è dimandato «senno». Sí che, concludendo, dico che la donna summamente attende con l’intelletto di trovare qualche inganno, acciò possa sodisfacere al suo appetito; e tali son certo che tu sai che vi sono infiniti. Imperò chi non vuole essere ingannato dalla sua donna, conviene che conossa la sua natura e suo intelletto, perché cosí conoscerá la sua arte. La quale, essendo bona, abbracciala strettamente; ma, ria essendo, la fuggirai, come fugge l’agnello il lupo, la candida colomba il crudel
uccello di Giove, o come l’uomo il serpe venenoso.Nifo e Socrate.
Nifo.Che cibo a’ servi dá?
Socrate.Dolce veneno.
Nifo.Il studio suo qual è?
Socrate.Pompa mondana.
Poiché ebbe inteso il mio maestro la vera arte della sua donna
essere studio d’inganno e di fraude, dimanda quelli, che serveno
spezialmente alla donna ingrata, di che cibi son pasciuti,
percioché oggi non si vive di vento o di aura soave. Ed io
veggio che i servi dal suo patrone voleno essere ben trattati,
percioché il servo non guarda alla caristia. Imperò tal sia
de chi non ha. Sappi che il servo vuol trionfare, pascendo il
corpo non solo di pane, vino, carne e pesce, ma alcuna volta
vuol la salsa; percioché non ha l’appetito quando ha pieno
il corpo, nè piú gli piace arosto o carne a lesso, non savori
o guacetti, nè soffritti o torte di piú sorte, nè gli gustano insalate
cotte o crude, di lasagne non fa stima, al biancomangiare
non guarda, di pizze sfogliate non si cura, e dice che gialatina
fa il mal bevere; non fa caso di alcuno frutto romanesco, nè
si contenta di ciò che produceno li bellissimi giardini del regno
di Napoli, nè gli piace tunina di Spagna, non butarghe di
Levante nè lacce tiberine, nè di fico, grata a Platone, si consola,
nè d’altri frutti, giá gratissimi a Filippo ed Alessandro, si nutrisce
o pasce. Perciò voleva sapere il mio maestro, in luoco
di ésca umana, che cibo dá la donna alli suoi servi. Sí che
a tal chiesta Socrate, come uomo saputo, brevemente risponde,
dicendo: — La donna pasce i suoi servi d’un dolce veneno. —
Come fanno molte a questi tempi, le quali al presente tacerò,
per non dargli infamia. Ma ricordaròvi il fatto di Fabia, moglie
di Fabio affricano, qual, per pascere il suo bellissimo amante,
amazzò il marito, Pasife, figlia di re di Candia, passò il mare
in groppa del toro. Clitennestra amazzò Agamennone, suo marito,
per cagione del suo adultero. Ippia, Gellia, Proculina e Lettoria,
Levina e Pompeia, moglie di Giulio Cesare, di che cibo nutrivano
i suoi servi son certo che il sapete; nondimeno giudico
che meglio il sapperete, come averete inteso qualmente un
veneno si trova dolce e cibo di afflitti amanti. Imperò, sappendo io che il dolce è amico alla natura umana, e non vedendo nè
udendo che il cibo dolce sia veneno, salvo che non sia misto
con dolce, resto ammirato come la donna trova un cibo che abbia
nome «dolce veneno», e, per essere veneno, non amazzi il suo
servo, subitamente come l’ha pasciuto. E, fantasticando sopra
tal cibo, trovo che ’l proprio a veneno ed a cose venenose è il
freddo, e la amaritudine cosa contraria al vivere, il che reputo
sappia chi ha provato tal cibo. Nondimeno non convien che
noi consideriamo il detto cibo come cosa mortifera, ma bisogna
che ’l contempliamo come nutrimento della vita umana, non
ostante che si chiama «veneno». Imperò spero di penetrar con
l’intelletto insino a tanto che vi darò a conoscere di che «dolce
veneno» intese Socrate. E cosí conoscerete qualmente il cibo
della vostra donna è dolce veneno, il quale apparecchia la mattina
per la sera, e la sera per la mattina, per darvi conveniente
nutrimento. Sí che sappiate che quanto piú dolce cosa ricevete
dalla vostra donna, tanto è maggior veneno, e cosí piú presto
amazza l’uomo. Imperò il dolce veneno, cibo di fidel servo
della sua donna, non è di zuccaro o melle, nè è ambrosia celeste
o nettare, nè gli è pasta di marzapano, nè succo di melapie,
non ventraglie di polastri, nè animele di agnelli, nè altro
qual vòi cibo dolcissimo. Ma gli è quel cibo che, pascendo i
servi, strugge; ed è il spesso mirarsi con la sua donna. Anzi
è dolce veneno il folto e furioso porgere e spicar basi; gli
è ancora quel cavalcare alla moresca con la sua donna; gli è
il movere di piedi in fretta, per arrivare onde si fa lasso ritorno;
gli è un giuocare alle braccia con la sua donna, con dire cose
lascive, dolce veneno; gli è un volgere d’occhi a guisa d’uomo
morto, e restar come senza fiato. Oh, che cibo! oh, che dolce
veneno! Gli è un confondere di parole e di tempo, gli è una
battaglia ed un continuo scontrasto, dolce veneno, di sorte quanto
piú dolci colpi si fanno, tanto son piú venenosi; gli è uno ingiuriar
col nome di «traditoraccio»; gli è un vibrar di lingua piú
spesso di un serpente venenoso; gli è finalmente un sciocco
lamentare: — Ora che hai fatto? Perché me hai morto? — E
questo è quel cibo pieno di dolce veneno.
E, perché ciascuno dice che attende a qualche opera ed arte, sí come deve acciò non perisca come appena nato, e, se pur vive nella inerzia, si giudica morto, ancora che ’l spira; sí che, sapendo Nifo che si conviene essercitare si alla donna come a l’uomo in laudabili arte o studio liberale, dimanda qual è il suo studio. E, accioché sappiate che cosa è il studio, dicovi che ciascuna cosa, che sta bene e fassi con diligenzia, i piú savi hanno detto «studio»; sí che sotto di questo nome vi stanno le arti mecanice e le scienzie liberali. Perciò, essendo piú conveniente alla donna l’arte mecanica che la scienzia liberale, intenderemo che il mio maestro intese di alcuna arte mecanica, conciosiaché avesse detto «studio». Sí che, essendo arti infinite, come è la filatoria, tessitoria, pittoria, d’aco, recamatoria e simili arte, dimanda in qual di dette overo de’ simili arte si essercita, a che attende, in che consuma il tempo, di che si diletta, con che si spassa, in che gli è inclinato principalmente il suo animo, percioché il studio altro non è che la grande applicazione d’animo con gran voluntá a fare alcuna cosa. Ma, perché si trovano tre cose che sogliono turbare il studio di alcuno, come negligenzia, imprudenzia e fortuna adversa, pertanto giudico che Nifo dubitasse che la donna non attendesse ad alcun studio: imperò dimanda qual è il suo studio, perché spezialmente la donna è negligente. E la negligenza si conosce, quando noi lasciamo andar le cose che dovemo imparare, overo, se pure gli attendemo, con men diligenzia, che si convien, studiamo. Per imprudenzia, non studiamo come devemo, quando nel studiare non servamo il vero ordine. Per fortuna adversa, non dámo opera al studio, quando ne accade qualche caso adverso, overo oppressi da la povertade o infetti di qualche grave morbo. Ma, quando nisuno di questi mali vi osta, chi attende a qualche arte convien che posseda tre proprietá: bona natura, continuo essercizio ed obedienzia alla disciplina. E, perché l’animo nostro gli è come uno infermo, senza alcun studio di cose necessarie alla sua salute, perciò giudico che volesse dire Nifo: — Forse si essercita in arme, per diffondere il suo amante dalli inimici? Forsi pratica fra mercanti, per imparare di trafugare? Forsi attende a’ litigi, fra legisti conversando? — Nondimeno, perché se trovano pochi che essercitano l’ingegno in bene, imperò dico che la donna è di quelli che travagliano il corpo: perciò non se trova fra coloro che attendeno a far bene. Imperò, se tu vòi sappere il studio della tua donna, quietamente oddi di che ragiona; perché, se di feste, di giuochi, di balli e di inconcessi guadagni ragiona, non trovandola in casa, la trovarai in uno di questi studi, percioché di ciascuno se diletta grandemente. Nondimeno dico, o dolce maestro, te inganni, perché nessuno di detti studi principalmente sollecita la mente della tua donna, nè ancora attende alla fortezza delle sue braccia per combattere col forte luttatore, percioché gli è inclinata a maggior studio, come udirai: ed è la pompa mondana, come dice Socrate. Oh, studio pieno di ruina, studio fallace, studio perverso, studio che finalmente condanna la bellissima anima! Né crederai perciò che la pompa della mia donna è quel vestito francese, conveniente ad ogni tempo; nè ornamento di testa alla monacale; nè uso di veste tragica, giá grata alle persone grave; nè quel cuculio, veste circondata al collo; nè casacca, veste alla crovatta; perché sfoggia nelli ricchissimi drappi fimbriati superbamente, e, secondo il costume di matrone romane, usa veste lasciate insino a terra; nè si scorda di vestito di re Attalo, anzi il strussia, come broccato e broccatello fosse un canavaccio. Di ornamenti del suo capo altro non vi dico, perché voi vedete quante fogge di scuffiotti, non piú con barrette impennacchiate, nè ornate di medaglie d’oro smaltate e fatte alla antica, ma piú superbo ornamento di paglia lavorato; di sorte che piú se apprezza il lavoro, che non si apreciasse s’el fosse d’oro. Perciò non è gran maraveglia che petasso, flammea e galero, ornamenti della testa, cedano e son spreciati, perché oggi se lodano nuove fogge e nuovi portamenti, e le testure babilonice sono in prezzo ancora, perché la mia donna si diletta di piú vari colori che mai se dilettasseno mori, saraceni e tartari. Pertanto sappi che la pompa altro non è che l’apparato, overo ornamento, come era solito farsi nelli trionfi delli antichi Cesari: perciò «pompa» oggi si dimanda «sfoggiamento di superbi e ricchi vestimenti». Imperò quanti e quante si trovano contenti d’un solo vestito, tanti e tante sonno piú dispredate di esso Diogene, che era contento d’un vestidello. Ma quanti e quante vestono delicatamente, tanti e tante acquistano piú lode che non ha Aristotele, che vestiva delicatamente. E quanti e quante vanno ornati accuratamente, tanti e tante son piú vagheggiate e mirate accuratamente che non era mirato Demostene, che vestiva accuratamente. Ecco in
che consiste la pompa mondana.Nifo e Socrate.
Nifo. Che fa con essa?
Socrate.Altrui lega e scioglie.
Nifo. Di che trionfa?
Socrate.Di dolci cor d’amanti.
Nifo. Chi la nutrisce?
Socrate.L’amorose spoglie.
Avendo udito il maestro in che studio la donna consumava il tempo, ed avendo inteso che sommamente studiava in pompa mondana, dimanda al savio Socrate che fa la donna con detta pompa, cioè che frutto piglia da lei o sente: volendo significare che forse con detta pompa consola gli afflitti amanti, o forse risana gli infermi dal grave morbo, forse indrizza i malaviati, forse impara gli ignoranti alcuna vertú, forse denunzia la castitá alle dissolute donne, o forse rivestisse le ignude orfanelle, forse propone di vivere pudicamente, forse gli è mezzo di far professione di povertá per salvar la sua anima... — Non è, non è — rispondeva il vecchio Socrate; — anzi la donna con la sua pompa apparecchia un laccio, una fune o corda, overo annoda la catena per strengere gli afflitti amanti. — Sí che Nifo, come uomo desideroso di saper cosa nuova, dimanda: — Che fa la donna con la sua pompa? forse arricchisse il poverello? Che fa con essa? marita le orfanelle? Che fa con essa? riscatta li schiavi dalle man di mori e turchi? Che fa con essa? digiuna forse e fa penitenzia? Che fa con essa? procura forse il ben publico? Che fa con essa? risana gli infetti? Che facon essa? emenda i propri errori? Che fa con essa? castiga il corpo? Che fa con essa? Che fa con essa? dico: forse veglia stentando per vivere onoratamente? Che fa con essa? diffonde la causa di pupilli ed orfanelli? Che fa con essa? mette pace fra gli inimici? Che fa con essa? sveglia gli adormentati? Che fa con essa? acuisse lo ingegno nel ben fare? Che fa con essa? — simulando dimandava. Quando Socrate, benché mal voluntieri, per essere pompa cagion all’universo d’ultima ruina: — Altrui — disse — liga, ed altrui scioglie. — Deh, Dio, che infelice sorte umana! Poiché la pompa non è fune, laccio, cordone, né catena che liga l’uomo: nondimeno la pompa è cosa molto aspra al mondo, percioché gli è in potere di donna pomposa di ligar uno e di sciogliere un altro. Oh pompa, abito sciocco e vile! Pompa, sepulcro apparente e non conosciuto! Oh pompa, puzza mondana! Oh pompa, abito addolorato! Oh pompa, trivulo occolto! Oh pompa, venenosa ésca del mondo! Sappi che io mi maraviglio di questa varia proprietá; perché oddo e vedo qualmente tu sciogli uno, rimettendo in libertá, e l’altro tu leghi, riducendo in servitú. Percioché la natura dotò le cose d’una sola proprietá: come adunque tu ne hai due? Perché il fuoco è dotato di caldo, l’aere del freddo; diverse piante di speziale proprietá, percioché alcune risanano i corpi nostri da gravissimi morbi, ed alcune ne riducono a morte per essere piante venenose: ma la pompa, legando alcuno, priva di libertá, e, altrui sciogliendo, fa l’uomo libero. Pertanto io credeva che questa varietá procedesse da l’uomo e non dalla pompa: ma, trovando il contrario e di ciò contemplando la cagione, trovo che per gran varietá natura è bella, e la donna per sfoggiare e pompeggiare oggi è amata, di sorte la vertú della sua pompa tanto tira a sé l’uomo, piú che la calamita il ferro, di sorte che l’annoda piú forte d’una catena; percioché la dilettazione de l’abito leggiadro tanto applica l’uomo a sé, che non c’è piú ordine che si possa sciogliere né snodare da lei. Il che se gli è il vero, vi approvano l’antiche istorie e le infinite lascivie di tempi nostri. Ma io, ciò non credendo, ho voluto accertarmi con effetto: di sorte, essendo arrivato in questa terra, cominciai a frequentare ciascun loco dove sogliono ridursi le donne vaghe d’uomini, perciò men belle di quelle che sogliono essere amate senza pompa. Ed, ivi mirando, vedeva molti amascarati, anzi empiastrati, di sorte che le statue di quel luoco mi parevano piú belle di esse donne. Nondimeno vedeva un vagheggiare tanto affolato, che mi pareva che quelli furiosi amanti le volesseno ingiottire vive vive. E questo non per altro, salvo che dicevano: — Oh, che trecce, e bene ornate d’un scuffiotto d’oro! Oh, che candido collo sotto alle colanne d’oro! Oh che occhi vaghi, pieni di mortalissime saette! oh petto ben ornato di mammelle, riposte nel busto alla fiorentina! oh leggiadra personcina, cinta di catena d’oro o di coralli! oh busto divisato in mille modi! oh maniche crispe e stese tagliate in piú di mille fogge, vera catena umana! — Ma che dirò omai di quella parte che si distende giú dalla cintura per fino al ricchissimo grembo? Per certo giá mi manca il sapere e la pronunzia per la tanta pompa, che me consuma solo pensandovi sopra. Perché dalla cintura in giú vi resta quel profondissimo fonte pieno d’ingannevole liquore; quella scurissima spelonca, che ogniora me spaventa pensandovi sopra; quel gorgo, che sorbe i pesci di ciascuna sorte, nè perciò mai se satolla. E, se pure ributta alcuna volta o purga, getta una fezza, un fele, un tossico piú orribile d’un corpo puzzolente, piú amaro di assenzo e piú mortifero di solimato. Nondimeno quanti ornamenti, quanti vari colori, quanti diversi drappi, quanti divisamenti dalla cintura in giú si portano e fanno! Se fanno e portano per quel gorgo, per quella spelonca e per quel fonte! Oh pompa, vanitá del mondo! Pompa, ruina universale! Oh pompa, danno finalmente irrecuperabile! Ma, se pur non credete a me, leggete il fatto d’Ercole, d’Achille, overo di Ulisse, anzi di maggiore di questi: di Giove, di Apolline, di Bacco e di Nettuno; di scrittori Vergilio, Ovidio, Tibullo, Catullo, Properzio ed Ausonio; gran maestri Gigge, re di Lidia, Minos di Candia, ed infiniti altri. Trovarete la pompa essere stata cagione che siano precipitati in quel fosso, che intravano con grande animo e maggior festa, nondimeno, appena intrati, retiravano come strangosciati e privi di animo, anzi piangiolenti, come se vedeno quelli che tornano dal sepulcro dil suo padre o di suo figlio morto nuovamente. Di piedi attilati con piú delicate pianelle, lavorate alla forestiera, coperte di drappo ricco, altro non dico, nè quanto si spende in pompeggiare di piedi, cagion di ogni nostro male. Percioché quelli piedi ed attilate gambucce vi disponeno l’alma alla venenosa lascivia, vi menano alla povertá, ve guidano nel morbo incurabile; di sorte quanti amanti furono mai, sono e seranno, con piedi suoi a’ piedi della pomposa donna sono andati, vanno ed andaranno. Sí che i piedi finalmente chi scioglieno dal venenoso amore, e chi intricano piú di laccio, nodato in infinite maglie di quella rete, in cui incappano savi e matti.
Poiché ebbe udito l’amoroso Nifo l’officio della donna e la proprietá della sua pompa, come uomo che contempla le cose del mondo e de vanitá, oggi non vizio, ma virtú singolare, dimanda: — La donna, per essere pomposa, di che trionfa? percioché la pompa ha trionfi, e trionfi alla pompa convengono. — Oh! doloroso trionfo, trionfo dannabile, trionfo mortifero, trionfo pieno di veneno, trionfo finalmente cagion della infamia nostra! E di ciò vi fa testimonianza Argirio, il quale non ebbe altro, d’uomo, che la barba: tanto era feminile. Taccio Sardanapalo, Giulio Cesare, Aristagora e molti altri, per non dare maggiore infamia a l’uomo che ha. Quando il vecchio Socrate, doppo breve taciturnitá, in cotal modo disse: — La donna con la sua pompa trionfa non d’altro, salvo di dolci cuori de’ suoi amanti. — Oh parola orrenda! Oh spaventevole pronuncia! Oh dannosa impresa! Ma piú dannoso il fatto; poiché il trionfo d’una donna gli è il cuor dolce, cuor soave, cuor benigno, cuor piatoso, cuor finalmente piú suave d’ogni cibo dolcissimo. Ma, perché non si può intendere la grandezza di questo trionfo, se non si conosce la generosa dolcezza del cuore umano, imperò, per manifestarlo chiaramente al mondo, convien che dechiariamo che cosa è il cuore, e quali sono le sue proprietá, perché cosí si conoscerá piú facilmente quanto è grande questo glorioso trionfo. Il cuore ne l’uomo è quel membro, il quale è primo a essere generato. Perciò questo membro avanza ciascuno altro membro di nobiltá, per essere quello in cui pose Iddio il spirito vitale: in egli ancora vi sta il calor naturale, il quale governa tutto il corpo insino che piace a Dio; egli è cagion d’ogni nostra operazione; egli discerne il vero dal falso; egli modera tutte le vertú del corpo; egli pate maggior passione di ciascuna altra parte. Le proprietá del cuore sono queste: amare Iddio ed il prossimo, amar la vertú e cose laudabili, a pétere l’onesto ed odiare il vizio e la sceleraggine, e dilettarsi d’ogni cosa vertuosa; perciò, oh cuor dolce, cuor benigno, cuor soave, cuor sincero, cuore amoroso! oh cuor sopra ogni altro tesoro desiderabile! Pertanto non è da maravegliarsi che la donna trionfa del cuore. Perché chi possede egli, possede tutta la persona; chi ha in preda egli, ha in preda la vita umana. Perciò ho udito da quelli che admonisceno l’uomo per parte de Iddio, non essortano altro salvo il cuore, cioè quel membro dove sta fondata l’anima bellissima, degna del celeste albergo, per essere creata da Iddio, per empire quel loco vacuo di spiriti beati, donde giá alcuni furono cacciati per loro superbia nel profondo inferno. O donna, inimica de Iddio, poiché tu sei cagion di morte eterna, percioché tu, avendo il cuore umano e di esso trionfando, tu te opponi al volere divino, anzi con la bontá divina fai guerra, volendo trionfare del cuore umano; o donna, dura, iniqua, ria, malvaggia, ingiusta e senza legge, dimmi: non era meglio che tu trionfassi di qualche altra parte de l’uomo che del cuore? come d’occhi, con quali sei mirata da l’amante; delle orecchie, con quali odde le tue parole venenose; di mani e piedi, con quali opera e muovesi per venire spesso a vederti; e che tu lasciassi la bella e gentile anima in servigio de Iddio? Il che non facendo, dico che tu sei un demonio.
O anime amorose, o spiriti eletti, deh! venite a vedere quanto è grave il vostro male, percioché non poca dottrina vi si contiene in queste carte. Imperoché, avendo inteso il mio maestro che la donna trionfa di dolci cuori di afflitti amanti, dimanda di che cibo lei se nutrisce ancora, sapendo che senza cibo non si può vivere in questo mondo; anzi dimanda chi la nutrisce, si come volesse dire: — Forse la nutrisce il proprio essercizio? forse vive di elemosina? forse ha tanta intrata, che vive di la sua rendita? forse la mente casta spiritualmente la pasce? — Il che vedendo il vecchio Socrate, panni che in tal modo risponde: — Deh! savio Nifo, dimmi chi altro vòi nutrisca la donna, salvo quelle spoglie che leva alli suoi amanti? imperò a chi leva il danaio, a chi le catene, a chi le anella, a chi il ricco manto, a chi il saio di drappo, ed a chi spoglia persino alla camisa. — Né di ciò vi maravegliate, perché, avendo il cuor vostro in preda, facil cosa è che di tutte le vostre spoglie se nutrisca, e ciascun di voi rimanga ignudo e mesto. E di ciò vi accerta Ercole, dominatore giá di tanti monstri, il quale, con tutto che sapeva quel che conveniva a l’uomo, se pose l’abito feminile, di sorte che ’l si sforzava di trasformare in donna, tanto era preso ed incatenato di pazzia feminile. E ciò usava per poter stare piú liberamente in cose lascive con la regina Lidia, per comandamento di quale filava e pettenava la lana con quelle mani che erano usate di vincere monstri infiniti, ferocissimi animali. Dunque le spoglie di Ercole nutrivano la regina Onfale. Di Clistene altro non dico, perché, essendo preda d’una donna, se vestiva di abito donnesco, spogliato delli sua panni, per farli cosa grata, sí come volesse trasformarsi in donna. Ed il fatto di Publio Claudio son certo che vi è noto. Imperò colui è misero e vile, chi se dá preda di qualsivoglia donna: ancora ch’el spira col fiato vivendo, dico egli è morto. Perché, essendo spogliato di suoi commodi, per dar nutrimento a quella donna, che gode di sua ruina, vi è numerato fra morti. Ma, accioché non vi ammorba la copia di essempi antichi, da voi stessi raccogliete quelli che sono accaduti a’ tempi nostri: perché cosí trovarete quanti amanti disamorati vanno nudi e scalzi, quanti ammorbati, quanti stroppiati si vedeno discorrere passo a passo; di sorte che farete la gran colta delle ruine di vostri parenti e di vicini, che vi seranno un specchio ed uno essempio. Il che facendo, portarete la palma al vostro albergo, doppo longo contrasto; e cosí non solo a voi
satisfarete, ma ancora a Dio.Nifo e Socrate
.
Nifo. Che arme adopra?
Socrate.Parole, cenni e canti,
e risi e sguardi.
Ditemi, o amanti, come volete che sia spirito gentile, che
regge il corpo della vostra amante, nè come vi persuadete che
in lei regna quell’amore, che voi chiamate saggio, valoroso ed
acorto; poiché in lei non si vede una scintilla di virtú nè raggio?
Pertanto dicovi che non truovo donna che si vergogna di far
male. Perciò ditemi: che aspettate, o ociosi e lenti? Io son certo
che altro non aspettate che guai, per cagione delle crudel arme
che adopra la donna, sin che riman vincitrice, combattendo con
voi. Il che essendo noto al mio maestro, non resta de demandare
che arme adopra la donna, mentre che combatte con li suoi
amanti. Allora il savio Socrate: — Adopra — disse — le belle parole, cenni accorti e canti soavi, simulati risi e sguardi acuti. —
Oh crudel’arme! oh arme spietate! arme venenose! arme mortifere!
oh arme a cui cedeno quelle che oggi adopra l’astuta Spagna,
la ricca Francia, l’animosa Alemagna, la potente Turchia, l’Africa
bellicosa e la superba Italia! Ma, accioché sappiate queste arme
di cui io parlo, son quelle che spianano i monti, ruinano le cittá,
atterano i castelli, desolano i campi fertilissimi, armano e disarmano
i populi, desolano l’aceommodati, amorbano i sani, purgano
i corpi senza alcuna medicina, bandeggiano in eterno, fanno
stentare in vita, metteno odio fra parenti, sparteno il matrimonio
talvolta e finalmente vi fanno far l’inimicizia col Creatore del
mondo. Oh arme maledette, arme infernali, arme saette del
cielo! Ma, acciò non paia essere dimenticato di vedere parte per
parte, dirò di ciascuna, dichiarando il vizio e la malignitá della
mia donna. Perciò sappiate che la parola è quella voce che
denunzia li affetti del core; e di parole alcune sonno basse, alcune
alte ed alcune son mediocre. Di sorte che le parole ornate e
piene di dolcezza percoteno il cuore alle volte d’una piaga insanabile.
Perché ho udito spesso gli amanti a dire: — Oh, che
parole son quelle che m’hanno morto! — Le parole penetrano
non solo il cuore umano, ma ancor quel di fère selvagge, anzi
un cuore adamantino spezzano le dolci, le soave, l’amorose e
le piacevoli parole. Le parole alte amorose vi sono: diversi canti
e canzone, le quali quanto offendeno i puri animi, spezialmente
quando passano per un suave organo, son certo che il sappete,
percioché odete, come io, sonar diversi stromenti con dolce
canto appresso; il che non tanto i gioveni fa precipitare, ma
questi ancora che giá hanno posto un piede nella scura fossa.
Oh parte venenose, parole aspre, parole mortali! Nondimeno
non trovo amante che si cura di ricevere infiniti colpi mortali
di tal arme della sua donna, quando se trova ciecato del suo
amore. Cenni son quelli motteggiamenti, che fa la donna col
capo, con le ciglia e palpebre, col muso. E cenno d’occhio gli
è quello che m’ha morto! O arme occulte, arme coperte, arme
nascoste, quanto sete nocive, percioché quanto un cenno è piú
accorto, tanto piú aspramente percuote. E, se di ciò vi volete
acertare appieno, oggi praticate un loco pio, dimane un altro
sacro, poi dimane andate alla indulgenza: trovarete assai piú
che non vi dico. Di risi e sguardi non so quel ch’io debbia
dirvi, percioché da per voi vedete che tutte le donne studiano
di conciare la bocca per ridere aggraziatamente, acciò il suo
riso piaccia a ciascuno. O riso inetto, riso sciocco, riso doloroso,
quanto sei acuto dardo per impiagare un cuor sincero!
Tu, donna malvagia, so che ’l sai. Il sguardo, col quale mira
la donna, balestrando gioveni e vecchi per poter ferire alcuno,
dico che gli è la prima arma, che, senza avedersi, passa un
cuor giovenile, anzi senile, perché oggi li vecchi son piú pazzi
di qual vòi lascivo giovene. Oh sguardo serpentino! Quanto
sarebbe meglio che la donna fosse priva degli occhi, perché non
perirebbono tanti, quanti periscono dal suo sguardo. Né perciò
vi voglio raccontare favole, overe istorie antiche, perché voi
sappete il fatto di Circe, di Elena, di Ippomene, della madre
di Nerone, di Rodope egizzia, di Tais ateniese, di Lais corinzia,
di Fioria, di Niceta ed Aquilina sorelle, di Afra candiota, di
Aspasia, di Filene, di Manlia, Anticira, Armia ed infinite altre
barbare, greche e latine donne lascive, che con le dette arme
hanno amazzati infiniti, e stroppiati senza numero. Sí che, se ’l
vi è alcuna donna in Italia o fuori, che adopra simili arme,
voi sappete. Perciò, o giovani volunturosi, guardative da tal arme,
perché vi guardarete dalla insanabil piaga e dalla morte. E, se
di questo non avete altro essempio, guardate a me solo, quando
passo per la strada, che son piú morto che vivo, perché continuamente
si rinova la mia piaga, dalla mia donna non giá,
ma dal mortalissimo mio nemico, senza quelli colpi che io ricevo
mentre che io vo per le mie devozioni. Perciò non mai mi posso
armar sí perfettamente, che io non ritorno a casa senza insegna
e disarmato, ed impiagato di nuovi e mortalissimi colpi. E, se
per sorte corro ad alcuna donna per aiuto, sempre da lei piú
crudelmente son stracciato. Sí che qualunque di voi disia ed ama
di vivere senza pene e senza guai, fuggia, fuggia li spettacoli
e le indulgenze, le devozioni de visitare, quando son frequentate
da esse donne. Perché oggi le donne frequentano i detti luoghi
non per fare orazione, ma per impiagar noi altri senza compassione;
pertanto, ad adorare, andate ad ora e tempo che loro
non si truovano. E, se pure andate quando vi vanno loro ancora,
non vi volgete dove lor stanno; overo, subito fatta la vostra
orazione a Dio, state fantasticando sopra qualche cosa fastidiosa,
perché cosí, salvando il corpo, salverete l’anima. Perciò serete
Nifo e Socrate.
Nifo. Che frutto ricoglie chi l’ama?
Socrate. Infamia, morte, angoscia e pianti.
Non tanto vi sonno piaciute le parole fatte fino al presente tra Nifo e Socrate, quanto vi dispiacerá il frutto che ciascuno coglie dal fatto della sua donna. Perciò, parendo al mio maestro di far fine al suo ragionamento, dimanda il savio vecchio che frutto coglie l’uomo dalla sua donna. Perché ciascuno se affatica con speranza di cogliere tal frutto, che sino all’altra raccolta possa sostenere la persona in questo mondo. Perché nè il curvo aratore cultiva la terra, nè il pescatore conciarebbe la rete, nè il mercante supporterebbe tanti affanni, se non sperasse pur col tempo di cogliere il frutto della sua fatica; nè l’amante serverebbe la sua donna cordialmente, se non sperasse pure col tempo di essere contento. Sí che il mio maestro saviamente dimanda: — O Socrate, che frutto coglie alfine l’uomo dalla sua donna? Forse la consolazione dell’animo, la contentezza della mente, overo spese per sè e li suoi servi? — Non è — mi pare che rispondesse il savio vecchio. — Ma lui coglie forse onori e fama? — Non è. — Vita longa, le dignitá del mondo, la pietá e mansuetudine, riposso alla vecchiezza, overo coglie gloria eterna? — Anzi il contrario — rispose il vecchio. — E, per essere spaventevoli parole, con grande attenzione prestai le mie orecchie, di sorte che udii quella parola orrenda, cioè: — Chi ama la donna alfine coglie infamia. — Il che se gli è il vero, ricordative del fatto di Paris troiano, di Giulio Cesare, di Salustio istorico ed infiniti altri, quali, per frutto che colseno dalla donna che amarno, acquistâro non poca infamia. Perciò di quanto male è cagion la pratica di qual vòi donna, vi dá a conoscere la legge di Solone, la qual voleva che chi fosse preso in adulterio, di morte fosse punito. E quell’altro voleva che al ruffiano ed adultero solamente gli occhi fosseno cavati. Pertanto chi se ricorda del latto di antichi, trovará fra gli altri qualmente Aiace, per cagion di Cassandra, fu infame. Serse oggi ancora è infame, perché, per satisfare alla donna, premiava quelli che trovavano nuovo modo di lussuriare. E, benché si leggano molti essempi di crudeltá di Nerone e di molti altri, nondimeno per la gran prattica di donne non meno è stato infame che per le altre sue sceleraggine. Ma, accioché siate piú satisfatti del valore del frutto vostro, dirovi quel che io truovo scrittto appresso gli antichi di questa infamia. Pertanto Virgilio, parlando di fama, dice: «la fama è cosa cattiva, di cui non si truova cosa piú veloce. » Che dirò perciò della infamia, di cui non truovo cosa piú ignobile, nè chi acquista piú debil forze, andando, della infamia? Ed è egli come la fama; nel principio piccina, poscia asconde il capo sopra nebbia, pure caminando per terra. Imperò vi dico che la infamia è un monstro orrendo e grande, il quale quanti ligamenti, overo liniamenti, ha nel suo corpo, ha tante lingue ancora, tante bocche ed orecchie senza numero; di sorte l’infamia spaventa le grande e le cittá potenti, quando col vero e quando col falso. E quel dotto sulmontino, volendo parlar di fama, descrive il suo albergo e narra le sue proprietá, spezialmente conveniente a lei; perciò, come cosa non fuori del nostro proposito, son per narrarvi. Egli ha un luoco fra mezzo il mare e la terra, dove si vede quel che non si truova al mondo, talché nascono indi diverse voci, che ascendeno sino al cielo; e detto albergo è posto sopra un colle eccelso, ed ha infiniti riposti, ed a ciascuno natura ha fatti mille buchi senza le porte; ed il detto albergo è fatto di rame, perciò sempre rumoreggia, ribombando di voce orrenda, quel medesimo rinovando infinite volte; come fa la donna mia, per darmi maggior pena. Non vi è riposso in quel luoco nè alcun silenzio; nè perciò ha voce alta, ma sussuri e murmure infinito. Li estremi di quel luoco sempre tuonano, la sala fusca, dove vanno errando le cose false, mescolate con le vere, romori a migliara e confusion infinite, quali impieno tutto quel vacuo. Ivi crescono le parole, ivi sempre gionge di nuovo l’autore, ivi sta la credulitá, ivi vana allegrezza, timore eterno e fresca sedizione. Di sorte che la infamia vede quel che si fa in cielo ed in terra, e va circondando tutto il mondo, perciò non truovo cosa che sia piú inorme di essa infamia, nè frutto che manco satisfaccia alla natura umana.
Dopo il frutto di infamia, sèguita il frutto chiamato «morte». Il che è noto a voi, amanti, senza che io vi dichiari altrimente che frutto sia: nondimeno, per satisfare a quelli che non sanno che cosa è la morte, stando in servigio di alcuna donna nè acquistando altro che morte, diranno che questo frutto è passaggio di vita presente all’altra vita; ed è separazion dell’anima dal corpo la morte. E dicesi morte dalla vita finita, cioè dal vivere che è terminato, ridutto al fine piú quieto. Né perciò si deve credere che la morte sia dea nè figlia di Notte, nè di alcuno altro, perché ciò gli è la fiabba antica; nondimeno, se pure mi volete credere, pensava che questo frutto «morte» fosse rose e fiori, overo diverse poma, overo quel liquore che esce dell’uva. Ma, ingannandomi chiaramente, son constretto de dire che la morte è quella, che si dipinge, nuda imagine umana, senza carne, senza pelle e senza interiori, fatta d’osso solamente, con gran falce in le mani, nera piú di scurissima tenebre; con tutto ciò la morte è chiamata «spirito vivace» piú d’ogni altro animale. Oh morte, frutto acerbo, frutto venenoso! Pertanto che giova all’uomo di gloriarsi di sue ricchezze e di suoi onori? A che avantarsi di nobiltá antica di suoi progenitori? A che insuperbirsi per patria generosa? A che essere superbo per la beltá del corpo e ricchi ornamenti? Poi, guardandovi a cerca, vi truovate mortali, e per andare in mezzo la terra. Ma, se pure non credete a me, ricordatevi di quelli che godevano simili frutti, anzi piú gloriosi trionfi; e pure son morti. O morte, piú amara di assenzo e fele, dimmi: dove son quelli che disponevano sempre in meglio la sua repubblica? dove tanti cavalieri e baroni? dove son le loro veste superbe e perigrini ornamenti? dove è la copia de’ servi? dove le loro feste e giostre? dove i spassi e le contentezze? dove tanti pavidissimi capitani? dove sono li insaziabili tiranni? Quali tutti, o la maggior parte, son consumati in servizio della sua donna. Di sorte che giamai colseno altro frutto, salvo che infamia e morte infame, e son redutti nella favilla e polve: sí che di loro altro non vi si truova che certe parole poste in pochi versi, ed ivi sta la memoria di fama, infamia e morte loro. Pertanto, o furiosi amanti, guardate alla loro sepoltura oggi, dimane e poi; e sappiate dirmi chi fu servo, chi padrone, chi ricco e chi povero, chi re o chi imperadore, chi forte, chi vil d’animo, chi bello e chi brutto. Credo che mai trovarete varietá nè differenza fra tanti. Perciò non giova all’uomo di avantarsi di avere la piú bella donna per patrona, perché altro non si coglie da lei per sua mercede, salvo la morte. Pertanto, quando alcuno vive bene senza essere sottoposto ad alcuna donna, poi che muore, si deve lodar summamente la sua morte. Imperò omai dirò con Platone: tutta la vita di un savio non è altro che pensamento della sua morte. Adunque, lettori miei, noi ancora devemo pensar che cosa faremo doppo la vita presente, non perciò consumandosi nel vilissimo servimento della donna, ma nel servigio de Iddio, grato a ciascun fidel cristiano, percioché cosí il passar della presente vita all’altra non sará morte, ma vita eterna.
Il terzo frutto, che si coglie dalla sua donna, è chiamato «angoscia»; perché, quando l’uomo non diventa infame, overo non muore, convien almeno che ’l si tormenti fra se medesimo. Percioché angoscia non è altro che cordoglio overo tristezza, che si pigliano alcuni nel proprio animo, di quella cosa che lui non può conseguire secondo che desia. Pertanto angoscia è quella passione che, affliggendo il cuore, si consuma il corpo; non altrimente che le continue vigilie, per le quali Cherofonte ne era divenuto magrissimo. Ma, acciò io non vi sia di maggior fastidio, consumando il tempo in quelle cose che vi sono notissime, dico, correndo al fine: non voglio che, per l’essempio di angoscia ed angosciosi, andate ad essempi antichi; ma mirate me talvolta, perché cognoscerete che cosa è angoscia. Percioché mai non si oscura il sole, che la mia donna non rumoreggia oltra modo, non crida piú di uomo furibondo, non per altro, salvo per darmi grande angoscia, cioè dolore e pena, onde che son sforzato di attristarmi per suo amore. Pertanto vi giuro che piú di sette e sei volte al giorno io chiamo la morte che me struggia, per non angosciarme tante volte; perché gli è minor pena di morire che non è il vivere angosciando. E, se del mio parere si truova alcuno, tu, savio lettore, saperlo pòi. Sí che, se ami di vivere senza angoscia, fuggi la tanta benevolenza mortale; perché altro non si coglie dell’amore mondano, che infamia e disonore, overo morte orrenda, o vita almeno angosciosa; ed è quel tarlo, che senza posa rode il cuore afflitto.
E «pianti» gli è l’ultimo frutto, che si coglie stando in servizio della donna malvagia. Oh frutto amaro, frutto acerbo, frutto grave ruina, frutto cagione di cecitá, frutto che oscura un volto sereno, frutto che finalmente dislegua l’uomo, piú che il sole la neve, piú che la cera il fuoco! Percioché i pianti son quelle lagrime, che mostrano il cuore essere appassionato, e nascono per il lamento che fa l’uomo doppo la morte di alcuno overo doppo la perdita di cosa cara. Imperò dimmi, afflitto amante, se gli è gran perdita del danaio e robbe. Son certo non negarai: perciò ancora tu piangi. Dunque dirò che la povertá è cagion del tuo pianto, perché, mentre che tu possedevi il danaio e robba, tu non piangevi. Imperò ora, per esser privo di dette cose, te lamenti piangendo e struggendoti. Dimmi: chi te ha levato il denaio e robba? — La donna — risponderai. Perciò la donna è cagion di pianti, e non la robba overo il danaio. Sí che chi semina danaio e robba, al fine coglie infiniti pianti per frutto, non senza angoscia, disio di morte ed infamia. Nella qual si vede perciò che pria era accommodato di sorte che non avea di bisogno di oro, nè di argento, nè di superbi drappi; ma al presente, per cagion d’una forse vil femminella, ha di bisogno d’un pezzo di pane e di caso, che offeriva l’antico Diogene a quelli che disiavano essere suoi amici. Oh donna, danno! Oh donna, ruina! Oh donna, pericolo! Oh donna, infamia! Oh donna, morte! Oh donna, angoscia! Oh donna, pianto eterno! Ma, accioché ciascuno intenda che cosa è pianto, convien che dichiariamo che cosa è lagrima. Perciò dico essere lagrima quell’umore che stilla dagli occhi di colui che piange. Ed il pianto altro non è che sparger lagrime, quali se causano dalla tristezza del cuore. Benché alcuna volta gli causa la tenerezza, spezialmente quando l’uomo contempla cosa dilettevole, e sia mista con cosa che attrista il detto cuore. E chi piange per li beni temporali e non piange per il peccato, poco avanza. Ma vi aviso che, sí come l’erba non si satolla d’un rivo corrente, nè le ape di odore del timo, nè le capre di varie frondi, cosí la impia donna non si sazia mai del pianto del suo amante. Imperò vi essorto, gioveni e vecchi, che fuggiate dalla donna lasciva, ché cosí fuggirete il pianto. E, se pure non potete fuggire la sua pratica, almeno, dannificati da lei, non piangete in sua presenzia, acciò non trionfi del vostro pianto. Imperò devorate le vostre lagrime, e la piaga vostra richiudete nel petto, perché oggi le lagrime non giovano, nè l’adamante si spezza con tal liquore, nè vi moviate a compassione di lagrime della vostra donna, percioché son piene di fraude, ed hanno studiato a piangere quando li piace. Perché io ho trovato le frodi loro essere nascoste nelle lagrime, talché alle volte lagrime hanno arte piú perfetta che non ha quel simpliciotto amante. Sí che, o voi, lettori miei, carissimi amici, proponete questa sequenzia voi stessi, percioché mai potrete fallire nè essere ingannati dalla donna che amate. Se Lucrezia, raro lume di castitá romana, e Porzia, moglie di Bruto, e Cleopatra egizzia con le sue ancille, Oppia monaca, Orestilia e Sofronia romana la vostra donna superasse di bontá e castitá, non dite che non sia sottoposta alla diffinizione di Nifo e Socrate, dove disse la donna essere «fumo ed ombra vana»; percioché queste volseno fumo e furono ombra ad infiniti, come appresso molti si legge di fatti loro. E piú oltra dico: se Erinna poetissa, che ebbe di maestá omerica, se Polla moglie di Lucano, Safo lesbia, Cornelia moglie di Affricano e madre di Gracchi, Aspasia maestra di Pericle, la sorella di Cornificio con la discepola di Grisogono martire, Anastasia, Zenobia regina e moglie de Isidoro filosofo, Ipazia alessandrina, e la compagna di Safo, Damofila, cedesse alla prudenza e dottrina della vostra donna, direte che vi pare cosa conveniente che, con tanta dottrina, insieme con le dette, sia «furore pieno di superbia e mar senza quiete». Se ben fosse piú religiosa di quella donzella che fu perfetta nella Sacra Scrittura, piú dotta in cose pitagoriche che non fu la sua figlia, piú perfetta di quella che udiva Socrate leggendo, piú lodata di quella troiana che fu essaltata nel tempio da’ suoi nemici, chiaramente confessarete che la vostra donna non ha alcuna legge nè freno. E, se pure fosse come la damigella milanese che di quatordeci anni era eloquente, e piú savia di Isotta Novarola veronese, nè quelle nè la vostra donna possede ragione. Imperò direte non essere cosa umana, percioché vive senza freno, attendendo sempre al studio d’inganni, ed alli suoi amici offerendo cose di morte sotto di dolce ragionamento, inclinata a l’ornamento, per struggere quanti amici mai potrá avere, nè mai cerca di sodisfare ad alcuno appieno, anzi gode di doglia nostra. Ed allora trionfa quando noi si lamentamo con tutto il cuore, nè mai cena volentieri salvo quando spoglia alcuno. Perciò guardatevi di parlar spesso, di udire suoi canti, di non andare da lei quando vi acenna, di spassarsi di alcuno suo riso, percioché con queste arme vi disarma. Il che facendo, sarete lodati piú di qual vòi fortissimo capitano: altrimenti acquistarete infamia, disiarete morte, non mai sarete senza angoscia, e, spesso andando e stando, mesti, goderete solo del vostro pianto.