Serate d'inverno/Teste alate
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TESTE ALATE
I.
Nell’autunno del 1869 mi trovavo a villeggiare ad Intra sul lago Maggiore.
In una gita ad Arona, fra le solite figure straniere che sembrano darsi convegno da tutti i paesi d’Europa sul ponte di quel battello a vapore, avevo incontrato un giovinotto lombardo, col quale avevo stretta relazione.
Io andavo poi regolarmente due volte ogni settimana ad Arona, e nell’andare o nel venire mi trovavo sempre con quel giovine.
Gli altri passeggeri si vedevano una volta, due, poi scomparivano. Erano sempre figure nuove, quasi sempre figure ignote. Noi soli tornavamo ancora ed ancora.
Quel giovine non era facile ad entrare in discorso. Ma una volta entrato, era piacevolissimo, e qualche volta s’abbandonava ad un’allegria clamorosa. Ma bisognava che altri lo eccitasse. Sembrava una di quelle macchine che, appena montate, vanno, vanno con una celerità sorprendente; ma se le vediamo ferme, non possiamo persuaderci che quegli ammassi di ordigni muti ed inerti abbiano in sè la facoltà di tanto rumore, di tanto movimento.
Non dirò che provassi pel mio compagno di viaggio nè una misteriosa attrazione, nè quella curiosità, quell’interessamento irresistibili che si trovano soltanto nei romanzi. Fu la circostanza dei nostri frequenti incontri che fece nascere tra noi una relazione superficiale, la quale si andò facendo man mano meno cerimoniosa, più franca, più espansiva, più confidenziale, e finì col diventare una sincera ed affettuosa amicizia. Tutto questo nello spazio di un mese. Ma eravamo giovani tutti e due, ed alla nostra età le amicizie si fanno presto.
Conoscendo intimamente Gustavo, mi accorsi che, sebbene il fondo del suo carattere fosse gioviale, il suo stato abituale, in quel momento almeno, era triste ed impensierito. Però non cercai di provocare le sue confidenze con domande indiscrete; c’è una così lieve sfumatura tra l’interessamento e la curiosità!
— Se un giorno sentirà il bisogno di dirmi i suoi crucci, li accoglierò con cuore d’amico, pensavo. Se vorrà serbarli per sè, rispetterò il suo segreto.
Intanto cercavo, per quanto era in mio potere di mantenerlo divertito. Ogni mattina gli facevo un programma per passare la giornata: erano gite sul lago, pranzi alle isole, partite di pesca, escursioni sui monti, visite alle fabbriche di tela, di carta, di vetro, ecc.
Una mattina mi parve più mesto del solito.
— Cosa facciamo oggi? gli domandai.
— Quello che vuoi, mi rispose, purchè siamo soli.
— Prendiamo un canotto, e facciamo un viaggio d’esplorazione sul lago, in cerca di un luogo pittoresco per pranzare insieme?
— Io preferirei una gita su qualche monte. In barca si rimane così inerti che si cade in malinconia. Ho già tanta tristezza nell’anima; ho bisogno di movimento per distrarmene un poco.
Era la prima volta che alludeva alla sua tristezza. Ebbi la delicatezza di non rispondere a quella mezza confidenza, per non mostrare d’esserne stato all’agguato.
Gli proposi di andare a Premeno. Egli accettò, e mezz’ora dopo salivamo una stradetta di montagna, erta, tortuosa, pittoresca.
Camminavamo da quasi due ore, quando il cielo cominciò ad annuvolarsi; minacciava un temporale.
— Guarda, Carlo, mi disse Gustavo additandomi una nuvoletta scura, non ti pare che quella nuvola abbia la forma di due teste di angeli?
— Ma che! Mi sembra piuttosto che raffiguri un cane accovacciato.
— Ah! Lo sapevo, sai, che tu non l’avresti veduta come me! E disse queste parole con accento addolorato.
Non capivo perchè desse tanto peso a quella sciocchezza, e gli risposi meravigliato:
— Ti dispiace tanto che io non veda due teste d’angeli! Via, ci metterò un po’ di buona volontà. Già, nelle forme vaghe delle nuvole si vede quel che si vuole.
— No. Lo sapevo già che tu non avresti veduto come me. È una mia visione, eterna, crucciosa. Vedo dovunque delle teste alate. È il mio incubo.
— È un bell’incubo. Dicono che Iddio si circondi di angeli per abbellire il Paradiso, e tu che hai la fortuna di vederne in hac lagrymarum valle, te ne lagni?
Gustavo chinò il capo sul petto, e stette zitto un pezzo, come discutendo qualche cosa di grave tra sè e sè. Ad un tratto si fermò, mi prese le mani, e mi disse con voce commossa:
— Senti, Carlo. Questa storia delle teste alate, che ti sembra certo una puerilità, è il segreto della mia malinconia, delle mie incertezze. È il cruccio della mia vita. E mi pesa, e vorrei parlarne con te. Tu mi sei amico, mi vuoi bene. Ti dirò tutto, quello ch’è passato e quello che mi tormenta ancora; e tu mi darai il consiglio ed il coraggio di cui ho bisogno. Lo vuoi, Carlo?
Non so dire che slancio d’affetto, e che senso d’immensa pietà mi si destassero in cuore per quella sventura misteriosa e grande. Se avessi secondato il primo impulso, mi sarei stretto Gustavo al cuore, avrei pianto con lui. Ma per quello sciocco riserbo che ci fa arrossire de’ nostri sentimenti migliori, e ne imbriglia le manifestazioni, mi limitai a stringergli le mani, e gli dissi con calore:
— Con tutto il cuore Gustavo, con tutto il cuore.
Egli mi prese il braccio, continuò a salire, e lasciandosi dietro Premeno, mi trasse sopra un’altura in un piccolo spianato sassoso e disuguale, che si chiama col nome pomposo di Piazza Garibaldi. Vi trovammo alcune panche e delle tavole di sasso. Sedemmo sotto una specie di grondaia per ripararci dalla pioggia che cominciava a cadere. Gustavo prese alcuni sassolini sulla tavola che aveva dinanzi, li agitò un poco in silenzio, poi prese a parlare rapidamente, sempre baloccandosi con quei sassi per darsi un’aria disinvolta, mentre invece la sua voce tradiva l’agitazione dell’animo.
II.
— Tre anni sono, disse, ero un giovinotto allegro, pieno di vita, affettuoso, noncurante del domani, amante del lavoro, appassionato per la mia arte, nella quale mi sentivo capace di riescire a qualche cosa.
— Bada alla tua modestia, Gustavo. La farai arrossire.
— No; lasciami dire quel tanto di buono che ho avuto; ne avrò bisogno per farmi perdonare il tanto male che mi resta a dirti.
Poi soggiunse con un sorriso penoso come una lacrima:
— Parlo di un morto. Il Gustavo d’allora non esiste più.
E continuò a rimovere vivamente quel pugno di sassolini, a gettarli in alto ed a riprenderli, finchè l’intenerimento che gli aveva fatta oscillare la voce nelle ultime parole fu dominato. Allora riprese senza alzare lo sguardo:
— Una mattina giravo per Milano cercando alloggio. Passando in via dell’Unione, vidi ad una porta un appigionasi, ed entrai.
«È al secondo piano, l’uscio a destra, mi disse la portinaia.
— Salii. La serva che venne ad aprire m’introdusse in un salotto, e mi lasciò dicendo:
«S’accomodi. La signora verrà a momenti.
— La prima cosa che vidi fu un cavalletto, su cui stava una tela finita, rappresentante due teste alate. Ma non erano teste di puttini. Erano due belle teste di donna, piene d’espressione e di vita. Una, pallida, con una ricchezza di capelli, di ciglia e di sopracciglia d’un bel castano chiaro e due grandi occhi color dell’ambra, dall’espressione malinconica e dolce. L’altra sembrava piuttosto la testa d’un’amazzone che quella di un angelo. Capelli nerissimi, occhi neri scintillanti, profilo grego, bocca stretta e severa, carnagione bruna, colorita, attraente.
— Erano due belle teste ed era un bel lavoro. Stavo assorto in quella contemplazione che mi appassionava come uomo e come artista, quando udii aprire l’uscio del salotto, ed una voce lieve lieve mi disse:
«È il signore che desidera di vedere il quartierino da affittare?
— Mi voltai a quella simpatica voce di donna; ma invece di risponderle, misi un’esclamazione di meraviglia.
— La signora che mi aveva parlato era l’originale della testa alata, dagli occhi color dell’ambra, dall’espressione malinconica e dolce.
— Ella comprese la causa del mio stupore, e mi disse:
«Ha osservato quel lavoro, nevvero? Deve trovarmi vana assai per essermi ritratta così. Ma veda: non ho che una parente al mondo, una sorella che mi è tanto cara. E viviamo lontane, lontane. Quando ho cominciato questo quadro destinato a lei, mi venne naturale di ritrarre il suo bel volto; e poi non ho potuto rassegnarmi e mettergli là accanto una testa qualunque, ideale o vera, ma indifferente. Ci voleva la testa di qualcuno che l’amasse, e ci ho posta la mia.
— Ella aveva cessato di parlare, ed io non pensavo a risponderle ed ascoltavo sempre, e quella voce lieve lieve vibrava ancora nell’aria intorno a me. Era lei l’originale del quadro; l’aveva dipinto lei! Era giovine; era bella di quella bellezza sofferente che interessa ed affascina; era artista come me.
— Trovai superbe quelle camere che dovevano farmi vivere accanto a lei; e mi affrettai ad impadronirmene.
— La mia padrona di casa era una signorina. Si chiamava Clelia Moris, ed aveva ventiquattro anni. Era una natura eletta, aristocratica, delicata, fatta per vivere in un ambiente di poesia; le cure materiali dell’esistenza la urtavano penosamente. Quando le domandai il prezzo del mio nuovo alloggio, me lo disse rapidamente, senza guardarmi, a bassa voce, ed arrossì fin sulla fronte. Quando la sera, appena installato in casa sua, le posi dinanzi il denaro, ella arrossì ancora di più; cercò di profferire un grazie che le rimase fra i denti; tenne sempre gli occhi fissi sul lavoro, si diede a cucire con una rapidità febbrile, e lasciò il denaro sulla tavola senza osare nè di ritirarlo, nè di guardarlo.
— Al confronto di quell’estrema delicatezza, io che senza essere nè cupido, nè avaro, non avevo mai avuta l’idea di trovarmi umiliato per rapporti di denaro con chicchessia, mi sentii compreso da tanta inferiorità, che non osavo quasi più parlare, e sostenevo male la conversazione con frasi scucite, alle quali Clelia rispondeva con monosillabi, senza alzar gli occhi. Compresi che quel denaro posto là tra me e lei sul tavolino era la causa della sua confusione e mi ritirai.
— Il mio cuore d’artista, che s’era conservato entusiasta e buono malgrado la vita burrascosa d’un giovine affatto libero, era fatto per apprezzare le cose belle, per amarle con passione.
— Così non mi feci neppur un momento l’illusione di rimanere con quella fanciulla nei prosaici rapporti di padrona di casa ed inquilino, e nemmeno in quelli paradossali dell’amicizia. L’amore non mi venne addosso inavvertito. Da quel primo giorno, da quella prima ora, sentii che avrei amata Clelia con tutto l’ardore di cui era capace il mio cuore. Ma non pensai menomamente di fuggire, di sottrarmi a quel fascino: lo guardavo venire con delizia, come si guarda in aprile rinverdir la natura, gonfiarsi le gemme, sbocciare le rose.
— Quando rividi Clelia il giorno dopo, non le parlai più di pigione, di denaro. Discorremmo d’arte, di libri, di teatri, di amici lontani, di noi, di tutto. Ed allora non fu punto impacciata; le parole non le morivano fra i denti come la sera innanzi; parlava con entusiasmo, e mi guardava negli occhi senza sfrontatezza, ma con un’espressione di curiosità e di simpatia.
— Così passarono dieci giorni. Dieci giorni così belli, così inebbrianti, che darei tutto il sangue delle mie vene per farli rivivere. Amavo quella fanciulla come un pazzo; e sentivo il bisogno di dirglielo, di dirlo a tutti, di gridarlo sui tetti. E tuttavia la sapevo così delicata, che temevo d’offenderla. Esitai due giorni ancora. Ma la passione, la speranza, la gioia mi gonfiavano talmente il cuore, che mi pareva dovesse scoppiare. Tremavo da un momento all’altro di non sapermi frenare, di saltarle al collo e di coprirla di baci, senz’altro preavviso a costo di farmi scacciare come un malcreato. Non potevo più vivere così. Bisognava che ella mi amasse, o che me ne andassi per non vederla mai più.
— Una sera stavo seduto accanto a lei che lavorava. Frenai i miei impeti entusiastici, e cercai di fare la mia dichiarazione un po’ indirettamente ed accartocciata, come si usa fra persone ammodo.
«Lei non ha altra affezione al mondo che per sua sorella, signora Clelia? le domandai.
«Perchè me lo domanda?
— Ella mi diede questa risposta continuando a lavorare, tranquilla, senza il menomo imbarazzo. Mi parve molto fredda. Provai nel cuore un senso di delusione penoso, e tra l’amore e lo sdegno, tutti i miei propositi di convenienza sfumarono; me le accostai all’orecchio fin quasi a toccarlo colle labbra, e con tutta la passione che mi sentivo nel cuore, le dissi:
«Perchè vi amo, Clelia. Vi amo!
— M’aspettavo un’esplosione di sdegno. Ero spaventato dalle mie stesse parole. Ma ella si voltò lentamente, e guardandomi in volto coi suoi grandi occhi limpidi, mi rispose:
«Lo so bene che mi amate, Gustavo.
— Rimasi istupidito. Era la schiettezza dell’innocenza, o era un artificio di civetteria? Quella pace, quella sicurezza, volevano dire che mi amava, o che si prendeva gioco di me? Volli saperlo, e col cuore tremante le domandai:
«Lo sapete, e non ne siete offesa?
— Ella depose il lavoro, e senza precipitazione, colla calma d’una vera beatitudine mi guardò a lungo e mi disse:
«Non posso esserne offesa, perchè anch’io vi amo.
«Voi mi amate, Clelia? Oh non avrei mai osato crederlo!
«Osatelo, Gustavo. Osatelo perchè siete un bravo giovine.
— E mi prese il capo colle sue mani bianche, e senza agitarsi, senza arrossire, mi baciò sulla fronte. Ricevetti quel bacio in ginocchio, a capo chino, senza ricambiarlo, in un religioso raccoglimento, come si riceve una benedizione.
— Vivemmo otto mesi così. Otto mesi di incantevole ebbrezza, amandoci con tutto l’ardore dei mortali, con tutta la purezza degli angeli. — Clelia aveva in casa una serva che l'aveva veduta nascere; una di quelle donne che invecchiano nella famiglia del primo padrone, ci si affezionano come se fosse la famiglia loro e ne dividono eroicamente quando occorra, le disgrazie, i sacrifici, le privazioni, senza immaginarsi nemmeno per ombra il proprio eroismo.
— Da quel giorno ogni volta ch'io sonavo alla porta di Clelia, la vecchia Rosa, dopo avermi introdotto, sedeva anch'essa nel salotto, a qualche distanza da noi, e lavorando in silenzio, assisteva a tutte le mie lunghe visite. Era un po' sorda, e le nostre parole le sfuggivano; ma non eravamo soli.
— Ci eravamo fidanzati tra noi, da cuore a cuore; ed io lavoravo assiduamente ad un quadro che dovevo mettere all'Esposizione di Firenze, e col quale speravo di farmi conoscere per guadagnarmi una situazione da dividere con Clelia. Quando le dissi questi particolari che non mi permettevano di sposarla subito, mi rispose senza vergognarsi:
«Io pure sono povera, Gustavo. Non vi porterò altra dote che il mio amore.
— Del resto non seppi mai nulla riguardo ai suoi interessi. Evitava di parlarne; credo che soffrisse delle privazioni, ma non me le disse mai. Cercai più volte di farmi raccontare di quella sorella lontana, ma ella mi rispose vagamente, e finì col dirmi:
«Perchè cercate di indagare i miei interessi di famiglia? Dubitate di me, Gustavo? Mia sorella è maritata, ed è onestissima.
— Io non dubitavo di lei, e non domandai più nulla, e non pensai che ad esser felice.
— Una sola cosa mi tormentava durante quegli otto mesi così belli: la salute di Clelia. Non era precisamente inferma, ma era tanto gracile e delicatina, che un nulla la faceva ammalare. Parecchie volte al giorno prendeva un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo, ed aveva sempre la tosse. Ma io pensavo: «Non è più tanto giovine, la tisi è la malattia delle giovinette.» E scacciavo le idee tristi guardando la serenità dei suoi begli occhi.
— Sul principio della nostra relazione, uscendo di casa, una sera incontrai alcuni amici, che m'invitarono ad una cena. Dopo la cena, si fece un po' di chiasso, e rimasi fuori tutta la notte.
— La mattina, quando andai da Clelia, fui spaventato al vedere quanto male le aveva fatto quella mia scappata. Era pallida, abbattuta, cogli occhi gonfi di pianto; sembrava che uscisse da una malattia. Non mi fece alcun rimprovero. Ma la sua sofferenza mi fu un rimprovero crudele. D’allora rientrai più presto la sera, la circondai di affettuose assiduità, ma per parecchi giorni le durò una febbricciatola che mi rodeva la coscienza.
— Ogni volta che nasceva tra noi una di quelle piccole questioni da innamorati, che sono tanto belle per la pace che le segue poi, Clelia ne aveva la febbre.
— Più volte, solo nella mia stanza, piangevo di rabbia pensando a quel che potrebbe accadere. Avrei voluto parlarne alla vecchia Rosa; ma non mi aveva più perdonato quella notte passata fuori, che aveva fatto soffrir tanto la sua padrona; e non mi badava più. E poi col suo udito, non era possibile discorrere in segreto con lei.
— Un giorno condussi a casa un amico medico, pregandolo di osservare attentamente la mia fidanzata, senza farsi scorgere. Glielo presentai e lo feci rimanere tutta la serata con noi.
— Quando uscii ad accompagnarlo mi disse che non osava dare un giudizio senza avere visitata l’ammalata, ma aveva tutta la veste della tisi. Forse potrebbe ancora vivere a lungo; ma la menoma scossa, la menoma sofferenza fisica o morale potrebbe esserle fatale...
— Ebbi alcuni giorni di profondo sconforto. Ma Clelia era così serena, cosí felice; mi parlava sempre del nostro avvenire, ci credeva tanto, che tornai a crederci anch’io.
— Infine quel medico non l’aveva oscultata. Chi sa? Forse s’era ingannato sulla natura del male. Appena Clelia sarebbe mia, la condurrei a Napoli, a Madera, la farei vivere in una pineta, dove i polmoni delicati si riconfortano; ne avrei tanta cura, la renderei tanto felice, che non soffrirebbe più...
— Intanto il mio quadro era finito ed era tempo d’andarlo ad esporre. Dovevo separarmi per poco da Clelia. Ci scambiammo le solite promesse e raccomandazioni.
«Scrivimi, sai, mi diceva, non tenermi in pena, non darmi crucci, te ne prego. Io sono come quelle povere pianticine esotiche che si conservano belle e profumate, finchè sono tenute in un dato ambiente, con quelle date cure; ma un soffio d’aria, una goccia d’acqua più o meno, bastano a farle morire.
— Io promisi, di cuore, di gran cuore, perchè l’amavo più della mia vita, e tremavo per la sua. E partii.III.
— Avevo venticinque anni. Mi sentivo pieno di vita e di speranza. Partivo lasciandomi dietro la dolcezza dell’amore, per andare incontro alla dolcezza della gloria.
— Clelia sembrava rinverdita colla primavera; da qualche tempo stava bene, ed era evidente che quel medico s’era ingannato.
— Ero contento di me, del mondo, di tutti. Quegli otto mesi di amore virtuoso, di vita casalinga, mi avevano ritemprata la salute. Il sangue mi scorreva caldo e robusto nelle vene. La natura mi rifulgeva intorno splendida e giovine come nel giorno della creazione. Ed io pure ero giovine e felice come Adamo. Ma per me pure c’era un frutto proibito; ed io pure trovai l’Eva che me lo porse.
— La incontrai nel breve tragitto di mare tra Genova e Livorno, quella Eva francese col viso dipinto di bianco e di roseo, e gli occhi dipinti di nero, e le labbra dipinte di rosso. Ho sempre avuto un profondo disprezzo per le donne imbellettate. Ma pur troppo vi sono delle ore maledette nella vita, in cui la materia vince l’anima, ed allora si accoglie volentieri una donna che si disprezza, perchè i suoi favori si ottengono facilmente. Quella straniera bionda fece due terzi della strada per avvicinarsi a me. Nelle disposizioni in cui mi trovavo, lo spirito è pronto, ma la carne è debole: ed io non mi feci pregare per fare l’altro terzo.
— Avevo promesso a Clelia di scriverle da Livorno la prima lettera. Ma quando presi la penna per scrivere a lei che stimavo tanto, alla mia sposa, in una camera profanata dalla presenza di quell’avventuriera, sentii una profonda vergogna di me, e per non mentire non scrissi nulla. L’amavo con tutta l’anima ma le ero infedele; cosa avrei potuto dirle in quell’ora che non ripugnasse alla mia coscienza?
— Pensai che quella relazione avventurosa sarebbe presto troncata; che quella donna se ne sarebbe andata, e quando mi fossi sentito ancora degno dell’amore di Clelia, le avrei scritto.
— Il mio quadro piacque, e fu comperato da un signore americano che lo pagò bene. Questa circostanza aumentò visibilmente la tenerezza della signora francese per me, ma diminuí d’altrettanto la mia.
— Alle emozioni nobili dell’arte, era strettamente legata ogni memoria del mio cuore. Mi svegliai da quella specie di delirio, che mi aveva tenuto unito per tre settimane ad una creatura indegna di occupare un'ora della vita d'un galantuomo.
— Pensai con angoscia a Clelia. Povera gioia! Erano tre lunghe settimane che l'avevo lasciata, e non le avevo scritto una parola. Mi rammentai con indicibile spavento la sua estrema sensibilità, la sua salute delicata. «Se l'avessi fatta ammalare? Mio Dio!»
— Forse m'aveva scritto?
— Corsi alla posta. Vi trovai infatti due lettere ferme in posta, perchè non le avevo mandato il mio indirizzo. Una aveva la data di pochi giorni dopo la mia partenza. Clelia era già inquietissima del mio silenzio; mi pregava di scriverle; era tormentata da presentimenti dolorosi e strani. Quelle fibre tanto delicate e nervose, presentono vagamente il male che noi facciamo loro, mentre noi, nature meno squisite, lo comprendiamo appena quando ne vediamo le conseguenze irreparabili.
— L'altra lettera era scritta soltanto da quattro giorni. Erano poche parole. Clelia era ammalata; l'agitazione, l'incertezza in cui l'avevo lasciata, avevano abbattute le sue poche forze. Le era tornata la febbre, e si sentiva debolissima. Ma aveva sempre fede in me. E mi pregava di tornare, di tornar subito, se non volevo che morisse di cruccio.
— Lacrime di vero cordoglio, di rimorso, di vergogna, mi bagnarono gli occhi, mi gonfiarono il cuore.
— La sera stessa lasciai quella donna malaugurata, e partii.
— Ma quella lettera era giunta da quattro giorni. Erano cinque giorni che Clelia l’aveva scritta, ed io giunsi a Milano dopo due altri giorni. Mio Dio! Cosa poteva essere accaduto in quel tempo?
— Quando sonai alla porta di Clelia il cuore mi batteva da spezzarmi il petto. La serva mi disse con amarezza:
«Ben presto l’avrà uccisa del tutto, sarà contento.
— Sentii che meritavo quel rimprovero, e la seguii senza risponderle a capo chino, cogli occhi gonfi di lacrime.
— Quando stavo per entrare nella camera di Clelia, Rosa mi disse ancora:
«Ed ora vorrebbe comparirle dinanzi così, come una bomba, per farla morire sul colpo? Il medico ha raccomandato di non darle emozioni.
— Mi fermai, ed essa entrò. Ma un minuto dopo udii una voce piena di dolore, d’amore, di pianto, esclamare:
«Gustavo! Oh vieni Gustavo!
— Mi precipitai nella camera, caddi in ginocchio accanto alla poltrona di Clelia, mi premetti sul volto le mani che ella mi stendeva in segno di perdono, e piansi, singhiozzai come un disperato. Ed essa, povera gioia, mi copriva il capo di baci e di lacrime, senza un rimprovero, senza un lamento.
— Quando cercai di accusarmi, di domandarle perdono, mi chiuse la bocca colla mano e mi disse:
«Stai zitto, Gustavo. Non parlar del passato. È stato un brutto sogno; dimentichiamolo. Ti perdono tutto, sai. Ora non pensiamo che ad amarci, ed esser felici. Forse potremo esserlo per poco.
— Io piangevo, piangevo, e dal fondo del cuore offrivo a Dio la mia vita in cambio della sua.
— Tuttavia mi sembrava che Clelia si esagerasse il suo male. Era magrissima è vero; ed aveva la voce debole. Ma non era a letto, ed il suo volto animato della gioia non aveva l’aspetto d’un volto di persona gravemente ammalata. Ed io pensavo ancora che l’avrei fatta guarire a forza di cure e d’amore; che l’avrei resa felice, che l’avrei sposata subito, anche il domani, e l’avrei portata a Viareggio, e l’avrei condotta ogni giorno nella pineta. Oh Dio! Si può forse morire quando si ama e si è amati così? — Passai il resto della giornata accanto a lei. Ogni tanto tossiva, tossiva a lungo da rimanerne quasi soffocata. Ed io soffrivo, avrei dati dei pugni contro il cielo. Ma poi quell’accesso passava; Clelia riprendeva a discorrere del nostro avvenire; era serena, felice. Ed io pensavo che la tosse della tisi è breve, asciutta. Che quella tosse violenta non poteva essere che un’infreddatura. Non conoscevo quella malattia inesorabile se non dai romanzi, e mi facevo illusione.
— La sera quando Clelia mi congedò per coricarsi, la pregai di lasciarmi rientrare più tardi, per vegliarla durante la notte. Ella me lo permise.
— Quando fu a letto, tornai infatti nella sua camera.
«È quasi inutile che tu stia alzato, mi disse. Mi sento bene. Il tuo ritorno mi ha guarita. Ti lascio star qui perchè abbiamo tante cose da dirci, e poi Rosa ha bisogno di dormire, ha tanto vegliato le notti scorse.
— Rosa se ne andò; la udimmo chiudere gli usci, e ritirarsi nella sua stanza. Io rimasi solo accanto al letto di Clelia, più bella, più serena, più amante che mai.
— Io pure non avevo mai sentito d’amarla tanto come quella sera. Comprendevo tutti i miei torti, avevo tanto da farmi perdonare! Ed ella, povero angelo, aveva tanto sofferto, aveva tanto bisogno di conforto...
— Cercammo il perdono, l’obblìo, il conforto nel nostro amore. Quella notte fummo sposi davanti a Dio. Ma la mattina quando mi risvegliai accanto a Clelia, ella non aveva più che un soffio di vita. Il mio disgraziato amore l’aveva uccisa.
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A questo punto del suo racconto Gustavo aveva la voce commossa, strozzata dal pianto. Agitava furiosamente i sassolini, li prendeva in mano e li respingeva con rabbia, mentre le lacrime gli gonfiavano gli occhi e cadevano sulla tavola di sasso.
Io non cercai di consolarlo. Rispettai il suo dolore, e rimanemmo entrambi in silenzio. Finalmente scosse il capo, si asciugò coraggiosamente le lacrime, come per dire:
«Non me ne vergogno, » e riprese il suo racconto.IV.
— Due giorni dopo Clelia era morta. Fuggii da quella casa colla disperazione nell’anima. Presi alloggio in una delle contrade più deserte di Milano, e vissi là due mesi come un condannato, senza veder nessuno, lavorando e piangendo.
— L’arte mi era divenuta più cara; era l’unica passione che avessi avuta comune con lei. Ed ormai i miei quadri si vendevano; andavo guadagnando nome ed agiatezza, ora che non avevo più quella cara per cui avevo desiderato l’uno e l’altra; ed in quell’isolamento il mio dolore si andava facendo ogni giorno più intenso.
— Poi vennero i soliti amici premurosi della salute di chi non sa più che farne, e mi costrinsero a lasciar Milano, a viaggiare, a divagarmi.
«Al passato non c’era rimedio; quella poveretta era etica, già condannata quando l’avevo conosciuta; cosa volevo fare sempre solo così! Ero giovine, avevo un avvenire dinanzi a me, avevo altri doveri che di piangere, ecc.»
— Più per togliermi la noia, che non persuaso da quei discorsi, lasciai Milano e viaggiai sei mesi, senza cercare tuttavia altra distrazione nè altro conforto che il lavoro, al quale dava grande argomento la varietà dei luoghi.
— Tuttavia non potevo viaggiar sempre. Mi fermai a Torino, dove per un anno feci la stessa vita solitaria che avevo fatta in viaggio.
— Ma a poco a poco lo smercio de’ miei quadri, le esposizioni, i critici d’arte che parlavano di me nei giornali, mi obbligarono a rivedere qualcuno. Finii per riprendere in una certa misura i rapporti colla società.
— O Carlo, arrossisco nel dirlo; ma anch’io parlavo, anch’io ridevo; ridevo come gli altri. Quando pensavo a Clelia risentivo nel cuore tutto il mio dolore, ma c’erano delle ore e delle ore in cui non ci pensavo. Si dice tanto che la gioia è fugace. Ma e il dolore non lo è forse altrettanto? Noi siamo deboli. Non sappiamo soffrire a lungo; siamo incostanti in tutto. La costanza è una virtù superiore alla nostra natura imperfetta.
— Un giorno passando in via Nuova, vidi uscire da un negozio di guanti una signora alta e bruna, vestita con eleganza.
— Dopo la morte di Clelia non avevo più provata la menoma simpatia per nessuna donna. Mi erano tutte indifferenti, e le sfuggivo. Ma la vista di quella signora mi fece un’impressione strana. Mi parve che avesse in sè qualche cosa della mia povera sposa; mi parve che quegli occhi scintillanti mi parlassero di lei. Non le somigliava punto, eppure me la ricordava. Mi pareva che quella signora ed io fossimo amici da un pezzo, e che ella conoscesse tutti i miei dolori; e senza quasi volerlo, la seguii.
— Giunta in piazza Castello ella prese l'omnibus della via Po. Stavo per salire io pure nell' omnibus, ma mi fermai. Mi pareva di commettere un’infedeltà alla memoria di Clelia. E rimasi; e l' omnibus partì colla bella signora.
— Mi sentii contento di me, come quando si è fatta una buona azione o si è vinta una mala tendenza.
— Ma quando la fatalità ci si mette, tutti i nostri sforzi per combatterla non riescono a nulla.
— Pochi giorni dopo andai per sentire Cause ed effetti al teatro Gerbino. Era la beneficiata della prima attrice Vittoria ***. Quando uscì, riconobbi la bella signora che avevo incontrata in via Nuova.
— Mi dissero che quell’artista era molto ricca, molto spiritosa, molto corteggiata, e molto onesta. Quella riputazione di onestà, che i disillusi trovavano incredibile, e su cui facevano i più assurdi commenti e le più rancide facezie, mi fece molto piacere. Non avrei voluto che quella donna, che nel mio pensiero si associava all’immagine di Clelia, fosse stata una delle solite donne da teatro; mi sarebbe sembrata una profanazione. Almeno, allora attribuii a questa ragione soltanto la soddisfazione che provai a sentirne parlare con rispetto.
— Dopo la commedia un amico mi propose di presentarmi alla signora Vittoria***. Non seppi resistere a quella tentazione: accettai. Mi pareva che avvicinandomi a quella donna mi ravvicinassi alla povera Clelia; e, cosa strana, il volto gioviale dell’artista, i suoi movimenti rapidi, il suo sguardo ardito, mi rammentavano il volto mesto, il gesto lento, lo sguardo malinconico della mia fidanzata.
— Vittoria era ancora commossa della parte appassionata e straziante che aveva sostenuta egregiamente nel dramma di Ferrari. Mi accolse con una cordialità che aveva qualche cosa di intimo; come se ci conoscessimo. Mi aveva forse già notato quel giorno in via Nuova? O quella sera durante la rappresentazione? Ad ogni modo era contenta di vedermi, e m’invitò a tornare.
— Ed io tornai dopo una settimana, poi tornai dopo tre giorni, poi dopo due, poi il giorno seguente, e l’altro, e l’altro; tornai, tornai sempre.
— Anche questa volta l’amore non mi colse per sorpresa. Lo sentivo venire, lo vedevo. Ed anche questa volta non fuggii. Ma non lo accolsi sorridendo come avevo fatto accanto alla povera Clelia. Lo accettai per forza. Non avevo il coraggio di combatterlo. Era destino.
— Un mese dopo dissi a Vittoria che l'amavo, e la domandai in moglie. Così la stimavo.
— Fin allora non l'avevo veduta che nel camerino del teatro.
«Venga domani a casa mia, mi rispose stringendomi forte la mano. Le risponderò domani.
— Era una donna schietta, passionale, ardita; un carattere indipendente, un po' maschio; si riscaldava facilmente, pronta a secondare il primo impulso del cuore che credeva il migliore. Si esaltava per l'arte, si entusiasmava d'un autore, d'un attore, anche d'una attrice; voleva conoscerli, ed aveva delle parole e dei modi per esprimere la sua ammirazione che rivelavano tutto l'ardore della sua anima d'artista. Io sentivo il bisogno di riscaldare il mio povero cuore assiderato ad un cuore di quella tempra; il pensiero di essere amato così m'inebriava.
— Quando andai a casa sua il domani, mi accolse come un vecchio amico. Mi prese tutte due le mani, mi fece sedere accanto a sè, e dandomi del voi per la prima, mi disse:
«Sentite, Gustavo: l'avete compreso, nevvero, che vi voglio bene? «Ma proprio di quel bene che intendo io? le domandai guardandola negli occhi.
«Sì, di quello.
«Mi amate?
«Sì, vi amo. Ma ho una storia. Oh Dio! Le artiste hanno tutte una storia! Soltanto la mia è vera. Volete che ve la dica?
«Ditela, Vittoria: ma ditemi prima che non c’è nulla che v’impedisca di accettare la mia proposta.
Ella sorrise, e senza tener conto di quella preghiera, mi raccontò la sua storia.
«Avevo diciotto anni, quando mio padre, che era notaio, morì lasciando mia madre con due figliole, di cui ero la maggiore, senz’altro avere che il suo studio. Questo si dovette vendere, e dopo molte noie di conti, di minutari, di dare, d’avere e che so io, si trovò che ci restava appena appena da vivere malamente. Io avevo recitato parecchio da dilettante, in campagna, nelle serate di beneficenza, e mi pareva di fare benino. Ad ogni modo ci avevo passione, e dissi alla mamma che mi lasciasse far carriera da attrice per aiutare un poco la nostra povera famigliola.
«Ma sì. Andate a dir codesto ad una signora di principii evangelici come la mamma! Lei ci vedeva il diavolo con tutti i sette peccati capitali a braccetto, dietro le quinte. E mi fece invece la sua brava proposta tutta morale di fare gli studi magistrali, prendere il diploma, e colla raccomandazione del sindaco e dello speziale, cercar di ottenere il posto di maestra comunale a Desio, presso Monza, dove il babbo aveva un villino, che noi si era venduto col resto.
«Pensate, Gustavo, se io ero donna da insegnare l'alfabeto e le quattro operazioni aritmetiche ad una quarantina di marmocchi tutti i santi giorni dell'anno per guadagnare trecento trentatre lire e trentatre centesimi.
«Scrissi di mia testa al direttore d'una compagnia drammatica, il quale mi aveva udita recitare più volte e mi aveva incoraggiata molto, e senza dirgli dell'opposizione della mamma, gli narrai le nostre circostanze finanziarie, la morte del babbo, e gli proposi di prendermi nella sua compagnia.
«Egli mi fece delle condizioni modeste ma accettabili, e certo migliori assai di quelle che si fanno alle maestre. Ma era inutile sperare che la mamma mi desse il suo consenso, ed io ne feci senza. Un bel giorno invece di andare alla scuola magistrale andai allo scalo, presi il mio bravo biglietto di seconda classe, perchè non avevo quattrini da sciupare, e via! «Avevo lasciata una lettera alla mamma dicendole dove andavo e tutto, e pregandola di perdonarmi e di non farmi tornare. Ed infatti non mi fece tornare, ma mi rispose imponendomi di non portare mai più il nome della sua famiglia; di non pensare ch’ella potesse accettar mai il soccorso che io potrei offrirle coi miei guadagni, e di non andare mai più a Milano, dove il nome del babbo era conosciuto e rispettato, ed una figliola commediante gli avrebbe fatto disonore.
«Mia sorella, che mi voleva bene, mi scriveva segretamente, ma non le riescì mai di farmi perdonare, neppure quando la povera mamma stava per morire.
«Ero fidanzata da due anni ad un mio cugino che studiava legge, e dovevamo sposarci quando avesse presa la laurea.
«Appena uscirono nei giornali alcuni articoli che parlavano del mio successo da artista, io glieli mandai superba di offrire a lui quel primo trionfo. Egli me li rimandò con una carta da visita in cui mi pregava di non tenermi vincolata dalle promesse scambiate con lui, perchè egli aveva creduto di fidanzarsi con una giovine onesta e non con una commediante. Oh il pregiudizio!
«Disillusa di tutto, m’innamorai sempre più dell’arte, ed in essa almeno trovai un compenso. Mi feci quel po’ di riputazione che ho, e la feci presto.
«Ora viene la storia dello spasimante ricco e nobile. Ce n’è sempre almeno uno nella storia delle donne di teatro, ed è sempre stato respinto. Soltanto, il mio, che era più ostinato degli altri, quando vide che non poteva giungere a me per le vie storte, prese quella retta del municipio, e mi domandò in moglie, a condizione che lascerei il teatro sposandolo. Risposi che lo sposerei a condizione di non lasciare il teatro. Egli si offese; se ne andò infuriato; non voleva più vedermi. Ma dopo una settimana tornò pentito, accettò le mie condizioni, e mi rinnovò la proposta. Gli domandai un giuramento che non mi farebbe lasciare il teatro, e giurò sul suo onore. Ci sposammo a Firenze.»
A questo punto del racconto mi si strinse il cuore.
— Siete maritata? esclamai dolorosamente rizzandomi in piedi.
— Abbiate un po’ di pazienza, rispose Vittoria prendendomi la mano ed obbligandomi a sedere di nuovo. State a sentire.
«Dopo la cerimonia mi disse che aveva combinato tutto in segreto pel viaggio di nozze, perchè contava di farmene una sorpresa. Mi conduceva a Parigi ed a Londra. Non s’era mai parlato di quel viaggio.
«Io non posso; debbo recitare doman l’altro, gli dissi. C’è una commedia nuova.
«Ma che! Ormai ero una signora, ero entrata in una famiglia nobile; non era più decoroso che io continuassi a recitare. Sì, egli aveva giurato per farmi piacere; ma quello era un capriccio da fanciulla. I suoi parenti non potrebbero tollerarlo... Egli voleva bastar solo alla mia felicità...
«Ed invece no, non mi bastava. Amavo l’arte con passione, e poi mi offendeva il vedermi ingannata così.
— Ebbene, gli dissi, partiamo subito.
«E partimmo. Entrai in un vagone in cui c’erano parecchie persone, ed il mio sposo dovette seguirmi malgrado il suo biglietto di coupé. Partimmo da Firenze alle sei del mattino ed alle otto di sera giungemmo a Torino senz’essere stati soli un momento.
«Dovevamo passare la notte a Torino e ripartire la mattina seguente per Modane. Ma, appena giunti all’albergo, gli dissi che avevo sofferto tutta la strada d’un atroce dolore ad un dente.
«Mi ci voleva il chirurgo-dentista. Il dottor Camusso mi aveva curata altre volte. Era necessario che mio marito andasse subito a cercare il dottor Camusso. No; un cameriere non ci metterebbe quella premura. Doveva andarci lui. Fui inesorabile. Gli diedi l’indirizzo: via S. Tommaso, n. 3. E se ne andò.
«Appena egli fu uscito, uscii alla mia volta; andai in piazza Castello, entrai in un omnibus che mi conducesse fin in Borgo Nuovo. Di là mi recai a piedi in via Vanchiglia da una cameriera che m’aveva servita qualche tempo, poi si era maritata a Torino con un operaio. La pregai di tenermi in casa sua per alcune settimane senza farne parola a nessuno. E vi rimasi più d’un mese.
«Intanto la mia compagnia lasciò Firenze e si recò a Napoli. Io scrissi al direttore che lo raggiungerei. Ed infatti dopo quaranta giorni ricomparvi in iscena ai Fiorentini di Napoli, in una prima rappresentazione che ebbe un gran successo, ed io ne ebbi la mia parte.
«Il domani il mio sposo lesse quella notizia sul Fanfulla nella corrispondenza di Picche. Anch’egli, come il fidanzato di Milano, mi scrisse di non considerarmi più come sua moglie.
«L’avviso era superfluo. Pensavo tanto a lui come all’imperatore della Cina. L’avevo sposato unicamente nell’idea fissa di mostrare alla gente che mi aveva disprezzata, che si può essere una attrice, ed essere onesta come un’altra fanciulla, e fare un bel matrimonio, e rimanere una buona artista diventando una gran dama, ed una buona moglie. Era stata un’illusione. Dovetti rassegnarmi a vivere divisa dal marito.
«L’anno scorso seppi, non dalla sua famiglia, ma per mezzo d’un giornale, che mio marito era morto di tifo.
«Nel contratto nuziale mi aveva fatto un assegno dotale abbastanza generoso, per assicurarmi un’esistenza agiata; e, malgrado il mio abbandono, non aveva presa nessuna disposizione per annullare quella donazione. Ma quando la reclamai, i suoi parenti ed eredi mi mossero lite.
«Io sono certa di vincerla; ma per mille riguardi non è conveniente che mi rimariti prima che sia terminata questa noiosa causa. Volete aspettare alcuni mesi, e continuare a volermi bene ed a farmi la corte?
— Potete domandarmelo, Vittoria? le risposi. Farò tutto quello che vorrete; vi lascierò continuare la vostra carriera.
— No, Gustavo, m’è passata la manìa di guarire il mondo da’ suoi pregiudizi. Ho capito che una vita a tesi è troppo difficile. E poi non ho più fede nella mia tesi. Siete voi che me l’avete fatta perdere. Finchè non si ama davvero si crede di poter sempre serbare una parte del nostro cuore per l’arte; ma voi m’avete fatto sentire che c’è un amore per cui basta appena tutto il cuore, tutta la vita; che non lascia più posto per nessun’altra passione.»
Quelle parole mi resero pazzo di gioia. La presi nelle mie braccia, la colmai di carezze e di baci. Tornai a gustare l’ebbrezza d’essere amato, fui ancora felice.
Quando fummo per separarci, Vittoria mi disse:
— Credete in Dio, Gustavo?
— Sì, le risposi. Quando si ama e si è felici si prova il bisogno di credere, come nei grandi dolori.
— Ebbene venite. Voglio che mi giuriate davanti a Dio che mi amerete sempre. E mi trasse nella sua camera, dinanzi ad un inginocchiatoio a’ piedi del letto.
— Giurate, riprese, che mi amerete sempre come ora; che mi aprirete sempre tutto il vostro cuore, che avrete fede in me, che mi renderete felice e mi rispetterete come questa sera.
E mi aveva spinto in ginocchio, ed inginocchiata anch’essa accanto a me mi stringeva le mani e mi guardava negli occhi con infinito amore.
Il mio cuore balzava di gioia; mi sentivo rivivere in quella grande passione. Alzai gli occhi per ringraziare Iddio dal fondo dell’anima.
Ma ad un tratto un grido soffocato, un gemito, un singhiozzo, mi uscì dal petto, mi lacerò il cuore. Al disopra del Crocefisso stava appeso un bel dipinto ad olio rappresentante due teste alate.
Era il quadro di Clelia, e Vittoria era sua sorella!
Oh Carlo! Non so dirvi l’angoscia di quel momento. Stringermi al cuore una donna che adoravo, e trovarmi dinanzi all’immagine d’un’altra donna che avevo uccisa. Udire Vittoria parlare di un avvenire pieno d’incantevoli promesse, e sentirmi vile ed infame se non rinunciavo a quella felicità. Avrei dovuto gettarmele ai piedi, confessarle tutto.
«Ho amato tua sorella e disonorandola l’ho uccisa!»
E poi fuggire e non vederla mai più. Vedevo chiaro il mio dovere. Vedevo la viltà dell’azione che commettevo tacendo. Ma avevo il delirio della passione. E non la disingannai: e rimasi. E lasciai che il nostro amore aumentasse ogni giorno. Lasciai che la sua anima si esaltasse in questa passione fino a non poter più vivere senza di me.
Ma d’allora la mia esistenza è una continua tortura; una lotta disperata tra il cuore e la coscienza. La vedo, affogo i miei rimorsi nell’ebbrezza dell’amore; e poi ad un tratto penso:
«Ecco questa donna abbandonata dai parenti e dagli amici non aveva altro affetto sulla terra che sua sorella. Ed io gliel’ho tolta; ed ella si stringe al cuore l’uomo che l’ha uccisa.»
Ed in quei momenti mi sembra d’abbracciare il cadavere gelato di Clelia; e respingo la povera donna, grido, mi sfogo in pianto; le sembro pazzo, e sono profondamente infelice.
Vittoria volle che venissi a respirare un po’ d’aria pura qui. Ella mi crede ammalato. È venuta ella pure ad Arona per essermi vicina, e vado a vederla ogni giorno.
Ma la sua schietta affezione, le sue tenerezze sono un continuo rimprovero alla mia coscienza. Sento che questo stato di cose non può durare. Bisogna ch’ella sappia tutto. Che mi perdoni, e mi renda la felicità e la pace; o mi disprezzi, mi scacci addirittura. Meglio morire disperato, che vivere così.
Gustavo era esaltato e commosso. Io stesso non trovavo parole per quell’angoscia; ero profondamente impietosito; comprendevo tutto lo strazio di un’anima delicata in quella situazione. La colpa era delle circostanze più che di lui; ma le conseguenze erano state terribili. Gli strinsi la mano in silenzio come per dargli coraggio. Egli riprese:
— Dimmi tu, Carlo. Cosa debbo fare? Ogni volta che vado da Vittoria ho il proponimento di dirle tutto; ed ogni volta il coraggio mi manca: ed ogni giorno commetto una nuova viltà. Cosa debbo fare? Consigliami, via.
— Mi fai pena, povero Gustavo; non ne hai colpa, ma hai ragione di sentir dei rimorsi. Non può durare così. Vuoi che faccia io qualche cosa per te? Vuoi farmi conoscere Vittoria, e lasciare che le parli io, e che le domandi io il tuo perdono?
Egli mi abbracciò con riconoscenza; mi chiamò suo salvatore, suo amico; ed il giorno dopo mi presentò a Vittoria.
V.
Era una simpatica giovine quella Vittoria; mi sembra di vederla ancora. Vestiva un abito bianco ampio, a lungo strascico, guarnito in giro di una larga striscia color d’arancia.
Aveva i capelli nerissimi, lunghi, folti, annodati con un grosso fiocco di nastro color d’arancia a sommo il capo.
Poche signore sanno vestire capricciosamente senza cadere nell’esagerazione. Vittoria possedeva quest’arte, e specialmente nelle abbigliature di casa, che non erano troppo schiave della moda, metteva un gusto squisitamente artistico.
Accompagnai Gustavo parecchie volte nelle sue visite ad Arona, per poter entrare con Vittoria in quel grado d’intimità necessaria per la missione di cui mi ero incaricato.
Fra persone giovani e schiette l’intimità si stabilisce presto. Una mattina dissi a Gustavo che quel giorno andrei ad Arona solo.
Egli si fece pallido, mi strinse le mani e mi disse:
— Credi che mi perdonerà? Quando penso come ha trattato quell’altro perchè l’aveva ingannata....
— Quell’altro non lo amava, risposi. Via, speriamo.
Ed andai solo ad Arona.
— È solo? mi domandò Vittoria agitata.
— Sono solo. Gustavo verrà più tardi, se vuole.
— Se voglio?
— Sì, se vorrà, quando saprà tutto.
— Quando saprò tutto? Ma cosa sono questi misteri? Gustavo non può avere dei segreti per me che sono stata sempre sincera e fiduciosa con lui.
— Non si affretti ad accusarlo, Vittoria, Gustavo è innamorato. Questa è la sua colpa e la sua scusa. Ma c’è un segreto, c’è una grande disgrazia di mezzo. Gustavo non ha il coraggio di farle questa confessione. L’ha affidata alla mia amicizia. Vuole sentirla da me?
— Dica, dica presto per carità.
Ed era tutta turbata e le scintillavano gli occhi.
Io le narrai tutta la storia disgraziata del mio amico; le dissi le sue trepidazioni passate, le sue angoscie presenti, i suoi rimorsi, i suoi timori, il suo immenso amore per lei. La pregai di perdonargli; mi posi in ginocchio io stesso per Gustavo; evocai, per intenerirla, la memoria della povera Clelia.
Ella mi ascoltò sempre in silenzio. Ma aveva il seno ansimante, e si fece prima pallidissima in viso, poi infiammata. I suoi grandi occhi neri mandarono lampi di sdegno, poi rimasero fissi con un’espressione implacabile.
Quando ebbi detto tutto ella mormorò:
— Disgraziato! Aveva uccisa mia sorella, ed ha accettato il mio amore! Ah non sapevo che si potesse esser perfidi cosí!
Io parlai e pregai ancora lungamente, senza che l’espressione del suo volto si rischiarasse un momento. Rifletteva e pareva che non mi desse retta. Finalmente si rizzò e mi disse seria seria:
— Gli dica che venga.
— Questa sera? domandai.
— No. Giovedì. (Era una domenica).
— Ma gli perdonerà, nevvero, Vittoria? Posso dirgli che gli perdonerà?
— Lo saprà allora.
— Mi dica almeno che gli vuol bene ancora.
— Pur troppo l’amo quel mostro; l’amo con tutta l’anima e vorrei odiarlo.
Pronunciò queste parole con un accento crudele. Ma era un momento terribile per lei. Ed io pensai che, passati quei pochi giorni in cui si calmerebbe l’impressione di quell’ora, sarebbe clemente, e perdonerebbe con tutta la generosità del suo grande amore.
Corsi da Gustavo altero e felice della nuova che gli recavo. E per la prima volta vidi la sua bella fronte farsi veramente serena. Mise un lungo sospiro di sollievo. — Ah!... come se si sentisse alleggerito da un grave peso.
La sera di giovedì lo accompagnai al battello a vapore; era bello e contento, proprio come dev’esserlo un fidanzato che va a ricevere la sposa del suo cuore. Ma quando fu partito, e rimasi solo alla sponda del lago, mi sentii triste, e mi parve d’averlo perduto.
Tutto il giorno, finchè giunsero battelli, stetti al porto guardando ansiosamente tra i viaggiatori che sbarcavano, per rivedere Gustavo e leggergli in volto com’era andata la sua visita. Si leggeva tutto su quel volto là. Ma l’ultimo battello passò, e Gustavo non venne.
— Va bene, pensai. È perdonato e felice. Lo rivedrò domani.
E rientrai in casa e mi coricai. Ma il mio cuore era agitato. Mi addormentai con difficoltà e sognai tristi sogni.
Tuttavia mi risvegliai che il mattino era già inoltrato. Dovevano essere passati due battelli; Gustavo era dunque tornato. Come mai non era venuto subito da me? Mi vestii in fretta e corsi a casa sua. No; non era giunto ancora.
— Via, è una pace completa, dissi. Rimane a colazione con lei.
E cercai di figurarmi la sua felicità. Ma invece mi pareva di vederlo triste, piangente. Finalmente nel pomeriggio non seppi resistere più. Presi il primo vapore che passò; andai ad Arona, e corsi difilato dalla signora Vittoria.
— C’è la signora? domandai alla cameriera che venne ad aprirmi.
— Nossignore, è partita.
— Partita! E... col signor Gustavo?
— No; il signore dorme; ho l’ordine di rimaner qui finchè si desti.
Entrai precipitosamente in sala. Gustavo infatti era steso sul divano e stava svegliandosi. Sbarrò gli occhi meravigliati; mi osservò ben bene; si guardò intorno come per assicurarsi del luogo in cui si trovava, poi finalmente disse:
— E Vittoria?
— Ebbene, gli risposi, dov’è andata Vittoria?
— Mi ha perdonato! sclamò con accento di beatitudine.
— Ti ha perdonato, ne ero certo. Ma perchè è partita?
— Partita? gridò balzando in piedi tutto sgomento. Ma che! È impossibile.
Io cominciavo a presentire qualche guaio.
— Via, calmati, dissi, e raccontami un po’ com’è andata la tua visita, come ti ha ricevuto, e come s’è fatta la pace.
— Ecco. La trovai triste, sai; ma triste! Il suo sguardo mi faceva male. Tuttavia avevo tanti torti; era giusto che mi tenesse un po’ il broncio; non poteva dimenticarli così subito. Io le domandai:
— Siete molto in collera, Vittoria?
Ella invece di rispondermi mi additò la tavola apparecchiata e mi disse:
— Pranziamo.
— No, risposi, non pranzerò se prima non mi avete perdonato.
Ella si alzò, passeggiò un momento per la stanza; batteva i piedi forte, ed era molto agitata. Poi mi si accostò e con un atto quasi furioso mi prese la testa fra le mani e se la strinse sul petto; ed in quell’atto ruppe in un singhiozzo che mi fece piangere. Era Clelia che aveva dinanzi. Ed anch’io pensai a Clelia.
Ah! Sono stato infame; senza volerlo, sono stato infame.
— E poi? domandai con impazienza.
— E poi Vittoria disse ancora:
— Ed ora pranziamo.
Sai che ha delle idee bizzarre alle volte.
Io non volli contrariarla di più. Mi posi a tavola e pranzammo.
Qui Gustavo tacque, e rimase pensieroso come se cercasse nella sua memoria.
— Tira via! gli dissi ansioso di veder la fine di quella scena.
— Non c’è altro. Ho un’idea vaga di essermi addormentato a tavola. Non si parlava quasi; di mangiare puoi figurarti se n'avessi voglia. Bevevo, bevevo, e forse ho passata la misura. Fatto sta che mi sono addormentato. Ma tu mi dicevi che Vittoria è uscita?
— Uscita? È partita, ti dico. L'ha detto la cameriera.
— Ma che! L'avrà detto per non lasciarti entrare.
— Meglio così. Ma allora dov'è la signora Vittoria? Perchè non è con te?
— Aspetta, chiamiamo Caterina. E chiamò.
La cameriera accorse.
— Dov'è la signora? le domandò Gustavo.
— La signora è partita ed ha lasciata questa lettera da dare a lei quando si sveglierebbe.
Gustavo si fece pallido come un morto.
Prese quella lettera colle mani tremanti, e si lasciò ricadere seduto sul divano. Io pure mi sentii gelare il sangue nelle vene. Accennai alla cameriera di andarsene, ed appena fu uscita, corsi a Gustavo, lo abbracciai con tutto il calore del mio cuore d'amico e gli dissi:
— Fa coraggio, via. Volevi che ti perdonasse o ti scacciasse per sempre, purchè finissero i tuoi rimorsi. Forse ti scaccia; sopporta la cosa da uomo. Io ti aiuterò con tutta la mia amicizia.
Egli mi diede la lettera, e si coperse il volto colle mani, con un atto veramente disperato.
Non osavo aprire quella busta. Egli me la riprese e mi disse:
— Leggiamo.
Tutti e due abbracciati ed in silenzio leggemmo:
«Voi avete sedotta la mia povera sorella, l’avete disonorata ed uccisa. Foste egoista, sleale con lei. Poi avete ingannata me, e foste con me pure egoista e sleale. Io vi amavo, e vi amo ancora tanto, che se non fuggissi vi perdonerei. Ma sarebbe una cosa infame, che per appagare una passione mia, sposassi l’uomo che ha sedotta ed uccisa l’unica parente che mi sia rimasta fedele. Quella memoria sarebbe sempre fra noi per farci vergognare l’uno dell’altra. Non voglio che mi cerchiate, non voglio che mi vediate più. Lo ripeto: ho la viltà di amarvi; avrei quella di perdonarvi tutto. È per questo che ho fatto preparare nei giorni della vostra lontananza uno stromento di tatuaggio come ne vidi nell’India; e vi ho fatto dormire con un po’ d’oppio nel vino. Ho voluto porvi sulla mano un’immagine tale che v’impedisca di stenderla mai più in cerca di me.»
Ci guardammo l’un l’altro atterriti. Eravamo pallidi come due cadaveri. Non osammo dire una parola. Gustavo alzò lentamente e tremando la mano destra, mise un grido disperato, e gettandosi nelle mie braccia ruppe in un pianto convulso. Su quella mano stava impressa, ancora arrossata e gonfia per l'operazione recente, la figura del quadro di Clelia. Due teste alate.
VI.
Allontanai di là il mio povero amico; lo ricondussi ad Intra; cercai di distrarlo; ma fu inutile. Teneva sempre gli occhi fissi su quella mano tatuata e stava zitto delle ore guardandola. Lo indussi a venire con me a fare un giro artistico in Isvizzera sperando che quella natura pittoresca, ridestando in lui le inspirazioni dell'arte, mitigasse l'intensità del suo dolore.
Ed infatti quando si vedeva in faccia ad una bella scena, si metteva con ardore a farne lo schizzo. Ma poi sospendeva il lavoro e rimaneva cogli occhi sbarrati e penosamente fissi sulla mano tatuata.
L'indussi a portare un guanto, anche quando lavorava. Ma era la stessa cosa. Fissava il guanto, pensava a quello che c'era sotto, e piangeva in silenzio; gli cadevano dei lacrimoni che mi straziavano il cuore.
In un mese si fece magro come un’ombra. Prima parlava pochissimo; poi finì per non parlare più affatto. La solitudine ed il raccoglimento che si procurava coll’insistente silenzio, lo concentravano sempre più in quell’idea fissa.
Qualche volta faceva dei gesti disperati. Dopo qualche tempo cominciò ad accompagnare i gesti con qualche parola che non rivolgeva a nessuno. Un giorno, dopo una lunga gita, vedendolo più triste che mai, gli rizzai davanti il cavalletto nella nostra camera d’albergo, e vi posi sopra un suo quadro incominciato. Al vederlo si ritrasse con raccapriccio, respinse la tavolozza che gli porgevo, e si pose a gridare mille cose insensate.
«Ch’egli era venuto al mondo in un quadro, e con due cuori. Ed aveva sempre vissuto in un quadro: e perchè aveva due cuori era morto due volte. Ma però la vita della gente che parla e ride e cammina non la sapeva, perchè nei quadri si vive in una continua tempesta; ed omai voleva provarla anche lui quella esistenza tranquilla senza cornice...»
La sua ragione era perduta, o almeno in grave pericolo. Lo condussi a Milano dal dottor Biffi.
Egli mi disse che non c’era punto sicurezza di ricuperare quella testa malata. Tuttavia si proverebbe a curarla; era tanto giovine....
Visitai lo stabilimento. Quelle camere ariose, pulite, quel servizio accurato, quella posizione salubre, quell’insieme di cura intelligente e cordiale, mi persuasero ad affidare al dottor Biffi il mio povero amico.
Egli rimase là senza la menoma resistenza. Comprendeva vagamente di essere ammalato, o almeno fuori dal suo stato normale, e d’aver bisogno di cura.
Allontanandomi dalla via San Celso, solo in una carrozza da nolo, piangevo come un disperato. Mi ero affezionato a Gustavo di quell’affetto intenso che nasce nella comunanza dei grandi dolori. Ed in quella casa di tristezza avevo lasciata una parte del mio cuore, la più cara e la migliore.
Quanto a Gustavo mi aveva veduto allontanarmi senza dare alcun segno di rammarico, come se avesse esaurita tutta la sua potenza di soffrire. Quell’apatia straziava l’anima a me, e faceva crollare il capo al medico.
Seppi che Vittoria si trovava a Genova ed aveva lasciato il teatro. Vi corsi subito. Le narrai lo stato di Gustavo e la rimproverai acerbamente. Oh mi dimenticai che fosse una donna per rimproverarla. Ed ella chinò il capo e mi ascoltò col più profondo pentimento, e pianse come non piangono che le anime buone.
Imprecò a sè stessa, al destino, al teatro.
— Maledetto il teatro, esclamò. È quello che m'ha guastata la testa. Ero avvezza a vedere delle catastrofi, ed avevo bisogno di metterne una in fondo al mio dramma. Mi pareva che dopo dovessimo ritrovarci tutti dietro le quinte, e darci la mano sorridendo tra noi, per venir fuori a sorridere al pubblico. Aveva ragione la mamma. Ecco quello che ho guadagnato. Mi sono guastata la testa ed il cuore. È la sua maledizione che mi colpisce. Poi, gettandosi addosso un mantello senza guardarsi allo specchio, senza prender nulla con sè, uscì in furia con me, e ci recammo allo scalo. Per fortuna c'era un treno in partenza e potemmo partir subito per Milano. Vittoria mi diceva traverso i singhiozzi e le lacrime:
— E se sapesse come l'amavo, e che vita miserabile ho fatta in questo tempo. L'aspettavo sempre, mi pareva di vederlo entrare, gettarmisi in ginocchio davanti; e di stendergli le braccia, e di piangere insieme. Era il colpo di scena che aspettavo. Non ero che una commediante; che Dio disperda tutti i teatri del mondo!
Era una bella mattina di marzo quando giungemmo insieme a Milano e con una carrozza da nolo ci facemmo condurre allo stabilimento del dottor Biffi. Gustavo passeggiava in giardino. Ci lasciarono andar soli ad incontrarlo.
Al vederlo mi si strinse il cuore.
I romanzieri ed i poeti dipingono la pazzia in un modo malinconico e bello: la pazzia d’Amleto e d’Ofelia. Ma la realtà non è così. Sembra che in quegli esseri privi di ragione la macchina umana si sfasci. I loro abiti sono mal messi e cadenti, spesso anche sudici; una gran parte ha la manía delle nudità indecenti. In tutti, la persona perde ogni grazia, ogni decoro di contegno. L’uomo aristocratico, l’artista dalle grandi ispirazioni, il contadino ignorante sono tutti uguali là dentro come nel campo santo. Tutti camminano, gestiscono, si muovono colla medesima trivialità. Quelli che per una manìa di grandezza vogliono serbare un contegno dignitoso, lo esagerano e fanno da caricature: About-Hassan nel palazzo del Califfo.
Ci accostammo a Gustavo che ci guardava senza riconoscerci. Vittoria con uno de’ suoi slanci drammatici gli si gettò ai piedi gridando:
— Oh Gustavo! Mio caro, perdonami per carità...
Egli non si mosse; non comprese nulla. Ella si alzò, gli prese le mani, le baciò, le riscaldò sul suo petto; gli parlò del passato, di lei, di Clelia; lo chiamò coi più dolci nomi.
Sempre impassibile.
Volle abbracciarlo, egli si schermì colla selvatichezza d’uno scolaro.
Allora presi a parlargli io; cercai di condurlo ad un altro ordine d’idee; di rammentargli le partite di campagna, i viaggi, i conoscenti comuni.
Mi rispose con un sorriso idiota che mi fece piangere.
Vittoria pensò di poterlo ridestare da quel torpore col mezzo dell’arte che aveva amata. Corse nello stabilimento, e tornò portando un bel quadro ad olio, rappresentante la Madonna dei dolori.
Ma prima che gli fosse vicina, Gustavo, alla vista del quadro, si diede a fuggire urlando e facendo salti spaventosi.
Fu arrestato a fatica e gli si dovette mettere la camicia di forza. Voleva frantumare il quadro e chi lo portava; tornava alla storia della sua vita, trascorsa tutta in una cornice; voleva essere libero, e ricominciare un’esistenza fuori dai quadri.
Forse aveva creduto di vedere il dipinto di Clelia colle teste alate. Tutte le volte che vedeva un quadro dava in quelle smanie; diceva che le teste che hanno ali fanno morire i cuori, e strappava i capelli agli infermieri ed a se stesso, credendo di strappare le ali.
Partimmo di là colla morte nell’anima, senza recare con noi nessuna speranza. Vittoria, violenta nel dolore, come era stata nell’amore e nella vendetta, si disperava, e mi faceva tremare di vederla subire la stessa sorte del suo povero amante.
Ci lasciammo a Milano, e non ci rivedemmo più. Ella rimase, per essere sempre vicina a Gustavo, e continuò a visitarlo, e ad amarlo, ed a vivere per lui.
Gustavo morì dopo un anno senza aver ricuperata neppur un’ombra di intelligenza, senza aver riconosciuta mai quella povera donna, che implorava in ginocchio una parola di perdono.
Nella lettera in cui mi annunciava la morte di Gustavo ella mi scrisse:
«Abbiamo sempre torto quando vogliamo ribellarci alle leggi della natura. Egli ha cercata la felicità in un amore impossibile; ed io ho cercata la giustizia in una separazione inumana. E Dio ci ha puniti entrambi. L’ho fatto portare al cimitero di Monza, ed ho presa una casa vicina per andarlo a visitare ogni giorno finchè vivrò.»
Erano due anime buone e meritavano una sorte migliore.