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Ma Clelia era così serena, cosí felice; mi parlava sempre del nostro avvenire, ci credeva tanto, che tornai a crederci anch’io.
— Infine quel medico non l’aveva oscultata. Chi sa? Forse s’era ingannato sulla natura del male. Appena Clelia sarebbe mia, la condurrei a Napoli, a Madera, la farei vivere in una pineta, dove i polmoni delicati si riconfortano; ne avrei tanta cura, la renderei tanto felice, che non soffrirebbe più...
— Intanto il mio quadro era finito ed era tempo d’andarlo ad esporre. Dovevo separarmi per poco da Clelia. Ci scambiammo le solite promesse e raccomandazioni.
«Scrivimi, sai, mi diceva, non tenermi in pena, non darmi crucci, te ne prego. Io sono come quelle povere pianticine esotiche che si conservano belle e profumate, finchè sono tenute in un dato ambiente, con quelle date cure; ma un soffio d’aria, una goccia d’acqua più o meno, bastano a farle morire.
— Io promisi, di cuore, di gran cuore, perchè l’amavo più della mia vita, e tremavo per la sua. E partii.