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Visitai lo stabilimento. Quelle camere ariose, pulite, quel servizio accurato, quella posizione salubre, quell’insieme di cura intelligente e cordiale, mi persuasero ad affidare al dottor Biffi il mio povero amico.
Egli rimase là senza la menoma resistenza. Comprendeva vagamente di essere ammalato, o almeno fuori dal suo stato normale, e d’aver bisogno di cura.
Allontanandomi dalla via San Celso, solo in una carrozza da nolo, piangevo come un disperato. Mi ero affezionato a Gustavo di quell’affetto intenso che nasce nella comunanza dei grandi dolori. Ed in quella casa di tristezza avevo lasciata una parte del mio cuore, la più cara e la migliore.
Quanto a Gustavo mi aveva veduto allontanarmi senza dare alcun segno di rammarico, come se avesse esaurita tutta la sua potenza di soffrire. Quell’apatia straziava l’anima a me, e faceva crollare il capo al medico.
Seppi che Vittoria si trovava a Genova ed aveva lasciato il teatro. Vi corsi subito. Le narrai lo stato di Gustavo e la rimproverai acerbamente. Oh mi dimenticai che fosse una donna per rimproverarla. Ed ella chinò il capo e mi ascoltò col più profondo pentimento, e pianse come non piangono che le anime buone.