74 |
ii - angoscia doglia e pena |
|
in pensiero, non possendo liberarmi di sue catene, disiava di
avere qualche amico, che m’insegnasse di avere qualche parte
di pazienzia, poichè non poteva liberarmi dagli suoi lacci. Nè
crederai perciò ch’io non sapesse che di sostenere virilmente
gli affanni del mondo non si appartenga alla virtú. Nondimeno
dirai: — Chi è quel animo tanto paziente, che non risponda almeno
con parole al suo inimico, se della vendetta si astiene? —
Pertanto, vedendo io assaissimi cavaglieri e baroni, gioveni e
vecchi, immersi in favolosi e vani amori, (posti piú tosto in fèra
selvaggia che in cosa umana, dalla quale senza avedersi son dissipati,
di sorte che mai piú potranno riconciare il manto squarciato
in piú di mille pezi), che dirò del corpo impiagato di insanabil
ferite per certo di gran dolore? Cosa non ardisco dire,
perchè mai non potria dire tanto, che molto piú non si convenirebbe.
Pertanto, vuolendo vivere l’uomo senza alcun dolore
insino alla morte, deve armare il suo animo di quelle virtú che
sono contrarie alle frodi donnesche. Perciochè l’uomo piú facilmente
sopporta i gran tormenti, il bando della patria, pestilenzial
morbi, guerre e la fortuna di mare, che non fa una
donna superba. Sí che, avendo armato me medesimo di infinita
pazienzia, me adormentai sotto un verde lauro, appoggiando il
mio capo sopra ad un marmo, dove io avea fatto scolpire la
imagine di Socrate e di Nifo, mio maestro. Di sorte mi parve
che tutti dua si presentasseno davanti a me, raggionando della
mia donna. Il che dilettandomi, stava ascoltando; e, finito che
ebbeno il suo ragionamento, me imposeno che sopra di ciò dovesse
io scrivere il parere mio. Sí che, per obedienzia de’ miei
maestri, sopra il loro raggionamento dirò quanto ho ricevuto
da la loro dottrina.