Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/43

CAPITOLO XLIII

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CAPITOLO XLIII.

Ribellione d'Affrica. Restaurazione del regno de' Goti, per opera di Totila. Perdita e riacquisto di Roma. Conquista definitiva dell'Italia, fatta da Narsete. Estinzione degli Ostrogoti. Disfatta de' Franchi e degli Alemanni. Ultima vittoria; disgrazia e morte di Belisario. Morte e carattere di Giustiniano. Cometa, terremoti e pestilenza.

La rassegna a cui furono passate le varie nazioni dal Danubio al Nilo, ha posto in luce per ogni parte la debolezza dei Romani, e ragionevolmente ci possiamo maravigliare ch’essi pretendessero di allargare un Impero, del quale non potevano difendere gli antichi confini. Ma le guerre, le conquiste ed i trionfi di Giustiniano sono i deboli e perniciosi sforzi della vecchiaja, che esaurisce gli avanzi della sua forza ed accelera la decadenza delle vitali facoltà. Lieto e superbo egli andava di aver restituito l’Affrica e l’Italia al dominio della Repubblica; ma le calamità che seguiron la partenza di Belisario, diedero a divedere l’importanza del Conquistatore, e compirono la rovina di queste sventurate contrade.

[A. D. 535-545] Giustiniano era venuto in opinione che le sue nuove conquiste dovessero riccamente soddisfare la sua avarizia non men che il suo orgoglio. Un rapace ministro delle Finanze teneva dietro ai passi di Belisario, e siccome i vecchi registri de’ tributi erano stati arsi dai Vandali, egli dava pascolo alla sua fantasia con un computo liberale ed un’arbitraria tassazione [p. 82 modifica]delle ricchezze dell’Affrica1. L’accrescimento delle imposte ch’erano levate per conto di un Principe lontano, e la forzata restituzione di tutte le terre che avevano appartenuto alla corona, subitamente fece sparir l’ebbrietà della pubblica gioja. Ma l’Imperatore mostrossi insensibile alle modeste lagnanze del Popolo, finchè fu desto ed atterrito dai clamori del militare disgusto. Molti soldati Romani avevano sposate le vedove e le figlie dei Vandali: essi richiamarono come proprj, pel doppio diritto della conquista e della eredità, i terreni che Genserico aveva assegnati alle vittoriose sue truppe. Con disdegno ascoltarono le fredde ed interessate rappresentazioni dei loro uffiziali che ad essi esponevano, come la liberalità di Giustiniano gli aveva sollevati da uno stato selvaggio e da una servil condizione; che s’erano di già arricchiti colle spoglie dell’Affrica, coi tesori, cogli schiavi e colle masserizie dei vinti Barbari: e che l’antico e legittimo patrimonio dell’Imperatore non doveva applicarsi che al sostegno di quel Governo, dal quale in ultimo dipendevano la sicurezza e le ricompense loro. L’ammutinamento fu in segreto infiammato da un migliaio di soldati, per la maggior parte Eruli, che avevano attinto [p. 83 modifica]le dottrine, ed erano instigati dal Clero della setta Arriana: e la causa dello spergiuro e della ribellione veniva santificata dal fanatismo che si arroga la facoltà di dispensare da ogni dovere. Gli Arriani deplorarono la rovina della lor Chiesa che per più di un secolo aveva trionfato nell’Affrica, e giustamente erano adontati per le leggi del Conquistatore, che proibivano il Battesimo dei loro figliuoli e l’esercizio di ogni Culto religioso. La massima parte dei Vandali, scelti da Belisario, dimenticarono la loro patria e la lor religione negli onori dell’Orientale servizio. Ma una generosa schiera di quattrocento di loro costrinse i marinai, quando furono in vista dell’Isola di Lesbo, a volgere il corso altrove: essi approdarono nel Peloponneso, poi diedero in secco sopra la costa deserta dell’Affrica, ed audacemente rizzarono, sul monte Aurasio, la bandiera dell’indipendenza e della rivolta. Nel tempo che le truppe della provincia ricusavano di obbedire ai loro superiori, in Cartagine si tramava una congiura contro la vita di Salomone, il quale onorevolmente teneva il luogo di Belisario: e gli Arriani avevano piamente deliberato di sacrificare il Tiranno al piede degli altari, durante la celebrazione degli augusti misteri della festa di Pasqua. Il timore ed il rimorso rattenne i pugnali degli assassini, ma la pazienza di Salomone porse ardire ai malcontenti, ed in capo a dieci giorni, si accese nel Circo una sedizione furiosa, che desolò l’Affrica per più di dieci anni. Il saccheggio delle città e l’indistinto scempio de’ suoi abitatori, non furono sospesi che dalle tenebre, dal sonno e dall’ubbriachezza: il Governatore con sette compagni, tra quali era lo storico Procopio, se ne fuggì in Sicilia. Due terzi dell’esercito partecipa[p. 84 modifica]rono di questo tradimento, ed ottomila sollevati radunatisi nei campo di Bulla, elessero per loro Capo Soza, soldato semplice che possedeva in altissimo grado le virtù di un ribelle. Sotto la maschera della libertà, la sua eloquenza sapeva guidare od almeno sospingere le passioni de’ suoi eguali. Egli alzossi a livello di Belisario e del nipote dell’Imperatore coll’ardire ch’ebbe di affrontargli in campo; ed i vittoriosi Generali furono costretti a confessare che Soza meritava una causa più pura ed un più legittimo comando. Vinto in battaglia, egli destramente pose in pratica le arti della negoziazione; un esercito Romano fu sedotto dalle sue proteste di fedeltà, ed i Capi che si eran fidati alle sue fallaci promesse, caddero trucidati, per suo ordine, in una Chiesa di Numidia. Allorchè ogni ripiego sì di forza che di perfidia fu esausto, Soza con alcuni Vandali disperati si riparò nei deserti della Mauritania, ottenne in isposa la figlia di un Principe Barbaro, e deluse i nemici che lo inseguivano col far girar un falso grido della sua morte. La personale autorità di Belisario, la dignità, l’ardire e l’indole di Germano, nipote dell’Imperatore, ed il rigore ed il buon successo della amministrazione dell’eunuco Salomone restituirono la modestia nel Campo e mantennero per un tempo la tranquillità dell’Affrica. Ma i vizj della Corte Bizantina si facevano sentire in quella distante provincia; i soldati si lamentavano di non ricevere nè paga, nè soccorso, e tosto che i disordini pubblici furono abbastanza maturi, Soza ricomparve vivo, in armi ed alle porte di Cartagine. Egli cadde in un singolare cimento; ma sorrise, fra le agonie della morte, nel sentire che il proprio dardo aveva traspassato il cuore del suo antagonista. L’esempio di Soza [p. 85 modifica]e la sicurezza che un soldato felice è stato il primo Re, commossero l’ambizione di Gontari, il quale promise con privato accordo di spartir l’Affrica coi Mori, se mercè del loro pericoloso ajuto egli poteva ascendere al trono di Cartagine. Il debole Areobindo, inesperto negli affari della pace e della guerra, mediante il suo matrimonio colla nipote di Giustiniano venne innalzato all’uffizio di Esarca. All’improvviso egli fu oppresso da una sedizione delle guardie, e le abbiette sue suppliche, che provocarono il disprezzo, non poteron muovere la pietà dell’inesorabil Tiranno. Dopo un regno di trenta giorni, Gontari istesso fu spento in un banchetto dal coltello di Artabano; ed è singolare il vedere che un principe Armeno, della stirpe reale degli Arsaci dovesse ristabilire in Cartagine l’autorità del romano Impero. Nella cospirazione che sguainò il pugnale di Bruto contro la vita di Cesare, ogni circostanza riesce curiosa ed importante agli occhi della posterità: ma la reità od il merito di questi leali o ribelli assassinj non poteva interessare che i contemporanei di Procopio, i quali dalla speranza o dal timore, dall’amicizia o dal risentimento erano personalmente impegnati nelle rivoluzioni dell’Affrica2.

[A. D. 543-558] Quella contrada andava rapidamente ricadendo nello stato di barbarie d’onde l’avevano tratta le colonie fenicie e le leggi romane: ogni passo d’intestina discordia era contrassegnato da qualche deplorabili vit[p. 86 modifica]toria degli uomini selvaggi sopra la società incivilita. I Mori3, tutto che ignorasser la giustizia, impazientemente però comportavano l’oppressione: la vagabonda lor vita e gl’illimitati deserti in cui abitavano, inutili rendevano le armi di un conquistatore, e ne allontanavano le catene: l’esperienza aveva dimostrato che nè i giuramenti nè la gratitudine potevano assicurare la fedeltà loro. La vittoria del monte Aurasio gli aveva tratti a piegarsi ad una momentanea sommissione; ma se rispettavano il carattere di Salomone, essi odiavano e disprezzavano l’orgoglio e la lussuria dei due suoi nipoti, Ciro e Sergio, ai quali lo zio aveva imprudentemente commesso i Governi provinciali di Tripoli e della Pentapoli. Una tribù di Mori accampava sotto le mura di Lepti per rinnovar l’alleanza, e ricevere dal Governatore i consueti presenti: ottanta de’ lor deputati furono introdotti come amici nella città, ma sull’oscuro sospetto di una cospirazione; essi vennero trucidati alla mensa di Sergio, e lo strepito delle armi e della vendetta fu ripercosso dall’eco delle valli del Monte Atlante, dalle due Sirti sino alle rive dell’Oceano Atlantico. Un’offesa personale, l’ingiusta esecuzione o l’assassinio di suo fratello, fece di Antalo un nemico dei Romani.

La sconfitta dei Vandali aveva altre volte segnalato il suo valore; i principj della giustizia e della prudenza furono anche più riguardevoli in un Moro. E mentre egli riduceva Adrumeto in cenere, tranquilla[p. 87 modifica]mente avvertiva l’Imperatore che si poteva assicurare la pace dell’Affrica col richiamo di Salomone e de’ suoi indegni nipoti. L’Esarca trasse le sue truppe fuori di Cartagine: ma alla distanza di sei giornate, nelle vicinanze di Tebeste4, stupefatto soffermossi all’aspetto delle superiori forze e del fiero aspetto de’ Barbari. Egli propose un trattato, cercò una riconciliazione, e chiese di vincolarsi coi più solenni giuramenti. „Con quali giuramenti può egli obbligarsi?„ interruppero i Mori sdegnati. „Giurerà forse pei Vangeli che sono i libri divini dei Cristiani? È però su questi libri che Sergio suo nipote aveva impegnato la fede ad ottanta dei nostri innocenti e sfortunati fratelli. Prima che noi crediamo una seconda volta a’ Vangeli, noi dobbiamo provare la loro efficacia nel punir lo spergiuro e vendicar il proprio onore vilipeso„. Il loro onore fu vendicato nei Campi di Tebeste con la morte di Salomone, e l’intera perdita del suo esercito. L’arrivo di nuove truppe e di più abili condottieri tosto represse l’insolenza dei Mori; caddero diciassette dei loro Principi nella stessa battaglia, e la dubbia e passaggera sommissione delle loro Tribù venne celebrata con esuberante applauso dal Popolo di Costantinopoli. Varie successive incursioni avevano ridotto la Pro[p. 88 modifica]vincia dell’Affrica ad un terzo dell’estensione dell’Italia; tuttavia gl’Imperatori Romani continuarono a regnare per più di un secolo sopra Cartagine e la fertile costa del Mediterraneo. Ma le vittorie e le perdite di Giustiniano tornavano egualmente di danno all’uman genere; e tale era la desolazione dell’Affrica, che in molte parti uno straniero poteva per giorni interi andare errando intorno, senza incontrare il volto di un amico o di un nemico. La nazione dei Vandali era scomparsa: essi una volta ammontavano a cento e sessantamila guerrieri, senza contare le donne, i fanciulli e gli schiavi. Infinitamente era sorpassato il lor numero dal numero delle famiglie Moresche, spente in una guerra implacabile, e la stessa distruzione ricadeva sopra i Romani ed i loro alleati, che perivano per l’effetto del clima, per le scambievoli loro contese, e pel furibondo odio dei Barbari. Quando Procopio prese terra la prima volta, egli ammirò come le Città e le campagne erano piene di Popolo, che fervidamente si esercitava nei lavori del commercio e dell’agricoltura. In meno di venti anni questa scena di vita e di moto trasformossi in una solitudine silenziosa; i Cittadini facoltosi fuggirono in Sicilia ed a Costantinopoli; e lo Storico segreto con fiducia asserisce che cinque milioni di Affricani eran periti per colpa delle guerre e del governo dell’Imperator Giustiniano5.

[A. D. 540] La gelosia della Corte di Bisanzio non aveva permesso a Belisario di condurre a fine la conquista dell’Italia: e la improvvisa partenza di lui raccese il co[p. 89 modifica]raggio dei Goti6, i quali rispettavano il suo genio, la sua virtù, e perfino il lodevol motivo che aveva tratto il servo di Giustiniano ad ingannarli ed a rigettar i lor voti. Perduto essi avevano il lor Re, (perdita di poco momento) la loro Capitale, i loro tesori, le province, dalla Sicilia alle Alpi, e la forza militare di dugentomila Barbari, magnificamente forniti di armi e cavalli. Nondimeno ogni cosa non era perduta, fin tanto che Pavia si manteneva difesa da un migliajo di Goti inspirati dal sentimento dell’onore, dall’amore della libertà, e dalla memoria della lor passata grandezza. Il comando supremo fu per unanime voto offerto al valoroso Uraja; e i disastri del suo zio Vitige non apparvero un motivo di esclusione fuor solo che agli occhi suoi. Il suffragio di Uraja fece pendere l’elezione in favore di Ildibaldo, il cui merito personale veniva esaltato dalla vana speranza che Teude, suo congiunto, Monarca della Spagna, s’indurrebbe a sostenere il comune interesse della nazione dei Goti. Il buon successo delle sue armi nella Liguria e nella Venezia parea giustificarne la scelta; ma egli tosto mostrò al Mondo ch’era incapace di perdonare, o di comandare al suo benefattore. La moglie d’Ildibaldo fu profondamente punta dalla bellezza, dai tesori e dall’orgoglio della moglie di Uraja; e la morte di questo virtuoso [p. 90 modifica]patriotta eccitò l’indegnazione di un Popolo libero. Un ardito assassino eseguì la loro sentenza, col troncar il capo d’Ildibaldo nel mezzo di un convito: i Rugi, tribù forestiera, assunse i privilegj dell’elezione; e Totila, nipote dell’ultimo re, fu tentato, per vendetta, di dar sè stesso e la guarnigione di Trevigi in mano ai Romani. Ma il prode e compito giovane agevolmente fu persuaso ad anteporre il trono dei Goti al servizio di Giustiniano, e tosto che il palazzo di Pavia fu purgato dall’usurpatore eletto dai Rugi, Totila ricompose la forza nazionale con cinquemila soldati e generosamente si accinse alla ristorazione del Regno d’Italia.

[A. D. 541-544] I successori di Belisario, undici Generali uguali nel grado, trascurarono di opprimere i deboli e disuniti Goti, sintanto che i progressi di Totila ed i rimproveri di Giustiniano gli scossero dal loro letargo. Le porte di Verona furono segretamente aperte ad Artabazo che entrovvi alla testa di cento Persiani che militavano al servizio dell’Impero. I Goti sgombrarono dalla città. I Generali romani fecero alto alla distanza di sessanta stadj per regolare lo spartimento delle spoglie. Mentre essi non andavano d’accordo fra loro, il nemico discoprì il numero reale dei vincitori. I Persiani furono immediatamente sopraffatti, ed Artabazo, col saltar giù dalle mura, salvò a stento la vita, ch’egli perdè pochi giorni dopo sotto la lancia di un Barbaro da lui disfidato a singolare tenzone. Venti mila Romani affrontarono le forze di Totila, presso Faenza, e sui colli di Mugello, che appartengono al territorio fiorentino. L’ardore d’uomini liberi che combattevano per ricuperar la lor patria, venne a cimento colla languida tempra di truppe mercenarie che [p. 91 modifica]erano perfino prive dei meriti di un forte e ben disciplinato servaggio. Al primo scontro queste abbandonarono le loro insegne, gettarono a terra le armi, e si dispersero da ogni banda con una viva sollecitudine che sminuì la perdita, ma aggravò la vergogna della loro disfatta. Il Re dei Goti, che arrossiva per la codardia de’ suoi nemici, seguitò con rapidi passi il cammino dell’onore e della vittoria. Totila passò il Po, valicò l’Appennino, differì l’importante conquista di Ravenna, di Fiorenza e di Roma, e marciò pel cuore dell’Italia a stringere Napoli di assedio, o per meglio dire di blocco. I Condottieri romani, imprigionati nelle rispettive loro città, ed intesi ad accusarsi vicendevolmente fra loro della comune disgrazia, non ardirono di perturbar la sua impresa. Ma l’Imperatore, intimorito per l’estremità ed il pericolo in cui erano le sue conquiste d’Italia, mandò in soccorso di Napoli una flotta di galee, ed un corpo di soldati Traci ed Armeni. Questi approdarono in Sicilia, che li fornì di provvisioni copiose; ma gl’indugj del nuovo comandante, Magistrato che nulla sapeva di guerra, trassero in lungo i mali degli assediati; ed i soccorsi ch’egli lasciò cadere con mano timida e tarda, furono successivamente tagliati fuori dalle navi armate che Totila aveva posto in crociera nel golfo di Napoli. Il principale uffizial dei Romani fu trascinato con una corda intorno il collo al piè delle mura, d’onde con tremante voce esortò i Cittadini ad implorare, come faceva egli stesso, la clemenza del vincitore. Essi chiesero una tregua, colla promessa di arrendere la città, se in capo a trenta giorni non appariva alcun soccorso efficace. In luogo di un mese l’audace Barbaro volle concederne tre, giustamente, confidando che la fame [p. 92 modifica]avrebbe anticipato il termine del loro accordo. Prese ch’ebbe Napoli e Roma, le Province di Lucania, dell’Apulia e di Calabria si sottomisero al Re dei Goti. Totila condusse il suo esercito alle porte di Roma, piantò il Campo a Tibur o Tivoli, venti miglia distante dalla Capitale, e tranquillamente esortò il Senato ed il Popolo a paragonare la tirannia de’ Greci colla felicità di cui godevano sotto il governo dei Goti.

I rapidi successi di Totila possono in parte esser ascritti alla rivoluzione che tre anni di esperienza avevan prodotto nei sentimenti degli Italiani. Per comando od almeno in nome di un Imperatore Cattolico, il Papa7, lor padre spirituale, era stato divelto dalla chiesa di Roma ed era morto di fame o di assassinio in un’Isola deserta8. Alle virtù di Belisario erano succeduti i varj, ed uniformi vizj di undici Capi, a Roma, a Ravenna, a Fiorenza, a Perugia, a Spoleto ecc. i quali abusavano dell’autorità per appagare la libidine e l’avarizia loro. La cura di accrescere i prodotti del fisco era commessa ad Alessandro, scriba sottile, da lungo tempo versato nelle frodi e nelle oppressioni delle scuole di Bisanzio e che traeva il suo soprannome di Psalliction (Le forbici) dal destro ar[p. 93 modifica]tifizio in cui sapeva ridurre il peso senza9 guastare il conio delle monete d’oro. In vece di aspettare che rifiorisse la pace e l’industria, egli impose una grave tassa sopra le sostanze degli Italiani. Nondimeno le sue presenti e future angherie riuscirono meno odiose che il proseguimento di un arbitrario rigore contro le persone e le proprietà di quanti avessero, sotto i Re Goti, avuto parte nell’esazione o nella spesa del pubblico denaro. I sudditi di Giustiniano, che scansavano queste parziali vessazioni, venivano oppressi dall’irregolar peso di mantenere i soldati che Alessandro frodava e disprezzava; ed il furioso correre di costoro in cerca di ricchezze o di viveri, provocava gli abitatori del Paese ad aspettare, od implorare dalle virtù di un Barbaro la loro liberazione. Totila10 era casto e temperante, e di quanti si commisero alla sua fede, od amici o nemici, nessuno rimase ingannato. Il Re Goto pubblicò un bando che fu ben ricevuto dai contadini dell’Italia, col quale imponeva che continuassero nei loro importanti lavori, e vivessero sicuri che pagando essi le tasse ordinarie, egli col suo valore e colla disciplina delle sue truppe li difenderebbe dalle calamità della guerra. Totila attaccò, una dopo l’altra, le città forti, e tosto che si erano arrese alle sue [p. 94 modifica]armi, ne demoliva le fortificazioni, onde salvare il Popolo dai disastri di un assedio futuro, privare i Romani dell’arti della difesa, e decidere la tediosa contesa delle due nazioni, mediante un eguale ed onorevol conflitto sul campo della battaglia. I prigionieri e disertori romani si lasciavano trarre ad arrolarsi nel servizio di un avversario liberale e cortese. Gli schiavi furono adescati colla ferma e fedele promessa che mai non verrebbero restituiti ai loro padroni, e dai mille guerrieri di Pavia si formò insensibilmente, nel Campo di Totila, un nuovo popolo collo stesso nome di Goti. Sinceramente egli tenne gli articoli dell’accordo, senza cercare od accettare alcun sinistro vantaggio da espressioni ambigue, o da eventi non preveduti. La guarnigione di Napoli aveva stipulato che sarebbe trasportata per mare; l’ostinazione dei venti impedì quel tragitto; ma essa fu generosamente provvista di cavalli, di provvisioni e di un salvocondotto fino alle porte di Roma. Le mogli dei Senatori ch’erano state sorprese nelle ville della Campania, furono restituite senza riscatto ai loro mariti, la violazione della castità femminile fu inesorabilmente punita di morte; e nella dieta salutare che impose ai Napolitani affamati, il Conquistatore sostenne le parti di un medico umano ed attento. Le virtù di Totila meritano un’egual lode, sia che procedessero da sana politica, o da principi di Religione, o da istinto di umanità. Egli spesso arringava le sue truppe, e sempre ad esse ripeteva che i vizj e la rovina di una nazione sono cose inseparabilmente congiunte; che la vittoria è il frutto della morale, non meno che della militare virtù, e che i Principi ed anche i Popoli sono risponsabili dei delitti che trascurano di castigare. [p. 95 modifica]

[A. D. 544-548] Gli amici ed i nemici di Belisario con eguale ardore lo sollecitavano perchè salvasse il paese ch’egli aveva soggiogato; e la guerra Gotica fu imposta al Comandante veterano o come un pegno di fede, o come una specie di esilio. Eroe sulle rive dell’Eufrate, schiavo nel palazzo di Costantinopoli, egli accettò con ripugnanza la penosa cura di sostenere la sua propria fama, e di ammendare i falli de’ suoi successori. Aperto era il mare ai Romani. Si raccolsero le navi ed i soldati a Salona, presso il palazzo di Diocleziano. Belisario rinfrescò e passò a rassegna le sue truppe a Pola nell’Istria, costeggiò l’Adriatico, entrò nel Porto di Ravenna, e spedì ordini anzi che ajuti, alle subordinate città. Il primo suo discorso pubblico fu rivolto ai Goti ed ai Romani, in nome dell’Imperatore, il quale aveva sospesa per breve tempo la conquista della Persia, e dato ascolto alle preghiere de’ suoi sudditi Italiani. Leggermente egli toccò le cagioni e gli autori dei disastri recenti; cercando di allontanare il timor del castigo per le cose passate, e la speranza dell’impunità per le future, coll’adoperarsi con più zelo che buon successo ad unire tutti i membri del suo Governo in una ferma colleganza di affezione e di obbedienza. Giustiniano, suo grazioso Signore, era propenso a perdonare ed a premiare, ed era loro interesse, ugualmente che loro dovere, di richiamare sulla buona via i loro delusi fratelli, ch’erano stati sedotti dalle arti dell’usurpatore. Nessuno però si lasciò indurre a disertare gli stendardi del Re Goto. Belisario tosto si avvide, che mandato lo avevano a rimanere l’ozioso ed impotente spettatore della gloria di un giovane Barbaro; e la sua lettera all’Imperatore ci offre una genuina e vivace pittura delle angustie [p. 96 modifica]di un nobile animo. „Eccellentissimo Principe, noi siamo arrivati in Italia, privi di uomini, di cavalli, di armi e di denaro, cioè di quanto fa bisogno alla guerra. Nell’ultimo nostro giro pei villaggi della Tracia e dell’Illirico, abbiamo raccolto con estrema difficoltà da quattromila reclute, ignude ed affatto inesperte nel maneggio delle armi, e negli esercizj del Campo. I soldati già stanziati nella Provincia sono malcontenti, sbigottiti e senza cuore. Al rumore di un inimico essi abbandonano i loro cavalli e gettano a terra le armi. Non si possono levare contribuzioni, perchè l’Italia è nelle mani dei Barbari; il difetto di pagamento ci ha privato del diritto di comandare, ed anche di ammonire. Siate certo, o temuto Sire, che la maggior parte delle vostre truppe è già passata dalla parte dei Goti. Se la sola presenza di Belisario bastasse a terminare la guerra, il vostro desiderio sarebbe appagato; Belisario è nel mezzo dell’Italia. Ma se bramate di conquistare, si richieggono ben altri apparecchi: senza una forza militare, il titolo di Generale è un nome vano. Sarebbe utile di restituire al mio servizio i miei veterani e le mie guardie domestiche. Prima che io possa entrare in Campo, conviene ch’io riceva un adeguato rinforzo di truppe sì di grave che di leggiera armatura, e senza denaro contante non si può conseguire l’indispensabil ajuto di un poderoso corpo della cavalleria degli Unni„11. [p. 97 modifica]Un ufficiale, in cui Belisario mettea fiducia, fu spedito da Ravenna per accelerare e condurre i soccorsi; ma negletta ne fu l’ambasciata, ed il messaggiero si trattenne per un vantaggioso matrimonio in Costantinopoli. Il Generale romano, poscia che la sua pazienza fu vinta dall’indugio e dal vedere tutte le sue speranze tradite, ripassò l’Adriatico, ed aspettò in Dirrachio l’arrivo delle truppe, che lentamente venivano raccolte tra i sudditi e gli alleati dell’Impero. Le sue forze erano tuttora insufficienti alla liberazione di Roma, la quale strettamente era assediata da Totila. La via Appia, lunga quaranta giornate di marcia, era coperta dai Barbari, e siccome la prudenza di Belisario voleva evitare una battaglia, egli antepose la sicura e spedita navigazione di cinque giorni dalla costa dell’Epiro alla foce del Tevere.

[A. D. 546] Il Re dei Goti, poich’ebbe o colla forza o cogli accordi, ridotto all’obbedienza le città di minor conto nelle province mediterranee dell’Italia, passò, non ad assaltare, ma a circondare ed affamare l’antica capital dell’Impero. Roma era tribolata dall’avarizia, e difesa dal valore di Bessa, condottier veterano di estrazione Goto, il quale con un presidio di tremila soldati occupava lo spazioso circuito di quelle venerabili mura. Dalle angustie del Popolo egli traeva un vantaggioso commercio, e segretamente s’allegrava che continuasse l’assedio. In servigio di lui erano stati riempiti i granai. La carità di Papa Vigilio aveva provveduto e fatto imbarcare una gran quantità di grano dalla Sicilia; ma le navi che fuggirono ai Barbari, furono sequestrate da un rapace Governatore, il quale compartiva uno scarso vitto ai soldati, e vendea il ri[p. 98 modifica]manente ai facoltosi Romani. Il medinno, ossia la quinta parte di un sacco di grano, si permutava contro sette monete d’oro; e se ne davano sino a cinquanta quando trovavasi un bue; i progressi della carestia accrebbero ancora questi esorbitanti prezzi, e l’avarizia dei mercenari spesso giungeva a privarsi della porzione loro assegnata, che appena era bastante per sostentarne la vita. Un’insipida e mal sana mistura, in cui la crusca superava tre volte la quantità della farina, faceva tacere la fame dei poveri; essi a poco a poco si ridussero a cibarsi di cavalli morti, di cani, di gatti, di sorci, ed avidamente schiantavano le erbe ed anche le ortiche che crescevano fra le rovine della città. Una folla di pallidi e maceri spettri, oppressi il corpo dalle malattie e l’animo dalla disperazione, attorniò il palazzo del Governatore, gli rappresentò con utile verità che il padrone aveva l’obbligo di mantenere i suoi schiavi, ed umilmente richiese ch’egli provvedesse alla sussistenza loro, o permettesse che uscissero dalla città, ovvero ordinasse l’immediato loro supplizio. Bessa, con insensibile calma, rispose che egli non poteva nutrire, non gli conveniva di lasciar partire, e non aveva il diritto di uccidere i sudditi dell’Imperatore. Non pertanto, l’esempio di un cittadino privato avrebbe potuto mostrare a’ suoi compatriotti che un Tiranno non può togliere il privilegio di morire. Trafitto dalle grida di cinque figli che vanamente dimandavan del pane, egli ordinò a questi che gli venissero dietro; si avanzò, con tranquilla e tacita disperazione, sopra uno dei ponti del Tevere, e copertosi il volto, si gettò capovolto nel fiume, al cospetto della sua famiglia e del Popolo romano. Ai ric[p. 99 modifica]chi e pusillanimi, Bessa12 vendeva il permesso di partire, ma la maggior parte de’ fuggiaschi rendeva l’anima sulle pubbliche strade, od era arrestata dai volanti drappelli dei Barbari. In quel mezzo, l’artifizioso Governatore blandiva il maltalento e ridestava le speranze dei Romani colla vaga riferta di flotte e di eserciti che accorrevano in loro aiuto dalla estremità dell’Oriente. Più ragionevol conforto essi trassero dalla sicura nuova che Belisario avea pigliato terra nel porto del Tevere, e senza numerarne le forze, essi fermamente confidarono nell’umanità, nel coraggio e nella perizia del loro grande liberatore. La previdenza di Totila avea preparato ostacoli degni di un tale antagonista. Novanta stadii sotto la città, nella parte più ristretta del fiume, egli congiunse le due rive, mediante una forte e solida opera di legname nella forma di un ponte, su cui innalzò due gran torri, custodite da’ più valorosi de’ suoi Goti, e piene di armi scagliabili e di macchine offensive. Una valida e massiccia catena di ferro difendeva l’approccio del ponte e delle torri; e la catena, da un capo all’altro, sulle sponde opposte del Tevere, era guardata da una numerosa e scelta mano di arcieri. Ma l’impresa di sforzare queste barriere e di soccorrere la capitale ci presenta uno splendido esempio dell’ardire e della condotta di Belisario. La sua cavalleria [p. 100 modifica]si avanzò dal Porto, lungo la strada maestra, per tenere a freno i movimenti e divertire l’attenzione del l’inimico. L’infanteria e le provvigioni erano distribuite in due cento grossi battelli, ed ogni battello era schermito da un alto riparo di spesse tavole, traforate da molti piccoli pertugi per la scarica delle armi da lanciare. Nella fronte, due grandi navi, insieme legate, sostenevano un castello ondeggiante, che dominava le torri del ponte, e conteneva un magazzino di fuoco, di zolfo e di bitume. La flotta intiera, condotta dal Generale in persona, fu laboriosamente sospinta contro la corrente del fiume. Cedè la catena al peso di essa, ed i nemici che custodivano le rive furono ammazzati o dispersi. Tosto che la flotta toccò la principale barriera, la macchina incendiaria in un momento fu aggrappata al ponte; una delle torri, con dugento Goti dentro, andò in fiamme; gli assalitori alzarono il grido della vittoria, e Roma era salvata, se la cattiva condotta degli Ufficiali di Belisario non avesse sovvertito gli effetti della sua sapienza. Egli precedentemente avea mandato ordine a Bessa di secondar le sue operazioni con un’opportuna sortita dalla città, ed aveva imposto ad Isacco suo luogotenente, di non abbandonare la stazione del Porto. Ma l’avarizia rendè Bessa immobile; mentre il giovanile ardore d’Isacco lo diede nelle mani di un superiore nemico. L’esagerato romore della disfatta di costui rapidamente pervenne all’orecchio di Belisario: egli ristette, lasciò vedere, in quel solo momento della sua vita, qualche emozione di sorpresa e di perplessità, e con ripugnanza fece suonare la raccolta per salvar la sua moglie Antonina, i suoi tesori ed il solo porto che possedesse sulle coste della Toscana. Il travaglio del suo animo gli [p. 101 modifica]produsse una febbre ardente e quasi mortale: e Roma rimase abbandonata senza difesa alla clemenza od allo sdegno di Totila. La continuazione delle ostilità aveva invelenito gli odii nazionali; il clero Arriano fu ignominiosamente cacciato di Roma. L’Arcidiacono Pelagio tornò, senza alcun successo, dal campo dei Goti ove era andato ad Ambasciatore, ed un Vescovo Siciliano, inviato o nunzio del Papa, ebbe mutilate ambe le mani per avere ardito di mentire in benefizio della Chiesa e dello Stato.

[A. D. 546] La carestia aveva rilassato la forza e la disciplina del presidio di Roma. Esso non poteva ricavare alcun servizio efficace da un Popolo moribondo; e l’inumana avarizia del Mercatante finì con assorbire la vigilanza del Governatore. Quattro sentinelle Isauriche, mentre dormivano i loro compagni ed assenti erano gli Ufficiali, si calarono con una corda giù dal bastione, e segretamente proposero al Re Goto d’introdurre le sue truppe nella città. Con freddezza e sospetto fu accolta l’offerta; essi ritornarono senza alcun danno; due volte ripeterono la visita loro; due volte fu esaminata la piazza; si riseppe la cospirazione, ma non vi si pose mente; ed appena Totila ebbe acconsentito al tentativo, essi dischiusero la porta Asinaria, e misero dentro i Goti. Questi fecero alto in ordine di battaglia, sino allo schiarire del giorno, temendo un qualche tradimento od aguato; ma le truppe di Bessa, insieme col lor condottiere, avevano già cercato altrove uno scampo; ed allorquando si fece istanza al Re perchè ne infestasse la ritirata, assennatamente egli rispose che nessuna vista era più grata che quella d’un nemico fuggente. I Patrizii a cui restava qualche cavallo, Decio, Basilio ec. accompagnarono il [p. 102 modifica]Governatore: i loro confratelli, tra i quali l’Istorico nomina Olibrio, Oreste e Massimo, cercarono nella chiesa di San Pietro un asilo: ma l’asserzione che non più di cinquecento persone rimasero nella capitale, inspira qualche dubbio intorno alla fedeltà della sua narrazione o del suo testo. Subito che la luce del sole ebbe manifestato intera la vittoria dei Goti, il loro Monarca divotamente visitò la tomba del Principe degli Apostoli; ma nel mentre ch’egli pregava all’altare, venticinque soldati e sessanta cittadini venivano passati a fil di spada nel vestibolo del Tempio. L’Arcidiacono Pelagio13 si fece innanzi a lui, e tenendo in mano il Vangelo esclamò: „oh Signore abbi pietà del tuo servo„. – „Pelagio„ disse Totila con insultante sorriso, „il tuo orgoglio ora discende fino alle suppliche„. – „Io sono un supplichevole„ replicò il prudente Arcidiacono; „Iddio ora ci ha fatti vostri sudditi, e come vostri sudditi noi abbiamo diritto alla vostra clemenza„. L’umile sua preghiera salvò le vite dei Romani; e la castità delle vergini e delle matrone rimase intatta dalle passioni dei bramosi soldati. Ma furono essi ricompensati colla libertà del saccheggio, poscia che le più preziose spoglie erano state messe in serbo pel tesoro reale. Le case dei Senatori andavano copiosamente fornite di oro e d’argento; e l’avarizia di Bessa non s’era travagliata con [p. 103 modifica]tanto delitto e vergogna se non se in benefizio del Conquistatore. In questa rivoluzione, i figli e le figlie dei Consoli romani sperimentarono la miseria ch’essi avevano o schernito o sollevato; essi andarono errando in cenci per le contrade della città, ed accattarono, forse inutilmente, il pane innanzi alle porte delle ereditarie lor case. Rusticiana, figlia di Simmaco, e vedova di Boezio, aveva generosamente consacrato le sue ricchezze ad alleviare le calamità della fame. Ma i Barbari furono mossi a furore dal racconto ch’ella avesse eccitato il popolo a rovesciare le statue del Gran Teodorico. La vita di questa veneranda Matrona sarebbe stata immolata alla memoria di quel Re, se Totila non avesse rispettato in lei i natali, le virtù ed anche il pio motivo della vendetta. Il giorno seguente, egli proferì due discorsi, uno de’ quali, felicitava ed ammoniva i vittoriosi suoi Goti. L’altro rampognava il Senato come si farebbe co’ più abbietti schiavi, e l’incolpava di spergiuro, di follia e di ingratitudine; aspramente dichiarando che i loro beni ed onori erano giustamente ricaduti ne’ compagni delle sue armi. Nondimeno egli consentì ad obbliare la ribellione loro, ed i Senatori ricambiarono la sua clemenza collo spedire lettere circolari ai loro discendenti e vassalli nelle province d’Italia, colle quali strettamente ingiugnevan loro di togliersi dalle bandiere de’ Greci, di coltivare in pace i terreni, e d’imparare dai loro padroni il dovere dell’obbedienza al Re Goto. Inesorabil mostrossi Totila contro la città che per sì lungo tempo avea rattenuto il corso delle sue vittorie: un terzo delle mura, in differenti parti, fu demolito per ordine suo; già si allestivano le fiamme e le macchine per consumare o mandar sossopra le più magnifiche opere dell’anti[p. 104 modifica]chità. Il Mondo era nello stupore pel fatal decreto che Roma dovesse esser cangiata in un pascolo per gli armenti. Le ferme e moderate rimostranze di Belisario sospesero l’esecuzione della sentenza; egli ammonì il Barbaro di non contaminar la sua fama col distruggere que’ monumenti, che formavano la gloria de’ trapassati e la delizia dei viventi; e Totila secondò l’avviso di un nemico col preservar Roma qual ornamento del suo Regno, od il miglior pegno di riconciliazione e di pace. Come egli ebbe significato agli Ambasciatori di Belisario il suo proponimento di risparmiar la città, egli collocò un esercito in distanza di cento e venti stadj, ad osservare le mosse del Generale romano. Col rimanente delle sue forze egli avviossi ver la Lucania e l’Apulia, ed occupò sulla vetta del monte Gargano14 uno dei campi di Annibale15. Trascinati furono i Senatori dietro il suo trono, indi confinati nelle fortezze della Campania: i cittadini, con le mogli ed i figli loro furono dispersi in esiglio; e per lo spazio di quaranta giorni Roma non offrì che l’aspetto di una solitudine desolata ed orrenda16. [p. 105 modifica]Roma fu ben presto ricuperata mediante una di quelle azioni alle quali, secondo l’evento, l’opinione pubblica suole applicare i nomi di temerità o di eroismo. Poscia che partito fu Totila, il Generale romano sortì dal Porto conducendo mille cavalli, tagliò a pezzi i nemici che s’opponevano al suo andare, e visitò con pietà e con ossequio lo spazio vacante della città sempiterna.

Deliberato di custodire un posto così riguardevole agli occhi del genere umano, egli raccolse la maggior parte delle sue truppe intorno al vessillo da lui piantato sul Campidoglio. L’amor della patria, e la speranza di trovar cibo, richiamò nella città i suoi antichi abitanti; e le chiavi di Roma furono mandate per la seconda volta all’Imperator Giustiniano. Le mura, ovunque erano state demolite dai Goti, si ripararono con materiali rozzi e dissimili; si ristorò il fosso, si piantarono in abbondanza i triboli17, per guastare i piè dei cavalli, e siccome non si poteva subito rifabbricar nuove porte, si pose a guardia dell’ingresso lo spartano riparo de’ più valenti guerrieri. Allo spirare di venticinque giorni, Totila ritornò con frettolose marcie dall’Apulia per vendicare il [p. 106 modifica]danno ricevuto e l’offesa. Belisario aspettò ch’egli si avvicinasse. I Goti furono per tre volte respinti in tre generali assalti; essi perdettero il fiore delle lor truppe; il vessillo reale fu lì lì per cadere nelle mani del nemico, e la fama di Totila si affondava, come erasi sollevata, insieme colla gloria delle sue armi. Non rimaneva se non che Giustiniano terminasse con un valido e tempestivo sforzo la guerra ch’egli aveva ambiziosamente intrapresa. L’indolenza e forse l’impotenza di un Principe che disprezzava i suoi nemici ed invidiava i suoi servi, trasse in lungo le calamità dell’Italia. Dopo un diuturno silenzio, si comandò a Belisario di lasciare una sufficiente guernigione in Roma, e di trasportarsi nella Lucania, i cui abitatori, infiammati di cattolico zelo, avevano scosso il giogo dei loro Arriani conquistatori. In questa ignobile guerra, l’Eroe, invincibile contro il potere dei Barbari, fu bassamente vinto dagli indugi, dalla disobbedienza, e dalla codardìa de’ suoi propri Ufficiali. Egli si riposò ne’ suoi quartieri d’inverno di Crotona, pienamente fidando che i due passi de’ colli Lucani fossero custoditi dalla sua cavalleria. Questi passi restarono abbandonati per tradimento o per viltà; e la rapida marcia de’ Goti appena diede a Belisario il tempo di salvarsi sulle coste della Sicilia. Alfine si raccolse una flotta ed un esercito per soccorrere Rusciano, o Rossano18, fortezza posta in distanza di sessanta stadj dalle rovine di Sibari, e nella quale i nobili della Lucania s’erano ri[p. 107 modifica]coverati. Al primo tentativo le forze romane furono dissipate dalla tempesta. Nel secondo esse avvicinaronsi al lido; ma viddero i poggi coperti di arcieri, il luogo dello sbarco difeso da una linea di lance, ed il Re dei Goti impaziente di venire a battaglia. Il Conquistator dell’Italia si ritirò sospirando, e continuò a languire in inglorioso ed inoperoso ozio, sino al momento in cui Antonina, che s’era portata a Costantinopoli a ricercare soccorso, ottenne, dopo la morte dell’Imperatore, la permissione del suo ritorno.

[A. D. 548] Le cinque ultime campagne di Belisario dovettero affievolir l’invidia de’ suoi competitori, gli occhi dei quali erano rimasti abbagliati ed offesi dallo splendore della prima sua gloria. In vece di liberare l’Italia dai Goti, egli era andato errando come un fuggitivo, lungo la costa, senza osare di internarsi nel paese, o di accettare la baldanzosa e replicata disfida di Totila. Eppure nel sentimento dei pochi che sanno separare i consiglj dagli avvenimenti, e paragonare gli stromenti con l’esecuzione, egli comparve più consumato maestro nell’arte della guerra, che non nei tempi della sua prosperità quand’egli traeva due Re prigionieri innanzi al trono di Giustiniano. Il valore di Belisario non era raffreddato dagli anni; la speranza aveva maturato il suo senno; ma pare che le morali virtù dell’umanità e della giustizia cedessero alla dura necessità dei tempi. La parsimonia o povertà dell’Imperatore costrinse Belisario a deviare dalla regola di condotta che gli aveva meritato l’amore e la confidenza degli Italiani. Si mantenne la guerra, mediante l’oppressione di Ravenna, della Sicilia e di tutti i fedeli sudditi dell’Impero; e la sua severità verso Erodiano, o meritata fosse od ingiusta, condusse questo Uffiziale [p. 108 modifica]a dare Spoleto in mano ai nemici. L’avarizia di Antonina, alla quale l’amore altre volte aveva fatto deviamento, regnava allora senza rivale nel cuore di essa. Belisario medesimo aveva sempre pensato che le ricchezze, in un secolo corrotto, sono il sostegno e l’ornamento del merito personale. Nè può presumersi ch’egli macchiasse il suo nome pel servizio pubblico, senza appropriarsi una parte di quelle spoglie. L’Eroe aveva sfuggito la spada dei Barbari19, ma il pugnale della cospirazione lo aspettava nel suo ritorno. In mezzo alle ricchezze ed agli onori, Artabano che aveva punito il Tiranno dell’Affrica, si lamentò dell’ingratitudine delle Corti. Egli aspirò alla mano di Prejecta nipote dell’Imperatore, il quale desiderava di ricompensare il suo liberatore. Ma la pietà di Teodora pose in campo ad ostacolo l’anteriore di lui matrimonio. L’orgoglio della real discendenza venne irritato dalla adulazione, ed il servizio di cui egli andava altero, aveva provato ch’era capace di fatti sanguinosi e superbi. Risoluta fu la morte di Giustiniano, ma i cospiratori ne differirono l’esecuzione, finchè potessero sorprendere Belisario disarmato e senza guardie nel palazzo di Costantinopoli. Non si poteva nutrire alcuna speranza di smuovere la sua fedeltà, da lungo tempo provata; ed essi giustamente paventavano la vendetta o piuttosto la giustizia del veterano Generale, che speditamente poteva adunar l’esercito della Tracia, onde punir gli assassini e forse godere i frutti del loro delitto. La dilazione condusse qualche [p. 109 modifica]confidenza indiscreta, e qualche confessione mossa dal rimorso. Artabano ed i suoi complici furono condannati dal Senato; ma l’estrema clemenza di Giustiniano non li punì che col ditenerli prigionieri nel suo proprio palazzo, sino al momento in cui perdonò loro quel criminoso attentato contro il suo trono e la sua vita. Se l’Imperatore dimenticava i suoi nemici, egli cordialmente doveva abbracciare un amico di cui non si ricordavano che le vittorie, e che più caro era fatto al suo Principe dalle recenti circostanze del loro comune pericolo. Belisario riposò delle sue fatiche nell’alta carica di Generale dell’Oriente e di Conte dei Domestici, ed i più antichi Consoli e patrizj rispettosamente cederono la precedenza del grado all’incomparabil merito del primo dei Romani20. Il primo de’ Romani continuò ad essere l’umile schiavo della sua moglie; ma il servaggio dell’abitudine e dell’amore divenne men vergognoso, poscia che la morte di Teodora ebbe tolto di mezzo l’abbietto influsso del timore. Giovannina, loro figlia e sola erede dei loro tesori, fu promessa in moglie ad Anastasio, nipote dell’Imperatrice21, l’amorevol interposizione della quale aveva [p. 110 modifica]anticipato le gioje dei loro giovanili amori. Ma il potere di Teodora cadde insieme colla sua vita. I genitori di Giovannina cangiarono di consiglio, e l’onore e forse la felicità di essa furono sacrificati alla vendetta di un’insensibil madre che disciolse le imperfette nozze, innanzi che venissero ratificate dalle cerimonie della Chiesa22.

[A. D. 549] Prima che Belisario partisse, Perugia fu assediata, e poche città si tennero inespugnabili contro le armi de’ Goti. Ravenna, Ancona e Crotona tuttavia resistevano a’ Barbari; e quando Totila chiese in isposa una delle infanti di Francia, egli fu punto dal giusto rimprovero che il Re d’Italia non meritava questo titolo, finchè non fosse riconosciuto dal Popolo romano. Tremila de’ più valorosi soldati rimanevano a difesa della capitale. Per sospetto di monopolio essi trucidarono il Governatore e significarono a Giustiniano, col mezzo di una deputazione del clero, che se non perdonava questa violenza e non faceva pagar loro il soldo arretrato, immediatamente avrebbero accettato le allettanti proposte di Totila. Ma l’uffiziale che succedè al comando (il suo nome era Diogene) meritò la stima [p. 111 modifica]e la confidenza loro; ed i Goti, invece di rinvenire una facil conquista, trovarono una vigorosa resistenza per parte de’ soldati e del popolo, il quale pazientemente sostenne la perdita del Porto e di tutti i soccorsi che riceveva dal mare. L’assedio di Roma si sarebbe forse levato, se la liberalità di Totila verso gl’Isauri non avesse eccitato al tradimento alcuno dei venali loro compatriotti. In una notte tenebrosa, mentre le trombe Gotiche sonavano da un altro lato, essi tacitamente aprirono la porta di S. Paolo. I Barbari si gittarono nella città; e la fuggente guernigione fu tagliata fuori, prima che potesse raggiugnere il porto di Centumcella. Un soldato, allevato nella scuola di Belisario, Paolo di Cilicia, si ritirò con quattrocento uomini nel molo di Adriano. Essi respinsero i Goti, ma erano minacciati dalla fame, e la loro avversione a mangiar carne di cavallo, gli confermò nel divisamento di arrischiare una disperata e decisiva sortita. Ma il loro ardire a poco a poco raffreddò per le offerte di una Capitolazione. Essi riceverono le loro paghe arretrate, e conservarono le armi e i cavalli, col porsi al servizio di Totila. I loro Capi che allegarono una lodevole affezione alle mogli ed ai figli loro rimasti nell’Oriente, furono licenziati con onore; più di quattro cento nemici che avevano cercato un asilo nei santuarj, andarono obbligati della loro salvezza alla clemenza del vincitore. Egli più non nutriva il disegno di sovvertire gli edifizj di Roma23, città che omai rispettava come la sede del Gotico Regno: il Senato [p. 112 modifica]ed il Popolo furono richiamati alla lor Patria; liberalmente si provvide ai mezzi di sussistenza; e Totila, in ammanto di pace, celebrò i giuochi equestri del Circo. Nel tempo ch’egli divertiva gli occhi della moltitudine, si allestivano quattro cento vascelli per imbarcar le sue truppe. Le città di Reggio e di Taranto cederono alle sue armi. Egli passò nella Sicilia, oggetto dell’implacabil suo sdegno, e l’Isola fu spogliata dell’oro e dell’argento che conteneva, dei frutti della terra, e di un infinito numero di cavalli, di greggi e di mandre. La Sardegna e la Corsica obbedirono alla fortuna dell’Italia; ed una flotta di trecento galee si portò sulle coste della Grecia24. I Goti sbarcarono a Corcira e sull’antico Continente dell’Epiro, si trassero fino a Nicopoli, trofeo di Augusto, e a Dodona25, una volta famosa pei responsi di Giove. Ad ogni nuova vittoria, il prudente Barbaro ripeteva a Giustiniano il desiderio che nutriva della pace, vantava il buon accordo dei loro predecessori, ed offeriva di impiegare le armi de’ Goti per servire l’Impero. [p. 113 modifica]

[A. D. 549-551] Giustiniano era sordo alla voce della pace; ma trascurava di sostenere la guerra; e l’indolenza della sua natura tradiva in qualche modo la pertinacia delle sue passioni. L’Imperatore fu tolto di questo salutare letargo dal Papa Vigilio e dal Patrizio Cetego, che si presentarono dinanzi al suo trono, e lo scongiurarono, in nome di Dio e del Popolo, d’imprendere nuovamente la conquista e la liberazione dell’Italia. Il capriccio non meno che il senno influì nella scelta dei Generali. Una flotta, carica di un esercito, e condotta da Liberio, fece vela in soccorso della Sicilia; ma l’avanzata età e la poca esperienza di costui vennero ben presto all’aperto, e gli fu dato un successore, prima che toccassero le spiagge dell’Isola. Il cospiratore Artabano fu tratto dalla prigione ed innalzato agli onori militari nel posto di Liberio, piamente credendosi che la gratitudine avrebbe animato il suo valore, e rinvigorito la sua fedeltà. Belisario riposava all’ombra dei suoi allori, ma il comando dell’esercito principale era serbato a Germano26, nipote dell’Imperatore, che veduto aveva il suo grado ed il suo merito per lungo tempo oppressi dalla gelosia della Corte. Teodora lo aveva offeso nei diritti di cittadino privato, relativamente al matrimonio de’ suoi figliuoli, ed al testamento del suo fratello; e quantunque pura ed irreprensibile fosse la condotta di lui, tuttavia Giustiniano sentiva di mal animo che riputato venisse degno [p. 114 modifica]della confidenza dei malcontenti. La vita di Germano era una lezione di obbedienza assoluta: nobilmente egli ricusò di prostituire il suo nome ed il suo carattere nelle fazioni del Circo. La gravità de’ suoi costumi veniva temperata da un’innocente giovialità; e le sue ricchezze sollevavano senza interesse l’indigenza e il merito de’ suoi amici. Il valore di Germano aveva già prima trionfato degli Schiavoni del Danubio, e dei ribelli dell’Affrica. La prima nuova della sua promozione fece risorgere le speranze degli Italiani; e gli si diede in segreto la sicurezza che una flotta di disertori romani abbandonerebbe le bandiere di Totila all’avvicinarsi di lui. Il secondo suo matrimonio con Malasonta, nipote di Teodorico, rendeva Germano accetto ai Goti medesimi: ed essi con ripugnanza si muovevano contro il padre di un fanciullo reale, ultimo rampollo della stirpe degli Amali27. L’Imperatore gli assegnò uno splendido stipendio. Germano contribuì alle spese colle sue private sostanze. I suoi due figli erano attivi e ben veduti dal Popolo; ed egli, nella prontezza e nel buon successo delle leve che fece, superò l’aspettazione degli uomini. Gli fu permesso di scegliere alcuni squadroni di cavalleria Trace. I Veterani ugualmente che i giovani di Costantinopoli e d’Europa, si impegnarono a volontario servigio, e fin dentro al cuore della Germania, la fama e la liberalità del Comandante gli attirò l’ajuto dei Barbari. I Romani si avanzarono sino a Sardica; un esercito di Schiavoni fuggì all’aspetto delle armi loro: ma due giorni [p. 115 modifica]dopo la definitiva loro partenza, i disegni di Germano caddero troncati dalla malattia e dalla morte di esso. Nondimeno la spinta ch’egli aveva dato alla guerra d’Italia, continuò ad operare con efficacia e vigore. Le Città marittime, Ancona, Crotona, Centumcella, resisterono agli assalti di Totila. Lo zelo di Artabano ricuperò la Sicilia, e l’armata navale dei Goti fu disfatta presso ai lidi dell’Adriatico. Quasi eguali in forza erano le due flotte, di cui una aveva quarantasette, l’altra cinquanta galee: la perizia e la destrezza dei Greci determinò la vittoria; ma le navi furono così strettamente arraffatte che di quello dei Goti, dodici soltanto scamparono dal disastroso conflitto. Essi affettarono di tenere a spregio un elemento di cui non avevan pratica, ma la propria loro esperienza confermò la verità della massima, che il padrone del mare sempre lo divien della terra28.

Dopo la morte di Germano, le nazioni furono provocate al riso dalla strana novella che il comando degli eserciti Romani era affidato ad un Eunuco. Ma l’Eunuco Narsete29 dee venir posto fra i pochissimi che hanno saputo sottrarre al disprezzo ed all’odio dell’uman genere quel nome infelice.

Un corpo debole e diminutivo nascondeva l’animo di uno statista e di un guerriero. Perduto egli aveva [p. 116 modifica]la giovinezza nel trattare la rocca e la spola nei bassi ufficj domestici, e nel servizio del lusso feminile; ma in mezzo a quelle ignobili cure, segretamente egli esercitava le facoltà di una mente vigorosa e perspicace. Straniero nelle scuole e nel campo, egli studiava nel palazzo le arti d’infingere, di adulare, e di persuadere; e tosto che avvicinossi alla persona dell’Imperatore, Giustiniano con sorpresa e piacere diede ascolto ai virili consigli del suo Ciamberlano e Tesoriere privato30. Si sperimentò e si accrebbe l’abilità di Narsete mercè delle frequenti ambascerie: egli condusse un esercito in Italia; acquistò una cognizione pratica della guerra e del paese, ed ebbe l’animo di gareggiare col genio di Belisario. Dodici anni dopo il suo ritorno, l’Eunuco fu scelto a compiere la conquista che il primo dei Generali romani aveva lasciato imperfetta. In luogo di cedere al bagliore della vanità e della adulazione, egli seriamente dichiarò, che se non riceveva forze adeguate all’impresa, mai non consentirebbe ad avventurar la sua gloria e quella del suo Sovrano. Giustiniano accordò al favorito ciò che forse avrebbe negato all’Eroe. La guerra Gotica rinacque dalle sue ceneri, ed i preparativi non furono indegni dell’antica [p. 117 modifica]maestà dell’Impero. Fu posta in sua mano la chiave dell’erario per formar magazzini, levar soldati, provvedere armi e cavalli, saldare le paghe arretrate, e adescare la fedeltà dei disertori e fuggiaschi. Le truppe di Germano erano in armi tuttora: esse fecero alto a Salona, aspettando il novello condottiero, e la ben nota liberalità di Narsete gli creò legioni di sudditi e di alleati. Il Re dei Lombardi31 adempì e superò gli obblighi di un trattato col fornire duemila e duecento de’ suoi più prodi Guerrieri, coi quali venivano tremila dei loro marziali seguaci. Tremila Eruli combattevano a cavallo sotto Filemuto, nativo loro condottiero; ed il nobile Arato, che aveva adottato i costumi e la disciplina di Roma, comandava una banda di veterani della stessa nazione. Dagisteo fu tratto dalla prigione per capitanare gli Unni, e Kobad, nipote del gran Re, splendeva colla tiara regale alla testa de’ suoi fedeli Persiani, che s’erano dedicati alla fortuna del loro Principe32. Assoluto nell’esercizio della sua autorità, più assoluto per l’amore delle sue truppe, Narsete condusse un numeroso e valente esercito da Filippopoli a Salona, d’onde costeggiò il lido Orientale dell’Adriatico sino ai confini dell’Italia, ove fu [p. 118 modifica]arrestato il suo andare. L’Oriente non poteva fornire vascelli atti a trasportare tanti uomini e tanti cavalli. I Franchi, i quali in mezzo al generale scompiglio, avevano usurpato la maggior parte della Provincia di Venezia, ricusavano il passo agli amici dei Lombardi. Teja, col fiore delle forze Gote, occupò la stazione di Verona, e quell’abile Capitano aveva coperto l’addiacente contrada di selve abbattute e di acque tratte fuori del letto de’ Fiumi33. In questi frangenti, un Ufficiale sperimentato propose un disegno che dalla stessa sua temerità era fatto sicuro; cioè che l’esercito romano cautamente movesse lungo il lido del mare, mentre la flotta, precedendo la sua marcia, avrebbe successivamente gettato un ponte di battelli sulle foci del Timavo, della Brenta, dell’Adige e del Po, fiumi che cadono nell’Adriatico a settentrione di Ravenna. Nove giorni riposò nella città il Comandante romano, raccolse i residui dell’esercito d’Italia, e mosse alla volta di Rimini per accettar la disfida di un insultante nemico.

[A. D. 552] La prudenza di Narsete lo spinse ad una pronta e decisiva azione. Il suo esercito era l’ultimo sforzo dello Stato; le spese di ciascun giorno crescevano l’enorme debito, e le nazioni non assuefatte alla disciplina ed al travaglio potevano temerariamente con[p. 119 modifica]dursi a volgere le armi una contro l’altra o contro il loro benefattore. Le stesse considerazioni avrebbero dovuto rattemperare l’ardore di Totila. Ma consapevole egli era, che il Clero ed il Popolo d’Italia agognavano ad una rivoluzione: egli si avvide od insospettì dei rapidi progressi che facea il tradimento, e stabilì di commettere il regno dei Goti alle venture di una giornata campale, in cui i prodi fossero animati dall’imminente pericolo, ed i mal affetti fossero rattenuti dalla reciproca loro ignoranza. Da Ravenna il Generale romano continuò la sua marcia, punì la guernigione di Rimini, traversò in linea retta i Colli di Urbino e riprese la via Flaminia, nove miglia di là dalla Rocca Forata, ostacolo dell’arte e della natura che poteva fermare o ritardare i suoi passi34. Adunati erano i Goti nelle vicinanze di Roma; senza frapporre dimora essi avanzarono all’incontro di un superiore nemico, e i due eserciti si accostarono fra loro alla distanza di cento stadi, fra Tagina35 ed i sepol[p. 120 modifica]cri dei Galli36. Il superbo messaggio di Narsete portò l’offerta non di pace ma di perdono. La risposta del Re Goto certificò il suo proponimento di morire o di vincere. „Qual giorno„ disse il messaggero „stabilisci tu per la pugna„? „L’ottavo giorno„, replicò Totila: ma tosto, nel mattino seguente, egli tentò di sorprendere un nemico che sospettava della frode, ed era preparato per la battaglia. Diecimila Eruli e Lombardi di provato valore e di dubbia fedeltà, furono collocati nel centro. Ciascuna delle ale era composta di ottomila Romani; la cavalleria degli Unni guardava la destra, e la sinistra veniva coperta da mille cinquecento Cavalieri scelti, i quali, a norma del bisogno, dovevano sostenere la ritirata dei loro amici, o circondare il fianco dell’inimico. Dal posto ch’erasi eletto alla testa dell’ala diritta, l’Eunuco cavalcò lungo la linea, esprimendo colla voce e cogli atti la sicurezza in cui era della vittoria, spronando i soldati dell’Imperatore a punire i delitti e la temerità di una masnada di ladroni, ed esponendo ai loro sguardi le catene d’oro, le collane, e le armille che dovevano essere il guiderdone della militare virtù. Dall’evento [p. 121 modifica]di una semplice zuffa, essi trassero un augurio di successo felice, e videro con piacere il coraggio di cinquanta arcieri che difesero una piccola altura contro tre successivi attacchi della cavalleria de’ Goti. Gli eserciti in distanza di non più di due tiri d’arco, consumarono la mattina nella terribile aspettativa della tenzone, ed i Romani presero qualche necessario cibo, senza trarsi la corazza dal busto, o torre la briglia ai cavalli. Narsete aspettava che fosse primo ad assalire il nemico; ma Totila differì l’attacco in sino ch’ebbe ricevuto l’ultimo rinforzo di duemila Goti. Il Re, intanto che traeva in lungo le ore medianti inutili pratiche di accordo, mostrò in un angusto spazio la forza e l’agilità di un guerriero; ricche d’oro erano le sue armi: la purpurea sua bandiera ondeggiava all’aure: egli vibrò in alto la lancia, l’afferrò colla destra, la trapassò alla sinistra; si rovesciò indietro, si ricompose sulle staffe, e maneggiò un ardente corsiero in tutti i passi ed in tutte le evoluzioni della scuola equestre. Come fu giunto il rinforzo, egli ritirossi nella sua tenda, prese il vestimento e le armi di un semplice soldato, e diede il segnale della battaglia. La prima linea di cavalli si trasse innanzi con più coraggio che prudenza, e lasciò dietro di sè la fanteria della seconda linea. Essi furono ben presto impegnati tra le corna di una mezza luna, in cui a poco a poco eransi piegate le ali del nimico, e furono assaliti per ogni banda dai tiri di quattromila arcieri. Il loro ardore ed anche lo estremo in cui erano, li trasse a sostenere un disuguale conflitto da presso, in cui non potevano valersi che della lancia contro un nemico che sapeva egualmente maneggiar bene tutte le armi. Una generosa emulazione infiammò i Romani, ed i loro [p. 122 modifica]barbarici ajuti; e Narsete, che tranquillamente osservava e regolava i loro sforzi, rimase incerto a chi dovesse aggiudicare la palma dell’intrepidezza maggiore. La cavalleria Gotica fu sconcertata e posta in disordine, incalzata da vicino e messa in rotta, e la linea dell’infanteria, in cambio di presentare le aste, o di aprire i suoi intervalli, venne calpestata sotto i piedi dei fuggenti cavalli. Seimila Goti caddero trucidati senza mercede, nel campo di Tagina. Il loro Principe con cinque seguaci fu sopraggiunto da Asbad della schiatta de’ Gepidi: „risparmia il Re d’Italia„, sclamò una voce fedele, ed Asbad cacciò la sua lancia nel corpo di Totila. Vendicato immantinente dai fidi Goti fu il colpo; essi trasportarono il moribondo Monarca sette miglia lungi dalla scena della sua sventura, e gli ultimi suoi momenti non furono amareggiati dalla presenza di un inimico. La compassione gli somministrò il rifugio in un oscuro sepolcro; ma i Romani non si riputarono paghi della loro vittoria finchè non ebbero contemplato il cadavere del Re dei Goti. Il suo cappello, adorno di gemme, e l’insanguinato suo vestimento, furono presentati a Giustiniano dagli ambasciatori del trionfo37.

Narsete, poi ch’ebbe sciolto il debito della pietà verso l’Autore della vittoria e verso la Beata Vergine sua particolare tutela38, ringraziò, ricompensò e licenziò i Lombardi. I villaggi erano stati ridotti in cenere da questi imperterriti selvaggi: essi avevano stuprato [p. 123 modifica]le matrone e le vergini sopra gli altari. La ritirata loro fu diligentemente tenuta d’occhio da un forte distaccamento di forze regolari, inteso a prevenire la ripetizione di somiglianti disordini. Il vittorioso Eunuco condusse il suo esercito per la Toscana; accettò la sommissione de’ Goti, udì le acclamazioni e spesso le querele degl’Italiani; e circondò le mura di Roma col resto delle sue formidabili forze. Narsete assegnò a se stesso ed a ciascuno de’ suoi luogotenenti il posto di un reale o finto attacco intorno alla vasta circonferenza della città, nel tempo stesso che notava un sito mal guardato e di facile ingresso. Nè le fortificazioni del molo di Adriano, nè quelle del porto, poterono trattenere a lungo i progressi del conquistatore; e Giustiniano ricevè di bel nuovo le chiavi di Roma, la quale, durante il suo regno, era stata cinque volte presa e ripresa39. Ma la liberazione di Roma fu l’ultima calamità del popolo romano. I Barbari, alleati di Narsete, troppo spesso confondevano i privilegi della pace e della guerra: la disperazione de’ fuggiti Goti trovò qualche conforto in una sanguinosa vendetta; e trecento giovani delle famiglie più nobili, che erano stati spediti come ostaggi di là del Po, vennero dispietatamente trucidati dal successore di Totila. Il destino del Senato porge un terribile esempio delle vicissitudini delle cose umane. Fra i Senatori che Totila aveva bandito dalla patria loro, alcuni furono riscattati da un uffi[p. 124 modifica]ciale di Belisario, e trasportati dalla Campania nella Sicilia; nel mentre che altri erano troppo colpevoli per fidare nella clemenza di Giustiniano o troppo poveri per procacciarsi cavalli, e giugnere al lido del mare. I loro confratelli languirono per cinque anni in uno stato di miseria e di esiglio. La vittoria di Narsete ravvivò le loro speranze; ma i furibondi Goti impedirono il prematuro loro ritorno alla Metropoli; e tutte le fortezze della Campania furono tinte di sangue patrizio40. Dopo un periodo di tredici secoli l’istituzione di Romolo fu estinta; e se i nobili di Roma continuarono a prendere il titolo di Senatore, poche tracce in seguito si possono scorgere di pubbliche adunanze o d’ordine costituzionale. Salite seicent’anni all’insù, e contemplate i Re della terra in atto di ricercare udienza, quali schiavi e liberti del Senato Romano41!

[A. D. 553] La guerra Gotica era viva tutt’ora. I più valorosi della nazione si ritirarono oltre il Po, e Teja con unanime consenso fu eletto per succedere all’estinto Eroe e per vendicarlo. Il nuovo Re tostamente mandò un ambasciatore ad implorare per meglio dire a comprare l’ajuto dei Franchi, e nobilmente profuse per la pubblica salvezza le ricchezze che erano state raccolte nel palazzo di Pavia. Il rimanente del tesoro reale era custodito dal suo fratello Aligerno dentro Cuma nella [p. 125 modifica]Campania; ma la rocca fortificata da Totila, era strettamente assediata dalle armi di Narsete. Il re Goto con rapide e segrete mosse si avanzò dalle Alpi al piè del Vesuvio, in soccorso dell’assediato fratello, ingannò la vigilanza dei Capi romani, e piantò il suo campo sulle rive del Sarno o Draco42, che da Nocera discende nel golfo di Napoli. Il fiume separava i due eserciti; si consumarono sessanta giorni in combattimenti dati in distanza e senza alcun frutto, e Teja mantenne questo posto importante, finchè fu abbandonato dalla sua flotta e da ogni speranza di ricevere vettovaglie. Con ripugnanti passi egli salì sul monte Lattario, dove i medici di Roma, dal tempo di Galeno in poi, mandavano i loro malati per godere i benefizj dell’aria e del latte43. Ma i Goti bentosto si appresero ad un più generoso partito che fu di calar giù del colle, di licenziare i loro cavalli, e di morire colle armi in mano anzi che perdere la libertà. Il Re marciava alla lor testa, portando nella destra una lancia, ed un ampio scudo nella sinistra: colla prima egli stese morti i primi assalitori; coll’altro si schermiva dall’armi che ogni mano ambiva di sca[p. 126 modifica]gliare contro di lui. Dopo una pugna di più ore, il suo braccio sinistro si sentì affaticato dal peso di dodici giavellotti ch’erano conficcati nel suo scudo. Senza muoversi dal suo posto, nè sospendere i colpi, l’Eroe ad alta voce gridò ai suoi seguaci che gli recassero un altro scudo; ma nel momento in cui il suo fianco rimase scoperto, fu trafitto da un dardo mortale. Egli cadde: ed il suo capo, levato in alto sopra una lancia, significò alle nazioni che il regno de’ Goti aveva cessato di essere. Ma l’esempio della sua morte non servì che ad animare i compagni che giurato avevan di perire insieme col lor condottiere. Così pugnarono finchè le tenebre calarono sopra la terra. Essi riposarono la notte armati. Si rinnovò il combattimento col ritorno della luce, e si mantenne egualmente accanito sino alla sera del secondo giorno. Il riposo di una seconda notte, la mancanza d’acqua, e la perdita dei loro campioni più prodi, determinò i Goti superstiti ad accogliere i facili patti d’accordo che l’avvedimento di Narsete si piegò a proporre. Essi accettarono l’alternativa di risiedere in Italia, come sudditi e soldati di Giustiniano, o di partirne con una porzione delle private loro ricchezze per andare in traccia di qualche independente contrada44. Non pertanto, il giuramento di fedeltà o l’esiglio fu del pari rigettato da un migliajo di Goti, che si dischiusero una via, prima che fosse firmata la convenzione, ed audacemente effettuarono la loro ritirata sin dentro le mura [p. 127 modifica]di Pavia. Il coraggio, non meno che la situazione di Aligerno, lo mosse ad imitare anzi che a deplorar suo fratello: robusto e destro arciere egli trapassava con una sola freccia l’armatura e il petto del suo antagonista, e la militare sua condotta difese Cuma45 oltre un anno contro le forze de’ Romani. L’industria loro avea scavato l’antro della Sibilla fino a farne una prodigiosa mina46; una quantità di combustibili, vi fu introdotta onde incendiare le travi alzate a sostenere il terreno: le mura e la porta di Cuma sprofondarono nella spelonca, ma le rovine formarono un profondo ed inaccessibil precipizio. Aligerno stette solo ed imperturbato sui rottami di una rupe; fintantochè tranquillamente ebbe osservato la disperata condizione del suo paese, e giudicato più onorevol partito essere l’amico di Narsete che lo schiavo de’ Franchi. Dopo la morte di Teja, il Generale romano separò le sue truppe per ridurre all’obbedienza le città dell’Italia. Lucca sostenne un lungo e fiero assedio; e tale fu l’umanità o la prudenza di Narsete, che la ripetuta perfidia degli abitanti non potè provocarlo a punire di morte i [p. 128 modifica]loro statichi; sani e salvi essi furono rimandati indietro, ed il riconoscente loro zelo finalmente vinse l’ostinazione de’ loro concittadini47.

[A. D. 553] Prima che Lucca si fosse arresa, l’Italia fu allagata da un nuovo diluvio di Barbari. Teodebaldo, giovine e debole principe, nipote di Clodoveo, regnava sui popoli dell’Austrasia ossia sui Franchi orientali. I suoi tutori avevano freddamente e con ripugnanza ascoltato le magnifiche promesse degli ambasciatori Goti. Ma il valore di un popolo guerriero soverchiò i timidi consigli della Corte: i due fratelli, Lotario e Buccellino48, duchi degli Alemanni, assunsero la condotta della guerra d’Italia: e settantacinquemila Germani calarono, nell’autunno, giù dalle Alpi Retiche nella pianura di Milano. La vanguardia dell’esercito Romano era stanziata presso il Po, sotto la condotta di Fulcari, baldanzoso Erulo, il quale temerariamente opinava, che la bravura personale sia il solo dovere e merito di un comandante. Nel mentre che senz’ordine e precauzione egli moveva lungo la via Emilia, un’imboscata di Franchi subitamente saltò fuori dell’anfiteatro di Parma: sorprese restarono le sue truppe e poste in rotta: ma il loro capitano ricusò di fuggire [p. 129 modifica]dichiarando nell’estremo istante, che la morte era meno terribile che il corrucciato aspetto di Narsete. La morte di Fulcari, e la ritirata dei duci rimasti in vita, determinarono l’ondeggiante e ribelle naturale dei Goti; essi corsero sotto i vessilli de’ loro liberatori, e gli ammisero dentro le città che tuttor resistevano alle armi del generale Romano. Il conquistatore dell’Italia aperse un libero varco all’irresistibile torrente de’ Barbari. Essi passarono sotto le mura di Cesena, e risposero con minacce e rimproveri all’avviso di Aligerno, che i tesori Gotici più non poteano pagare i travagli di un’invasione. Duemila Franchi furono distrutti dalla perizia e dal valore di Narsete stesso, che sortì di Rimini alla testa di trecento cavalli, onde punire la licenza e la rapina, che contrassegnavano la loro marcia. Sui confini del Sannio, i due fratelli spartirono le forze loro. Coll’ala destra Buccelino imprese di saccheggiare la Campania, la Lucania ed il Bruzio: colla sinistra, Lotario si accinse allo spogliamento della Puglia e della Calabria. Seguitaron essi la costa del Mediterraneo e dell’Adriatico, sino a Reggio e ad Otranto, e le estreme terre dell’Italia furono il termine del distruttivo loro avanzarsi. I Franchi ch’erano cristiani e cattolici, si contentarono del semplice sacco e di qualche uccisione accidentale. Ma le chiese, risparmiate dalla lor pietà, furono poste a ruba dalla sacrilega destra degli Alemanni, che sacrificavano teste di cavalli alle native loro divinità de’ boschi e de’ fiumi49, essi fusero o profanarono i sacri vasi; e le [p. 130 modifica]rovine degli altari e de’ tabernacoli furono macchiate del sangue de’ Fedeli. Buccelino era mosso dall’ambizione, Lotario dall’avarizia. Il primo aspirava a ristabilire il regno dei Goti: il secondo, dopo d’aver promesso al fratello di riportargli sollecitamente soccorso, tornò per la stessa strada a porre in sicuro i suoi tesori oltre l’Alpi. La forza de’ loro eserciti era già ridotta a male dal cambiamento del clima e dal contagio delle malattie: i Germani s’inebbriarono de’ vini d’Italia, e l’intemperanza loro vendicò in qualche guisa le calamità di un popolo senza difesa.

[A. D. 554] All’entrare della primavera, le truppe imperiali che avean difese le città, si adunarono in numero di diciottomila uomini nelle vicinanze di Roma. Le ore loro d’inverno non s’erano consumate nell’ozio. Seguendo gli ordini e l’esempio di Narsete, esse avean ripetuto ogni giorno i loro militari esercizj a piedi ed a cavallo, aveano assuefatto il loro orecchio al suono della tromba, e praticato i passi e le evoluzioni della danza Pirrica. Dallo stretto della Sicilia, Buccelino con trentamila Franchi ed Alemanni lentamente si mosse verso Capua, occupò con una torre di legno il ponte di Casilino, coprì la sua destra col fiume Volturno, ed assicurò il resto del suo campo con un riparo di acuti pali con un cerchio di carri, le cui ruote erano conficcate nel suolo. Con impazienza egli aspettava il ritorno di Lotario, ignorando ahi misero! che il suo fratello non poteva più ritornare, e che il condottiero col suo esercito era perito [p. 131 modifica]per una strana malattia50 sulle rive del Benaco, fra Trento e Verona. Le insegne di Narsete ben tosto si avvicinarono al Volturno, e gli occhi dell’Italia stavano ansiosamente fissi sopra l’evento di questa finale contesa. Forse l’abilità del generale Romano molto era superiore nelle tranquille operazioni che precedono il tumulto di una battaglia. I giudiziosi suoi movimenti intercettarono i viveri ai Barbari, li privarono de’ vantaggi del ponte e del fiume, e nella scelta del terreno e del momento dell’azione, li ridussero a conformarsi alla volontà del nemico. Nel mattino di quell’importante giornata, quando le file erano già formate, un servo, per qualche triviale mancamento, fu ammazzato dal suo padrone, uno de’ Capi degli Eruli. Si commosse la giustizia o la collera di Narsete: egli intimò all’offensore di comparirgli dinanzi, e senza ascoltarne le discolpe, diede il segnale all’esecutor della morte. Se il crudel padrone non avea infranto le leggi della sua nazione, l’arbitrario supplizio non era meno ingiusto di quel che pare essere stato imprudente. Gli Eruli sentirono l’oltraggio: essi fecero alto: ma il generale Romano, senza calmare il loro sdegno od aspettarne la risoluzione, proclamò ad alta voce che se non si affrettavano ad occupare il lor posto, avrebbero perduto l’onore della vittoria. Disposte erano le sue truppe in una lunga fronte, colla cavalleria sulle ale51: nel centro erano i fanti di grave [p. 132 modifica]armatura: gli arcieri ed i frombolieri occupavano la retroguardia. I Germani si avanzarono sotto la forma di un triangolo o di un cono. Essi penetrarono il debole centro di Narsete che li raccolse con un sorriso nel laccio fatale, ed ordinò alle sue ale di cavalleria di girare lentamente sui loro fianchi e di circondare la lor retroguardia. Le forze de’ Franchi e degli Alemanni erano composte di fanteria: una spada ed uno scudo pendevan loro dal fianco, ed essi usavano per offensive lor armi una pesante scure ed un giavellotto uncinato, ch’erano solamente formidabili nel combatter corpo a corpo, ovvero da presso. Il fiore degli arcieri Romani a cavallo, ed armati di tutto punto, scaramucciava senza pericolo intorno a questa immobile falange, suppliva colla prestezza de’ moti alla debolezza del numero, ed appuntava i suoi strali contro una moltitudine di Barbari, i quali, in cambio di corazza e di elmetto, erano coperti da un lungo vestimento di pelli o di tela. Questi soffermaronsi, sbigottirono, confuse ne andaron le file, e nel decisivo momento, gli Eruli, preferendo la gloria alla vendetta, piombarono con rapida furia sulla testa della loro colonna. Il loro duce Sindballo ed Aligerno, principe de’ Goti, meritarono il premio di un sommo valore; ed il loro esempio trasse le truppe vittoriose a compiere colle spade e coll’aste la distruzione dell’inimico. Buccelino e la miglior parte della sua armata, perì sul campo di battaglia, nelle acque del Volturno, o per le mani dei contadini furenti: ma può [p. 133 modifica]sembrare impossibile che una vittoria52, alla quale non sopravvissero più di cinque Alemanni, non abbia costato che la perdita di ottanta soldati ai Romani. Settemila Goti, residui della guerra, difenderono la fortezza di Campsa sino all’altra primavera: ed ogni messo di Narsete annunziava la riduzione di qualche italiana città, i cui nomi venivano corrotti dalla ignoranza o dalla vanità dei Greci53. Dopo la battaglia di Casilino, Narsete entrò nella Capitale: le armi ed i tesori dei Goti, dei Franchi e degli Alemanni pubblicamente furono posti in mostra: i soldati, inghirlandati il capo, cantavano le glorie del Conquistatore, e Roma per l’ultima volta vide la similitudine di un trionfo.

[A. D. 554-568] Dopo un regno di sessant’anni, il trono dei re Goti fu tenuto dagli Esarchi di Ravenna, che in pace ed in guerra rappresentavano l’Imperator de’ Romani. La giurisdizione loro fu ben presto ridotta ai limiti di una ristretta provincia; ma Narsete, primo e potentissimo degli Esarchi, amministrò per forse quindici anni l’intero regno d’Italia. Come Belisario, egli avea meritato gli onori dell’invidia, della calunnia e della disgrazia: ma il favorito Eunuco tuttor godeva la confidenza di Giustiniano, o veramente il condottiere di un esercito vittorioso intimoriva e reprimeva [p. 134 modifica]l’ingratitudine di una Corte vigliacca. Nondimeno Narsete non usò di una debole e nociva indulgenza per assicurarsi l’amor delle truppe. Immemore del passato, e non curante dell’avvenire, esse male spendevano le presenti ore della prosperità e della pace. Le città dell’Italia risuonavano allo strepito de’ stravizzi e de’ tripudj: le spoglie della vittoria si consumavano in sensuali piaceri, e null’altro (dice Agatia) più rimanea da farsi, se non se cangiare gli scudi e gli elmi contro il molle liuto e l’anfora capace54. In una virile concione, non indegna di un censore Romano, l’Eunuco biasimò questi disordinati vizj, che svergognavano la fama de’ guerrieri, e ne mettevano la salute in periglio. I soldati arrossirono ed obbedirono: si confermò la disciplina, si restaurarono le fortificazioni: fu sovrapposto un duca alla difesa ed al militare comando di ciascuna delle principali città55; e l’occhio di Narsete scorreva su tutto il vasto prospetto che si stende dalla Calabria alle Alpi. Gli avanzi della nazione Gotica sgombrarono il paese, o si mescolarono co’ natii: i Franchi, invece di vendicar la [p. 135 modifica]morte di Buccelino, abbandonarono, senza altro conflitto, le loro conquiste italiane, ed il ribelle Sindballo, Capo degli Eruli, fu soggiogato, preso ed impiccato sopra un elevato patibolo per la inflessibile giustizia dell’Esarca56. Lo stato civile dell’Italia, dopo l’agitazione di una lunga tempesta, fu determinato da una sanzione prammatica, che l’Imperatore promulgò a richiesta del Papa. Giustiniano introdusse nelle scuole e ne’ tribunali dell’Occidente la giurisprudenza ch’egli avea stabilito; ratificò gli atti di Teodorico e del suo successore immediato, ma cassò ed abolì ogni atto che la forza aveva estorto od il timore avea sottoscritto, durante l’usurpazione di Totila. Si formò una teoria di moderazione che riconciliasse i diritti della proprietà colla sicurezza della prescrizione, i privilegi dello Stato colla povertà del popolo, ed il perdono delle offese con l’interesse della virtù ed il buon ordine sociale. Sotto gli Esarchi di Ravenna, Roma scadde al secondo grado. Non pertanto ai senatori fu concessa la permissione di visitare le loro possessioni in Italia, e di accostarsi senza ostacolo al trono di Costantinopoli: si lasciò al Papa ed al Senato la cura di regolare i pesi e le misure; e si destinarono stipendi ai legisti ed ai medici, agli oratori ed ai grammatici per conservare o raccendere la face della scienza nella capitale antica. Ma invano Giustiniano dettava benefici editti57, e Narsete secondava i desiderj del[p. 136 modifica]l’Imperatore col ristorare città e specialmente col rifabbricare le chiese. La possanza dei re è molto più efficace nel distruggere; e i venti anni della guerra Gotica aveano condotto all’estremo la miseria e la spopolazione dell’Italia. Sin dalla quarta campagna, sotto la disciplina di Belisario medesimo, cinquantamila agricoltori perirono di fame58 nell’angusta regione del Piceno59; ed una stretta interpretazione di quanto asserisce Procopio porterebbe le perdite dell’Italia oltre l’intero ammontare de’ suoi abitatori presenti60.

[A. D. 559] Io bramerei di credere, ma non ardirei affermare che Belisario sinceramente si rallegrasse de’ trionfi di [p. 137 modifica]Narsete. Nondimeno la consapevolezza delle sue proprie imprese poteva insegnargli a stimare senza gelosia il merito di un rivale; ed il riposo del provetto guerriero fu coronato da un’ultima vittoria che salvò l’Imperatore e la capitale. I Barbari che ogni anno visitavano le province dell’Europa, erano meno disanimati da qualche accidentale sconfitta, che eccitati dalla doppia speranza di saccheggiare o di riscuoter sussidj. Nell’inverno vigesimo secondo del regno di Giustiniano, il Danubio gelò molto profondamente. Zabergan prese a condurre la cavalleria dei Bulgari, ed il suo stendardo fu seguito da una promiscua moltitudine di Schiavoni. Il selvaggio Comandante passò, senza trovar contrasto, il fiume ed i monti, sparse le sue truppe sopra la Macedonia e la Tracia, e si avanzò con non più di settemila cavalli sino alle lunghe mura che dovevan difendere il territorio di Costantinopoli. Ma le opere dell’uomo sono impotenti contro gli assalti della natura; un recente terremoto aveva crollato le fondamenta della muraglia; e le forze dell’Impero stavano impiegate sulle distanti frontiere dell’Italia, dell’Affrica e della Persia. Le sette scuole61 o compagnie delle guardie o truppe domestiche erano cresciute fino al numero di cinquemila cinquecento uomini, che avevano le pacifiche città dell’Asia per ordinaria loro stazione. Ma in luogo dei prodi Armeni, incaricati di questo servizio, a poco a poco si eran posti cittadini infingardi, che compravano [p. 138 modifica]di tal guisa un’esenzione dai doveri della vita civile, senza essere esposti ai pericoli della milizia. In mezzo a tali soldati, pochi eran quelli che avessero il cuore di sortir dalle porte; nè alcuno di loro poteva indursi a rimanere in campo, a meno che mancasse di forze e di agilità per fuggire dai Bulgari. Le riferte dei fuggitivi esagerarono il numero e la ferocia di un nemico, che avea stuprato le vergini sacre, ed abbandonati i fanciulletti alla voracità dei cani e degli avoltoj. Una flotta di contadini, imploranti cibo e difesa, aumentava la costernazione della città, e le tende di Zabergan erano piantate in distanza di venti miglia62 sulle rive di un fiumicello che circonda Melanzia, e quindi cade nella Propontide. Giustiniano fu sbigottito; e quelli che non avevan veduto63 l’Imperatore, se non nei vecchi suoi anni, si compiacquero in supporre che egli avesse perduto l’alacrità ed il vigore della sua giovinezza. Per comandamento di lui, si levarono i vasi d’oro e d’argento ch’erano nelle chiese dei dintorni, ed anche dei sobborghi di Costantinopoli: di tremanti spettatori erano coperti i bastioni; [p. 139 modifica]la porta aurea era affollata di inutili generali e di tribuni; ed il Senato dividea colle plebe le fatiche ed i timori. Ma gli occhi del Principe e del Popolo stavan volti sopra un Veterano indebolito dagli anni, il quale dal pubblico pericolo fu costretto a ripigliar l’armatura con cui era entrato in Cartagine ed aveva difeso Roma. Si raccolsero in fretta i cavalli delle stalle reali, de’ cittadini privati, ed anche del Circo; il nome di Belisario risvegliò l’emulazione dei vecchi e dei giovani; ed il primo suo accampamento fu stabilito in faccia ad un vittorioso nemico. La prudenza del Generale, ed il lavoro de’ fidi paesani, assicurò il riposo della notte, mediante un fosso ed una trinciera. Artificiosamente s’immaginarono innumerabili fuochi e nubi di polvere per magnificare l’opinione della sua forza: i suoi soldati immantinente passarono dalla sfidanza alla presunzione; e mentre diecimila voci chiedevano la battaglia, Belisario ben si astenne dal mostrare che nell’ora del cimento egli sapeva di non poter far conto che sulla fermezza di trecento Veterani. Il mattino seguente, la cavalleria de’ Bulgari mosse allo scontro. Ma essi udirono i clamori della moltitudine, videro le armi e la disciplina che presentava la fronte dell’esercito; furono assaliti sui fianchi da due corpi, posti in aguato nei boschi: i loro guerrieri che primi si fecero innanzi, caddero sotto i colpi dell’attempato Eroe e delle sue guardie; e la rapidità delle loro evoluzioni fu resa inutile dallo stretto attacco e dal ratto inseguir dei Romani. In questa azione i Bulgari non perdettero più di quattrocento cavalli, così frettolosamente si diedero a fuggire; ma Costantinopoli fu salva, e Zabergan, il quale sentì la mano di un maestro di guerra, si tenne in una ri[p. 140 modifica]spettosa distanza. Numerosi però erano i suoi amici nei consiglj dell’Imperatore, e Belisario obbedì con repugnanza agli ordini dell’invidia e di Giustiniano che gli vietarono di compiere la liberazione del suo Paese. Nel ritorno ch’egli fece nella capitale, il Popolo, consapevole ancora del pericolo corso, accompagnò il suo trionfo con acclamazioni di gioja e di gratitudine, che furono imputate come delitto al General vittorioso. Ma quando egli entrò nel palazzo, taciturni stettero i Cortigiani, e l’Imperatore, dopo un freddo abbraccio e senza ringraziarlo, lo rimandò a confondersi colla turba degli schiavi. Sì profonda fu l’impressione che fece la gloria dell’eroe sopra gli animi, che Giustiniano, nel settantesimo settimo anno della sua età, si lasciò indurre ad inoltrarsi quaranta miglia fuor della capitale, per esaminare in persona le riparazioni delle lunghe mura. I Bulgari perderono la state nelle pianure della Tracia; ma la cattiva riuscita dei baldanzosi lor tentativi contro la Grecia ed il Chersoneso, dispose alla pace il loro animo. La minaccia che fecero di scannare i prigionieri che avevano in mano, accelerò il pagamento dei grossi riscatti che ricercarono; e la partenza di Zabergan fu affrettata dalla voce sparsa che si fabbricavano sul Danubio dei vascelli a due ponti per tagliargli fuori il passaggio. Dimenticato venne ben presto il pericolo; e la vana questione se l’Imperatore avesse mostrato più senno o più debolezza, servì a divertire gli oziosi della Capitale64 [p. 141 modifica]

[A. D. 561] Circa due anni dopo l’ultima vittoria di Belisario, l’Imperatore ritornò da un viaggio fatto in Tracia per salute, per affari, o per divozione. Giustiniano si dolse di un mal di testa; e lo studio con cui non si lasciava entrar alcuno da lui, accreditò il grido che fosse morto. Prima dell’ora terza del giorno, s’era portato via tutto il pane dalle botteghe de’ fornaj, chiuse erano le case, ed ogni cittadino, preso da terrore o da speranza, si apparecchiava ad un sovrastante tumulto. I Senatori stessi, impauriti e sospettosi, si radunarono all’ora nona; ed il Prefetto ricevè da essi l’ordine di visitare tutti i quartieri della città e di bandire una illuminazione generale pel ristabilimento della salute di Giustiniano. Si tranquillò il fermento; ma ogni accidente metteva in chiaro l’impotenza del Governo, e la faziosa indole del Popolo. Le guardie erano pronte ad ammutinarsi ogni volta che si cangiavano di quartiere o che sospesa veniva la paga: le frequenti calamità degli incendj e dei terremoti porgevano opportunità di disordini: le contese degli Azzurri e dei Verdi, degli Ortodossi e degli Eretici degenerarono in sanguinose battaglie; ed il Principe dovè arrossire per se stesso e pei suoi sudditi in presenza dell’ambasciatore Persiano. I capricciosi perdoni e gli arbitrarj castighi amareggiarono il disgusto e la noja di un lungo Regno: si tramò una cospirazione dentro il palazzo; e se i nomi di Marcello e di Sergio non ci inducono in errore, i più virtuosi ed i più dissoluti fra i Cortigiani intinsero egualmente nella stessa congiura. Stabilito era il tempo di mandarla ad effetto; me- . [p. 142 modifica]diante il loro grado essi avevano accesso alla mensa reale, ed i loro schiavi neri65 erano collocati nel vestibolo e nei portici per annunziare la morte del Tiranno, ed eccitare una sedizione nella Capitale. Ma l’indiscrezione di un complice salvò i miseri avanzi dei giorni di Giustiniano. Scoperti furono i cospiratori ed arrestati coi pugnali nascosti sotto le vesti. Marcello si uccise di propria mano, e Sergio fu tratto a forza dal Santuario66. Stimolato dal rimorso, ovvero adescato dalla speranza di salvarsi, egli accusò due ufficiali della casa di Belisario; e la tortura gli trasse a dichiarare che eransi condotti a norma delle segrete istruzioni del loro Signore67. La posterità non crederà facilmente che un Eroe, il quale, nel vigore degli anni, aveva disdegnato le più lusinghiere offerte dell’ambizione e della vendetta, abbia divisato l’assassinio del suo Principe, quando non poteva più sperare di sopravvivergli a lungo. I suoi seguaci si affrettarono a fuggire; ma, quanto a lui, gli sarebbe toccato di sostener la fuga colla ribellione, e vissuto egli era abbastanza per la natura e per la gloria. Belisario comparve innanzi al consiglio, meno in atto di [p. 143 modifica]timido che di sdegnato: dopo quarant’anni di servizio, l’Imperatore lo aveva anticipatamente giudicato colpevole; e l’ingiustizia era santificata dalla presenza e dall’autorità del Patriarca. La vita di Belisario graziosamente fu risparmiata; ma si sequestrarono tutti i suoi beni, e dal dicembre al luglio egli fu custodito qual prigioniero nel suo proprio palazzo. Al fine la sua innocenza venne all’aperto; gli si restituirono la libertà e gli onori; e la morte, accelerata forse dal cruccio e dal cordoglio, lo tolse dal mondo, otto mesi circa, poscia che fu liberato. Il nome di Belisario non potrà morire giammai: ma in luogo delle esequie, de’ monumenti e delle statue, così giustamente dovute alla sua memoria, si legge negli Istorici che i suoi tesori, spoglie dei Goti e dei Vandali, furono immediatamente confiscate a profitto dell’Imperatore. Qualche onesta porzione però ne fu lasciata per l’uso della sua vedova. Siccome Antonina aveva molto di che pentirsi, ella consacrò gli ultimi avanzi della sua vita e delle sue sostanze alla fondazione di un monastero. Tale è il semplice e veritiero racconto della caduta di Belisario e dell’ingratitudine di Giustiniano68. Finzione di posteriori tempi69 è quella, ch’egli venisse acce[p. 144 modifica]cato, e ridotto dall’invidia ad accattare il pane, esclamando.

„Date un obolo al General Belisario„. Ma questa favola ha ottenuto credito, o per meglio dire favore, quale strano esempio delle vicissitudini della fortuna70.

Se l’Imperatore potè rallegrarsi per la morte di Belisario, egli non godè questa abbietta soddisfazione, che per lo spazio di otto mesi, ultimo periodo di un regno di trent’otto anni, e di una vita di ottanta tre. Sarebbe difficile delineare il carattere di un Principe, il quale non è il più cospicuo oggetto de’ proprj suoi [p. 145 modifica]tempi: ma le confessioni di un nemico si possono ricevere come la migliore testimonianza delle sue virtù. La rassomiglianza di Giustiniano col busto di Domiziano71 viene maliziosamente avvertita da Procopio; il quale riconosce però ch’egli era ben proporzionato della persona, rubicondo di carnagione, e piacevole nell’aspetto. L’Imperatore era accostevole, paziente nell’ascoltare, cortese ed affabile nel discorrere, e padrone delle fiere passioni che imperversano con sì distruttiva violenza nel petto di un despota. Procopio ne loda il temperamento, per poterlo rimproverare di una placida e deliberata tranquillità; ma nelle cospirazioni che attaccarono l’autorità e la persona di Giustiniano, un giudice di miglior fede approverebbe la giustizia od ammirerebbe la clemenza dell’Imperatore. Incomparabile egli mostrasi nelle virtù private della castità e della temperanza; ma un imparziale amore della bellezza sarebbe riuscito meno pregiudizioso, che non la conjugale sua tenerezza per Teodora; e l’austero suo governo di vita era regolato dalla superstizione di un monaco, non dalla prudenza di un filosofo. Brevi e frugali erano i suoi pasti: nei digiuni solenni, egli si contentava di acqua e di erbaggi; e tale era la sua robustezza, egualmente che il suo fervore, che spesso egli passava due giorni ed altrettante notti senza gustare alcun cibo. Non meno rigorosa era la misura del suo dormire: dopo un riposo di solo [p. 146 modifica]un’ora, il corpo era svegliato dall’animo, e con maraviglia de’ suoi ciamberlani Giustiniano vegliava, o studiava sino allo spuntare del giorno. Un’applicazione così indefessa gli raddoppiava il tempo da spendere nell’imparare72 e nello spedire faccende; e si può seriamente dargli rimprovero che confondesse l’ordine generale della sua amministrazione a forza di minuta diligenza fuori di luogo. L’Imperatore si reputava musico ed architetto, poeta e filosofo, legista e teologo; e se gli riuscì male l’impresa di riconciliare le Sette cristiane, la riforma della giurisprudenza Romana resta qual nobile monumento del suo ingegno e della sua industria. Nel governo dell’Impero, egli comparve meno saggio o meno felice: pieni di sventure furono i tempi; il popolo giacque oppresso e malcontento; Teodora abusò del suo potere; una sequela di cattivi ministri fece torto al giudizio dell’Imperatore, e Giustiniano non fu amato in vita, nè compianto dopo morte. Profonde radici avea messo nel suo cuore l’amor della fama, ma egli cedeva alla meschina ambizione dei titoli, degli onori, e della lode contemporanea, e mentre si adoperava a cattivarsi l’ammirazione de’ Romani, egli ne perdè la stima e l’affetto. Il divisamento della guerra di Affrica e d’Italia fu concepito ed eseguito con ardire, e la perspicacia di Giustiniano scoprì l’abilità di Belisario nel Campo, e di Narsete nel palazzo. Ma ecclissato è il nome dell’Imperatore dal nome de’ vittoriosi suoi Capitani, e Belisario vive mai [p. 147 modifica]sempre per accusare l’invidia e l’ingratitudine del suo sovrano. Il parziale favore degli uomini applaudisce il genio del conquistatore, che guida e regge i suoi sudditi nell’esercizio delle armi. I caratteri di Filippo secondo e di Giustiniano si contraddistinguono per quella fredda ambizione che si compiace nella guerra, e scansa i pericoli del Campo. Tuttavia una statua colossale di bronzo rappresentava l’Imperatore a cavallo, in atto di muovere contro i Persiani, nelle vesti e nelle armi di Achille. Nella gran piazza davanti alla chiesa di Santa Sofia, sorgeva questo monumento sopra una colonna di bronzo, sostenuta da un marmoreo piedistallo di sette gradini: e la colonna di Teodosio, che pesava settemila quattrocento libbre di argento, fu tolta via dallo stesso luogo per effetto dell’avarizia e della vanità di Giustiniano. I Principi, suoi successori, si mostrarono più giusti o più indulgenti per la sua memoria. Andronico il Vecchio, nel principio del secolo decimoquarto restaurò ed abbellì quella statua equestre: dopo la caduta dell’Impero, i Turchi vittoriosi la fusero per farne cannoni73.

Io chiuderò questo capitolo con un cenno sopra le comete, i tremuoti e la peste che atterrirono od afflissero il secolo di Giustiniano.

[A. D. 531-539] I. Nel quinto anno del suo Regno, e nel mese di settembre, fu veduta per venti giorni, nella parte occidentale del Cielo, una cometa74, che vibrava i suoi [p. 148 modifica]raggi verso settentrione. Otto anni dopo, mentre il Sole era nel segno del Capricorno, apparve un’altra cometa nel Sagittario: a poco a poco ne cresceva la mole; il capo era nell’Oriente, la coda nell’Occidente ed essa restò visibile per più di quaranta giorni. Le nazioni che le riguardavano stupefatte, attendevano guerre e disastri dalla infausta loro influenza, e questa aspettativa fu largamente adempiuta. Gli Astronomi dissimularono la loro ignoranza intorno la natura di queste risplendenti stelle, che affettavano di rappresentare quai meteore ondeggianti per l’aria; e pochi fra loro si accostavano alla semplice idea di Seneca e de’ Caldei ch’esse non sieno che pianeti distinti dagli altri per un più lungo periodo ed un moto più eccentrico75.

Il tempo e la scienza hanno giustificato le congetture e le predizioni del filosofo Romano, il telescopio ha aperto nuovi Mondi agli occhi degli Astronomi76, e nel ristretto spazio che ci offrono l’istoria e la favola, si è già trovato che una stessa cometa si è mostrata sette volte alla terra, in sette eguali rivoluzioni di cinquecento e settantacinque anni, ciascuna. La prima77 che risale a mille settecento e sessantasette anni [p. 149 modifica]di là dall’era Cristiana, fu contemporanea di Ogige padre dell’antichità greca. E questa sua comparsa spiega la tradizione, da Varrone serbataci, che sotto il Regno di Ogige il pianeta Venere cangiò di colore, di grandezza, di figura e di corso; prodigio senza esempio, sì nelle antecedenti che nelle susseguenti età78. La favola di Elettra, settima delle Pleiadi, le quali furono ridotte a sei dopo il tempo della guerra Trojana, indica oscuramente la seconda venuta che seguì nell’anno mille cento e novantatre. La Ninfa Elettra, moglie di Dardano, non ebbe l’animo di sostenere la rovina della sua patria, essa abbandonò le danze delle sue celesti sorelle, fuggì dal Zodiaco al Polo settentrionale, ed ottenne, colle scarmigliate sue chiome, il nome della Cometa. Il terzo periodo cade nell’anno seicento e diciotto, data che esattamente concorda colla tremenda cometa della Sibilla, e forse di Plinio, la quale levossi nell’Occidente, due generazioni prima del Regno di Ciro. La quarta apparizione, successa quaranta quattr’anni prima della nascita di Cristo, è di tutte le altre la più splendida e la più importante. Dopo la morte di Cesare, un astro lungo-chiomato trasse gli [p. 150 modifica]occhi di Roma e delle nazioni, durante i giuochi dati dal giovane Ottaviano in onore di Venere e del suo zio. L’opinione volgare ch’esso trasportasse al Cielo la divina anima del Dittatore, fu accarezzata e consacrata dalla pietà del politico Ottaviano: nel mentre che la segreta sua superstizione riferiva la cometa alla gloria de’ proprj suoi tempi79. Si è già accennato che la quinta visita accadde nel quinto anno di Giustiniano, il quale coincide coll’anno cinquecentotrentuno dell’era Cristiana. E degno è di ricordo che in questa, come nella precedente apparizione, la cometa fu seguitata, sebbene con più lungo intervallo, da un’osservabile pallidezza del Sole. Il sesto ritorno, intervenuto nell’anno mille cento e sei, vien rammentato dalle cronache dell’Europa e della China; e nel primo fervore delle Crociate, i Cristiani ed i Maomettani poterono con egual ragione immaginarsi ch’essa pronosticasse la distruzione degli Infedeli. Il settimo fenomeno, che porta la data del mille seicento e ottanta, si presentò agli occhi di un secolo illuminato80. La filosofia di Bayle, [p. 151 modifica]dissipò il pregiudizio, cui la Musa di Milton aveva così recentemente adornato, che la cometa dalle orride sue chiome scuote la pestilenza e la guerra81. La strada tenuta da questa cometa nel Cielo, venne osservata con singolare e dottissima diligenza da Hamstead e da Cassini. E la scienza matematica di Bernoulli, di Newton e di Halley investigarono le leggi delle sue rivoluzioni. Quando avverrà l’ottavo periodo, nell’anno duemila duecento cinquantacinque, i loro calcoli saranno forse verificati dagli Astronomi di qualche Capitale, innalzata dove ora si stendono i deserti della Siberia o dell’America.

II. L’avvicinarsi di una cometa molto presso al Globo da noi abitato, può desolarlo o distruggerlo; ma i cambiamenti, avvenuti sulla sua superficie, fino ad ora sono stati l’opera dei Vulcani e dei tremuoti82. La natura del suolo indica i paesi più esposti a questi formidabili scotimenti, che prodotti sono da sotterranei fuochi, e questi fuochi vengono accesi dall’unione e dalla fermentazione del ferro e dello zolfo. Ma le epoche e gli effetti loro sembrano posti oltre il giungere dell’umana curiosità, ed il filosofo dee [p. 152 modifica]discretamente astenersi dal predire i terremoti, sinchè sia giunto a noverare le stille d’acqua, che colano in silenzio sopra il minerale infiammabile, e misurato abbia le caverne che accrescono colla resistenza l’esplosione dell’aria imprigionata. Senza assegnar la cagione, l’istoria dee distinguere i periodi in cui questi eventi calamitosi sono stati rari o frequenti, ed osservare che questa febbre della terra infuriò con insolita violenza durante il Regno di Giustiniano83. Ogni anno di quel Regno è segnato dai ripetimento di tremuoti, di una tal durata che Costantinopoli fu agitata per più di quaranta giorni, e di una tale estensione che il commovimento si comunicò a tutta la superficie del Globo, od almeno dell’Imperio Romano. Si sentì una scossa d’impulsione o di vibrazione: si spalancarono nella terra enormi fessure, si videro lanciati in aria corpi grossi e pesanti, il mare alternativamente si avanzò e si ritrasse oltre gli ordinarj suoi limiti, ed una rupe fu divelta dal Libano84, e scagliata nei flutti, dove a guisa di molo essa difese il nuovo porto di Botri85 nella Fenicia. Il colpo che [p. 153 modifica]sbatte un formicajo, può schiacciar nella polvere molte migliaia d’insetti: non pertanto la verità dee tirarci a confessore che l’uomo ha lavorato con molta industria alla propria sua distruzione. Lo stabilimento delle grandi città che racchiudono una nazione nel recinto di una muraglia, quasi realizza il desiderio nutrito da Caligola, che il Popolo Romano non avesse che un solo capo. [A. D. 526] Dicesi che due cento cinquantamila persone perissero nel tremuoto di Antiochia, il quale avvenne al tempo in cui la festa dell’Ascensione aveva accresciuto con una grande affluenza di stranieri la moltitudine dei cittadini. [A. D. 551] La perdita di Berito86 fu di minor grandezza, ma di maggior valore. Questa città, situata sulla costa della Fenicia, era illustre per lo studio delle leggi civili, che aprivano le più sicure strade all’opulenza ed agli onori. Le scuole di Berito riboccavano de’ più begl’ingegni che sorgessero in quell’età, ed il tremuoto schiacciò per avventura più di un giovane che vivendo sarebbe divenuto il flagello o il difensore della sua patria. In mezzo a questi disastri l’Architettura si mostra la nemica del genere umano. La capanna di un selvaggio o la tenda di un Arabo, possono venir rovesciate, senza che ne provi danno chi abita in essa; e ben si apponevano i Peruviani nel deridere la follia dei conquistatori Spa- [p. 154 modifica]gnuoli, che con tanto dispendio e travaglio si fabbricavano i proprj sepolcri. Piombano sul capo di un patrizio i ricchi suoi marmi: sotto le rovine dei pubblici e privati edifizj un Popolo intero ritrova la tomba, e l’incendio viene alimentato e propagato dagli innumerabili fuochi che fanno di mestieri alla sussistenza e all’industria di una grande città. In luogo della scambievole simpatia che può confortare ed assistere que’ che cadono tra le rovine, in terribil modo essi provano l’effetto dei vizj e delle passioni, che più frenate non sono dal timor del castigo. Le crollate case vengono poste a sacco dall’avarizia che di nulla ha paura; la vendetta coglie il momento, e sceglie la vittima; e la terra spesso ingoja l’assassino e lo stupratore, nel punto istesso che consumano il loro misfatto. La superstizione circonda d’invisibili terrori il presente pericolo: e se l’immagine della morte può alle volte servire alla virtù od al pentimento degli individui, il Popolo impaurito vien più fortemente mosso ad aspettare la fine del Mondo, od a scongiurare con servili omaggi la collera di una divinità vendicatrice.

[A. D. 542] III. L’Etiopia e l’Egitto si riguardarono in ogni età come la fonte originale ed il seminario della pestilenza87. In un’aria umida, calda, stagnante, si genera questa febbre Affricana dall’imputridire delle sostanze animali, e specialmente degli sciami di locuste, non meno funeste agli uomini dopo la morte che in vita. Il fatale contagio che spopolò la terra al tempo [p. 155 modifica]di Giustiniano e de’ suoi successori88, si manifestò da principio nelle vicinanze di Pelusio, tra la Palude Serboniana, ed il ramo Orientale del Nilo. Di là movendo per doppia strada, si diffuse nell’Oriente, sopra la Siria, la Persia e le Indie, e penetrò nell’Occidente lungo le coste dell’Affrica e sopra il Continente dell’Europa. Nella primavera del secondo anno, Costantinopoli fu travagliata dalla peste per tre o quattro mesi: e Procopio che ne osservò i progressi ed i sintomi coll’occhio di un fisico89 ha gareggiato colla diligenza e coll’arte di Tucidide nella descrizione della pestilenza di Atene90. Il morbo si manifestava talvolta colle visioni di una fantasia perturbata, e la vittima cadeva d’ogni speranza tosto che aveva udito le minacce e sentito il colpo di un invisibile spettro. Ma il più [p. 156 modifica]della gente erano sorpresi da una leggiera febbre, nel proprio letto, in mezzo alle contrade, tra le usate loro faccende; febbre leggiera sì che nè il polso, nè il colore del volto porgeva nell’ammalato alcun segno di un vicino pericolo. In quel dì istesso o nel secondo o nel terzo si dichiarava il malore coll’enfiagione delle glandole, particolarmente dell’anguinaja, delle ascelle, e sotto l’orecchio, e quando questi bubboni o tumori si aprivano, scorgevasi ch’essi contenevano un carbonchio, ossia una sostanza nera, grossa come una lente. Se il tumore veniva a tutta la sua gonfiezza e si riduceva a suppurazione, l’infermo era salvato da questo mite e naturale sgorgamento dell’umore morboso. Ma se i bubboni continuavano a rimaner duri ed asciutti, ben presto seguiva la cancrena, ed il quinto giorno era comunemente l’ultimo della vita dell’appestato. Accompagnata spesso veniva la febbre da letargo o delirio. I corpi degli ammalati si coprivano di negre pustole o carbonchi, sintomi di una morte immediata. E ne’ temperamenti troppo deboli per produrre un’eruzione, al vomito di sangue teneva dietro la cancrena negli intestini. Per le donne gravide la peste riusciva generalmente mortale; nondimeno fu tratto vivo un bambino, fuor del corpo della madre morta d’infezione, e tre madri sopravvissero alla perdita dei loro feti appestati. La gioventù era la stagione della vita più soggetta al pericolo, e le donne venivano meno attaccate dal male che non gli uomini. Ma ogni grado ed ogni professione soggiaceva del pari all’indistinta ferocia della peste, e molti di quelli che ne scampavano, perdevano l’uso della parola, senza aver sicurezza che il malore non tornasse ad assalirli91. Zelanti ed abili si mostrarono [p. 157 modifica]i medici di Costantinopoli. Ma i cangianti sintomi e la pertinace furia del morbo, inutili facevano gli sforzi dell’arte: gli stessi rimedj producevano effetti contrarj, ed il successo capricciosamente sconvolgeva i loro pronostici di morte o di guarigione. Confusi andarono l’ordine de’ funerali e il diritto delle sepolture; quelli che rimanevano senza amici o famiglie, giacevano insepolti per le contrade o nelle desolate lor case; e fu conferita ad un magistrato l’autorità di raccogliere i promiscui mucchi di cadaveri, di trasportarli per terra o per acqua e di sotterrargli dentro fosse profonde scavate fuori del recinto della città. I più viziosi tra gli uomini sentivano destarsi qualche rimorso nell’animo all’aspetto del loro proprio pericolo e della pubblica infelicità. La confidenza della salute ravvivava di bel nuovo le passioni e l’abitudine loro; ma la filosofia dee tenere in non cale l’osservazione di Procopio che le vite di tali uomini fossero guardate da uno special favore della fortuna o della Providenza. Egli si scordava, o forse si sovveniva in segreto che la pestilenza aveva assalito la persona stessa di Giustiniano; ma la rigorosa dieta dell’Imperatore può suggerire, come avvenne di Socrate92, un più ragionevole ed onorevole motivo del suo risanamento. Durante la malattia [p. 158 modifica]del Principe, la pubblica costernazione si manifestò ne’ vestimenti de’ cittadini; e la trascuranza e lo sgomento loro apportarono una generale carestia nella capitale dell’Oriente.

[A. D. 542-594] Inseparabile sintomo della peste è quello di essere appiccaticcia ed atta per mezzo della respirazione degli infetti a trasfondersi nei polmoni e nello stomaco di quelli che ad essi stanno vicini. Nel tempo che i filosofi credono a questo fatto e ne sbigottiscono, è singolare che l’esistenza di un sì reale pericolo venisse negato dal Popolo il più propenso ai vani ed immaginarj terrori. Nondimeno i concittadini di Procopio s’erano persuasi, mediante alcune poche e parziali esperienze, che l’infezione non s’attaccava anche col parlar più d’appresso agli appestati93; e questa persuasione giovava a sostenere l’assiduità degli amici e dei medici nella cura degli infermi, che una disu[p. 159 modifica]prudenza avrebbe condannati alla solitudine, ed alla disperazione. Ma tal funesta sicurezza, non altramente, che la predestinazione dei Turchi dovette aumentare i progressi della contagione; e le salutari cautele a cui l’Europa va debitrice della sua salvezza, erano sconosciute al governo di Giustiniano. Non s’impose alcun freno alle frequenti e libere relazioni delle province Romane: dalla Persia fino alla Francia le nazioni erano mescolate ed infettate dalle migrazioni e dalle guerre; ed il pestifero odore che si ricetta per anni interi in una balla di cotone, veniva trasportato per l’abuso del traffico, sino alle più distanti contrade. Il modo con cui propagossi la peste viene spiegato per l’osservazione fatta da Procopio medesimo, che sempre essa spargevasi dal lido del mare nell’interno de’ paesi, che le isole e le montagne più segregate dalle altre, successivamente venivano visitate dal morbo, e che i luoghi, sfuggiti al furore del suo primo passaggio, erano esposti al contagio dell’anno seguente. I venti poterono diffondere quel veleno sottile; ma a meno che l’atmosfera sia preventivamente disposta a riceverlo, l’infezione deve ben presto venir meno in tutti i climi freddi o temperati del Globo. Tale si era l’universale corruzione dell’aria, che la pestilenza scoppiata nell’anno decimo quinto di Giustiniano, non fu repressa nè mitigata da veruna differenza delle stagioni. Coll’andar del tempo, la prima sua malignità si diminuì e disperse, il morbo alternativamente languì e rinacque, ma non fu che in capo ad un calamitoso periodo di cinquantadue anni, che l’uman genere ricuperò la sanità di prima, e che l’aria riprese le sue qualità pure e salubri. Non ci rimangono fatti su cui stabilire un computo, od almeno una con[p. 160 modifica]gettura del numero delle persone che da quella straordinaria mortalità furon tolte al Mondo. Solamente io trovo che durante tre mesi, cinquemila ed in ultimo diecimila persone morivano ogni giorno in Costantinopoli; che molte città dell’Oriente rimasero affatto vuote, e che in molti distretti dell’Italia le messi marcivano sul suolo e la vendemmia sui tralci. Il triplice flagello della guerra, della peste e della fame afflisse i sudditi di Giustiniano, ed il suo Regno è funestamente contrassegnato da una visibile diminuzione della specie umana, danno che in alcune delle più belle contrade del Globo non si è potuto riparare più mai94.

Note

  1. Per le turbolenze dell’Affrica, io non ho, nè desidero di aver altra guida fuorchè Procopio, il qual vide co’ proprj occhi i memorabili avvenimenti de’ suoi tempi, o ne raccolse colle proprie orecchie il racconto. Nel secondo libro della guerra Vandalica, egli narra la ribellione di Stoza (c. 12-24), il ritorno di Belisario (c. 15), la vittoria di Germano (c. 16, 17, 18), la seconda amministrazione di Salomone (c. 19, 20, 21), il governo di Sergio (c. 22, 23), di Areobindo (c. 24), la tirannia e morte di Gontari (c. 25, 26, 27, 28); nè posso discernere alcun segno di adulazione o di malevolenza nei suoi diversi ritratti.
  2. Non posso però ricusargli il merito di pingere, con vivaci colori, l’assassinio di Gontari. Uno degli uccisori manifestò sensi non indegni di un cittadino romano: „Se io fallisco„, disse Artasire, „il primo colpo, uccidetemi immediatamente, affinchè le torture non abbiano da strapparmi di bocca la confessione de’ miei complici„.
  3. Le guerre contro i Mori sono per occasione introdotte nel racconto di Procopio (Vandal. l. II c. 19, 23, 25, 27, 28. Gothic. l. IV c. 17); e Teofane aggiunge alcuni avvenimenti, prosperi ed avversi, che si riferiscono agli ultimi anni di Giustiniano.
  4. Ora Tibesh nel regno d’Algeri. È bagnata dal fiume Sujerass, che cade nella Mejerda (Bagradas). Tibesh è tuttora osservabile per le sue mura di grosse pietre, simili a quelle del Coliseo di Roma, e per una fontana ed un boschetto di castagni: la contrada è fertile, ed i vicini Bereberi sono una guerriera tribù. Si chiarisce da un’iscrizione, che sotto il regno di Adriano, la strada da Cartagine a Tebeste, fu costruita dalla terza legione (Marmoll. Description de l’Afrique, tom. II p. 442, 443. Shaw’s Travels, p. 64, 65, 66).
  5. Procopio, Aneddoti, c. 18. La serie della storia affricana attesta questa malinconica verità.
  6. Nel secondo (c. 50) e nel terzo libro (c. 1-40) Procopio continua l’istoria della guerra gotica dal quinto sino al decimoquinto anno di Giustiniano. Siccome gli eventi sono meno importanti che nel primo periodo, il suo racconto occupa metà dello spazio per un tempo del doppio maggiore. Giornande e la Cronica di Marcellino ci somministrano qualche altro lume. Il Sigonio, il Pagi, il Muratori, il Mascou ed il Buat porgono soccorsi di cui ho profittato.
  7. Silverio, vescovo di Roma, fu da principio trasportato a Patara, nella Licia, e finalmente fatto morire di fame (sub eorum custodia inedia confectus) nell’isola di Palmaria, A. D. 538, mese di giugno (Liberat. in Breviar. c. 22. Anastasius, in Sylverio. Baronius. A. D. 540 n. 2, 3. Pagi, in Vit. Pont. Tom, I pag. 285, 286). Procopio (Aneddoti, c. 1) accusa soltanto l’Imperatrice ed Antonina.
  8. Palmaria, isoletta che giace dirimpetto a Terracina, ed alla costa dei Volsci (Cluver. Ital. Antiq. l. 1II c. 7 p. 1024).
  9. Siccome il Logoteta Alessandro e la maggior parte de’ suoi colleghi civili e militari erano caduti in disgrazia o in disprezzo, l’Autore degli Aneddoti (c. 4, 5, 18) non adopera colori molto più neri che nell’istoria Gotica (l. III c. 1, 3, 4, 9, 20, 21, ecc.).
  10. Procopio (l. III c. 2, 8 ecc.) rende giustizia ampia e spontanea al merito di Totila. Gli storici Romani, da Sallustio e Tacito in poi, si compiacevano nel dimenticare i vizj dei loro concittadini, riguardando alle virtù dei Barbari.
  11. Procopio, l. III c. 12. L’anima di un eroe è profondamente impressa in questa lettera, nè possiamo noi confondere tali atti genuini ed originali insieme con le elaborate e spesso vuote concioni degli storici Bizantini.
  12. Procopio non dissimula l’avarizia di Bessa (l. III c. 17, 20). Questi espiò la perdita di Roma con la gloriosa conquista di Petra (Goth. l. IV c. 12): ma gli stessi vizj lo seguitarono dal Tevere al Fasi (c. 13); e l’istorico narra con egual verità i meriti e i difetti del suo carattere. Il castigo che l’autore del romanzo di Belisario ha inflitto all’oppressore di Roma è più conforme alla giustizia che all’istoria.
  13. Durante il lungo esilio di Vigilio, e dopo la sua morte, la chiesa romana fu governata dall’arcidiacono, indi Papa (A. C. 555) Pelagio, il quale fu creduto non innocente dei mali sofferti dal suo predecessore. Vedi le vite originali dei Papi sotto il nome di Anastasio (Muratori, Script. rer. italicarum, tom. III P. 1 p. 130, 131. il quale narra varj curiosi accidenti degli assedj di Roma e delle guerre d’Italia).
  14. Il monte Gargano, ora monte S. Angelo, nel regno di Napoli, si prolunga trecento stadj nel mare adriatico (Strab. l. VI p. 436), e nei secoli tenebrosi fu illustrato dall’apparizione, dai miracoli e dalla chiesa di S. Michele Arcangelo. Orazio, nativo di Apulia o Lucania, avea veduto le querce e gli olmi del Gargano, sbattuti e muggenti per la forza del vento settentrionale che soffiava su quell’alta costa (Carm. II, 9. Epist. II, I, 201).
  15. Non posso determinare esattamente la posizione di questo campo di Annibale; ma gli alloggiamenti Punici stettero lungo tempo e spesso nelle vicinanze di Arpi (Tito Livio, XXII, 9, 12; XXIV, 3, ecc.).
  16. Totila..... Romani ingreditur..... ac evertit muros, domos aliquantas igni comburens, ac omnes Romanorum res in praedam accepit, hos ipsos Romanos in Campaniam captivos abduxit. Post quam devastationem, XL aut amplius dies, Roma fuit ita desolata, ut nemo ibi hominum, nisi (nullae?) bestiae morarentur (Marcellin. in Chron. p. 54).
  17. I Triboli sono ferri con quattro punte, una delle quali si pianta in terra, e le tre altre sorgono verticali od oblique (Procopio, Got. l. III c. 24. Giusto Lipsio, Poliorcete, l. V c. 3). La metafora è tolta dai triboli, pianta che produce frutti spinosi, comune in Italia (Martino, ad Virgil. Georg. I, 153, vol. II p. 33).
  18. Ruscia, il Navale Thuriorum, fu trasferita in distanza di sessanta stadj a Ruscianum, Rossano, arcivescovato senza suffraganei. La repubblica di Sibari è ora una terra del duca di Corigliano (Riedesel, viaggi nella Magna Grecia e nella Sicilia, p. 166-171).
  19. Questa cospirazione vien riferita da Procopio (Goth., l. III c. 31, 32) con tal ingenuità e candore, che la libertà degli Aneddoti non gli porge più nulla da aggiungere.
  20. Gli onori di Belisario sono con piacere rammemorati dal suo segretario (Procopio, I. l. III c. 35; l. IV c. 21). Il titolo di Στρατηγος è mal tradotto, almeno in questa occasione, col praefectus praetorio; e trattandosi di una carica militare, sarebbe meglio dire I (Ducange, Gloss. Graec. p. 1458, 1459).
  21. Alemanno (ad Hist. Arcan. p. 68), Ducange (Familiae Byzant. p. 98) ed Eineccio (Hist. juris civilis, p. 434) rappresentano tutti tre Anastasio come figlio della figlia di Teodora; e l’opinione loro saldamente si appoggia sulla chiarissima testimonianza di Procopio (Aneddoti, c. 4, 5, θυγατριδω, due volte ripetuto). Tuttavia io farò notare, 1. che nell’anno 547, Teodora poteva difficilmente avere un nipote giunto alla pubertà; 2. che noi siamo affatto al bujo di questa figlia e del suo marito; 3. che Teodora nascondeva i suoi bastardi, e che il suo nipote dal lato di Giustiniano sarebbe stato l’erede presuntivo dell’Impero.
  22. Gli αμαρτηματα, od errori dell’eroe in Italia e dopo il suo ritorno, sono manifestati απαρακαλυωτως, e più probabilmente ingrossati dall’autore degli Aneddoti (c. 4, 5). I disegni di Antonina erano favoriti dalla fluttuante giurisprudenza di Giustiniano: sopra la legge del matrimonio e del divorzio quest’Imperatore era trocho versatilior (Eineccio, Elem. juris civilis ad ordinem Pandect. P. IV n. 233).
  23. I Romani erano tuttora affezionati ai monumenti dei loro maggiori; e secondo Procopio (Got. l. IV c. 22) la galera di Enea, di un solo ordine di remi, larga 25 piedi, e lunga 120, conservavasi intera nel Navalia presso il Monte Testaceo, ai piedi dell’Aventino (Nardini, Roma antica, l. VII c. 9 p. 466. Donato, Roma antica, l. IV c. 13 p. 334). Ma tutti gli autori antichi nulla dicono di questa reliquia.
  24. In que’ mari, Procopio cercò invano l’isola di Calipso. In Feacea o Corcira, gli fu mostrata la nave impietrita di Ulisse (Odyss. XIII, 163); ma egli trovò che era una fabbrica recente, composta di molte pietre, e dedicata da un mercatante a Giove Cassio (l. IV c. 22). Eustazio aveva supposto che fosse la fantastica rassomiglianza di una rupe.
  25. Il Danville (Mem. de l’Acad. tom. XXXII p. 513-528) illustra il golfo di Ambracia; ma non può determinare la situazione di Dodona. Un paese che giace in vista della Italia è men conosciuto che i deserti dell’America.
  26. Vedi gli atti di Germano nell’istoria pubblica (Vandal. l. II c. 16, 17, 18. Got. l. III c. 31, 32) e nell’istoria segreta (Aneddoti, c. 5); e quelli di suo figlio Giustino, in Agatia (l. IV p. 130, 131). Non ostante un’espressione ambigua di Giornande, fratri suo, Alemanno ha trovato che egli era figlio del fratello dell’Imperatore.
  27. Conjuncta Aniciorum gens cum Amala stirpe, spem adhuc utriusque generis promittit (Giornande, c. 60 p. 703). Egli scrisse in Ravenna prima della morte di Totila.
  28. Il terzo libro di Procopio termina colla morte di Germano (Add. l. IV c. 23, 24, 25, 26).
  29. Procopio riferisce tutta la serie di questa seconda guerra gotica e della vittoria di Narsete (l. IV c. 21, 26-35). Splendido quadro! Fra i sei argomenti di poema epico che il Tasso volgeva in mente, egli esitava tra la conquista d’Italia fatta da Belisario e quella fatta da Narsete (Hayley’s Works, vol. IV p. 70).
  30. Ignota è la patria di Narsete, poichè non si dee confonderlo col Persarmeno. Procopio gli dà il nome di (Got. l. II c. 13) βασιλικων χρηματων ταμιας, Paolo Varnefrido (l. II c. 3 p. 776) lo chiama Chartularius: Marcellino aggiunge il titolo di Cubicularius. In un’iscrizione sul ponte Salario egli vien chiamato Ex-Consul, Ex-Praepositus, Cubiculi Patricius (Mascou, Storia dei Germani, l. XIII c. 25). La legge di Teodosio contro gli eunuchi era caduta in disuso o abolita (annot. XX). Ma la sciocca profezia dei Romani sussisteva in tutto il vigore (Procop. l. IV c. 21).
  31. Il Lombardo Paolo Varnefrido racconta con compiacenza i soccorsi, i servigi e l’onorevol congedo de’ suoi paesani. Reipublicae Romanae adversus aemulos adjutores fuerant (l. II c. 1 p. 774, ediz. Grot.). Mi fa stupore che Alboino, guerriero lor re, non conducesse in persona i suoi sudditi.
  32. Egli fu, se non un impostore, il figlio del cieco Zame, salvato per compassione ed allevato nella Corte di Bisanzio pei differenti motivi di politica, di generosità e di orgoglio (Procop. Persic. l. I c. 23).
  33. Al tempo di Augusto e nel medio evo, tutto il territorio che si stende da Aquileja a Ravenna era coperto di boschi, di laghi e di paludi. L’uomo ha vinto la natura, e si coltivò la terra dopo che cacciate od imprigionate ne furon le acque. Vedi le erudite ricerche del Muratori (Antiquitat. Italiae Medii aevi, tom. I, dissert. XXI p. 253, 254) tratte da Vitruvio, Strabone, Erodiano, dai vecchi diplomi, e dalla cognizione de’ luoghi.
  34. La via Flaminia, secondo le correzioni del Danville, fatte dietro gl’itinerari e le migliori carte moderne (Analyse de l’Italie, p. 147-162), può determinarsi nel modo che segue: da Roma a Narni, 51 miglia romani; a Terni, 57; a Spoleto, 75; a Foligno, 88; a Nocera, 103; a Cagli, 142; ad Intercisa, 157; a Fossombrone, 160; a Fano, 176; a Pesaro, 184; a Rimini, 208; circa 189 miglia inglesi. Egli non parla della morte di Totila; ma Vesselingio (Itinerar. p. 614) in luogo del campo di Tagina mette l’incognito nome di Ptanias in distanza di otto miglia da Nocera.
  35. Tagina, o veramente Tadina, vien ricordata da Plinio; ma la sede vescovile di questa oscura città, posta nella pianura distante un miglio da Gualdo, fu riunita nel 1007 a quella di Nocera. Si conservano i segni dell’antichità nei nomi dei luoghi, come Fossato (il campo), Capraja (Caprea), Bastia (Busta gallorum). Vedi Cluverio (Italia antiqua, l. II c. 6 p. 615, 616, 617), Luca Olstenio (Adnot. ad Cluver. p. 85, 86), Guazzesi (dissert. p. 177-217, che di ciò tratta ex professo), e le carte dello Stato ecclesiastico pubblicate da Le Maire, e Magini.
  36. Avvenne questa battaglia nell’anno di Roma 458, ed il Console Decio, col sacrificare la propria vita, assicurò il trionfo della sua patria e del suo collega Fabio (Tito Livio, X, 28, 29). Procopio ascrive a Camillo la vittoria di Busta Gallorum; ed il suo errore vien impugnato da Cluverio col nazionale rimprovero di Graecorum nugamenta.
  37. Teofane, Chron. p. 193. Hist. Miscell. l. XVI p. 108.
  38. Evagrio, l. IV c. 24. L’inspirazione della Vergine rivelò a Narsete il giorno e la parola d’ordine della battaglia. (Paolo Diacono, l. II c. 3 p. 776).
  39. Επι τουτου βασιλευοντος το πεμπτον εαλω. (Regnando lui presa cinque volte). Nell’anno 536 da Belisario, nel 546 da Totila, nel 547 da Belisario, nel 549 da Totila, e nel 552 da Narsete. Maltrate si è apposto male traducendo sextum; errore che egli ritratta in appresso: ma il male era fatto; e Cousin, con una mano di lettori francesi e latini, era caduto nell’inganno.
  40. Si paragonino due passi di Procopio (l. III c. 26; l. IV c. 24), i quali, aggiungendovi qualche lume tolto di Marcellino e da Giornande, illustrano lo stato del Senato spirante.
  41. Vedi, nell’esempio di Prusia, come trovasi nei frammenti di Polibio (excert. legat. XCVII p. 927, 928) un curioso ritratto di uno schiavo regale.
  42. Il Δρακων di Procopio (Goth. l. IV c. 35) è manifestamente il Sarno. Cluverio ne accusa od altera con violenza il testo (l. IV c. 3 p. 1156); ma Camillo Pellegrini di Napoli (Discorsi sopra la Campania Felice, p. 330, 331) ha provato con antichi documenti che sin dall’anno 822 quel fiume chiamavasi il Dracontio, o Draconcello.
  43. Galeno (De Method. Medendi, l. V apud Cluver. l. IV c. 3 p. 1159, 1160) descrive il sito elevato, l’aria pura ed il prezioso latte del monte Lattario, i cui benefici effetti erano egualmente conosciuti e ricercati al tempo di Simmaco (l. VI epist. 18) e di Cassiodoro (Var. XI, 10). Nulla or ne rimane, tranne il nome della città di Lettere.
  44. Il Buat (tom. XI p. 2 ec.) fa passare in Baviera, suo prediletto paese, questo avanzo di Goti, i quali da altri vengono sepolti nei monti di Uri, o restituiti alla natia lor isola di Godlanda (Mascou, annot. XXI).
  45. Io lascio che Scaligero (Animadvers. in Euseb. p. 59) e Salmasio (Exercitat. Plinian. p. 51, 52) contendano fra loro intorno all’origine di Cuma, la più antica delle colonie greche in Italia (Strab. l. V p. 372. Vellejo Patercolo, l. I c. 4), già quasi deserta al tempo di Giovenale (Satir. III), ed ora in rovina.
  46. Agatia (l. I c. 21) mette la grotta della Sibilla sotto le mura di Cuma; egli in ciò si accorda con Servio (ad l. VI Aeneid.); nè io scorgo perchè l’opinione loro sia rigettata da Heyne, eccellente editore di Virgilio (tom. II p. 650, 651). In urbe media secreta religio! Ma Cuma non era ancor fabbricata; ed i versi di Virgilio (l. VI 96, 97) diverrebbero ridicoli, se Enea si trovasse in una città greca.
  47. Avvi qualche difficoltà nel connettere il capitolo 35. del libro IV della guerra Gotica di Procopio insieme col libro primo dell’istoria di Agatia. Ci è forza ora lasciare uno statista ed un soldato per seguire i passi di un poeta e di un retore (l. I p. 11; l. II p. 51, ediz. Louvre).
  48. Tra le favolose imprese di Buccellino si trova che egli sconfisse ed uccise Belisario, soggiogò l’Italia e la Sicilia, ec. Vedi, negli Storici di Francia, Gregorio di Tours (tom. II l. III c. 32 p. 203) ed Aimoino (tom. III l. II. De Gestis Francorum, c. 23 p. 59).
  49. Agatia parla della loro superstizione con filosofico stile (l. I p. 18). A Zug, nella Svizzera, l’idolatria dominava ancora nell’anno 613. San Colombano e San Gallo furono gli apostoli di quel selvaggio paese; e quest’ultimo fondò un romitorio, che, crescendo, divenne un principato ecclesiastico ed una città popolosa, sede della libertà e del commercio.
  50. Vedi la morte di Lotario in Agatia (l. II p. 38) ed in Paolo Varnefrido, soprannominato il Diacono (l. II c. 3 p. 775). I Greci lo fanno divenir frenetico e mangiarsi la propria carne. Egli avea saccheggiato le chiese.
  51. Il P. Daniele (Hist. de la Milice françoise, t. I p. 17-21) ha fatto di questa battaglia una descrizione a capriccio, alquanto nel genere del cavaliere Folard, l’editore una volta famoso di Polibio, il quale accomodava, a norma delle sue abitudini ed opinioni, tutte le operazioni militari dell’Antichità.
  52. Agatia (l. II p. 47) riferisce un epigramma greco di sei versi sopra questa vittoria di Narsete, che favorevolmente vien paragonata alla battaglia di Maratona e di Platea. La differenza principale, a dire il vero, sta nelle conseguenze loro: – così triviali nel primo caso – così durevoli e gloriose nel secondo.
  53. In cambio del Beroi e del Brincas di Teofane o del suo copista (p. 201) si dee leggere ed intendere Verona e Brixia.
  54. Ελιπετο γαρ οιμαι, αυτοις υπο αβελτεριας τας ασπιδας τυχον και τα κρανη αμφορεως οινου και βαρβιτου αποδοσθαι. „Rimanea solo, io penso, alla loro stoltezza, il contrattare scudi e cimieri con fiaschi di vino, e con chitarre„. (Agatia, l. II p. 48) Nella prima scena del Riccardo III, Shakespeare ha bellamente amplificato questa idea di cui probabilmente non andava obbligato all’istorico Bizantino.
  55. Il Maffei ha provato (Verona illustrata, P. I l. X p. 257, 289), contro l’opinione comune, che i Duchi d’Italia furono instituiti avanti la conquista dei Lombardi dallo stesso Narsete. Nella Sanzione Prammatica (n. 23), Giustiniano ristringe gli iudices militares.
  56. Vedi Paolo Diacono, l. III c. 2 p. 776. Menandro (in Excepta Legat. p. 133) ricorda alcune sollevazioni in Italia, eccitate dai Franchi; e Teofane (p. 201) fa cenno di qualche ribellione dei Goti.
  57. La Sanzione Prammatica di Giustiniano, la quale stabilisce e regola lo stato civile dell’Italia, è composta di 27 articoli: e porta la data de’ 15 agosto anno 554. Essa è indirizzata a Narsete, V. J. Praepositus Sacri Cubiculi, e ad Antioco, Praefectus Praetorio Italiae; e ci fu conservata da Giuliano Antecessore: trovasi nel Corpus Juris Civilis, dopo le Novelle e gli Editti di Giustiniano, di Giustino e di Tiberio.
  58. Un numero più grande ancora perì di fame nelle province meridionali, senza comprendervi (εκτος) il golfo Jonico. Le ghiande tenevano il luogo del pane. Procopio ha veduto un orfanello abbandonato, cui una capra allattava. Diciassette passaggieri furono alloggiati, trucidati e mangiati da due donne, le quali un diciottesimo viaggiatore discoperse ed uccise, ec.
  59. Quinta Regio Piceni est; quondam, uberrimae multitudinis CCCLX millia Picentium in fidem P. R. venere (Plin. Hist, Nat. III, 18). Al tempo di Vespasiano, questa antica popolazione era già diminuita.
  60. Forse quindici o sedici milioni. Procopio (Aneddoti, c. 18) fa il conto che l’Affrica perdè cinque milioni, che l’Italia era tre volte più estesa, e che la spopolazione fu proporzionatamente più grande. Ma questi computi sono esagerati dalla passione, ed annebbiati dall’incertezza.
  61. La satira che fa Procopio (Aneddoti, c. 24. Alemanno, p. 101 e 103) di queste scuole militari, vien confermata ed illustrata da Agatia (l. V p. 159), che non si può rigettare come testimonio nemico.
  62. La distanza da Costantinopoli a Melanzia, Villa Caesariana (Ammiano Marcell. XXX, 2), viene variamente fissata da 102 a 140 stadj (Suida, f. II p. 522, 523. Agatia, l. V p. 158), ovvero da diciotto a diciannove miglia (Itineraria, p. 138, 230, 323, 332, ed Osservazioni di Vesselingio). Le prime dodici miglia sino a Reggio furono fatte selciare da Giustiniano, il quale edificò un ponte sopra una palude o un gorgo che trovasi tra un lago ed il mare (Procop. de Edif. l. IV c. 8).
  63. L’Atyras (Pompon. Mela, l. II c. 2 p. 169, ed. Voss.). All’imboccatura del fiume, Giustiniano fortificò una città o rocca dello stesso nome (Procop. de Aedif. l. IV c. 2. Itin. p. 570 e Vesselingio).
  64. La guerra contro i Bulgari, e l’ultima vittoria di Belisario sono imperfettamente descritte nella prolissa declamazione di Agatia (l. V p. 154-174) e nell’arida cronaca di Teofane (p. 197, 198).
  65. Ινδους. Non si può ben credere che fossero veri Indiani; e gli Etiopi, alle volte conosciuti sotto quel nome, non vennero mai usati dagli antichi in qualità di guardie o seguaci: essi formavano il frivolo, benchè costoso oggetto del lusso femminile e regale (Terenzio, Eunuco, atto I, scena II. Svetonio, in August. c. 83, con una buona nota di Casaubono in Caligula, c. 57).
  66. Procopio fa menzione di Sergio (Vandal. l. II c. 21, 22. Aneddoti, c. 5) e di Marcello (Got. l. III c. 32). Vedi Teofane, p. 197, 201.
  67. Alemanno (p. 3) cita un antico codice Bizantino, che fu inserito nell’Imperium Orientale del Banduri.
  68. Il genuino ed originale rapporto della disgrazia e del risorgimento di Belisario si rinviene nel frammento di Giovanni Malala (t. II p. 234-243) e nell’esatta Cronaca di Teofane (p.194-204). Cedreno (Compendium, p. 387, 388) e Zonara (t. II l. XIV p. 69) sembrano esitare tra la verità invecchiata e la menzogna che prendeva vigore.
  69. L’origine di questa favoletta par venire da un’opera miscellanea del duodecimo secolo, le Chiliadi, di Giovanni Tzetze Monaco (Basilea 1546, ad calcem Lycophront. Colon. Allobrog. 1614, in Corp. poet. graec.). Egli racconta la cecità e la mendicità di Belisario in dieci versi popolari o politici (Chiliad. III n. 88, 339-348, in Corp. poet. graec. t. II p. 311).

    Εκρωμα ξυλινον κρατων εβοα τω μιλιω
    Βελισαριω οβολον δοτε τω στρατηλατη
    Οκ τυχη μεν εδοξασεν, αποτυφλοι σο φθονος.

    „Tenendo in mano una coppa di legno, gridava al popolo: date un obolo a Belisario Generale, glorificato già dalla sorte, poi dall’invidia accecato„.
    Questa morale o romanzesca novella fu portata in Italia insieme con la lingua ed i codici della Grecia; e quivi fu ripetuta avanti il fine del secolo XV da Crinito, da Pontano e da Volaterrano; impugnata da Alciato, per onor della giurisprudenza; e difesa dal Baronio (A. D. 561 n. 2 ec.) per onor della Chiesa. Non pertanto lo stesso Tzetze aveva letto in altre cronache che Belisario non perdette la vista, e che ricuperò la sua riputazione ed i suoi beni.

  70. La statua che trovasi nella villa Borghese a Roma, seduta e colla mano stesa a chiedere, che volgarmente si attribuisce a Belisario, può con più dignità attribuirsi ad Augusto in atto di farsi Nemesi propizia (Winkelman, Hist. de l’Art, t. III p. 266). Ex nocturno visu etiam stipem, quotannis, die certo, emendicabat a populo, cavam manum asses porrigentibus praebens (Suet. in August. c. 91, con un’eccellente nota di Casaubono).
  71. La penna di Tacito punge sottilmente il Rubor di Domiziano (in Vit. Agricol. c. 45). Plinio il giovane (Paneg. c. 48) e Svetonio (in Dom. c. 18) e Casaub. (ad loc.), ne fanno cenno essi pure. Procopio (Aneddoti, c. 8) stoltamente crede che un solo busto di Domiziano fosse pervenuto sino al sesto secolo.
  72. Gli studj e la scienza di Giustiniano si chiariscono più dalla confessione (Aneddoti, c. 8, 13) che dalle lodi (Got. l. III c. 31, de Aedif. l. I. Proem. c. 7) di Procopio. Si consulti il copioso indice di Alemanno, e si legga la vita di Giustiniano scritta da Ludewig (p. 135-142).
  73. Vedi nella C. P. Christiana del Ducange (l. I c. 24 n. 1) una sequela di testimonianze originali da Procopio nel VI secolo sino a Gillio nel XVI.
  74. La prima cometa vien rammentata da Giovanni Malala (t. II p. 190, 219) e da Teofane (p. 154); la seconda da Procopio (Persic. l. II c. 4). Tuttavia io sospetto fortemente l’identità loro. Il pallore del sole (Vandal. l. II c. 14) viene applicato da Teofane (p. 158) ad un anno differente.
  75. Seneca, nell’ottavo libro delle Questioni Naturali, trattando della teoria delle comete, fa prova di filosofica mente. Però non dobbiamo troppo bonariamente confondere una predizione vaga, un veniet tempus, col merito delle scoperte reali.
  76. Gli Astronomi possono studiare Newton ed Halley. Io traggo l’umile mia dottrina dall’articolo Cometa, nell’Enciclopedia Francese del sig. d’Alembert.
  77. Whiston, l’onesto, il pio, il visionario Whiston, ha immaginato, per l’era del diluvio di Noè (2242 anni A. C.), un’apparizione anteriore della stessa cometa, la quale annegò la terra colla sua coda.
  78. Una Dissertazione di Freret (Mém. de l’Acad. des inscript. t. X p. 357-377) presenta un felice aggregato di filosofia e di erudizione. Il fenomeno del tempo di Ogige fu salvato dell’obblio da Varrone ap. August. de civitate Dei, XXI, 8, il quale cita Castore, Dione di Napoli, ed Adrasto di Cizico, nobiles mathematici. I mitologi greci ed i libri aprocrifi dei versi sibillini ci hanno trasmesso la memoria dei due periodi susseguenti.
  79. Plinio (Hist. Nat. II, 23) ha trascritto i registri originali di Augusto. Il Mairan, nelle ingegnosissime sue lettere al P. Parennin, missionario alla China, trasporta i giuochi e la cometa del settembre, dall’anno 44 all’anno 43 avanti l’era Cristiana; ma io non mi do interamente per vinto dalla critica dell’Astronomo (Opuscoli, p. 275-351).
  80. Quest’ultima cometa si fece vedere nel dicembre del 1680. Bayle il quale pose mano ai suoi Pensieri sulle comete nel gennajo del 1681 (Opere, t. III), fu obbligato a servirsi di questo argomento, che una cometa soprannaturale avrebbe confermato gli antichi nella loro idolatria. Bernoulli (Vedi il suo Elogio in Fontenelle, t. V p. 99) diceva che la testa della cometa non è un segno straordinario dello sdegno celeste, ma che la coda può esserne uno.
  81. Il Paradiso Perduto uscì in luce nell’anno 1667; ed i famosi versi (l. II, 708 ec.) che sbigottirono il censore possono alludere alla recente cometa del 1664 osservata da Cassini a Roma in presenza della regina Cristina (Fontenelle, Elogio di Cassini, l. V p. 338). Aveva forse Carlo II lasciato sfuggire qualche segno di curiosità o di spavento?
  82. Intorno alla cagione dei terremoti, vedi Buffon (t. I p. 502-536, Supplément à l’Histoire Naturelle, t. V p. 382-399, ediz. in 4), Valmont di Bomare (Diction. d’Histoire Naturelle, Tremblemens de Terre, Pyrites), Watson (Chemical essays, t. I p. 181-209).
  83. I tremuoti che scossero il Mondo romano nel regno di Giustiniano sono descritti o rammentati da Procopio (Got. l. IV c. 25. Aneddoti, c. 18), da Agatia (l. II p. 52, 53, 54; l. V p. 145-152), da Giovanni Malala (Chronaca, t. II p. 140-146, 176, 177, 183, 193, 220, 229, 231, 233, 234), e da Teofane (p. 151, 183, 189, 191-196).
  84. Altura scoscesa, Capo perpendicolare tra Arado e Botri, detto dai Greci θεων προσωπον, e ευπροσωπον, o λιθοπροσωπον dagli scrupolosi Cristiani (Polib. l. V p. 411. Pompon. Mela, l. I c. 12 p. 87, cum Isaac Voss. observat. Maundrell, Journey, p. 32, 33. Pocock, descript. vol. II p. 93).
  85. Botri ebbe per fondatore Itobal, re di Tiro (anno A. C. 935-903. Vedi Marsham, Canon. Chron. p. 387, 388). Il villaggio di Patrona che miserabilmente rappresenta quella città, non ha più alcun porto.
  86. Eineccio (p. 351-356) celebra l’università, lo splendore, e la rovina di Berito come una parte essenziale dell’istoria della giurisprudenza romana. Berito fu distrutta nell’anno XXV del regno di Giustiniano D. C. 551, ai 9 di luglio (Teofane, p. 192). Ma Agatia (l. II p. 51, 52) sospende il tremuoto sino dopo la conquista dell’Italia.
  87. Ho letto con gran piacere il breve ma elegante trattato di Mead sopra le malattie pestilenziali, ottava edizione, Londra, 1722.
  88. La gran peste che infuriò nel 542 e negli anni seguenti (Pagi, Critica, t. II p. 518) può rilevarsi da Procopio (Persic. l. II c. 22, 23), da Agatia (l. V p. 153, 154), da Evagrio (l. IV c. 29), da Paolo Diacono (l. II c. 4 p. 776, 777), da Gregorio di Tours (t. II l. II c. 5 p. 205), il quale la chiama lues inguinaria, e dalle cronache di Vittorio Tunnunense (p. 9, in thesaurum temporum), di Marcellino (p. 54) e di Teofane (p. 153).
  89. Il Dottore Friend (Hist. Medicin. in Opp. p. 416-420. Londra 1733) è persuaso che Procopio avea studiato la medicina dal vedere la cognizione che ha, e l’uso che fa dei termini tecnici. Nondimeno, molte parole che ora sono scientifiche, erano comuni e popolari nell’idioma greco.
  90. Vedi Tucidide, (l. II c. 47-54 p. 127-133, ediz. Duker) e la descrizione poetica della stessa pestilenza in Lucrezio (l. VI, 1136-1284). Io sono grato al Dottore Hunter per l’elaborato suo comento sopra questa parte di Tucidide, (vol. in 4. di 600 pag. Venezia 1603, apud Junctas) che fu recitato nella Biblioteca di S. Marco da Fabio Paolino di Udine, medico e filosofo.
  91. Tucidide (c. 51) afferma non prendersi la peste che una sola fiata; ma Evagrio che aveva sperimentato il contagio in famiglia, osserva che alcune persone, scampate dal primo assalto del male, soggiacquero poi al secondo. Questo ritorno della peste vien confermato da Fabio Paolino (588). Io fo avvertire che i medici sono divisi su questo particolare, e che la natura e il modo di operare del contagio non possono esser sempre somiglianti fra loro.
  92. Così Socrate si salvò per la sua temperanza, nella pestilenza di Atene (Aulo Gellio, notti Attiche, II, 1). Il Dott. Mead attribuisce la particolare salubrità delle case religiose al doppio vantaggio dell’esser separate dalle altre, e dell’astinenza che vi si osserva (p. 18, 19).
  93. Il Dott. Mead prova che la pestilenza è contagiosa, coll’appoggio di Tucidide, di Lucrezio, di Aristotile, di Galeno, e dell’esperienza comune (p. 10-20); ed egli confuta (Preface, p. 2-13) l’opinione contraria dei medici francesi che visitarono Marsiglia nell’anno 1720. Non pertanto erano dessi i recenti ed illuminati spettatori di una peste che, in pochi mesi, portò via cinquantamila abitatori (Sur la Peste de Marseille, Paris, 1786) di una città, la quale nei presenti giorni della prosperità e del commercio non contiene più di novantamila anime (Necker, sur les Finances, t. I, p. 231).
  94. Procopio (Aneddoti, c. 18) usa da principio alcune figure di rettorica, come le arene del mare ec., indi procura di fare un computo più regolare, e dice che μυριαδας μυριαδων μυριας furono sterminate sotto il regno dell’Imperiale Demonio. L’espressione è oscura sì in grammatica che in aritmetica, ed una interpretazione letterale produrrebbe più milioni di milioni. Alemanno (p. 80) e Causin (t. III p. 178) traducono questo passo per duecento milioni, ma ignoti mi sono i motivi che a ciò gli inducono. Se tolgasi via il μυριαδας i rimanenti μυριαδων μυριας, una miriade di miriadi, darebbero cento milioni, numero non affatto inammissibile.