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«Gustavo! Oh vieni Gustavo!

— Mi precipitai nella camera, caddi in ginocchio accanto alla poltrona di Clelia, mi premetti sul volto le mani che ella mi stendeva in segno di perdono, e piansi, singhiozzai come un disperato. Ed essa, povera gioia, mi copriva il capo di baci e di lacrime, senza un rimprovero, senza un lamento.

— Quando cercai di accusarmi, di domandarle perdono, mi chiuse la bocca colla mano e mi disse:

«Stai zitto, Gustavo. Non parlar del passato. È stato un brutto sogno; dimentichiamolo. Ti perdono tutto, sai. Ora non pensiamo che ad amarci, ed esser felici. Forse potremo esserlo per poco.

— Io piangevo, piangevo, e dal fondo del cuore offrivo a Dio la mia vita in cambio della sua.

— Tuttavia mi sembrava che Clelia si esagerasse il suo male. Era magrissima è vero; ed aveva la voce debole. Ma non era a letto, ed il suo volto animato della gioia non aveva l’aspetto d’un volto di persona gravemente ammalata. Ed io pensavo ancora che l’avrei fatta guarire a forza di cure e d’amore; che l’avrei resa felice, che l’avrei sposata subito, anche il domani, e l’avrei portata a Viareggio, e l’avrei condotta ogni giorno nella pineta. Oh Dio! Si può forse morire quando si ama e si è amati così?