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IV.
— Due giorni dopo Clelia era morta. Fuggii da quella casa colla disperazione nell’anima. Presi alloggio in una delle contrade più deserte di Milano, e vissi là due mesi come un condannato, senza veder nessuno, lavorando e piangendo.
— L’arte mi era divenuta più cara; era l’unica passione che avessi avuta comune con lei. Ed ormai i miei quadri si vendevano; andavo guadagnando nome ed agiatezza, ora che non avevo più quella cara per cui avevo desiderato l’uno e l’altra; ed in quell’isolamento il mio dolore si andava facendo ogni giorno più intenso.
— Poi vennero i soliti amici premurosi della salute di chi non sa più che farne, e mi costrinsero a lasciar Milano, a viaggiare, a divagarmi.
«Al passato non c’era rimedio; quella poveretta era etica, già condannata quando l’avevo conosciuta; cosa volevo fare sempre solo così! Ero giovine, avevo un avvenire dinanzi a me, avevo altri doveri che di piangere, ecc.»
— Più per togliermi la noia, che non persuaso da quei discorsi, lasciai Milano e viaggiai sei mesi, senza cercare tuttavia altra distrazione nè al-