156 |
storia della decadenza |
|
della gente erano sorpresi da una leggiera febbre, nel proprio letto, in mezzo alle contrade, tra le usate loro faccende; febbre leggiera sì che nè il polso, nè il colore del volto porgeva nell’ammalato alcun segno di un vicino pericolo. In quel dì istesso o nel secondo o nel terzo si dichiarava il malore coll’enfiagione delle glandole, particolarmente dell’anguinaja, delle ascelle, e sotto l’orecchio, e quando questi bubboni o tumori si aprivano, scorgevasi ch’essi contenevano un carbonchio, ossia una sostanza nera, grossa come una lente. Se il tumore veniva a tutta la sua gonfiezza e si riduceva a suppurazione, l’infermo era salvato da questo mite e naturale sgorgamento dell’umore morboso. Ma se i bubboni continuavano a rimaner duri ed asciutti, ben presto seguiva la cancrena, ed il quinto giorno era comunemente l’ultimo della vita dell’appestato. Accompagnata spesso veniva la febbre da letargo o delirio. I corpi degli ammalati si coprivano di negre pustole o carbonchi, sintomi di una morte immediata. E ne’ temperamenti troppo deboli per produrre un’eruzione, al vomito di sangue teneva dietro la cancrena negli intestini. Per le donne gravide la peste riusciva generalmente mortale; nondimeno fu tratto vivo un bambino, fuor del corpo della madre morta d’infezione, e tre madri sopravvissero alla perdita dei loro feti appestati. La gioventù era la stagione della vita più soggetta al pericolo, e le donne venivano meno attaccate dal male che non gli uomini. Ma ogni grado ed ogni professione soggiaceva del pari all’indistinta ferocia della peste, e molti di quelli che ne scampavano, perdevano l’uso della parola, senza aver sicurezza che il malore non tornasse ad assalirli1. Zelanti ed abili si mostrarono
- ↑ Tucidide (c. 51) afferma non prendersi la peste che