Roma italiana, 1870-1895/Il 1870

Il 1870

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Indice Il 1871
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20 SETTEMBRE 1870



C. Ademollo dipinse Da una fotografia di G. Brogi
LA BRECCIA DI PORTA PIA
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Il 1870.



Agitazioni per l’acquisto di Roma — Partenza dei francesi — Provvedimenti del Governo italiano per occupare Roma — Forze pontificie — Gli zampitti — Il corpo d’osservazione — La missione Ponza di S. Martino — Il proclama del Cadorna agli italiani delle Provincie romane — Il passaggio del confine — La resa di Civitavecchia — La missione Arnim — Gl’intendimenti del General Cadorna — La breccia di Porta Pia — L’ingresso delle truppe — Incidenti in città — Nino Costa al Campidoglio — La partenza dei prigionieri — Il comizio al Colosseo — La Giunta del general Cadorna — Primi atti della Giunta — Il plebiscito — Una parte del patriziato dal Papa — Feste e feste — La deputazione del plebiscito a Firenze— L’arrivo di Lamarmora — Le commemorazioni patriottiche — L’inaugurazione del Liceo «Ennio Quirino Visconti» — La Guardia Nazionale Romana — Il primo Parlamento con i rappresentanti di Roma — Agitazioni — I preparativi per l’ingresso del Re — L’inondazione — Vittorio Emanuele a Roma.


«O Roma, o morte!» era il grido che da molti anni, prima del 20 settembre 1870, teneva agitata l’Italia. Aveva echeggiato la prima volta, allorchè i mille di Marsala divenuti potente legione, erano riusciti a fugare innanzi a sè gli smarriti soldati borbonici, e a indurre Francesco II ad abbandonar Napoli per rinchiudersi a Gaeta. Allora, senza l’esercito piemontese, che sbarrò a Garibaldi la via di Roma, quel grido, manifestazione del desiderio di tutto un popolo, avrebbe per breve momento echeggiato trionfante anche nella Urbe, finchè l'esercito dell’alleato di Magenta e di Solferino, divenuto nemico, non lo avesse fatto tacere con le fucilate. «O Roma, o morte!» aveva echeggiato nel 1866, dopo la riunione di Venezia all’Italia, quando più dolorosa facevasi sentire la mancanza della storica capitale del nuovo regno; e quel grido di brama, di speranza e di dolore a un tempo aveva scosso tutti i cuori italiani nel 1867. Da ogni contrada d’Italia partivano a frotte i giovani baldi per muovere alla liberazione di Roma, e il popolo li salutava con l’evviva sulle labbra e col pianto negli occhi, e ogni volta che un reggimento in assetto di guerra lasciava una città per incamminarsi verso la frontiera degli Stati Pontifici, erano lagrime di tenerezza, che spargeva la folla adunata per dare il saluto ai soldati. «A Roma!» dicevano essi, e il popolo ripeteva il voto: «a Roma!» Milioni di figli chiedevano la liberazione della madre gloriosa, milioni di cuori la invocavano. Il miracolo della unificazione della patria, compiuto in poco più che un decennio, perdeva il suo valore agli occhi degli italiani; pareva che nulla si fosse fatto se mancava al nuovo regno il caput mundi, simbolo di grandezza nel passato, di pace nell’avvenire.

Dopo le amare delusioni del 1867, il desiderio di Roma si fece così ardente nel popolo, che l’Italia quasi ne ammalò. La vita di lei pareva sospesii dall’ansietà, e tutto dava occasione per chiedere [p. 4 modifica]Roma con manifestazioni clamorose. «O Roma, o morte!», dopo Mentana specialmente, era divenuto un grido sedizioso, un grido che il Governo era in obbligo di far tacere per riguardo alla Francia, che aveva con sè, nella questione Romana, l’appoggio di tutte le potenze cattoliche. Eppure al governo erano uomini che avevano accettato il programma del conte di Cavour. Essi rammentavano che già nel giorno 11 ottobre 1860 al Parlamento subalpino, il grande uomo di Stato aveva detto: «La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fede che la eterna città, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico».

Ma quelle parole pronunciate dopo le vittorie recenti, dopo le insperate annessioni; quelle parole che avevano infiammato gli animi prima di esser tradotte in realtà, esigevano la soluzione di una quistione che pareva più che mai insolubile in sul principio del 1870.

Napoleone III, arbitro dei destini dell’Europa aveva dimostrato chiaramente nel 1867 che non avrebbe lasciato si menomasse il poter temporale del Pontefice. Roma doveva esser del Papa, e gl’Italiani per conquistarla avrebbero dovuto misurarsi con l’esercito francese, e sconfiggerlo.

Ma ben altro aveva decretato il destino. Già dal maggio, in previsione di una guerra con la Prussia, Napoleone III cercava di concludere un’alleanza con l’Austria e con l’Italia. Questa poneva per patto alla sua partecipazione il ritiro delle truppe francesi da Roma, ma il signor di Gramont, allora ministro degli esteri, non accondiscendeva a ciò e diceva al general Türr: «Se l’Italia non vuol marciare, ella se ne stia»; i fanatici Francesi dicevano: «Piuttosto i Prussiani a Parigi, che gl’Italiani a Roma».

La candidatura del principe di Hohenzollern al trono di Spagna, fa scoppiare la guerra fra la Prussia e la Francia. Il 14 luglio avviene la dichiarazione, e Napoleone, trepidante di trovarsi isolato di fronte alla Prussia, cerca di riannodare le trattative dell’alleanza con l’Austria e con l’Italia. Il 2 agosto fa sapere al Governo di Firenze che sarebbe tornato alla convenzione del 15 settembre 1864, che implicava il ritiro delle truppe da Roma, e poco dopo manda il principe Napoleone in missione presso Vittorio Emanuele.

Forse la notizia di questa missione giunse al quartier generale del principe Federigo Guglielmo di Prussia, forse il calcolo indusse il Principe Reale a inviare al nostro Re un lungo telegramma sulla battaglia di Gravelotte. È un fatto che il principe Napoleone, accompagnato dal colonnello Ragon, giunse a Firenze la mattina del 21 agosto per fare un ultimo tentativo in favore dell’alleanza, e la sera prima il Re riceveva il telegramma, con cui gli si annunziava la vittoria prussiana, che aveva avuto per resultato di rinchiuder l’esercito di Bazaine dentro Metz. Giova notare che i telegrammi da Parigi avevano fatto apparire quella battaglia come un trionfo delle armi francesi (e i giornali di quel tempo lo attestano), forse per ispianare il terreno al principe Napoleone. Naturalmente il Re ricusò le proposte dell’Imperatore.

Le vittorie dei Prussiani, succedendosi rapidamente, avevano già fatto venire il Governo francese nella determinazione di richiamare da Roma il corpo d’occupazione, che s’imbarcava quasi tutto il 19 agosto a Civitavecchia sulla fregata «Mayenne». Il 16 intanto era stato letto ai legionari d’Antibo un ordine del giorno col quale essi erano dichiarati liberi di tornare in Francia. Di questo permesso solo 80 legionari approfittavano e partirono sulla «Mayenne».

Il Governo italiano frattanto, mosso dal timore che lo Stato Pontificio potesse essere invaso, dopo il ritiro delle truppe francesi, dai garibaldini, che si agitavano, chiamava sotto le armi quattro contingenti, chiedeva al Parlamento un credito di 40 milioni per concentrare un Corpo [p. 5 modifica]d’Osservazione ai confini, e ordinava al vice-ammiraglio Del Carretto di concentrare dodici navi nelle acque di Civitavecchia. La nave su cui il Del Carretto issava bandiera di comando, era la «Roma», una delle più belle navi della flotta italiana di quei tempi, e l’aiutante di bandiera dell’ammiraglio era il sottotenente di vascello Carlo Farina, ora comandante della «Sicilia».

Intanto in Vaticano si era tutt’altro che sgomenti per la partenza dei Francesi. Le vittorie prussiane riempivano di gioia l’animo di Pio IX e della sua corte. Si vedeva in esse una giusta punizione per Napoleone III, il quale aveva aiutata l’Italia a costituirsi, e si sperava che la Prussia trionfante, avrebbe restaurato l’antico ordine di cose, e l’ossequio al principio del diritto divino.

Era generale la convinzione che le truppe italiane avrebbero occupato il territorio pontificio, e forse Roma, ma che non vi sarebbero rimaste; che avrebbero dovuto sloggiare di qui, come dalle Legazioni, dalle Marche e dall’Umbria, per volere della Prussia. Difatti era tanto profonda questa convinzione che in una Congregazione di Cardinali, tenuta il 17 agosto alla presenza del Papa, fu stabilito di non opporre resistenza. I soli Cardinali che si mostrarono contrari a questa deliberazione, furono gli Eminentissimi Mertel, Caterini e Patrizi; i due ultimi morti, il Mertel tuttora vivo. Però il 20 di quello stesso mese pare prevalesse in Vaticano un’altra opinione, perchè fu fortificato l’Aventino come nel 1867; si concentrarono munizioni a Porta San Paolo, si ristabilirono le barricate a Porta del Popolo, a Porta Angelica e a Porta Cavalleggeri, con l’intendimento forse di difendere soltanto la città Leonina. I cannoni all’Aventino e le munizioni si trasportavano per mezzo di carri e di un vaporetto, che era sul Tevere. I ponti sul Tevere e sull’Aniene erano stati minati e si erano fortificate Viterbo, ov’era Charette, Monterotondo, Civita Castellana, ma insufficientemente.

Comandante dell’esercito pontificio era il general Kanzler, svizzero, che aveva per moglie una Vannutelli, sorella degli attuali cardinali. Il Kanzier aveva sotto di sè i generali De Courten, bavarese, e Zappi, romano. Il Castel Sant’Angelo era sotto il comando del colonnello Pagliucchi. A Roma era scarsa la guarnigione, perchè la partenza dei Francesi vi aveva lasciato molti vuoti. Si vuole che non vi fossero più di 10,000 soldati fra antiboini, carabinieri esteri, svizzeri, guardie palatine e guardie urbane, alias caccialepri, così chiamati perchè ad essi principalmente tra affidata l’incombenza di dar la caccia ai liberali. Ne era comandante il marchese Serlupi; generale il principe Lancellotti.

Appena partita la guarnigione francese, che era odiatissima, incominciarono gli arrolamenti pubblici degli zampitti. Questi zampitti erano abruzzesi e ciociari, quelli stessi che avevano dato, dopo il 1860, tanto alimento al brigantaggio nel napoletano. Vestivano i calzoni corti, il giubbetto, il cappello dei briganti leggendari, e le ciocie. Al collo molti portavano medaglie e abitini, e avevano il fucile a bandoliera. Si vuole che fossero tolti anche dalle carceri. Negli ultimi tempi del governo papale essi percorrevano di giorno e di notte le vie della città, in doppia fila, sotto la guida di uno sbirro. La gente doveva passare in mezzo a loro, e ogni cittadino era squadrato da capo a piedi. Essi erano il terrore dei romani. Dipendevano dal Baldoni, capo della polizia, uomo odiatissimo, che dopo il 1870 si ritirò a Falconara, ove credo sia morto. Una volta venne a Roma nel 1871 per un processo, e il presidente rinunziò a interrogarlo come testimone per non provocare un tumulto.

Gli arrolamenti degli zampitti si facevano in pubblico. Una delle arrolatrici era una certa Galanti, che stava a Piazza Farnese; uno degli arrolatori il farmacista di Campo di Fiori; un altro un prete, certo don Eugenio Ricci, che fu mandato dopo dal Berti, primo questore di Roma, in America, aveva comandato due spedizioni brigantesche; in una, a Collalto, aveva fatto uccidere [p. 6 modifica]nella chiesa parrocchiale il Latini, liberale. Nella seconda spedizione al convento di Casamare fu sorpreso dai bersaglieri e disse di aver perduto il tesoro della spedizione. Un quarto arrolatore era il Klikte de la Grange, vecchio ufficiale svizzero, e capo brigante.

Si può dire che Roma fosse in mano di questi briganti, che, quando non esercitavano il loro ufficio poliziesco, aggredivano la gente. Molti ne rimasero a Roma anche dopo l’occupazione e per questo per un certo tempo le vie della città furono così mal sicure durante la sera.

Il Corpo d’Osservazione, che si concentrò ai confini, era sotto il comando del general Cadorna, buon soldato, giusto e onesto, e si componeva della 11ma divisione comandata dal generale Cosenz, dalla 12ma comandata dal generale Maze de la Roche, e dalla 13ma comandata dal Ferrero, che fu poi ministro della guerra, sotto la presidenza Depretis. Il capo di Stato maggiore era il generale Primerano.

Al Cadorna erano stati sottoposti altri nomi di generali prima che si formasse il Corpo d’Osservazione, e fra quelli il nome di Nino Bixio. La parte che egli aveva avuta alla difesa di Roma nel 1849, il suo coraggio, la sua valentia in guerra, che era apprezzata anche dai soldati piemontesi, fra i quali S. E. il general Della Rocca, che ancora non rifinisce di lodarne l’opera nella campagna del 1866, avevano indotto il ministro della guerra, general Covone, a proporlo al Cadorna. Ma questi, riconoscendo tutti i meriti del Bixio, lo rifiutava, perchè sapeva che nella campagna di Roma più che di slancio e di scienza militare e di valore, era necessario che i capi avessero tatto politico, freddezza, e sapessero barcamenarsi e conciliare gli animi, invece d’infiammarli. E ora che il Bixio è morto, che il Cadorna lo ha seguito nella tomba, bisogna riconoscere che il comandante del Corpo d’Osservazione aveva la vista lunga. Difatti il Bixio gli dette non poche amarezze e quello che egli riferisce nel suo bel libro «La liberazione di Roma», e la polemica che dovè sostenere in seguito per più di un decennio e contro il Petruccelli della Gattina e contro il Guerzoni, lo provano; perchè, nonostante la sua opposizione, il Ministro della Guerra, che già in quel tempo dava segni manifesti di quella perturbazione mentale che Io condusse dopo poco alla morte, chiamò il Bixio da Bologna a comandare la 2° divisione, e all’Angioletti dette il comando della 9°, e queste due divisioni furono mandate a rinforzare il Corpo d’Osservazione, che cambiò il suo nome in quello di 4° Corpo, e che all’ingresso in campagna era forte di circa 60,000 uomini.

Un periodo di dolorosa aspettativa incominciò allora per Roma e per l’Italia. Nel Regno non si aveva fede sicura che i nostri soldati sarebbero venuti a Roma, rammentando che prima di Mentana essi erano pure partiti per il confine, e ne erano tornati senza spingersi fino all’eterna città. A Roma poi non si osava sperare. Il Vaticano aveva numerosi adepti, legati per tradizione al Governo Papale e anche per interesse, perché infinito era il numero degli impiegati e dei beneficati che vivevano comodamente a spese della Santa Sede, delle congreghe e dei conventi. Molte famiglie avevano sussidi, pranzo giornaliero fino a casa, e villeggiature e bagni di mare a Civitavecchia, senza far nulla. La balda gioventù, che senza esser mazziniana, dopo il 1850 si era iscritta sotto la bandiera della Associazione Italiana, che era una trasformazione della Giovane Italia, e della quale per lungo tempo fu capo Cesare Mazzoni di Ancona, uomo ambizioso e accusato poi di essersi dato al partito piemontese, che a Roma si chiamava dei «malva» o dei «fusi», era quasi tutta sparsa per l’Italia. Il partito detto «Nazionale» era poco attivo, nonostante i continui viaggi che l’ingegnere Pescanti, noto affarista, faceva fra Firenze e Roma per acquistare adepti. I Romani d’allora erano leggermente inerti e fatalisti come quelli d’ora, e in quel tempo per liberarsi dalla signoria dei preti aspettavano tutto dal Governo di Firenze, come ora per risorgere economicamente tutto [p. 7 modifica]aspettano dal Governo Italiano. Una lunga educazione contraria, anzi riprovante ogni iniziativa privata, li aveva assuefatti a starsene con le braccia conserte in attesa di un aiuto dal di fuori, e per questo l’Italia, che sperava di vedere insorgere Roma, dopo partite le truppe francesi, fremeva e trepidava; e se il malessere e l’incertezza erano quindi dentro la città, non meno grandi erano nel resto della penisola.

Le sole notizie che commovessero i Romani erano quelle che si riferivano alle gesta degli zampitti e agli abusi della polizia. Oggi si parlava di una cospirazione, domani moveva rumore l’espulsione di venti pittori napoletani, fra cui il Vertunni, il Marinelli, il Santoro, il Rocco, il Della Rocca e altri. I cannoni che si trascinavano alle porte della città, i galeotti che passavano per recarsi a lavorare ai terrapieni e alla barricate, erano i soli spettacoli che distraessero i Romani su quella triste fine d’estate, in cui i patrizi non avevano osato allontanarsi dalla città, in cui il popola non si arrischiava ad abbandonarsi alle tradizionali baldorie.

Ai primi di settembre l’Imperatrice-reggente di Francia spediva l’«Orénoque» nelle acque di Civitavecchia per imbarcare i rimanenti soldati francesi, i Prussiani facevano prigioniero Napoleone a Sedan, in Francia era proclamata la Repubblica.

Quella sconfitta, quella prigionia esoneravano il Governo Italiano dal rispetto di ogni patto antecedente, ed il Corpo d’Osservazione avrebbe subito potuto mettersi in marcia su Roma.

Ma se la Francia era inerme e vinta, il Governo del Re doveva tener conto delle altre potenze, le quali sapeva bene che non si sarebbero opposte all’ingresso delle truppe regolari a Rom.i, ma non avrebbero mai permesso che un corpo irregolare se ne fosse impossessato. Il timore dunque del Lanza, allora presidente del Consiglio, e dei suoi colleghi, si era che il partito d’azione, che aveva numerosi adepti a Roma e nello Stato Pontificio, tentasse un colpo di mano; per questo si fingeva di affidare missioni di fiducia ai più ardenti fra gli emigrati romani, per ridurli alla inazione, sparpagliandoli qua e là, e si faceva sorvegliare Garibaldi dal Prefetto di Sassari nella sua Caprera, affinché non potesse muoversi.

Una invasione capitanata da Garibaldi o da Mazzini, che si sapeva partito da Londra, avrebbe rovinato tutto.

E Vittorio Emanuele, come cattolico e come Re cavalleresco, prima di far passare il confine ai suoi soldati, inviava il giorno 8 settembre a Roma il conte Ponza di San Martino, latore di una nobile ed affettuosa lettera a Pio IX. Quella lettera diceva:

«Beatissimo Padre,

«Con affetto di Figlio, con fede di Cattolico, con lealtà di Re, con animo d’Italiano, m’indirizzo ancora, com’ebbi a fare altra volta, al cuore di Vostra Santità.

«Un turbine pieno di pericoli minaccia l’Europa. Giovandosi della guerra che desola il centro del continente, il partito della rivoluzione cosmopolita cresce di baldanza e di audacia, e prepara, specialmente in Italia e nelle provincie governate da Vostra Santità, le ultime offese alla Monarchia ed al Papato.

«Io so, Beatissimo Padre, che la grandezza dell’anima Vostra non sarebbe mai minore della grandezza degli eventi; ma essendo io Re cattolico e Re italiano, e come tale custode e garante, per disposizione della Divina Provvidenza e per volontà della Nazione, dei destini di tutti gli Italiani, io sento il dovere di prendere, in faccia all’Europa ed alla Cattolicità, la responsabilità del mantenimento dell’ordine nella Penisola e della sicurezza della Santa Sede.

[p. 8 modifica]«Ora, Beatissimo Padre, la condizione d’animo delle popolazioni dalla Santità Vostra governate, e la presenza fra loro di truppe straniere, venute con diversi intendimenti, da luoghi diversi, sono fomite di agitazioni e di pericoli a tutti evidenti. Il caso o l’effervescenza delle passioni possono condurre a violenze e ad una effusione di sangue, che è mio e Vostro dovere. Santo Padre, di evitare e di impedire.

«Io veggo la indeclinabile necessità per la sicurezza dell’Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia dei confini, s’inoltrino ad occupare quelle posizioni, che saranno indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell’ordine.

«La Santità vostra non vorrà vedere in questo provvedimento di precauzione un atto ostile.

«Il mio Governo e le mie forze si ristringeranno assolutamente ad un’azione conservatrice e tutelare del diritto facilmente conciliabile delle popolazioni romane coll’inviolabilità del Sommo Pontefice e della sua spirituale autorità, e colla indipendenza della Santa Sede.

«Se Vostra Santità, come non ne dubito, e come il suo sacro carattere e la benignità dell’animo suo mi dà diritto a sperare, è inspirata da un desiderio eguale al mio, di evitare ogni conflitto e sfuggire il pericolo di una violenza, potrà prendere col conte Ponza di San Martino, che recherà questa lettera e che è munito di istruzioni opportune del mio Governo, quei concerti che meglio si giudichino conducenti all’intento desiderato.

«Mi permetta la Santità Vostra di sperare ancora che il momento attuale, così solenne per l’Italia, come per la Chiesa e per il Papato, aggiunga efficacia a quegli spiriti di benevolenza che non si poterono mai estinguere nell’animo Vostro verso questa terra, che è pure Vostra patria, e a quei sentimenti di conciliazione, che mi studiai sempre con instancabile perseveranza tradurre in atto, perchè soddisfacendo alle aspirazioni nazionali, il Capo della Cattolicità circondato dalla devozione delle popolazioni italiane, conservasse sulle sponde del Tevere una Sede gloriosa e indipendente da ogni umana Sovranità.

«La Santità Vostra, liberando Roma da truppe straniere, togliendola al pericolo continuo di essere il campo di battaglia dei partiti sovversivi, avrà dato compimento all’opera meravigliosa, restituita la pace alla Chiesa e mostrato all’Europa, spaventata dagli orrori della guerra, come si possano vincere grandi battaglie ed ottenere vittorie immortali con un atto di giustizia, e con una sola parola di affetto.

«Prego Vostra Beatitudine di volermi impartire la Sua apostolica benedizione, e riprotesto alla Santità Vostra i sentimenti del mio profondo rispetto.

«Firenze, 3 Settembre 1870.

«Di Vostra Santità


«Umil.mo, Obb.mo e Dev.mo Figlio
 «vittorio emanuele»



La sera prima dell’arrivo del conte di San Martino, e precisamente nella notte dal 7 all’8 settembre, fu tenuto un consiglio di generali alla presenza di Pio IX. Quella volta le idee del De Merode, arrabbiato nemico dell’Italia, prevalsero su quelle di Antonelli, e della maggioranza dei Cardinali, che si opponevano alla resistenza, e fu deciso di difendersi. Così la mattina dopo furono collocati due cannoni al Pincio, tre sotto gli archi della ferrovia, verso San Lorenzo, sei al Vaticano, e l’Aventino fu rinforzato.

Ma Pio IX non voleva mostrarsi impensierito; il 7 passeggiava a piedi pel Corso, accordava le solite udienze e non si fece pregare per ricevere il conte di San Martino, col quale lui e Antonelli si mostrarono affabilissimi, forse per indorargli la pillola del rifiuto.

[p. 9 modifica]Il conte era venuto, recando seco come segretario il marchese Alessandro Guiccioli di Ravenna, figlio di una Capranica e nipote di monsignor Pio Capranica del Grillo, che era allora segretarlo generale del pro-ministro di Polizia, e per conseguenza mezzo romano.

Quando il conte si recò in Vaticano per l’udienza papale, monsignor Negroni, ministro per l’interno, con atto di vera deferenza gli cedè il passo. Il conte Pianciani, guardia nobile gli fece osservare di deporre in anticamera guanti e cappello, come vuole l’etichetta, cosa che il conte di San Martino, molto trepidante, aveva dimenticato.

Si dice che il Papa lo accogliesse con il solito suo sorriso bonario, che molte persone credono fosse in lui una specie di maschera, perchè gli spariva dal volto appena s’infuriava, e ciò avvenivagli spesso, e allora il volto prendeva una espressione felina.

Il conte presentò la lettera al Papa, questi la lesse e rispose lungamente e ironicameme. L’ambasciatore non apri bocca, e più il Papa parlava e più egli faceva inchini profondi. Pio IX inveiva contro le parole contenute nella lettera del Re, la ribatteva punto per punto, e il conte di San Martino seguitava a fare inchini. Egli riparti, come si dice, con le pive nel sacco, come lo dimostra la lettera che qui sotto riportiamo:


«Maestà,

«Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera che a V. M. piacque di dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso, che vanta di professare la fede cattolica e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V. M. empia di amarezza l’ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principi che essa contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio e pongo nelle ’mani di lui la mia causa, che è interamente la sua. Lo prego di concedere abbondanti grazie a V. M. per liberarla da ogni pericolo, e renderla partecipe delle misericordie onde Ella ha bisogno.

«Dal Vaticano, 11 Settembre 1870.

«pius pp. ix»


A Roma l’arrivo del conte Ponza di San Martino aveva destato grandi speranze e mentre prima la gente, vedendo le titubanze del Governo italiano, domandava: «Entrano o non entrano?» dopo l’arrivo del conte diceva: «Entrano certo»; e si faceva circolare fra i cittadini un indirizzo per chiedere al Re che l’ingresso dei soldati italiani avvenisse presto. Questo indirizzo si copriva di migliaia di firme, e in provincia avveniva lo stesso: quello di Viterbo portava 5500 nomi ed era presentato dal conte Manni al Lanza.

Dal Vaticano, non potendosi negare che la venuta del conte di San Martino avea rianimato le speranze, si era fatta spargere la voce che il conte, oltre la missione palese presso il Papa, ne avesse un’altra nascosta presso il partito nazionale, che consistesse nello spargere danaro fra il popolo per guadagnare adepti alla causa italiana, e si aggiungeva che avesse ritirato 100.000 lire da una banca romana. I signori Spada e Flamini, che si voleva fossero quelli che avessero pagata quella somma al conte, poco dopo avvenuta l’occupazione, lo smentivano dichiarando che il conte di San Martino aveva una lettera di credito di 50.000 lire per la loro banca, ma che non ne aveva fatto nessun uso.

[p. 10 modifica]Fallito questo tentativo pacifico, dettato dal rispetto e dalle convenienze, il 4" Corpo passava il confine e il comandante in capo emanava il segnente proclama:

«Italiani delle Provincie romane,

«Il Re d’Italia m’ha affidata un’alta missione, della quale voi dovete essere i più efficaci cooperatori.

«L’esercito, simbolo e prova della concordia e dell’unità nazionale, viene tra voi con affetto traterno per tutelare la sicurezza d’Italia e la vostra libertà. Voi saprete provare all’Europa come l’esercizio di tutti i vostri diritti possa congiungersi col rispetto alla dignità e all’autorità spirituale del Sommo Pontefice. La indipendenza della Santa Sede rimarrà inviolabile in mezzo alle libertà cittadine, meglio che non sia mai stata sotto la protezione degli interventi stranieri.

«Noi non veniamo a portare la guerra, ma la pace e l’ordine vero. Io non devo intervenire nel Governo e nelle amministrazioni, a cui provvederete voi stessi. Il mio compito si limita a mantenere l’ordine pubblico e a difendere l’inviolabilità del suolo della nostra patria comune .

«Terni, 11 Settembre 1870.

«Il Luogotenente Generale
«comandante il Primo Corpo dell’Esercito
«R. CADORNA ..



Il comandante in capo del 4° Corpo con la 11ma la 12ma e la 13ma divisione passava il confine a Ponte Felice, la divisione Angioletti lo passava a Ceprano e la divisione Bixio a Orvieto giungendo a Montefiascone senza colpo ferire. La sera tutta la guarnigione degli zuavi abbandonava la città.

Il 10 già a Terracina si faceva una imponente dimostrazione al grido di «Viva il Re» e una deputazione di otto notabili presentava un indirizzo al sotto prefetto di Formia chiedendo che la città fosse occupata dalle truppe italiane. Soriano, Bomarzo, Castiglione, Celleno e Farnese insorgevano al grido di «Viva il Re». Civita Castellana si arrendeva dopo il cannoneggiamento, ma Ugo Pesci, che in qualità di corrispondente del Fanfulla seguiva le truppe, dice che la popolazione non mostrò nessun entusiasmo. Egli aggiunge che la guarnigione di zuavi si componeva di vecchi e giovani, di poveri e ricchi, di fanatici e di scettici, un’accozzaglia dunque inetta a resistere sia per lo scarso numero dei difensori, che per l’insufficienza dei mezzi di difesa. Charette, il famoso colonnello francese, il fanatico paladino, fugge con i suoi da Viterbo e si rifugia a Roma.

Il 14 intanto il Bixio era giunto con la sua 2a divisione sotto le mura di Civitavecchia. Egli mandava subito a intimare la resa al colonnello Serra, che occupava la piazza con le truppe pontificie. A quella intimazione il colonnello rispondeva chiedendo 24 ore di tempo a decidersi e si riserbava la facoltà di proporre certe speciali condizioni. Il generale Bixio accordava solo 12 ore e chiedeva la resa incondizionata. La mattina del 15 allo spirare della dilazione accordati e mentre l’esercito italiano si preparava all’attacco dalla parte di terra e la squadra si teneva pronta ad aprire il fuoco, il colonnello Serra capitolava, chiedendo solo che la corvetta da guerra «Immacolata Concezione» rimanesse agli ordini del Pontefice.

Firmata la resa, la «Terribile» della squadra italiana, con bandiera spiegata, entrava nel porto. Il Bixio allora, lasciando a guardia della città un certo numero di soldati s’incamminava su Roma.

Nello stesso giorno del 14 uno squadrone di Lancieri Novara, reggimento che faceva parte della riserva, era giunto a Sant’Onofrio, forse per impedire che gli zuavi, che erano a Monte Mario, [p. 11 modifica]si rifugiassero a Roma. Quello squadrone ebbe uno scontro con 1 soldati papalini, e il luogotenente Grotti, cadendo da cavallo, fu fatto prigioniero e condotto a Roma. Egli era figlio di un deputato molto noto per le sue idee clericali, e fu restituito il i6.

Però il quartier generale del 4° Corpo rimaneva ancora alla villa Spada, vicina a Monterotondo, ma già si poteva dire che tutto lo Stato Pontificio fosse in mano degli Italiani. Il principe Odescalchi aveva inalberato la bandiera nazionale sulla rocca di Bracciano, il duca don Francesco Sforza-Cesarini aveva fatto lo stesso sul suo castello di Genzano e alla testa degli insorti percorreva la campagna, e in ogni piccola città si erano create giunte liberali; ovunque i soldati erano accolti come liberatori, e festeggiati come fratelli lungamente attesi.

Il giorno 16 Mazzini fu arrestato a Palermo travestito da pastore inglese. Fino dal 1850 egli era riuscito sempre a sfuggire a tutte le polizie, ma il Governo italiano, che come ho detto, non voleva assolutamente che il partito repubblicano avesse una qualsia» ingerenza nella presa di Roma, lo aveva fatto seguire, e senza permettergli di sbarcare in città, dalla nave su cui era giunto, lo faceva trasbordare su un’altra della marina da guerra, e lo inviava a Gaeta, ordinando al prefetto di Caserta, di tenergli gli occhi addosso.

Il 17 entra in iscena il conte Arnim, ministro di Prussia presso la Santa Sede, e che ebbe poi tanta parte negli avvenimenti. Era un uomo di carattere leggero, amante dei divertimenti e che si compiaceva di far parlare di sé. Aveva per moglie una graziosa signora, abile disegnatrice, la quale un giorno essendo alla Corsiniana per copiare certe iniziali di codici, tutta vestita di rosso, diceva a un amico mio: «Mio marito non è uomo di saldi principii». Ed aveva ragione.

Nel tornare da un congedo in Germania, il conte Arnim era passato per Firenze ed aveva saputo da qualche ministro (si vuole che vedesse il Visconti-Venosta), tutto quello che si riferiva alla missione del conte di S. Martino. Infiammato da uno zelo generoso quanto effimero, e forse contando sulla sua cresciuta autorità dopo le vittorie dei soldati prussiani, egli credè di poter adoprare la sua influenza affinchè gl’italiani entrassero a Roma per volere del Pontefice. Tornato a Roma, ne ripartiva subito per il quartier generale del 4° corpo e chiedeva al general Cadorna una sosta di 24 ore per trattare con il Vaticano. Il tentativo del conte Arnim fallì, e il comandante in capo ordinava alle tre divisioni, che lo seguivano, la marcia su Roma.

Queste tre divisioni si accamparono alla Storta, ultima posta sulla via provinciale fra la Toscana e Roma, per aspettare che fosse pronto il ponte di barche, che il genio preparava a Grottarossa.

Come mai, vien fatto di domandare, il 4" Corpo dopo aver valicato il Tevere a Passo Corese, per trovarsi sulla destra del fiume, sotto le mura di Roma lo ritraversava per venire sulla sinistra?

La risposta è facile. In principio il Cadorna voleva attaccar Roma dalla parte del Gianicolo, dal punto cioè dal quale i francesi erano entrati nel 1849, ma poi venne in altra determinazione: forse per un riguardo per il Vaticano, forse per non far seguire la stessa via ai liberatori che agli oppressori, fors’anco per recar minor danni all’abitato, aveva rinunziato a scegliere la Porta San Pancrazio come punto principale dell’attacco, e vi mandava la sola divisione Bixio, la quale vi giungeva la sera del 19 per la via Aurelia.

Alla Storta era una confusione senza nome, di cui il Cadorna si lagna nel suo libro. In quelle quattro case e attorno ad esse vi era un intero esercito con un codazzo di giornalisti, fra i quali Edoardo Arbib, Edmondo De Amicis, Roberto Stuart, Ugo Pesci, il conte Arrivabene. l’on. Cucchi. [p. 12 modifica]e poi il marchese Alessandro Guiccioli, il barone Blanc, e una quantità di emigrati, fra cui Raffaele Erculei, il Bezzi, Napoleone Parboni, Mattia Montecchi, il Francici, tutti impazienti, tutti frementi dal desiderio di penetrare dentro Roma, di vederla libera.

Ma se al campo regnava quell’agitazione, che precede un grande fatto, a Roma regnava la costernazione. I cittadini per timore degli eccessi degli zampitti se ne stavano tutti chiusi in casa.

Il Papa era uscito il giorno 12 per inaugurare in piazza di Termini la fontana dell’Acqua Marcia, la quale fu ribattezzata Acqua Pia in suo onore. Dopo, passando per le vie interne della città e più prossime alle mura, andava a visitare i soldati posti a difesa dei forti; vi andò anche il 19, e al soldato che era in avamposto alla Porta San Giovanni, distribuì crocette e benedizioni.

La mattina dopo quel soldato moriva. Per le vie non si udiva, di giorno e di notte, altro che lo scalpitio lugubre delle pattuglie degli zampitti, il cigolio sinistro delle catene dei galeotti, che andavano a lavorare alle barricate. Fu un avvenimento il passaggio del general Carchidio, bendato, in una carrozza. Egli andava a parlamentare con Kanzler il giorno 18, affinché la città si arrendesse senza resistenza. Gli fecero fare lunghi giri per Roma, e passò anche dal Babbuino. Il suo passaggio richiamava la gente alla finestra.

Il 18 cadeva in quell’anno di domenica e all’alba Roma fu desta dalle cannonate dei pontificii, alle quali gl’Italiani non risposero. Il lunedì avvenne lo stesso e mentre i clericali riacquistavano speranza ritenendo che i nostri soldati si sarebbero fermati alle porte contentandosi di una dimostrazione militare, i liberali erano prostrati e abbattuti.

Intanto gl’Italiani nella notte fra il 19 e il 20 avevano prese le posizioni assegnate dal comandante in capo. La divisione Bixio, come si è detto, era giunta a Porta San Pancrazio, quella Angioletti a San Giovanni, quella Ferrero fra San Lorenzo Porta Maggiore, la divisione Cosenz a Porta Salara stendendosi fino a quella del Popolo, la divisione Maze de la Roche a Porta Pia. Il quartier generale era a Sant’Agnese e nella notte erano stati abbattuti i muri che dividevano le vigne ai due lati della Via Nomentana, per agevolare il passaggio delle colonne d’attacco. Quella mattina i cannoni delle porte incominciarono a tirare e i romani credevano di non udire risposta, come nei giorni precedenti; invece l’artiglieria della 9ª divisione da Porta San Giovanni rispondeva. Erano le 5 1/2 e quello fu il segnale dell’attacco. Da ogni lato i cannoni battevano la città.

Il cannoneggiamento di Porta Pia era diretto dal maggiore Luigi Pelloux. Da villa Torlonia si cercava pure di paralizzare la difesa di Porta Pia e battere il Castro Pretorio. Il capitano Grifoni, bel giovane fiorentino, dai lunghi baffi biondi, batteva la Porta Salara dalla Villa dei Gesuiti, detta Casino degli Spiriti, e si raccomandava con energiche bestemmie, che gli emigrati stessero a riparo, perchè di dietro le mura e i terrapieni le palle fischiavano.

Intanto il Cadorna, spingendosi sempre più avanti, aveva portato il Quartier Generale a Villa Albani, e dall’Osservatorio dominava l’attacco. Mentre col canocchiale guardava la cerchia delle mura, avvolta ne! fumo, una palla sfioravagli l’orecchio. Il generale Kanzler stava sul Belvedere del casino Rospigliosi; il Papa circondato dal corpo diplomatico, celebrava la messa e poi attendeva costernato.

L’artiglieria pontificia di Porta Pia dopo 3/4 d’ora cessava il fuoco, ma dal Castro Pretorio, dalla caserma del Macao e da Villa Patrizi partiva un vivo fuoco di fucileria, alimentato dai carabinieri esteri del colonnello Jeannerat, che si stendevano fino a San Giovanni, e avevano a Termini la riserva.

Verso le 7 era incominciato il movimento in avanti, nonostante il fuoco dei carabinieri esteri.

Le colonne di fanteria, coprendosi alla meglio a destra con gli accidenti del terreno, ed a sinistra [p. 13 modifica]passando dalle breccie fatte nei muri di cinta delle vigne si avvicinavano da sant’Agnese a Porta Pia, per far tacere il fuoco di fucileria, che cagionava non poche perdite fra gli artiglieri delle batterie di posizione. Un battaglione del 40° fanteria occupò alcune case discendenti da Villa Patrizi e incominciò a rispondere ai difensori del Castro Pretorio. Una sezione di artiglieria vi diresse alcuni tiri così bene aggiustati da rimuovere anche i più ostinati dal proposito di tenere quel posto, mentre il 35° battaglione bersaglieri e un battaglione del 59° fanteria, con slancio ammirevole, attraversando un terreno raso, scoperto e battuto da una gradine di palle, si portavano all’assalto di Villa Patrizi, che domina un’altura a sinistra di Porta Pia. I pontificii, vedendoli, si ritiravano dentro le mura della città.

Mentre questo avveniva le artiglierie battevano sempre la breccia, e pezzi di mura volavano. Alle 9 la breccia era di trenta metri.

Appena villa Patrizi fu occupata e venne inalberata sul palazzo la bandiera nazionale, cessava il fuoco d’artiglieria e verso la breccia venivano dirette le colonne d’attacco.

Quella di destra si componeva della divisione Maze de la Roche e quella di sinistra della divisione Cosenz. La prima aveva in testa il 12° bersaglieri col 2° battaglione del 41° fanteria, e la seconda il 34° bersaglieri con una una parte del 19° fanteria, e un drappello zappatori.

Fu allora che sul Castro Pretorio si vide inalberare la bandiera bianca. Si cessò il fuoco; peraltro si continuò ad avanzare. Ma giungendo le nostre colonne sotto le mura, furono ricevute da un vivo fuoco. Si vuole che i difensori della breccia e della Porta, non avessero veduto il segnale di resa del Castro Pretorio.

Fu quello, dalla parte dei nostri, un momento di sublime entusiasmo. Il 1° battaglione del 35° fanteria, muove arditamente all’assalto del terrapieno inalzato dinanzi alla porta. Al suono dei tamburi che battono la carica, al grido di «Savoia! Savoia!» che molti di quei soldati avevano pronunziato chi a Palestro, chi a San Martino, chi a Calatafimi, a Milazzo, e a Custoza, saltano nel fosso, superano il parapetto. Il general Maze col suo stato maggiore, il generale Angelino con la sciabola in pugno, sono in mezzo ai soldati e l’entusiasmo dà loro il vigore e l’elasticità giovanili. I soldati li acclamano. Intanto con entusiasmo eguale e con eguale ardimento, si supera il rialzo di terreno che è dinanzi alla breccia, e si penetra nella villa Bonaparte. Nella nobile ambizione di penetrare i primi rivaleggiano il 12° bersaglieri e il 41° fanteria, il 55° fanteria comandato dal Borghese, romano, e una compagnia del 19°.

Gli zuavi oppongono qualche resistenza, ma dopo si arrendono.

A Porta Maggiore, quando il Ferrero spingeva le sue colonne all’attacco, venne inalberata bandiera bianca.

Un emigrato, che era partito da Firenze, aveva fatto tutte le tappe insieme col 4° Corpo, e da Sant’Agnese si era spinto fin sotto le mura, così mi descrive il passaggio della breccia:

«Ero mezzo matto; una specie di frenesia mi aveva invaso, e mentre l’artiglieria batteva Porta Salara e Porta Pia, mi spingevo dinanzi ai pezzi senza curarmi delle palle che fischiavano e provocando le vive rimostranze del capitano Grifoni, e degli altri ufficiali.

«Appena le colonne mossero all’attacco, senza rendermi conto del pericolo che mi minacciava, tanto più che non avevo armi, corsi in mezzo a loro. Sulla breccia mi trovai mescolato al 31° bersaglieri e vidi un ufficiale in terra bocconi, con le braccia stese. Gridai ai bersaglieri: «Questo è il vostro maggiore!» Essi non lo credevano. Mi chinai e lo rialzai. Era il povero maggior Pagliari, già morto per una palla che, entrandogli dal collo, gli era uscita sotto la [p. 14 modifica]scapola. Mi spinsi di nuovo avanti e tra noi era il colonnello Borghese col suo reggimento. Villa Bonaparte era in fiamme, il tetto sfondato, da un lato era crollato. Nella corsa avevo sopravanzato i miei compagni, che erano Napoleone Parboni, Raffaele Erculei ed altri. Da villa Bonaparte passai in quella Ludovisi ed entrai nel bel casino.

«Mi figuravo che ci fossero zuavi e a ginocchiate infransi le bellissime porte dorate. Vi era un vero arsenale di fucili, di revolvers, e io, sempre preso dalla frenesia, camminavo sopra alle armi per cercare gli zuavi. Ne trovai tre e li consegnai al capitano aiutante maggiore del colonnello Borghese. Insieme col reggimento entrai a Roma. Chi mi riconosceva, mi abbracciava, mi chiedeva armi. Giunsi in piazza Navona; in una osteria spalancata e abbandonata, trovai nel rientramento di un muro altri cinque zuavi, che indicai al solito capitano. Ero sfinito, sudicio, ma non potevo star fermo, e mi avviai al Corso. In piazza di Pietra incontrai nuovi zuavi malmenati dalla folla, e ne presi le difese, facendo vedere al popolo che era vile cosa inveire contro i prigionieri. ’enne un distaccamento del genio a salvarli. Intanto ero giunto al Corso e avevo veduto che dalle finestre di San Marcello tiravano sulla folla, e seppi, dalla gente che mi faceva festa, che erano i famosi zampitti. Ne avvertii il comandante del distaccamento, che circondò la casa e li fece prigionieri.

«Più tardi non volli unirmi a Luciani a cavallo, che andava teatralmente al Campidoglio con i dimostranti».

Un altro testimone oculare, l'onor. Arbib, mi racconta che entrò da Porta Pia, e seguì la via dopo detta Vittoria, e ora Venti Settembre. Era una via di campagna, selciata; da un lato vi era la villa Bonaparte, e dall’altra quella Torlonia, ove è ora l’ambasciata inglese. La strada era ingombra di cariaggi; non vi era popolo. Quando gli emigrati impazienti e i giornalisti giunsero in piazza del Quirinale, rimasero meravigliati del panorama che di lassù godevasi di Roma, e con nuova foga si precipitarono giù per la gradinata, ma la gente che era mossa loro incontro, li trattenne, dicendo che in fondo vi erano gli zampitti. Allora vi fu una sosta, fino al sopraggiungere di un battaglione di bersaglieri, comandato dal Rebaudi. Insieme con i soldati discesero e a passo di corsa sboccarono in piazza Colonna. Quando comparvero da ogni finestra sventolavano le bandiere italiane. A un tratto tutto il Corso ne era stato pavesato; le bandiere erano così folte, che formavano un vivace padiglione agitato dalla brezza autunnale. Roma dava il benvenuto all’esercito del Re; Roma si affermava italiana.

A piazza Colonna, quando giunse il general Bottacco in un legnetto, nonostante l’opposizione del suo aiutante di campo, fu sollevato sulle braccia dal popolo, baciato nelle mani, nel volto, negli abiti dalla folla giubilante.

I bersaglieri destavano un entusiasmo enorme. Sei battaglioni, sotto gli ordini del general Corte, bivaccavano a piazza Colonna, formando un quadrato nel quale erano rinchiusi 500 zuavi; un reggimento di linea custodiva il ponte Sant’Agelo e alle 3 il 59° di fanteria e un battaglione di bersaglieri andarono, seguiti dal popolo acclamante, al Campidoglio, e si impadronirono degli zampitti. I pompieri, saliti sulla torre, issarono la bandiera italiana e sonarono a stormo.

La lieta notizia della resa di Roma, era annnunziata alle 12 del mattino a tutta l’Italia col seguente telegramma:

«Forzata la Porta Pia e la breccia laterale aperti in quattro ore. Le colonne entrano con slancio, malgrado la vigorosa resistenza. Mancano le notizie delle divisioni Bixio e Angioletti».

Se il popolo di Roma esultava, non meno si abbandonava alla gioia quello del resto d’Italia. [p. 15 modifica]Era una frenesia, un’esultanza generale; il voto era sciolto: la patria nostra aveva la sua storica capitale.

Vediamo ora che cosa avveniva dentro Roma, mentre in più punti le mura erano battute dal cannone.

Una persona che abitava al Babbuino mi racconta:

«Nell’udire la mattina alle 5 1/2, rispondere gl’Italiani al fuoco dei Pontificii, tutti gli uomini scesero nella via mezzo vestiti, e le donne ed i bambini si fecero alle finestre, e fra loro era un vivo scambio di domande.

«Per via non passava nessuno, e per più ore un’ansia indescrivibile invase tutti. Nessuno si arrischiava fuori, nessuno recava notizie, e intanto il rumore solenne del cannone e quello incalzante della moschetteria, continuava.

«Verso mezzogiorno tutti eravamo ancora alle finestre, tutti aspettavamo, dimenticando di mangiare, quando si udirono le trombe dei bersaglieri in distanza. In un attimo tutte le finestre si addobbarono di bandiere; il nostro padron di casa, noto clericale, ne mise cinque al balcone e due alle altre finestre. Sperava che esse lo proteggessero dalle ire degli Italiani, che erano designati dalla voce vaticana come depredatori ed empii. Molte bandiere mise pure alla finestra la moglie di uno zuavo, il quale era a Porta Pia, e che inginocchiata pregava piangendo.

«I soldati sfilavano anneriti dal sole e dalla polvere, ma fieri, alteri, sentendosi applaudire freneticamente come liberatori, e il sorriso compariva loro sulle labbra. Quella calda, indescrivibile manifestazione, quell’accorrere di donne, che gittavano loro le braccia al collo, che si contentavano di toccarne gli abiti, facevano loro dimenticare le fatiche e i pericoli. E liberatori erano infatti e per noi, che ne desideravamo l’entrata, e per gli altri, che pure essendo neri nel fondo del cuore, avevano tremato, vedendo Roma in mano degli zampitti».

Un’altra persona, che abitava a metà di via Giulia, mi narra così gli eventi di quella memorabile mattinata: «Al rimbombo delle cannonate salii sulla terrazza di casa mia, dalla quale scorgevo il Gianicolo, e mi accorsi che Bixio, che era atteso, batteva da quel punto la città. Le bombe imboccavano per Monserrato producendo danni in diversi fabbricati, e capii che il Bixio doveva esser giunto e che quel giorno si faceva per davvero. Dopo poco, dal mio punto d’osservazione, mi accorsi che Bixio aveva modificato i tiri, perchè le bombe cadevano esplodendo nel Tevere, e sollevavano una massa d’acqua. A un tratto San Pietro inalberò bandiera bianca, e il cannone tacque.

«Sapevo che fra i primi sarebbe entrato il colonnello Borghese, mio amico, e volli andargli incontro. Nel passare in fretta per via delle Muratte sentì un fischio accanto a me; guardai. Erano tre zuavi, che inginocchiati all’angolo di piazza di Trevi, mi avevano preso di mira. Per non essere ucciso, dovetti rifugiarmi dal vaccaro Serafini. Le vie erano deserte; tutta la gente era rinchiusa in casa; i cardinali, i monsignori, le cariche della Corte Pontificia erano al Vaticano. Nell’imboccare il Corso da un’altra via, mi meravigliai di vedere una turba di popolo, che trascinava un vecchio cannone. Sul cannone stava a cavallo Cencio Melacotta, zoppo e bigliardiere, che dopo divenne sergente delle guardie degli scavi, ed è morto dì recente. Il Melacotta, capitanando quella turba popolare, aveva tolto quel cannone agli zuavi della Porta del Popolo, dove era stato messo per ispazzare il Corso, e lo portava in trionfo per Roma.

«Giunsi all’Angiolo Custode e giù per piazza Barberini vidi scendere il reggimento, cui andavo incontro, con il Borghese alla testa. Nel vedere i soldati italiani, nel vedere la bandiera, la commozione mi strinse, come in una morsa di ferro, la gola. Nascosi il capo fra le due colonne della [p. 16 modifica]porta di quella chiesa e piansi come un bambino per dieci minuti. Dopo seguii il reggimento de Borghese fino a piazza Navona, ove fece i fasci dei fucili e si accampò. Là fui testimone di scene commoventi. I popolani, che fraternizzavano con i nostri soldati, con vero entusiasmo, volevano ristorarli dalla fatiche e chiesero al colonnello il permesso di offrir loro prosciutto e vino. Il colonnello prima storse la bocca, ma poi non volendo recar dispiacere a quella brava gente, permise che fossero distribuiti cibi e bevande. E allora tutti facevano a gara a offrir quanto avevano ai nostri soldati, li baciavano, li facevano parlare, li acclamavano senza stancarsi di ripetere: «Almeno questi li capimo!»

«Dall’angolo del palazzo Braschi vidi comparire monsignor Santarelli, che era stato nunzio in Baviera, buon prete e buon Italiano; egli si avvicinava ai soldati timidamente, recitando una prece latina. Quando mi disse: «Vorrei vederli da vicino questi bravi figliuoli, specialmente i bersaglieri».

«Lo guidai dal lato della piazza dov’erano accampati i bersaglieri, ed essi gli fecero una calorosa accoglienza, che commosse il buon prete, tanto da farlo piangere. «Ora sono contento» disse, e si allontanò.

«Quel giorno vidi un altro prete far dimostrazione festosa ai nostri soldati. Era il padre Scarpizza, curato della Minerva e corrispondente dei Corriere delle Marche; egli scese in piazza con una enorme coccarda tricolore sullo scapolare nero».

Nino Carnevali, il noto autore del quadro «Il re a Napoli durante il colera del 1884», mi descrive così ciò che egli vide:

«Abitavo a piazza Venezia. Fino dalla notte era stato collocato davanti alll’imboccatura del Corso un cannone con la miccia accesa. In avamposti erano distribuiti alcuni carabinieri. Quando già tonava il canone e si udiva il fuoco continuo della moschetteria, passò a cavallo il fratello del colonnello Charette, diretto verso San Giovanni. Questo Charette aveva un baffo biondo e uno bianco ed era conosciutissimo a Roma. Passava pure correndo il Crostarosa, sergente delle guardie urbane, con la sua elegante uniforme scura e il cappello alla calabrese. Vedendo il de Charette, gli gridò: «Buona fortuna!» e continuò a correre.

«A un certo momento della mattinata si udì un gran vocio. Erano i popolani che si erano impossessati del cannone carico di Porta del Popolo, sul quale stava a cavalcioni il povero Melacotta e si avvicinavano a piazza Venezia. A quel vocio vedo ancora il carabiniere, che era in avamposto guardarsi intorno smarrito, sfilarsi il fucile, posarlo in terra e darsela a gambe. Da noi si udivano fischiare le fucilate che sparavano dall’Ara Coeli gli zampitti.

«Delle trasformazioni se ne videro in quel giorno: Ricci-Carbastro, battistrada del Papa, che aveva altri dieci nomi, fu visto con una piccola coccarda all’occhiello, e gli fu strappata».

Una signora che stava in casa Aiani, alla Longaretta, nella famosa casa ove fu uccisa Giuditta Tavani-Arquati, così racconta il 20 settembre:

«Dalla mattina cominciammo ad udire il rumore delle artiglierie lontane e di quelle più vicine del Bixio, che comandava la divisione di Porta San Pancrazio. Avevamo tutti una gran paura, benché le palle cadessero senza esplodere. Nella nostra casa ne cadde una in cucina, sfondando il tetto e mandando in frantumi tutti i vetri. Gli uomini erano fuori in cerca di notizie, e noi donne, spaventate, stabilimmo di rifugiarci in cantina. Scendevamo le scale quando incontrammo i nostri mariti e fratelli, che ci recarono le prime ed incerte notizie dell’attacco. Salimmo allora sulla terrazza e poco Bixio cessava il fuoco, mentre sulla cupola dì San Pietro veniva issata la bandiera bianca.

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Maccari dipinse Da una fotografia dei fratelli Alinari
IL PLEBISCITO DEL POPOLO DI ROMA
[p. 19 modifica]«La città si era resa, e noi precipitosamente corremmo in casa, prendemmo tre pezze di stoffa, una bianca, una rossa e una verde, che tenevamo nascoste, e subito non so proprio come, con le mani tremanti e gli occhi prugni di lagrime, ne facemmo tre bandiere italiane, che presto sventolarono sulla terrazza di casa Aiani. Queste bandiere erano tanto lunge che arrivavano al sottostante primo piano, e furono le prime bandiere italiane che sventolarono in Trastevere dopo il 49.

«Un signore, che da una terrazza vicina ci osservava, gridò: «Digraziati! che avete fatto? è una finta: gli Italiani non sono entrati! Disgraziati!» Le parole di costui ci ghiacciarono; impallidimmo e chissà che cosa sarebbe successo se un nostro amico, che veniva dall’altra riva del Tevere e che aveva udite le parole del nostro vicino, non ci avesse rassicurati.

«Intanto per le strade passavano gli zuavi sudici e malconci, gli antiboini pallidi e irati. A proposito di questi, uno che conduceva un carrettino, passando sotto le nostre finestre e vedendo le tre bandiere, cadde in ginocchio, e guardandole con rabbia, si morse un dito in atto minaccioso.

«I soldati italiani non occuparono Trastevere altro che la mattina dopo, ma noi eravamo andati già a vederli nelle piazze ov’erano accampati, e a dare ai nostri il benvenuto.

«Quando entrarono, la mattina dopo, che entusiasmo! Ura giornata come quella non la rivedremo più! Dopo tanti anni di continue trepidazioni, perché noi in Trastevere si viveva sempre con l’animo sollevato in attesa di sommosse e di atroci repressioni, come quella di cui si vedevano le tracce sanguinose sulle pareti della casa dove abitavo, ci sentivamo sicuri e sollevati. Che giornata! In essa rivedemmo anche i prigionieri politici, che erano stati liberati, e le scene di esultanza, di lagrime, di gioia non si possono descrivere; Tutti facevano a gara a rivestirli, a dar loro da mangiare; i racconti delle loro sofferenze erano interrotti da esclamazioni di orrore e da grida affermanti la liberazione di Roma, da evviva ai liberatori.»

Per ultimo ho riserbato una testimonianza di gran valore: quella del professor Giovanni Costa, il quale al suo nobile amore per l’arte ha sempre unito un affetto sviscerato per l’Italia.

Il Costa nel 1848 accorreva in Lombardia insieme con Nino Castellani (allora si chiamavano i due Nini), ora direttore, al posto del Montecchi, della Venezia-Murano, e insieme con Carlo Castellani, bibliotecario della Marciana. Fu a Cornuda e a Vicenza come caporale, dimostrando valore e ardimento, e appena Roma fu libera, corse qua e fu aggregato allo stato maggiore di Garibaldi, ove non solo combattè, ma seppe provvedere all’amministrazione della città e al vettovagliamento di essa.

Appena dichiarata la guerra all’Austria nel 1859, il Costa partiva di nuovo da Roma per recarsi in Lombardia, insieme col nipote Tito, con don Emanuele Ruspoli e col Valenziani, allora monsignor di mantellone, il quale fu ucciso il 20 settembre. Il Costa si arrolava in Aosta cavalleria, il Valenziani in un reggimento di linea, ma fin d’allora si giuravano di entrare insieme in Roma libera, e di essere i primi a recarsi al Campidoglio.

Si deve al Costa se il famoso Checcatelli di Ceciliano si converti alle idee di fusione al Piemonte e venne a Roma come capo del Comitato Nazionale Romano.

Dopo dieci anni nacque il sospetto che il Comitato non volesse far la rivoluzione e allora ebbe il Costa incombenza di appurare se questo sospetto era basato, e credendo riconoscerlo giusto, egli costituì, il Comitato d’Insurrezione, che si fece iniziatore della rivoluzione del 2 ottobre 1867, impadronendosi quasi di Roma. Si vuole che i piani della sommossa fossero dimenticati, da persona vogliosa di sventarla, sulla tavola dell’ambasciatore di Francia. Questo oblio, che i liberali ritengono [p. 20 modifica]volontario, fece sì che il resultato della sommossa dovesse limitarsi all’occupazione della Porta San Paolo.

Anche a Mentana il Costa apparteneva allo stato maggiore di Garibaldi e dopo che gli chassepots ebbero fatto merveilles, egli dovè rifugiarsi a Firenze, in attesa degli eventi.

Il Comitato d’Insurrezione era capitanato a Firenze da Cairoli, Montecchi e Anioni; a Roma da Giovanni Costa, dal nipote Tito e da Giulio Pasi, detto Monaldini. Per mostrare quanto fosse perseguitato dalla polizia, basta dire che nel 1867 il Comitato dovette cambiare 47 abitazioni. Lo aiutava l’attuale portinaio di quella casa in via Margutta, che porta il n. 35, ove hanno lo studio il Costa, il Carnevali, il Cammarano, Iacovacci e tanti altri artisti romani, e una certa Placidi popolana.

Ma ora che ho tracciato la vita del patriota-artista, nelle sue linee generali, lasciamo al Costa stesso la parola:

«Poco prima che incominciasse la campagna su Roma, il Ministro Sella mi disse che avrebbemi dato 300,000 lire e fucili per fare insorgere la popolazione romana, e armarla, affinchè fosse essa che spalancasse le porte agli Italiani. Io partii per gli Stati Pontificii e vi rimasi molto tempo, ma i denari nè le armi si videro; erano stati consegnati in altre mani, mani avide, che non ne fecero alcun uso utile.

«Il 20 settembre la mattina ero alla vigna di Monsignor Santucci sulla via Nomentana. In essa erano i bersaglieri. Le vigne erano cariche d’uva; i bravi soldati non ne toccarono un chicco. Passai alla villa Torlonia fuori delle mura, e lì con somma gioia m’incontrai col mio amico, il luogotenente Valenziani, che cercavo per esser fedele al mio giuramento. Le colonne di attacco si movevano già con il generale in testa e lo stato maggiore, come se andassero a una passeggiata militare. Stavo a fianco di Valenziani, risoluto a sciogliere il mio voto ed il suo. Passando accanto a una vigna, vedemmo alcuni zuavi, che, su una tavola di marmo, mangiavano tranquilli un bel popone maturo. Alla porta corremmo avanti a tutti per salire il terrapieno. Valenziani era accanto a me. Sotto la porta sentii un colpo secco e scricchiolante; mi volsi verso Valenziani; egli aveva avuto una palla nella fronte e cadde. Lo rialzai fra le braccia, lo portai a ridosso a un muricciolo, che era dentro la porta, e gli dissi: «Amico, muori in pace». La mia esortazione era inutile: Valenziani era morto per la sua Roma.

«Mi spinsi avanti a tutti. Erano con me Cesare della Bitta, il Francia, il conte Luigi Amadei, il De Rossi, il Luciani, che montava il cavallo di un ufficiale, e due altri di cui non rammento il nome.

«Passando accanto alla villa Torlonia, che era dentro la città, vidi una compagnia di zuavi con l’arme al piede. Più giù, sulla via di Porta Pia, incontrai le carrozze dei diplomatici, scortate dai dragoni che andavano dal Cadorna. Avevo in mano una pistola e alla minaccia di un dragone, gliela misi sotto il muso senza far partire il colpo. Per via, fino al Quirinale, raccogliemmo remington abbandonati e cartucce in quantità. La mia mèta era il Campidoglio; e dal Quirinale scesi a Foro Traiano per quindi ascendere il colle sacro. A Foro Traiano trovammo gli zuavi barricati e gli zampitti. Vi era una bottega fra le due chiese, che aveva un ingresso dalla parte di dietro. Vi entrammo, facemmo anche noi le barricate coi tavolini, e ci mettemmo a tirare sugli zuavi, che già avevano cominciato a tirare su di noi. La padrona della bottega era tutta sgomenta per le rappresaglie degli zuavi; le sue bimbe mi si attaccarono alle polpe piangendo. Due dei miei compagni furono feriti. Non potevamo resistere e ci ripiegammo sul Quirinale, ove sapevamo di trovare gli Italiani. Per via dissi a una donna che c’erano due feriti dei nostri, che li ricoverasse in qualche luogo e cercasse un medico. Essa tornò a dirmi che erano rifugiati in una casa e che il dottor Tassi li curava. [p. 21 modifica]Avevo fatto prigionieri due zuavi, i quali temendo l’ira popolare, si raccomandavano di esser posti in salvo. Li condussi a una casa alla Pedacchia, ma mi fu chiuso l’uscio in faccia.

«Salimmo al Campidoglio e mi impossessai degli uffici, e ordinai agli impiegati di rimanere il posto, perchè urgeva provvedere specialmente agli alloggi per gli ufficiali italiani. Mio nipote Tito mi fu in questo di molto aiuto, perchè conosceva tutte le case romane.

«Ero lassù intento al lavoro quando alle 9 1/2 di sera giunse una folla schiamazzante, che chiedeva con alte grida la liberazione dei prigionieri politici. Io non volevo contentarla, per non aprir le porte ai ladri e ai delinquenti. Che faccio allora? Invito gli ufficiali, che custodivano il Campidoglio a prendere in mano le faci, mi metto sulla gradinati dinanzi alla folla, e schiero quegli ufficiali dai lati. I gridi continuavano e io prendo la parola e dico: «Vedete questi bravi ufficiali! Essi, ossequenti all’ordine, hanno aspettato due mesi nella campagna, prima di entrare a Roma; i nostri prigionieri saranno lieti di aspettare una notte. Quegli eroi non devono essere liberati insieme con i ladri e gli assassini, con i quali stanno rinchiusi».

— «Ma noi li conosciamo e tu li conosci» mi gridava scherzando Alessandro Castellani dalla folla.

— «Sarebbe difficile fare la scelta» rispondevo io.

«Intanto il popolo si era calmato ed applaudiva alle mie parole.

«Rimasi tutta la notte solo in Campidoglio lavorando.

«Il decreto della liberazione dei prigionieri politici porta la mia sola firma».

Quella stessa sera una imponente dimostrazione percorreva le vie illuminate. Il Corso era gremito di gente. «Si! Si! Si!» era il grido che echeggiava per tutta la città, e quel Si che significava l’unione al regno d’Italia, era pronunziato da migliaia di voci, e si leggeva sui cappelli degli uomini e anche delle signore. Era un plebiscito popolare che preludeva a quello legale, un plebiscito spontaneo e di inestimabile valore. Il busto del Re era portato in processione, e in quella città senza governo, senza una guardia, non avveniva nessun disordine; e soltanto ad ora tardissima si cessavano gli evviva, si spengevano i lampioncini delle luminarie, e Roma, stanca di tanto entusiasmo, di tante grida, si abbandonava al sonno, mentre su di lei vegliavano dalle piazze, dai bivacchi, i soldati italiani.

Il giorno che tenne dietro alla presa, fu pure giorno di esultanza per il popolo di Roma, ma fu anche giorno di lavoro per la diplomazia, che affidava il mandato di trattare con i vincitori al Conte Arnim. Già la mattina presto il Ministro prussiano, in uniforme, era in piazza Colonna a piede e cercava l’abitazione del Generale Cadorna. Il Comandante in Capo era tuttavia a Villa Albani, non avendo ancora fatto il suo ingresso ufficiale in Roma, e fu diretto al generale Angelino. Il signor Arnim gli espose che il Papa era in gran timore del popolo, il quale minacciava di commettere rappresaglie, e lo pregava di occupare la città Leonina. Il general Cadorna fu informato di questa richiesta, ma rispose che non poteva accondiscenderai senza una lettera del Kanzler, perchè nella capitolazione appunto era esclusa dalla resa quella parte di Roma, che circonda il Vaticano. Ecco il documento ufficiale:


Comando del 4° corpo d’esercito


Capitolazione per la resa della Piazza di Roma, stipulata fra il Comandante Generale delle truppe di S. M. il Re d’Italia e il Comandante Generale delle truppe pontificie rispettivamente rappresentate dai sottoscritti.

Villa Albani, 20 settembre 1870.


I. La città di Roma, tranne la parte che è limitata al sud dai Bastioni S. Spirito e comprende il Monte Vaticano e Castel S. Angelo e costituisce la città Leonina, il suo armamento completo, bandiere, [p. 22 modifica]armi, magazzeni da polvere, tutti gli oggetti di spettanza governativa, saranno consegnati alle truppe di S. M. il Re d’Italia.

II. Tutta la guarnigione della piazza escirà cogli onori della guerra, con bandiera, in armi e bagaglio. Resi gli onori militari, deporranno le bandiere, le armi, ad eccezione degli ufficiali, i quali conserveranno la loro spada, cavalli e tutto ciò che loro appartiene. Esciranno prima le truppe straniere, e le altre in seguito, secondo il loro ordine di battaglia, colla sinistra in testa. L’uscita della guarnigione avrà luogo domattina alle 7.

III. Tutte le truppe straniere saranno sciolte e subito rimpatriate per cura del Governo italiano, mandandole fino da domani per ferrovia al confine del loro paese. Si lascia in facoltà del Governo di prendere o no in considerazione i diritti di pensione che potrebbero essere regolarmente stipulati col Governo pontificio.

IV. Le truppe indigene saranno costituite in deposito senz’armi, colle competenze che attualmente hanno, mentre è riserbato al Governo del Re di determinare sulla loro posizione futura.

V. Nella giornata di domani saranno inviate a Civitavecchia.

VI. Sarà nominata da ambe le parti una commissione composta di un ufficiale d’artiglieria, uno de! genie ed un funzionario d’intendenza per la consegna di cui all’articolo I.

Per la Piazza di Roma
Il capo di Stato Maggiore
F. Rivalta

Per l'esercito italiano:
Il capo di Stato Maggiore
 F. D. Primerano


Il Luogotenente Generale Comandante il 4. corpo d'esercito
R. Cadorna

Visto, notificato ed approvato;
Il generale Comandante le armi a Roma
Kanzler.


La mattina del 21 il generale Cadorna alla testa delle truppe scendeva da Porta Pia, e passando per le Quattro Fontane, Babbuino, Scrofa, San Luigi dei Francesi si recava a Porta San Pancrazio per rendere gli onori militari ai prigionieri prima della partenza. Erano con lui i generali Bixio, Masi, Corte, Chevilly, de Vecchi e Primerano. Una frazione della divisione Bixio era schierata lungo la strada che conduce a San Pancrazio. I generali si posero in un punto della via dove vi è un rientramento delle mura per assistere allo sfilamento. Sfilarono prima gli antiboini e si mostrarono i più indisciplinati; essi gridavano: «Vive Pie IX, au revoir!» Seguivano i cacciatori esteri e in vettura aperta giunsero Kanzler, Zappi e Calmi; poi venivano gli zuavi, comandati da! colonnello Charette. Questi era a cavallo e aveva l’aspetto baldanzoso di vincitore, portando eretta la bella testa bionda e il bel volto dai lunghi baffi. Egli e l’Alet abbassarono la sciabola quando furono dinanzi agli Italiani, e la tennero sempre ostentatamente abbassata. Gli zuavi però si condussero bene, alcuni erano baldanzosi, ma altri avvilitissimi. Venivano per ultimo le truppe indigene con otto cannoni e traini. Fra queste vi era il colonnello Azzanesi, che salutò gentilmente, e don Francesco Borghese, capitano dei dragoni, e il Boccanera. I gendarmi a piedi erano comandati dall’Elipi e dall’Evangelisti. Passata la porta San Pancrazio, deponevano le armi e consegnavano cannoni e cavalli. In quel punto si abbassava da Castel Sant’Angelo la bandiera papale. Tutti questi soldati, prima di partire, erano stati benedetti da Pio IX in piazza S. Pietro.

Mentre avveniva lo sfilamento, al general Cadorna si era avvicinato il signor Arnim, il quale a nome del corpo diplomatico, di cui era mandatario, chiedeva che nelle trattative della capitolazione, non ancora pubblicata, avessero ingerenza i rappresentanti delle nazioni estere, sotto pretesto che fra i soldati [p. 23 modifica]del Papa ve ne erano di ogni nazione. Questa domanda, cui il generalc non poteva aderire, perché implicava una intromissione delle potenze nella capitolazione di Roma, che avrebbe potuto avere incalcolabili conseguenze, turbò il generale per modo, che egli tutto intento a rispondere all’Arnim e a dimostrargli che l’ingerenza della diplomazia era inutile e dannosa, non udì i gridi degli antiboini e non vide il loro scorretto atteggiamento. Il Bixio, impetuoso e intollerante degli insulti, dimenticando che spettava al Comandante in capo di provvedere, invece di avvertirlo, vedendolo tutto assorto in colloquio con l’Arnim, ne usurpò il potere, e richiamò i prigionieri al rispetto, costringendoli a salutare. Il Cadorna a voce sommessa, frenò gl’impeti del comandante la 2’ divisione. Questo breve incidente, che dimostra come il Cadorna avesse ragione a non volere il Bixio a Roma, indispettì il Bixio, il quale chiedeva subito un congedo. Ma la cosa non fini qui e Petruccelli della Gattina prima e il Guerzoni poi, che era con la 2° divisione, vollero fare apparire il Cadorna poco curante dell’onore militare e ne nacque una polemica che si è svolta nell’Antologia e nel Fanfulla della Domenica. Appunto nell’anno 1880 il Cadorna scriveva in questo giornale:

«L’esercito nostro, per qualche sciagurato papalino non ebbe sfregio. Il redarguire del capo non ebbe luogo dopo la sconveniente iniziativa di un subordinato; ma il vero è che il tipo redarguì il generale pontificio che aveva alla sua sinistra, non appena seppe e vide irregolarità di contegno in taluni che gli sfilavano davanti, come redarguì il subordinato che si teneva alla sua destra, quando si fece lecito dì usurpare per un istante le sue attribuzioni. Redarguì, ma senza clamori, senza apparato teatrale, che reputò tanto meno opportuno in quella situazione.»

Il ponte di ferro dì San Giovanni dei Fiorentini, quello di Sant’Angelo erano guardati, e il Vaticano era difeso, ma ciò non poteva impedire che gli abitanti dei Borghi, ardenti patrioti non tumultuassero. Difatti in circa 2000 andarono sulla piazza San Pietro, e i gendarmi del Vaticano fecero fuoco sulla folla.

L’urgenza dell’occupazione si faceva sentire, e il Kanzler inviò al Cadorna la richiesta lettera. Allora il general Cavalchini, comandante la brigata Lombardia, andò a occupare i quartieri dietro il Vaticano. Il Cadorna dichiarò all’Antonelli che avrebbe ritirate le truppe a sua richiesta, e il Segretario di Stato di Sua Santità, scrisse al Comandante in Capo e confermò al general Cavalchìni che l’occupazione continuasse. Dunque se le nostre truppe sono nella città Leonina è perchè il Papa Pio IX lo ha voluto.

Del resto il general Cavalchini fu sempre cortesemente trattato dall’Antonellì e fra di loro non ci furono mai attriti.

Ma mentre Pio IX, costretto dalla necessità, invitava il Cadonra a occupare le adiacenze del Vaticano, violava subito la capitolazione, mandando gli svizzeri a guarnire il Quirinale e alcuni Cardinali di stanza alla Consulta, fra i quali il Mattei, elemosiniere apostolico. Queste contradizioni erano nel carattere del Papa, che mi studierò di tracciare a suo tempo. I prigionieri mercenari erano stati diretti su Civitavecchia per essere rimpatriati, essi erano 4500; gl’indigeni erano stati mandati ad Alessandria. 11 generale Zappi aveva chiesto, come molti ufficiali romani, il permesso al general Cadorna di recarsi in Isvizzera.

Il quartiere generale del 4° Corpo, dopo l’entrata ufficiale delle truppe a Roma, era stato posto in piazza Colonna, nel palazzo Piombino, ora demolito, e la sera del 21 il popolo una calorosa dimostrazione al general Cadorna al grido di: «Viva il nostro liberatore!» Il generale dovette affacciarsi più volte per ringraziare. Il Bixio aveva preso stanza al palazzo Corsini, il Cosenz all’ Hotel de Rome», sul Corso ov’è ora, il Masi, nominato comandante dì Roma, a Montecitorio, [p. 24 modifica]nel quartiere occupato prima da Monsignor Randi, pro-ministro di Polizia. Di li il Masi emanò subito due decreti, uno per il ritiro immediato delle armi, di cui il popolo si era impossessato, trovandole abbandonate dai Pontificii, un altro riguardante il corso delle monete italiane, le poste e i telegrafi.

Nello stesso tempo il generale Cadorna emanava il seguente proclama:

«Romani!

«La bontà del diritto e la virtù dell’esercito mi hanno in poche ore condotto tra voi, rivendicandovi in libertà. Ormai l’avvenire della Nazione è nelle vostre mani. Forte dei vostri liberi suffragi, l’Italia avrà la gloria di sciogliere finalmente quel gran problema che si dolorosamente affatica la moderna società!

«Grazie, Romani, a nome dell’esercito, delle liete accoglienze che ci faceste. L’ordine mirabilmente finora serbato, continuate a guardarlo, che senz’ordine non v’è libertà.

«Romani! La mattina del 20 settembre 1870 segna una delle date più memorabili nella storia. Roma anche una volta è tornata, e per sempre, ad essere la grande Capitale di una nazione!

«Viva il Re, Viva l’Italia!

«R. Cadorna».


Il Cadorna emanava pure un ordine del giorno di encomio ai suoi soldati e faceva affiggere quello del Re al Ministro della guerra, Ricotti, così concepito:

«Esprima ai generali Cadorna, Bixio, Cosenz, Angioletti, Ferrero e De la Roche, agli ufficiali tutti e alle truppe ai loro ordini la mia alta soddisfazione per l’esemplare contegno tenuto e per le novelle prove date, dì abnegazione, moderatezza e disciplina e per il valore dimostrato.

«Anche in questa congiuntura l’Esercito ha pienamente corrisposto alla mia fiducia ed a quella della Nazione.

«Vittorio Emmanuele» .


L’ordine, come diceva il Cadorna nel suo manifesto ai Romani, non era infatti stato turbato, benchè la città fosse senza amministrazione municipale e senza governo. Bastarono le esortazioni di un ufficiale a far desistere una turba di popolani dal penetrare alla Consulta, ove si custodivano i processi politici, come bastava ovunque la presenza dei soldati per impedire che fossero malmenati gli zuavi, che erano scoperti in qualche nascondiglio, gli zampitti e i caccialepri.

Il Montecchi, l’antico triumviro della Repubblica Romana, giunse a Roma il 21 e dal Costa fu condotto con vive pressioni dopo le 2 al Campidoglio. A lui fu presentata una lista di nomi per la Giunta, acclamata la sera prima in una riunione di popolo, lista che comprendeva don Onorato Gaetani, don Baldassare Odescalchi, il principe di Piombino, don Emanuele Ruspoli, Giovanni Costa, Augusto Silvestrelli, Felice Ferri, Mattia Montecchi, Guido Baccelli, Pietro De Angelis, Filippo Costa, il dottore Aleggiani, Vincenzo Rossi.

Il Montecchi nel suo opuscolo: La Giunta Romana ed il comizio popolare del 22 settembre, di cui mi servo, dice che è possibile che abbia dimenticato qualche altro nome. Mentre discutevano, entrarono il cav. David Silvagni e il fratello, ex-maggiore dell’esercito, i quali si offrirono di cooperare in tutto ciò che fosse necessario.

[p. 25 modifica]Il Montecchi, concorde col Costa e con altri, non voleva dare importanza politici a quella Giunta, che secondo essi avrebbe dovuto, per breve tempo, limitarsi a provvedere alle sole cose municipali, e a non far quistione di partito politico. Davano prova indubbia di quegli intendimenti ammettendo che i loro amici politici fossero rappresentati in grande minoranza. Il Silvagni era noto per la sua attinenza al vecchio Comitato Nazionale di Roma, ma ebbe dal Costa e dal Montecchi liete accoglienze. Essi gli esposero il loro modo di vedere e fu convenuto che la sera alle 7 si sarebbero riveduti al Campidoglio, ove personalmente sarebbero stati invitati i membri della Giunta e altri ragguardevoli cittadini. Il Montecchi aggiunge che intanto da lui, da Nino Costa e da Cencio Rossi si emanavano ordini; il Costa recisamente lo nega e assicura che gli ordini portavano il suo nome e quello del Rossi. In quel mentre sulle mura della citt;i si affiggevano liste di nomi per la Giunta, tutte dix’erse fra loro, e senza sapere da chi provenissero.

Il Montecchi andò dal general Masi a Montecitorio e vi trovò installato il cav. David Silvagni e nelle sale scorse Silvestrelli, Tittoni, Felice Ferri, il principe di Piombino e don Emanuele Ruspoli, intenti a formare una lista. Tutti ammisero essere indecoroso per Roma, che non provvedesse a costituire una amministrazione cittadina, e gli parve che tutti convenissero nella idea di non far quistione di partito, purchè la Giunta riuscisse accetta alla maggioranza del paese. Fu preso accordo con Silvestrelli e Tittoni di trovarsi la sera alle 9 al Campidoglio.

Il Montecchi dovette alle 4 di quello stesso giorno, intervenire a una adunanza al palazzo Bernini del «Circolo Popolare» che poi cambiò il nome in quello di «Circolo Romano»). La riunione era presieduta dal conte Luigi Amadei, il quale volle che il condannato dal governo papale prendesse il suo posto. L’adunanza aveva già stabilito che al Colosseo si tenesse un’assemblea popolare, dalla quale uscisse definitivamente la Giunta.

Il Montecchi confessa che l’annunzio del comizio fu accolto con timore dal general Masi, al quale egli dette l’assicurazione che si sarebbe sciolto ordinatamente.

La sera alle 7, all’adunanza in Campidoglio, mentre vi erano molti intervenuti, mancavano però quasi tutti i designati nella lista del 20. Fu detto essere indispensabile che la presidenza della Giunta fosse affidata a don Michelangiolo Gaetani, duca di Sermoneta, ma che egli si ricusava assolutamente di farne parte, se la Giunta fosse stata acclamata in un comizio, e si era pensato da quelli che convenivano nelle sale del general Masi, d’invitare il duca di Sennoneta a nominare la Giunta, e invitavano lui, Montecchi, a far accettare questa idea dai suoi amici, cioè dai repubblicani. L’ex-triumviro rispose che era impossibile. Questo dialogo avveniva fra il Righetti, morto da poco, il cav. David Silvagni, e il Montecchi, che fu pregato di non fame parola, quella sera fra i convenuti in Campidoglio fu provveduto a quistioni urgenti, fra cui alla provvista delle carni per il mercato del giorno seguente, che non si sarebbe potuto tenere, con danno della città, senza l’abnegazione di Felice Ferri. Un’onda di popolo si affollava in piazza del Campidoglio, chiedendo di veder la Giunta. Il Montecchi parlò assicurando che sarebbe stata eletta nel comizio del giorno seguente.

La mattina del 22, la commissione scelta dal Circolo Popolare andò in casa del Montecchi, e concordò la sua lista con quella già stabilita nelle sale del Masi. Si componeva di 42 nomi e il Masi, la mattina del 23, vedendola, non volle risolversi ad accettarla, e condusse il Montecchi dal Cadorna, che non vide. Il Masi gli disse: «Tutto adesso dipende dal duca di Sermoneta; s’egli accetta, tutto va bene».

Andarono allora VolpicelIi, Masi e Montecchi dal duca; quest’ultimo non lo vide, ma il Masi [p. 26 modifica]uscendo e mettendosi le mani nei capelli disse che certo qualcuno doveva averlo fatto cambiare d’opinione nella notte, perchè ora non voleva far parte della Giunta se la nomina non veniva da Firenze. Mentre parlavano così Masi e Montecchi, Volpicelli uscì correndo dal quartiere del duca ove li fece rientrare. Il Masi ribatteva calorosamente le difficoltà avanzate dal duca e per il comizio e per le persone di sentimenti repubblicani che erano nella lista. Montecchi dette tutte le spiegazioni e il duca arrendendosi disse: «A me già non fanno paura i repubblicani, come non mi ha mai fatto paura nessuno, nemmeno il Governo del Papa».

Il Montecchi lesse la lista dei 42 nomi, e il duca di Sermoneta l’accettò, purché vi si aggiungessero due nomi, cioè quello di Augusto Ruspoli e del conte Bosio di Santa Fiora.

All’una dunque, pochi istanti prima del comizio al Colosseo, fu approvata la lista dei nomi dal Cadorna, dal Masi e dal duca di Sermoneta.

Il comizio si adunò alle 3 e aveva per presidente il Montecchi, e per segretario il marchese del Gallo, già emigrato, il quale stava seduto sotto il pulpito tenendo fra le gambe un bandierone tutto nuovo. Il Montecchi parlò bene e raccomandò l’ordine ai seimila adunati.

Il popolo approvò la lista, e dopo il Carancini propose un indirizzo di ringraziamento al Re, ai ministri, all’armata e alla flotta, che fu votato.

Terminato il comizio, il Montecchi andò dal Masi, il quale era tutto convulso perché il Cadorna non voleva più riconoscere quanto erasi fatto, e voleva nominar da sé la Giunta.

La mattina seguente infatti si leggevano affissi alle mura di Roma i nomi dei componenti la Giunta del Cadorna, ed erano i seguenti:

Don Michelangelo Gaetani, duca di Sermoneta, presidente; principe Francesco Pallavicini, duca Slorza-Cesarini, Emanuele dei principi Ruspoli, principe Baldassare Odescalchi, Ignazio Buoncompagni, dei principi di Piombino, avv. Biagio Placidi, avv. Vincenzo Tancredi, Vincenzo Tittoni, Pietro De Angelis, Achille Gori-Mazzoleni, Felice Ferri, Augusto Castellani, Alessandro del Grande, Filippo Costa-Castrati, Avv. Raffaele Marchetti.

Quando Montecchi e Costa andarono al Campidoglio, lo trovarono occupato militarmente, e si negò loro di accedervi; essi protestarono per mezzo di notaro.

II 24 alle 2 e mezzo il general Cadorna insediava la Giunta Provvisoria. Alla funzione assisteva una gran folla di popolo soddisfatto di uscire alfine dalle incertezze e di sapere che Roma aveva un governo, ma subito appena liberata la città, gli attriti fra i partiti si acuivano e più che mai si scavava un abisso fra loro, poiché dalle faccende dell’amministrazione erano escluse tutte quelle persone, che professavano idee repubblicane, e avevano avuto attinenza con Mazzini e col partito d’azione.

Dopo che il general Cadorna ebbe insediata la Giunta Provvisoria, il presidente, duca di Sermoneta, ringraziò il Re e l’esercito a nome di Roma, di quella Roma - egli disse - «che non è della rivoluzione, né della servitù». La Giunta allora si alzò acclamando al Re.

Le parole del venerabile presidente non erano una frase rettorica. Il Cadorna avrebbe dovuto, prima d’entrare a Roma provvedere alla costituzione della Giunta, per risparmiare alla città le ansie di trovarsi senza governo, e il pericolo di esser governata, anche brevemente, dagli uomini della rivoluzione, dai superstiti della potente associazione mazziniana del 1850. È vero che molti di quegli uomini o si erano convertiti alle idee monarchiche, come il Checcatelli, o si erano fatti nell’esilio meno ardenti, come Filippo Costa-Castrati e il Montecchi. Uno di quei cospiratori del 1850, complicato in un clamoroso processo nel 1853, e condannato all’ergastolo, mi assicurava che è vero [p. 27 modifica]che dopo la presa di Roma per parte dei Francesi, vi erano qui 11,000 affigliati all’Associazione Italiana, fondata da Cesare Mazzoni, per ordine del Mazzini, ma che ciò non significa che tutti quegli affigliati fossero repubblicani in quel tempo, e che molti in seguito furono guadagnati alla causa nazionale dalla propaganda che faceva il Governo italiano. Esso mandava a Roma continuamente emissari, ma non era largo di sussidi; in tempi ordinari spediva 5000 lire il mese, che servivano a facilitare le fughe, a provvedere ai bisogni del comitato. Il Lanza, andando al governo, soppresse quel sussidio. Era stato appunto il partito Nazionale, che aveva purgato Roma dell’elemento sovversivo, inducendo a partire i repubblicani che più si agitavano.

Le adunanze dell’Associazione Italiana si tenevano specialmente al palazzo Costa al Corso, dove è ora il negozio Cagiati, nel quartiere occupato dalla madre della signora Francesca Castellani, vedova Costa. Vi era in quel quartiere uno stanzino buio, chiuso da un pesante armadio. Quel nascondiglio non fu mai scoperto dalla polizia nelle si perquisizioni che fece nel quartiere, e in esso si rifugiarono anche i due fratelli Carlo e Giovanni Castellani, che erano ricercati e poterono fuggire travestiti da artiglieri francesi, insieme con una batteria francese che rimpatriava. Essi furono imbarcati con gli altri soldati a Civitavecchia su una nave del governo francese, che li condusse a Tolone, da dove vennero subito espulsi e si rifugiarono a Londra.

Dunque l’elemento repubblicano non era numeroso a Roma nel 1870, ma in giorni di confusione e dopo la liberazione dei prigionieri politici, avrebbe potuto provocare incidenti spiacevoli e il Cadorna non seppe provvedere a tempo. Quando insediò la Giunta già il popolo, o una parte di esso, ne aveva nominata un’altra, e i membri di questa Giunta popolare, vedendosi negato dai bersaglieri l’accesso al Campidoglio, protestarono e fremerono.

Il primo atto della Giunta fu quello di votare l’erezione di un monumento ai Caduti del 1867 e del 1870, di ordinare che una lapide ricordasse i nomi dei patrioti morti in esilio, in carcere, o sul patibolo, e di decretare la coniazione di una medaglia da distribuirsi ai soldati liberatori, e un soccorso di 10,000 lire da erogarsi ai prigionieri liberati e alle famiglie dei morti. Due sottoscrizioni erano state iniziate a questo scopo dalla Gazzetta del Popolo, giornale fondato il 22 settembre dall’on. Edoardo Arbib, e che si stampava nella tipografia Santucci, e a quel giornale fu appunto inviato l’obolo della Giunta. Un’altra deliberazione di quel consesso di cittadini fu quella di ordinare che sulle derrate esposte in vendita, fosse collocato un cartello col prezzo. Quella deliberazione vige tuttora e meraviglia chi viene a Roma, perché quei cartelli non si vedono in altre città.

In quei primi giorni della liberazione, alla corrente di simpatia per i nostri soldati, di cui si vuole che anche il Papa e Antonelli cantassero le lodi, giudicandoli dalla brigata dei granatieri di Lombardia, che vegliava attorno al Vaticano, si univa un profondo compianto per i morti e per i feriti. Il trasporto al Campo Verano del Pagliari e del Valenziani, assunse carattere di dimostrazione, come l’accompagnamento del tenente Paoletti alla stazione, dove venne portato per esser sepolto a Firenze, sua patria. Nei caffè si facevano collette pubbliche per i feriti al grido di: «Viva il Re! Viva i liberatori!» e i signori del Club di via delle Convertite, chiedevano al Comandante in capo, come favore, di vegliare i feriti negli ospedali. Le signore stesse andavano a confortarli e ad assisterli. Quando i feriti furono trasportati dalle ambulanze agli ospedali, il popolo gettava fiori Era un nobile slancio di carità e una affermazione di fratellanza che Roma dava ai prodi, che l’avevano restituita alle libertà.

E Roma si assuefaceva all’obbedienza e alla giustizia. Il general Masi, da Montecitorio, dove aveva il suo ufficio, aveva ordinato la restituzione delle armi, e subito si era vista piazza Colonna [p. 28 modifica]ingombra di cavalli presi ai soldati pontificii, di remington, di daghe, di oggetti di vestiario. Si calcolava che mancassero poco più di 60 cavalli e ne furono riportati un centinaio. Le trasteverine, che si erano impossessate delle coperte nelle caserme abbandonate il 20 settembre, le restituivano; era una gara di onestà. Pareva che sotto il nuovo regime rinascessero nel popolo tutti i sentimenti di equità e di giustizia.

E in mezzo a questo rinascimento morale si preparava il Plebiscito. Da Firenze si desiderava che nella formula fosse espressa la salvaguardia del potere spirituale del Pontefice; e si era stabilita questa lunga tiritera:


« Colla certezza che il Governo Italiano assicurerà l’indipendenza spirituale del Papa, dichiariamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il Governo Monarchico-Costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi reali discendenti».


Questa formula, che i Romani non volevano, occasionò una gita a Firenze di due membri della Giunta, don Emanuele Ruspoli e Vincenzo Tittoni, e allora fu stabilito che la nuova formula sarebbe stata:


« Vogliamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il Governo del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi discendenti».


Su questa i Romani furono chiamati a votare il 2 ottobre.

Per questa rotazione sorgeva un’altra difficoltà. La città Leonina, nella capitolazione, era stata riconosciuta di spettanza del Papa, e in essa non si sarebbe potuto costituire il seggio per la votazione, nè raccogliere le schede.

Intanto, gli abitanti della città Leonina, patrioti sviscerati, volevano votare a ogni costo. Si adunarono protestando contro la loro esclusione dalle urne, e minacciarono tumulti in piazza S. Pietro. Il Cadorna fece occupare allora Castel Sant’Angelo, che era ancora custodito dai Pontificii, e si stabilì che gli abitanti della città Lconina avrebbero votato pure, ma che i voti sarebbero stati legalizzati da un notaro, invece che raccolti dai commissari come negli altri rioni.

E finalmente il giorno tanto desiderato del Plebiscito giunse.

Roma, in quella domenica 2 ottobre, era tutta in festa. Le seriche bandiere sventolavano su ogni casa, accanto a quelle più umili; ogni finestra era adorna di tappeti e d’arazzi, e la gente aveva il «Si» sul cappello, la coccarda all’occhiello e la gioia sul volto. Era il giorno in cui i Romani, potendo disporre della loro volontà, erano esultanti di darsi alla patria comune.

Ogni corporazione si era unita, per votare, attorno alla sua bandiera, e la precedeva una musica.

Nell’aula dell’Università si riunivano professori, letterati, studenti, giornalisti, medici, e perfino autori drammatici. I cultori di belle arti esumarono una bella bandiera, che tenevano nascosta fino dal 1860. Gli orafi, i vaccari e i commercianti sfoggiavano le più ricche. Vi era l’associazione degli addetti all’amministrazione dei tabacchi, degli emigrati romani, dei diversi Circoli, dei lanari, dei capi fabbrica, dei muratori, dei cappellari, dei cocchieri, dei vetturini, dei sarti, dei barbieri, del Circolo di Ponte e di Parione, e sulle bandiere di tutte queste associazioni era scritto «Libertà e Lavoro». In Trastevere i votanti erano accompagnati dalle donne, ovunque si vedevano vecchi infermi sorretti da giovani baldi, ovunque echeggiavano evviva e canti.

[p. 29 modifica]Tutti gli ufficiali e bassi ufficiali romani, che servivano nell’esercito italiano, vollero venire a Roma per il Plebiscito dalle più lontane città della penisola, e si adunarono la mattina del 2, prima di mezzogiorno, in piazza di Spagna. Fra di essi vi era il general Cerroti, comandante la piazza di Civitavecchia per il Re, i colonnelli Galletti, Croce e Gigli, il duca Sforza Cesarini e il fratello don Bosio di Santa Fiora, don Fabrizio Colonna, Augusto Sindici, allora aiutante del generale Ferrero, due Ruspoli, figli di don Augusto, e cento altri. Li precedeva una bandiera e da un lato di essa camminava il canuto cappellano dell’Accademia di San Luca con calze paonazze, e dall’altro un cappuccino di Palestrina, dotto cultore della sacra Teologia, e la sua bella faccia aristocratica, circondata dalla rozza cocolla, attirava tutti gli sguardi e provocava le acclamazioni. Questo giovane cappuccino, nella notte fra il 18 e il 19 settembre era fuggito dal convento. Il 20 aveva raggiunto i nostri avamposti, e quando incominciò l’attacco, assistè i primi feriti e rimase presso di loro alle ambulanze, cibandosi scarsamente del pan di munizione, finchè non li vide adagiati nei letti degli ospedali. Allora torno al convento, ma gliene furono chiuse le porte in faccia, ed egli ritorno a Roma, dove in quei giorni divenne popolarissimo.

Questi valorosi soldati, che avevano abbandonato Roma, non potendo spargere per lei il proprio sangue e lo avevano offerto all’Italia, camminavano alteri in mezzo al popolo plaudente, e per via Condotti e il Corso, ovunque acclamati, movevano verso il Campidoglio, che avevano lungamente sognato, nelle lotte e negli esilii, custode del palladio della libertà italiana. Essi non portavano sul colle sacro i trofei delle loro vittorie; vi andavano modestamente al seguito del popolo, quasi volessero significare che per il popolo di Roma avevano combattuto.

Sotto il palazzo Piombino fecero sosta e un potente evviva sgorgò dai loro petti. Essi non dimenticavano che uno dei più validi cooperatori dell’indipendenza di Roma era il generale Cadorna, che là alloggiava.

Un entusiasmo potente, indescrivibile, produsse per le vie di Roma la lunga processione degli abitanti della città Leonina. Essi erano preceduti da uno stendardo bianco su cui erano scritte queste semplici parole:

«Città Leonina: Si».

Era stata eretta un’urna in piazza Pia e alla presenza di un notaro vi erano state depositate le schede e poi si era suggellata. Essa recava 1546 si, senza un no, e i 1546 votanti accompagnarono l’urna, portata a braccia da un robusto popolano, con la lunga barba nera, fino al Campidoglio.

Dalle nove di mattina alle tre era stato tutto uno sfilare di associazioni, tutto un gridare, un abbracciarsi, mentre nell’aria echeggiavano a volta a volta la marcia reale, l’inno di Garibaldi o di Mameli. La città era gaia come in un giorno di festa, eppure da quella gaiezza traspariva la solennità del fatto che aveva compiuto. Alle tre, Roma era tornata alla calma, e veniva fatto di domandare dove mai si erano rifugiate quelle migliaia e migliaia di persone, come potevano essersi calmati quei gridi. Era il raccoglimento che succede alle grandi commozioni: Roma aveva veduto tutto il popolo festante per via, ma non conosceva ancora l’esito definitivo della votazione. Dopo tanti anni di attesa e di delusioni, il dubbio era giustificato.

Ma quel dubbio svanì non appena nella sera la campana del Campidoglio fece udire la sua voce solenne. Allora Roma si accese tutta di mille fiaccole, il popolo si riversò per le vie, salì al Campidoglio, ove era proclamata la votazione:


40785 Si e 46 No.


[p. 30 modifica]Si era calcolato che in Roma, tolte le donne e i bambini, vi fossero circa 45,000 votanti; così che gli astenuti furono relativamente scarsi.

Le provincie avevano dato un risultato splendido, perchè sul totale si ebbero:


133,681 Si e 1507 No.



Intanto che il popolo di Roma, col suo voto, decretava la caduta del potere temporale dei Papi, i signori, fedeli al Vaticano, correvano a consolare il Pontefice e a protestargli la loro devozione. Era un atto di dovere quello che compivano il principe Ruspoli, assistente del Sant’Uffizio, il principe Massimi, i marchesi Sacchetti, Serlupi e Vitelleschi e gli esenti della guardia mobile.

Il Papato è sempre stato il benefattore delle grandi famiglie romane, e sarebbe stato indecoroso che Pio IX, in un giorno di grande dolore, si fosse trovato isolato. È vero che egli non era portato a beneficare chi non era indigente, e che il cardinale Antonelli aveva intorno a sè troppe persone da favorire, per lasciare al Papa un largo campo nel quale spargere le sue protezioni, ma molte famiglie patrizie si sarebbero mostrate ingrate se non avessero affermato in un giorno di sventura il loro attaccamento al vinto dagli eventi.

Il Papa, si dice però che non fosse punto di cattivo umore, nonostante vedesse l’Austria e la Prussia restare inerti dinanzi a quella che egli chiamava una usurpazione, e le altre potenze non rispondere neppure alle sue circolari e alle sue proteste. Aveva avuta una lettera cortese, ma fredda, dall’imperatore Francesco Giuseppe e dal re Guglielmo, si era veduto abbandonato dalla Francia, e Roma lo aveva rinnegato. Eppure non rinunziava alle sue lepidezze, e quando gli fu annunziato a mezzogiorno, mentre si metteva a tavola, che i Romani parevano indemoniati, si vuole rispondesse:

«E allora intoniamo il Benedicite; mentre essi votano, noi riempiamoci».

Non posso asseverare la verità di queste parole, ma se furono attribuite al Papa, vuol dire almeno che era verosimile che egli le pronunziasse in un momento storico di tanta gravità per il Papato.

Il Cadorna non aveva voluto, fin dopo il Plebiscito, fare una dimostrazione armata, affinchè non si potesse dire che egli cercava di far pressione sui Romani; ma la mattina del 3 ottobre, riuniva ai prati della Farnesina tutte le truppe che guarnivano Roma, e le passava in rivista. Questo fatto, semplice in sè, attrasse una folla compatta nei grandi prati alle falde del Monte Mario. Le signore dai legni sventolavano i fazzoletti, il popolo applaudiva, specialmente i bersaglieri e gli artiglieri, i due corpi che in pochi giorni avevano conquistate tante simpatie, e si meravigliava che la Giunta, per quella festa militare avesse fatto spargere la rena gialla per le vie, come nei giorni in cui il Papa usciva in pompa magna.

La sera del 5 vi fu un’altra festa; ormai il giubilo non si calmava più. Ne dette motivo la rogazione dell’atto del plebiscito, fatto dai notari Camillo Vitti, Egidio Serafini, Francesco Guidi e Camillo Delfini in Campidoglio, alla presenza dei membri della Giunta Romana e dei deputati delle Giunte delle provincie. Dopo quell’atto, per il quale i notari rifiutarono il pagamento, dicendosi fieri di poter associare il loro nome al Plebiscito, i pompieri si schierarono sull’alto della gradinata del palazzo Senatorio e quindi si avanzarono la Giunta e i deputati. Innanzi a tutti mosse il duca di Sermoneta, e il venerando vecchio, la cui memoria rimarrà sempre attaccata al più grande atto della Roma moderna, comunicò il risultato delle votazioni delle provincie. Appena la sua voce tacque, la musica intono la marcia reale, e il campanone della Torre, messaggero di fauste novelle, suonò a distesa. Il popolo allora si mise ad applaudire e volle applaudendo, accompagnare il duca di Sermoneta fino al suo palazzo in via delle Botteghe Oscure.

[p. 31 modifica]La notte fra il sette e l’otto ottobre la deputazione del Plebiscito partiva per Firenze salutata alla stazione da centinaia di persone con fiaccole e bandiere. Quando il treno si metteva in moto ai gridi di «Viva il Re!» se ne univano altri esprimenti un vivo desiderio; il popolo diceva: «Vogliamo vedere il nostro Re» poichè ormai il voto dei liberi Romani era quello che Vittorio Emanuele venisse nella città, che a lui si era data con tanta unanimità di voleri. La deputazione del Plebiscito si componeva:

Per Roma. — Duca di Sermoneta, don Baldassarre Odescalchi, Duca Sforza-Cesarini, Vincenzo Tittoni, Augusto Castellani, avvocato Filippo Marchetti, don Emanuele Ruspoli, professore Maggiorani.

Per Civitavecchia. — Marchese Guglielmi, avvocato Lesen.

Per Frosinone. — Girolamo Monardini, signor Marcocci.

Per Velletri. — Conte Borgia, avvocato Novelli.

Per Viterbo. — Conte Manni, avvocato Vallerani.

Insieme con questi deputati partivano pure come rappresentanti di alcuni comitati del Plebiscito: il principe di Teano, Augusto Silvestrelli, l’avvocato Rossi, il conte Carlo Lovatelli, don Fabrizio Colonna, il marchese Calabrini, Samuele Alatri, Vincenzo Galletti, don Augusto Ruspoli e Paolo Peretti,

Il passaggio della deputazione romana ad ogni stazione, provocò dimostrazioni di simpatia. Firenze la ricevè con pompa ufficiale e con slancio di popolare entusiasmo; eppure Roma libera, Roma capitale era la sua materiale rovina. Ma in quel momento ogni interesse faceva dinanzi al fatto grandioso di vedere Roma riunita all’Italia. Era sindaco allora Ubaldino Peruzzi, e fra lui e il Sermoneta vi fu alla stazione scambio di nobili parole, e il vessillo giallo e rosso e lo stemma romano avevano il posto d’onere fra gli stendardi e le bandiere di cui Firenze si era ornata. Il duca di Sermoneta non vedeva quella festa di bandiere e di fiori, ma le parole del sindaco, quell’entusiasmo che scoppiava da mille bocche in gridi di gioia, lo fecero piangere mentre appoggiato al braccio del Peruzzi traversava la stazione, e chi ha veduto quelle lagrime scendere lente da quelle pupille morte, non dimenticherà più la commozione che produssero nella folla.

Una lunga fila di carrozze con le livree rosse del municipio fiorentino, traverso Firenze per condurre la deputazione sui Lungarni, all’Hôtel New-York, e per tutto il grido di «Viva Roma!» si mescolava a quello di «Viva l’Italia!» Era una vera e grande frenesia.

Un pranzo alle Cascine fu offerto quel giorno stesso dal municipio ai deputati Romani. Le cinque tavole portavano il nome di Roma, Velletri, Frosinone, Viterbo e Civitavecchia. Vi assistevano tutti i ministri, meno il Sella, i presidenti della Camera e del Senato, i sindaci di Torino, di Palermo, di Milano e di Bologna, giunti apposta per invitare la Deputazione a visitare le loro città. Il Peruzzi, con la bella e ornata parola fece un brindisi a Roma e al Re; il duca di Sermoneta rispose, e dopo parlarono quasi tutti i convitati, che erano 160, dimostrando un nobile proposito di concordia e di fratellanza.

Il popolo, che empiva il piazzale delle Cascine, accorgendosi che il banchetto era terminato, con gridi altissimi, con applausi fragorosi, domandava di poter vedere i Romani, di poter dir loro che li amava come fratelli preferiti. Don Emanuele Ruspoli, bello della persona, e dotato di forte voce, si affacciò ad una finestra e ottenuto dalla folla il silenzio, parlò ricordando i morti gloriosi e le lotte sostenute. Ogni parola di lui era salutata da applausi, che continuarono finchè il duca di Sermoneta non comparve.

[p. 32 modifica]La sera Firenze era tutta illuminata, tutta festante.

La mattina del 9 due maestri di cerimonie della casa del Re si recavano all’Hôtel New-York a prendere, con otto carrozze di gala, i deputati romani per condurli a Pitti. Sulle vie facevano ala soldati e guardie nazionali.

Vittorio Emanuele entrava nella sala delle Nicchie, trasformata in sala del trono, alle 11 precise, accompagnato da Umberto, principe di Piemonte, da Amedeo, duca d’Aosta, da Margherita, principessa di Piemonte, da Eugenio, principe di Savoia-Carignano, e secondo il suo uso, collocavasi a piè del trono. Il Re vestiva la divisa di generale di fanteria, e i principi si ponevano ai suoi lati. La principessa Margherita in mezzo alle sue dame: marchesa di Montereno, principessa Strozzi, marchesa Farinola e contessa degli Alessandri, era di una bellezza affascinante, tutta bianca nelle vesti, e sui capelli biondissimi, portava la corona d’oro, inviatale dalle dame romane. Nella sala si trovavano pure i Collari dell’Annunziata, i Ministri, tutte le alte cariche dello Stato. S. E. Bianchieri, che era allora presidente della Camera, il conte Casati, presidente del Senato, il sindaco e il municipio di Firenze, e i sindaci delle principali città d’Italia.

La deputazione, guidata dal duca di Sermoneta, fu introdotta dal primo aiutante di campo conte de Sonnaz e dai cerimonieri conte Panissera di Veglio e marchesi Della Stufa e Niccolini, che l’avevano ricevuta a piè dello scalone. Il vecchio duca si avanzò verso il trono, appoggiandosi al braccio del figlio, principe di Teano; gli altri deputati lo seguivano. Il duca presentò al Re l’atto del Plebiscito e pronunziò queste parole:


«Roma con le sue provincie, esultante di riconoscenza verso Vostra Maestà gloriosissima per averla liberata dalla oppressione straniera di armi mercenarie, col valore dell’Esercito Italiano, ha con generale Plebiscito acclamato per suo Re la Maestà Vostra e la sua Reale discendenza. Tale provvidenziale avvenimento, dopo si lunga ed amorosa aspettativa di tutti i popoli d’Italia, compie con questa novissima gioia la istorica corona che rifulge sul capo della Maestà Vostra».


Il Re commosso e con l’occhio fisso, come nei momenti in cui il suo cuore generoso traboccava dalla gioia, con voce alta, che copriva le cannonate della fortezza da Basso e i rintocchi della campana di Palazzo Vecchio, prese dalle mani del duca di Sermoneta la pergamena, e disse:


«Infine l’ardua impresa è compiuta e la patria è ricostituita. Il nome di Roma è il più grande che suoni sulle bocche degli uomini. Si ricongiunge oggi a quello d’Italia, il nonie più caro al mio cuore. Il Plebiscito, pronunciato con si meravigliosa concordia dal popolo romano, ed accolto con si festosa unanimità in tutte le parti del regno, riconsacra le basi del nostro patto nazionale, e mostra una volta di più, che se noi dobbiamo non poco alla fortuna, dobbiamo assai più all’evidente giustizia della nostra causa, al libero consentimento delle volontà ed al sincero scambio di fedeli promesse. Ecco le forze che hanno fatta l’Italia, e che, secondo le mie previsioni, l’hanno condotta a compimento: ora i popoli italiani sono veramente padroni dei loro destini. Raccogliendosi, dopo la dispersione di tanti secoli, nella città che fu metropoli del mondo, essi sapranno senza dubbio trarre dalle vestigie delle antiche grandezze, gli auspicii d’una nuova e propria grandezza, e circondare di riverenza la sede di quell’Impero spirituale, che pianto le sue pacifiche insegne anche là dove non erano giunte le aquile pagane. Io, come Re e come cattolico, nel proclamare l’unità d’Italia rimango fermo nel proposito d’assicurare la libertà della Chiesa e l’indipendenza Sovrana del Pontefice; e con questa dichiarazione solenne io accetto dalle vostre mani, signori, il Plebiscito di Roma, e lo presento agli Italiani, augurando ch’essi sappiano mostrarsi pari alle glorie dei nostri antichi, e degni delle presenti fortune».

[p. 33 modifica]

Carlo Ademollo dipinse
L'ECCIDIO DELLA CASA AIANI
[p. 35 modifica]Mentre il Re pronunziava questo alto discorso, che racchiudeva tutto il programma della Monarchia di Savoia rispetto al Papato, il popolo stipato sulla piazza Pitti, faceva udire lunghi ed insistenti applausi. Le acclamazioni si fecero così fragorose, che Vittorio Emanuele dovette più volte presentarsi al balcone col duca di Sermoneta a destra, e la fulgente principessa di Piemonte a sinistra. Non è facile dimenticare l’entusiasmo col quale ogni volta che si presentava era accolto il Re; le musiche sonavano la marcia reale, il cannone tuonava, la campana della Signoria empiva l’aria di lunghi rintocchi, il popolo esultava, pareva di essere tornati al 1848.

La deputazione romana e le autorità municipali da Pitti si recarono in piazza della Signoria per lo scoprimento della lapide posta sotto la loggia dell’Orcagna, in memoria dell’unione di Roma all’Italia.

La lapide vi è tutt’ora e vi rimarrà sempre. Quando fu scoperta, il duca di Sermoneta, commosso dalla solennità della cerimonia, proruppe nel grido di «Viva Firenze!» al quale gl’invitati, che erano sotto la loggia, e tutta la folla che gremiva la piazza, rispose col grido, che era da più giorni sulle labbra di tutti: «Viva Roma!»

La lapide dice:

MEMORIA AI POSTERI


CHE IL II OTTOBRE MDCCCLXX


I ROMANI


PER UNANIME VOTO


NEI PRIMI COMIZI DELLA LIBERTÀ


SOCIANDOSI AL REGNO D’ITALIA


NE COMPIRONO L’UNITÀ


Scoperta la lapide, la deputazione romana andava al cimitero di San Miniato a deporre una corona sulla tomba del tenente Paoletti, morto per Roma.

Il giorno stesso dell’accettazione del plebiscito per parte del Re, compariva nella Gazetta Ufficiale un decreto che riuniva le province romane al regno d’Italia e conservava la dignità, la inviolabilità e tutte le prerogative personali al Sommo Pontefice. Quel decreto aveva un 3° articolo così concepito:


«Con apposita legge verranno sancite le condizioni atte a garantire anche con franchigie territoriali l’indipendenza del Sommo Pontefice e il libero esercizio dell’autorità spirituale della Santa Sede».


Quelle «franchigie territoriali» e le parole «rispetto al Pontefice» pronunziate dal Re nel ricevere il Plebiscito, fecero una dolorosa impressione sui Romani, e attenuarono la letizia di quel giorno di festa. Essi credettero che quelle parole, pronunziate forse per calmare i cattolici stranieri, e quell’articolo, compreso nel decreto forse per chiudere la via alle proteste del Vaticano, mettessero in dubbio la loro indipendenza. Ma presto si calmarono.

Intanto il giorno 9 stesso il colonnello Galletti, aiutante di campo del Re, portava il Collare dell’Annunziata al duca di Sermoneta, e riferendosi alle parole del Sovrano, diceva nel presentarlo:


«Se col Plebiscito romano la corona d’Italia acquista la più preziosa sua gemma, il Re con questo atto di suprema distinzione è ben lieto di poter annoverare nella sua reale famiglia uno dei più illustri e benemeriti rappresentanti della Eterna Città».


[p. 36 modifica]Il primo a essere insignito del Collare dell’Annunziata in seguito alla liberazione di Roma, era stato il Lanza, presidente del Consiglio. Dopo la presentazione del plebiscito ebbe il gran Cordone della Corona d’Italia il conte Ponza di S. Martino, che, come abbiamo visto, aveva compiuta una delicata missione presso il Papa; don Emanuele Ruspoli, e i presidenti delle Giunte provinciali furono creati commendatori; tutti gli altri membri della deputazione romana ebbero le insegne di ufficiali dello stesso ordine.

Il Re promulgò pure un’amnistia per i reati di stampa e di carattere politico, una per la guardia nazionale, e creò il Lamarmora luogotenente generale per Roma e per le provincie romane. Al luogotenente erano aggiunti quattro consiglieri: il Gerra per l’interno, il Giacomelli per le finanze, il Brioschi per l’istruzione pubblica e il Bonacci per la grazia e giustizia. Il Bonacci non potè accettare e fu posto in sua vece l’avvocato Piacentini.

I decreti si succedevano ai decreti, e a volerli notare tutti, sarebbe impossibile, perchè gioverebbe riprodurre quasi tutti gli articoli del nostro codice, che venivano man mano applicati alle nuove provincie.

Al duca di Sermoneta, che se ne tornava in fretta a Roma, insieme con alcuni suoi compagni, intanto che gli altri proseguivano per Torino e Milano, guidati da don Emanuele Ruspoli, che non si stancava di pronunziare discorsi e di farsi ammirare per la bellezza della persona e per la facondia, occorse uno spiacevole incidente. Mentre il treno, che lo portava, usciva dalla stazione di Civitavecchia, fu tirato contro il compartimento in cui il duca si trovava, un colpo di pistola, che infranse i vetri, ma non lo colpì. Il duca di Sermoneta, con la sua aperta adesione al regno d’Italia, aveva destato le ire dei fanatici clericali. A Roma aveva fama, prima del 1870, di esser malcontento del governo e di dirlo, ma si credeva che ciò dipendesse piuttosto dalla sua indole sarcastica, che lo portava facilmente a criticare, piuttosto che da sentimenti liberali. Si diceva che egli non si occupasse d’altro che di studiare e di rimettere in assetto il patrimonio, lasciato dal duca di Caserta, suo padre, in cattivo stato, e al quale non aveva risparmiato neppure il biasimo, facendo murare sulla porta dell’archivio, a metà scala del palazzo, una lapide che lo designava appunto come poco economo. Era noto come dopo il 20 settembre si era fatto pregare per venire a Roma a prendere la presidenza della Giunta, e che era stato Rodolfo Volpicelli che ve lo aveva indotto, e si credeva che avrebbe conservato poco quel posto. Invece la sua condotta, i suoi discorsi, avevano meravigliato tutti i clericali, e non è improbabile che un fanatico abbia cercato di ucciderlo.

Nel tempo appunto in cui il duca di Sermoneta era a Firenze, si narrava e si stampava a Roma che prima di partire avesse visitato il cardinale Antonelli per partecipargli la sua missione e domandargli se non poteva sperare di portare, insieme col Plebiscito, una proposta di conciliazione fra il Papato e l’Italia.

Il cardinale, offeso, gli avrebbe risposto che il Papa, il Collegio dei cardinali e il patriziato romano erano scandalizzati che un duca Caetani avesse accettato di presiedere alla sacrilega votazione; al che il duca avrebbe replicato, che si gloriava dell’incarico conferitogli, dell’alta missione che andava a compiere, e che gioiva di poter essere ancora utile al suo paese.

La mattina del di 11 ottobre il cannone annunziò ai romani l’arrivo del luogotenente generale del Re. Il Lamarmora aveva fama di essere un vero piemontese e un vero soldato, e la sua venuta sgomentò alcuni, ma il popolo non vedeva in lui altro che il rappresentante di Vittorio Emanuele, di quel Re, che bramava tanto di accogliere, e lo festeggiò calorosamente al suo uscir [p. 37 modifica]dalla stazione, e tutto il giorno si affollò sulla piazza di Monte Cavallo, per vederlo uscir dalla Consulta, ov’era alloggiato.

Uno dei primi atti importanti del Lamarmora fu la creazione della Giunta municipale provvisoria, che aveva incarico di formare le liste elettorali. Ne facevano parte il principe Pallavicini, Pietro de Angelis, don Augusto Ruspoli, il principe Del Drago, il conte Guido di Carpegna e l’avvocato Lunati. Il Lunati era stato consigliere amato e stimato di Pellegrino Rossi nel 1848; il principe Del Drago s’era sempre mantenuto lontano dalla politica ed era noto soltanto per essere poco splendido, il Carpegna aveva fama di timido, ma intelligente. La Giunta municipale dunque era composta di buoni elementi, e il Lamarmora non fu criticato per la sua scelta.

Il 16, cessata omai la missione che lo aveva condotto a Roma, il general Cadorna partiva per Firenze; la sua partenza dette occasione ai Romani di dimostrargli la loro gratitudine. Non solo i generali, che erano sotto i suoi ordini, lo accompagnarono alla stazione, ma anche il duca di Sermoneta e molti membri della Giunta da lui creata, i quali gli offrirono l’attestato più ambito da chi avera condotto a Roma gl’Italiani: il diploma di cittadino Romano.

Mentre tutti gli avvenimenti che ho riassunto si svolgevano a Roma, la città riprendeva la sua gaia vita consueta e a questa si soprapponeva un’altra vita febbrile, imposta dalle nuove condizioni di Roma.

Ho detto che Roma si divertiva, anche nei primi giorni dopo il cambiamento di governo, ed è vero. Le ottobrali carrettellate di minenti, sonanti il crotolo dei misteri bacchici furono in quell’anno numerose, come al solito e forse anche più, perché vi partecipavano i soldati e gli emigrati; alla canzone oscena si sostituì quella patriottica e non si videro mai le vigne e le osterie fuori delle porte così popolate come allora, nè così gaie.

La borghesia si divertiva a passeggiare sul Corso e al Pincio e a riunirsi sulle piazze dove suonavano le bande militari. In piazza San Lorenzo in Lucina, e in piazza del Collegio Romano, le trombe dei bersaglieri richiamavano sempre una gran folla.

L’Iacovacci, l’intelligente e intraprendente impresario dell’«Argentina» aveva innestato nel ballo del Pratesi, Bianca di Nevers, il Galop del Flik-Flok, nel quale le ballerine, ad uno squillo di tromba, compariscono vestite da bersaglieri. Non si può dire quanta gente accorresse all’«Argentina» per quel semplice fatto. Quando le quadriglie guidate dalla Trevisan, la prima ballerina bella e bionda, entravano in iscena al passo di corsa, duemila fazzoletti erano agitati dalla platea, dai palchi e anche dalla barcaccia degli eleganti stagionati, che a Roma chiamavano il Bagno di S11sanna. E ogni sera echeggiavano grida patriottiche, che non finivano più, e ogni sera la gente guardava attentamente nei palchi per vedere se vi fosse qualche altra dama del patriziato e della borghesia, che avesse aderito al nuovo ordine di cose.

Le signore, che fin da principio si erano dichiarato per la causa italiana, sia facendosi iniziatrici del Concerto per i feriti alla Sala Dante, sia frequentando l’«Argentina» assistendo i feriti, ospitando ufficiali, partecipando al dono che si preparava per Margherita di Savoia, o ricamando la bandiera per la corazzata «Roma», erano donna Carolina principessa Pallavicini, donna Elisabetta dei principi Ruspoli, la bella contessa Macchi di Cellere, la principessa Falconieri, la principessa di Venosa, la duchessa di Fiano, la contessa di Santa Fiora, la marchesa Antaldi, la contessa Lovatti-Brenda, la marchesa Calabrini, la principessa di Teano, la duchessa Sforza-Cesarini, la marchesa Gavotti, la signora Marignoli, domna Francesca Kissleff-Ruspoli, la bella duchessa di Rignano-Doria, la signora Seraggi, la signora Fabiani, la signora Castellani e molte altre.

[p. 38 modifica]Ogni diserzione di una dama dal campo clericale, era un avvenimento di cui si discuteva in città.

Ho parlato della nuova vita che andava svolgendosi a Roma, e debbo dire che essa naturalmente si estrinsecava in progetti di miglioramenti edilizi, di creazione d’industrie per rispondere ai bisogni della nuova capitale, perché tutti avevano fede che presto vi sarebbe stata trasportata da Firenze, e occorreva provvedere. Ma accanto alle persone serie e oneste, giungevano a Roma molti affaristi, di poca coscienza e questo fu un gran male, perché in quei primi momenti di entusiasmo, e quasi di sbarlordimento, essi trovarono facili ascoltatori, gente pronta a coadiuvarli, che poi rimase delusa e canzonata. E questo ha contribuito a creare nell’animo dei Romani quella diffidenza che essi nutrono per il resto degli Italiani, che chiamano forestieri, e a mantenere una specie di barriera fra l’elemento romano e quello venuto da altri paesi d’Italia.

Se la vita si svolgeva in ogni classe di cittadini, la stampa cresceva in modo spaventoso. I giornali sorgevano come funghi. Il 22 settembre era nata la Gazzetta del Popolo, diretta da Eduardo Arbib, e che ebbe subito le simpatie del pubblico. Vi scriveva in principio anche il De Amicis; anzi proprio nel primo numero vi è un articolo di lui sui soldati italiani, che è ancora una bella pagina di calda prosa patriottica. Quasi contemporaneamente il Sonzogno, con la redazione del Gazzettino Rosa, compreso il Luciani, fondava la Capitale, diretta dal Giovagnoli, che provocava spesso le ire del Cadorna. Poi sorsero la Gazzetta Ufficiale di Roma, la Libertà, fondata dall’Oblieght e che aveva la direzione in piazza dei Crociferi, il Tempo, il Tribuno, il Miglioramento, il Trionfo, il Colosseo, l’Aquila Romana, il Romano, la Nuova Roma, la Roma libera, l’Eco del Tevere e forse altri di cui dimentico il nome. Di umoristici vi erano il Pipistrello, il Don Pirlone, il Pasquino, da non confondersi con quello Torinese, il Capitan Fracassa e il Mefistofile; di clericali l’Imparziale e poi la Stella.

L’Osservatore Romano era stato soppresso prima del 20 settembre dalla censura per due articoli dell’Amati sulla esposizione di Terni, in cui erano bistrattati i frati dei quadri ivi esposti, ed erano messe in ridicolo le Sante Genovieffe di gusto francese. Il Papa si era arrabbiato molto, perchè dicesi avesse ad ascoltare le rimostranze dell’ambasciatore francese, e fece togliere il permesso della pubblicazione al fedele marchese di Baviera. Dopo l’Osservatore ricomparve, e vive tuttora, serbando gli stessi principii.

Prima del 20 settembre la Nazione di Firenze era il giornale forse meglio informato delle cose di Roma. Vi scrivevano corrispondenze il prof. Domenico Gnoli, il Piperno e l’Amati. Il padre Scarpazza, curato della Minerva, faceva corrispondenze per il Corriere delle Marche; gli altri giornali d’Italia non so se avessero corrispondenti fissi.

Dopo il 20 settembre il giornale più diffusamente informato sulle cose romane, era il giovane Fanfulla, che andava a ruba a Roma. Ugo Pesci vi scriveva quasi ogni giorno una lunga e brillante corrispondenza così piena di notizie, che erano lette anche a Roma avidamente, perché non si trovavano neppure nei giornali della città.

Verso il 20 novembre la Gazzetta del Popolo si fondeva con la Libertà, della quale, ingrandita di formato e molto migliorata, prendeva la direzione Edoardo Arbib.

Poco dopo l’arrivo del Lamarmora, giungeva a Roma Giuseppe Mazzini, liberato da Gaeta e diretto, si diceva, a Livorno. Lo accompagnava la signora Emilia Venturi, e si fermò una notte all’«albergo Costanzi» senza poter ricevere nessuna visita. Il Governo non temeva più tanto la sua agitazione, ma non lo perdeva d’occhio.

Il primo ministro che venisse a Roma fu il Sella, e vi giunse preceduto dalla sua relazione al [p. 39 modifica]Re, nella quale affermava che Roma era chiamata all’alto destino di capitale definitiva del Regno. Questo bastò a suscitargli dimostrazioni affettuose. Egli abitava al palazzo di Firenze e una dimostrazione calorosissima, promossa dal «Circolo Romano» e guidata dal Pianciani, dal dott. Antonelli, da Giulio Aiani e dall’avv. Bussolini, andò a complimentarlo e ad esprimergli i voti di Roma. Sella non era in casa, e il Pianciani si fece al terrazzo e arringò la folla. La sera prima molti signori di Roma e molti membri della antica Giunta provvisoria, gli offrivano un banchetto da Spillmann, in Via Condotti, al quale assisteva pure il general Lamarmora.

La partenza del Sella si cambiò in una vera festa popolare; alla stazione erano migliaia di persone acclamanti a lui, a Roma capitale. Alla partenza del treno tutti gridavano: «Vogliamo il nostro Re!» e lo stesso grido si ripeteva la sera del 20 ottobre all’«Argentina» durante il ballo. I palchi si ornarono di bandiere, catene formate di nastri a tre colori si gettavano tra palco e palco in segno d’unione, si esponeva un busto del Re in mezzo ai fiori, si gettavano cartellini, s’illuminava un trasparente con la scritta: «Viva il 20 settembre», e la dimostrazione continuava per mezz’ora sempre caldissima, sempre affettuosa. Roma voleva ad ogni costo Vittorio Emanuele fra le sue mura, e voleva che alloggiasse al Quirinale, che, non essendo stato compreso nella capitolazione, spettava allo Stato per diritto. Ma intanto esso era occupato dal cardinal Berardi, proministro delle Belle Arti e del Commercio, e da alcuni svizzeri.

Una sera anzi, alle 9, il Cardinale tornava a palazzo in carrozza chiusa e trovò il portone chiuso. Il servo scende e domanda alla guardia il permesso di fare entrare il legno; la guardia ricusa, comunicando l’ordine di non far entrare nel palazzo legni chiusi, nè persone ignote. Il servo riferisce, e il Cardinale grida: «Dite che è il cardinal Berardi.» A quell’annunzio la guardia chiama il picchetto della Consulta, e fa render gli onori al porporato. Il Berardi dunque fu il primo cardinale al quale fossero presentate le armi, come stabiliva un decreto del Masi.

L’elemosiniere apostolico, cardinal Mattei, fu il primo membro del Sacro Collegio, che morisse a Roma, dopo l’occupazione. Egli spirò alla Consulta il 6 ottobre, e il suo corpo fu trasferito al Vaticano. Era salito ai sommi onori per mero caso. Nel 1814 quando il cardinal Consalvi venne a Roma, si diede a ricercare i preti che non si fossero sottomessi al «Sacrilego», come chiamava Napoleone I. Trovò il Mattei di Pergola, nelle Marche, che abitava alle Tre Cannelle e lo fece canonico, poi chierico di camera. Leone XII, indebitato, lo creò tesoriere, Gregorio XIV lo nominò segretario per gli Affari interni, e Pio IX elemosiniere apostolico. Era così ignorante che rispondendo a un francese il quale parlavagli degli economisti, gli disse credendo si trattasse degli enciclopedisti: «Non sapete che sono tutti scomunicati!»

Ma la questione del Quirinale fu lunga e la risolse militarmente il Lamarmora, dopo aver esperimentato l’inutilità dei mezzi conciliativi. Il giorno 8 novembre egli comunicava al Segretario di Stato Antonelli che doveva occupare il palazzo, e ne chiedeva le chiavi. Non giunse alcuna risposta, e allora il 9 a mezzogiorno si presentarono dinanzi al portone il cav. Berti, questore di Roma, il cav. Emanueli, commissario per il Demanio italiano, il signor Pietro De Angelis, rappresentante della Giunta municipale, l’ingegnere Comotto, l’ingegnere Riggi, l’architetto De Santis, i notari Tiratelli e Franchi, accompagnati dai loro giovani di studio, e dal fabbro-ferraio Giuseppe Capanna. Il portone era aperto e vi stava in sentinella un bersagliere. Salite le scale, trovarono sigillata la porta principale, che mette nel salone degli Svizzeri. I notari tolsero i suggelli, e il Capanna apri, alla presenza anche del marchese di Quesada di San Saturnino, ufficiale dei bersaglieri, comandante la compagnia di guardia alla vicina Consulta. Fu steso dai notai un minuto processo [p. 40 modifica]verbale di tutti gli oggetti ivi rinvenuti, e quelli di pertinenza personale del Pontefice e della sua corte vennero rimandati al Vaticano.

Così la questione della residenza reale era risolta, ma quante non ne rimanevano ancora insolute! Gli ex-impiegati pontificii, astretti dal nuovo regolamento a rimanere 7 ore al giorno in ufficio, protestavano e si agitavano, specialmente perché dovevano prestar servizio la domenica; i gesuiti volevano riaprir le scuole al Collegio Romano, e i cittadini non volevano, e ne chiedevano anzi l’espulsione; così che il Luogotenente del Re e i suoi consiglieri, specialmente il Brioschi, non avevano poco da lavorare e da lottare, e gl’inviati del Governo per istudiare i locali da destinarsi a sede dei ministeri e degli altri uffici, lavoravano incessantemente per conciliare le esigenze dei ministri, con le condizioni degli edifici della città. Qualcosa si faceva, ma lentamente. Intanto nell’ottobre si era fusa con quella italiana la Regia Cointeressata dei Tabacchi Pontificii, che il marchese Ferraioli aveva in appalto, si sopprimera la Controlleria delle Dogane Pontificie, esercitata da una società privata, s’introduceva il servizio dei vaglia e si applicava alle nuove provincie la legge sulla stampa.

Questo faceva il Governo. Il popolo si preparava alle elezioni municipali e sfogavasi in dimostrazioni. L’anniversario della morte di Enrico Cairoli, e di altri generosi, che ricorreva il 22 ottobre, richiamò a Villa Glori, più di 10,000 persone. La madre e Benedetto Cairoli, non poterono assistervi. Da porta del Popolo mossero i 10,000 dimostranti, preceduti da bandiere abbrunate, e sui Parioli ne trovarono altri 2000.

Parlò, ascoltato con religioso silenzio, il senatore Conforti, Procuratore generale alla Cassazione di Firenze. Dopo letto il telegramma di Benedetto Cairoli, tutte le bandiere si raccolsero intorno all’ulivo sotto il quale era caduto il giovine eroe, lo ornarono di ghirlande e di fiori, e vi appesero lo stendardo della «Società dei Reduci», che fu decretato dovesse mandarsi in dono alla madre di Enrico.

Di lì a tre giorni nuova commemorazione alla casa Aiani al n. 97 in via della Lungaretta, ove tre anni prima gli zuavi avevano dato l’assalto al lanificio, sorprendendovi quaranta persone intente a lavorar le cartucce. I quaranta cittadini si difesero. S’impegnò un fuoco tremendo fra assaliti e assalitori. Questi chiesero rinforzi e il loro numero giunse a 600. In quell’assalto morivano, insieme col marito e col figlio di dodici anni, la Giuditta Tavani-Arquati, Paolo Giovacchini con i due figli Giuseppe e Giovanni, Cesare Bettarelli, Angelo Marinelli, Giovanni Rizzo, Augusto Domenicali, Enrico Ferroli, Rodolfo Demaggio e Francesco Mauri. Giulio Aiani, ferito, e Pietro Luzi furono arrestati, e dovettero alla indignazione prodotta in Italia e in Europa dal supplizio di Monti e Tognetti, se la loro condanna a morte fu commutata in quella della galera a vita. Il delatore, certo Luigi Rossi, sbirro, si nascose alla Magliana. Scoperto, fu trucidato nel bosco e il suo cadavere fu ritrovato dal cane di lui. L’uccisore, che era un trasteverino, noto a tutti, non fu arrestato.

Tutto il Trastevere partecipò alla terza commemorazione dell’eccidio, tutta Roma volle visitare quella casa, che fu la tomba dei martiri. Sulla porta vi era il busto di Giuditta Tavani-Arquati, e intorno bandiere, fiori e iscrizioni ricordanti i nomi dei morti. La gente entrava commossa in quella casa abitata in quel tempo dalla famiglia Salustri, ove i soffitti erano ancora crivellati dalle palle, ove sulle mura erano appiccicati brandelli di carne e si vedevano impronte di mani insaguinate, e ne usciva con le lacrime agli occhi. Ma le pie commemorazioni non erano terminate. C’era Mentana, che ricorreva il 3 novembre, e di questa commemorazione prese l’iniziativa la «Società dei Reduci». Vi andarono da Roma circa [p. 41 modifica]5000 persone, guidate dal generale Fabrizi, che era stato capo di Stato Maggiore dell’esercito di Garibaldi nel 1867. Egli aveva seco il Generale Lante di Montefeltro, il capitano Petrocchi, il colonnello Galvagno, il colonnello Gigli, il capitano Longhi. Mentana era parata a lutto, e la lunga processione entrò in paese passando sotto un arco funebre, e fece sosta sulla fossa che racchiudeva gli avanzi di Fabio Giovagnoli. Qua e là nel campo, ove si sapeva erano caduti i volontari, sorgevano tumuli provvisorii, sui quali i viandanti deponevano fiori e corone.

Alla vigna Santucci, al Conventino, sulla Chiesa della Pietà e in altri luoghi erano notati i nomi dei caduti. Fu visitata la colonna eretta in memoria dei volontari italiani, in sostituzione di quella inalzata prima per i soldati pontificii, e fu spedito a Garibaldi un telegramma.

La commemorazione ebbe uno spiccato carattere repubblicano. Il Fabrizi biasimò la inettezza del Comitato Nazionale di Roma nel 1867, e il generale Lante biasimò la condotta poco liberale del Governo italiano. Tornando a Roma la dimostrazione si sciolse al grido di: «Viva Garibaldi!»

Accanto ai nomi del Pagliari, del Valenziani, del Paoletti, morti comandando i soldati il 20 settembre, la storia registrava anche quello di Andrea Ripa di Saleduccia, presso Rimini, capitano del 12° bersaglieri, morto a Santo Spirito il 29 ottobre in seguito alle ferite riportate nell’attacco. Dall’ospedale mosse una interminabile processione con bandiere. La cassa era seguita da tre bersaglieri del 12° e dall’ordinanza dell’estinto. Questi quattro pietosi dal 20 settembre non si erano staccati un momento dal letto del loro capitano, e piangevano accompagnandolo al cimitero. Dietro il ferito sventolava la ricchissima bandiera del «Club di S. Carlo», portata da don Marcantonio Colonna. Un lungo stuolo di compagni dell’estinto, guidati dal maggior generale Cavalchini, portava una corona civica donata dalle signore romane; il popolo gittava fiori sulla bara. A San Lorenzo un prete benedì il cadavere e rifiutò ogni propina, dicendo che sarebbe stato onorato se fosse perseguitato per aver compiuto quel pio atto.

I partiti politici si cominciavano a delineare. Esclusi volontariamente i clericali dalla nuova lizza per le elezioni amministrative e politiche, che erano indette le prime per il 13 novembre, le seconde per il 20, restavano di fronte i seguaci dell’antico partito nazionale e i repubblicani. La lotta fu violenta, ma tanto nelle elezioni amministrative, quanto in quelle politiche trionfò la lista moderata. Di fatto nel 1° collegio fu eletto Vincenzo Tittoni, contro Biagio Placidi; nel 2° il generale Cerroti, contro Pianciani, nel 3° Raffaele Marchetti, contro Augusto Calandrelli; nel 4° don Emanuele Ruspoli, contro Mattia Montecchi; nel 5° il duca di Sermoneta contro il conte Luigi Amadei, spiccato repubblicano e proprietario e direttore dell’Eco del Bisenzio, che pubblicava a Prato, ov’egli risiedeva. Il duca di Sermoneta era stato eletto anche a Velletri, e il Cerroti a Civitavecchia, ove era comandante la piazza; Emanuele Ruspoli anche a Fabriano.

Uno dei candidati repubblicani del «Circolo Romano», i quali erano stati specialmente sostenuti dalla Capitale, Alessandro Castellani, non entrò nemmeno in ballottaggio; e se questo fu necessario nel primo collegio, si deve alla poca unione nel campo monarchico, ove al Tittoni era contrapposto dal «Circolo Bernini» un candidato pure moderato, come Biagio Placidi. Il «Circolo Bernini» aveva pure sostenuto la candidatura Sella, credendo che uscisse dal ministero.

In queste elezioni dunque, in cui dal lato del «Circolo Romano», si voleva l’abolizione del 1° articolo dello Statuto, come aveva proposto Giovanni Costa in Campidoglio, quando egli vi sede per due giorni, e da quello della «Associazione costituzionale» si propugnava una politica di moderazione, prevalse quest’ultimo concetto che era quello del general Lamarmora; ma la moderazione della sua condotta non escludeva la forza, e lo provo, perchè se impediva da un lato la dimostrazione nella [p. 42 modifica]ricorrenza della morte di Monti e Tognetti, e non si piegava alle domande del popolo rispetto all’espulsione dei gesuiti, approvava le proposte di Terenzio Mamiani, rispetto all’istruzione pubblica, impediva ai gesuiti di fare scuola nel Collegio Romano, e apriva in quel palazzo un Liceo-Ginnasio, e le scuole tecniche. Centinaia e centinaia di alunni si erano già inscritti, e l’aspetto dell’aula al momento dell’inaugurazione, era grandioso. Il Luogotenente del Re, i suoi consiglieri, le autorità cittadine vi assistevano, e il prof. Domenico Gnoli, al quale fu affidato il discorso inaugurale, rivolse un caldo appello ai giovani invitandoli ad addestrarsi alle nuove battaglie della scienza e della virtù, alle madri a non sgomentarsi di queste battaglie. «Ogni nostra opera tornerebbe vana, egli concluse, se i vostri figli non venissero a noi bene educati alla scuola materna: noi dal canto nostro confidiamo che ve li renderemo migliori. Cosi, congiunte le forze, noi compiremo la più grande, la più benefica, la più santa delle opere per l’umanità e per la patria».

L’istituzione della scuola laica, il più grande fatto dopo quello della liberazione, era stata preceduta dalla creazione di una ventina di classi di scuole elementari, fra maschili e femminili, per parte della Giunta provvisoria. Le scuole private dovevano dalle autorità ottenere il permesso d’insegnare. e i vecchi insegnanti potevano concorrre ai posti municipali. All’università dalla quale il padre Murra, gesuita odiatissimo, aveva disertato, rifugiandosi in Vaticano, si creavano nuove cattedre, agli ospedali si costruivano cliniche, al Collegio Romano si dava ai locali assetto più adatto alle nuove esigenze, e i lavori erano diretti dall’ingegner Gabet. Il riordinatore così delle scuole come dei musei e degli ospedali, era stato il Brioschi, che aveva insieme col Lamarmora, visitato anche quelli Vaticani. Il preside del liceo al Collegio Romano era Nicomede Bianchi, ed Aristide Gabelli, provveditore agli studi; agli scavi e alle antichità era stato preposto il prof. Pietro Rosa, custode del Palatino per Napoleone III, che lo aveva comprato dall’ex-re di Napoli. Il De Rosa era stato creato in quei giorni senatore insieme col principe Doria, col principe Francesco Pallavicini, con l’avvocato Giuseppe Piacentini, con l’avvocato Lunati, con l’avvocato Bonacci, col conte Manni, che aveva presentato l’indirizzo de’ Viterbesi al Lanza e col professore Ponzi. All’università erano stati chiamati a insegnare il Saredo, il Tommasi-Crudeli, il Blaserna ed altri.

Intanto anche altre quistioni si appianavano: quella, per esempio, della Banca Romana, la quale per concedere alle Banche Nazionale e Toscana e al Banco di Napoli il diritto di aprire sedi a Roma, accettava un compenso di 2 milioni, e per dimostrare la sua fiducia nel nuovo ordine di cose, chiedeva e otteneva di partecipare per 5 milioni a una operazione di fondi conclusa dal Governo con le altre Banche.

Anche la Guardia Nazionale, bene o male si era costituita. Ne facevano parte 41000 cittadini; undicimila del corpo attivo, e 30000 della riserva. Quella denominazione di corpo attivo, aveva sgomuntato molti, che poi si erano rassicurati.

La Guardia Nazionale a cavallo, era l’ambizione di Roma in quel tempo. Ne era capitano don Bosio Sforza-Cesarini, conte di Santafiora; luogotenente il principe Ginetti; sottotenenti il conte Pandolfi e Antonio Tittoni; furiere Guglielmo Grant; sergenti don Ladislao Odescalchi, Ulisse del Pinto, don Giulio Grazioli; Caporali il duca di Marino, Tito Navone, Federigo Pesce, il conte Merolli e il marchese Calabrini. L’istruttore era Augusto Sindici, brillante ufficiale delle guide, e militi tutti i giovani signori romani, principiando dal principe don Maffeo Sciarra, allora ventenne.

Questo squadrone si modellava su quello di Napoli, comandato, credo, dal barone Marcello Spinelli, il quale era andato a Firenze a sollecitare il permesso di condurlo a Roma per l’ingresso del Re.

[p. 43 modifica]Lo squadrone romano si esercitava nel cortile del palazzo Poli e una volta andò anche al Macao.

Rimaneva la quistione del sindaco, perchè il principe Doria non voleva accettare quell’ufficio; ma intanto essa rimaneva sospesa e per le feste di Firenze in occasione della offerta al duca d’Aosta della Corona di Spagna, e per l’apertura del nuovo Parlamento italiano, al quale erano rappresentati i 14 collegi di Roma e delle provincie.

Vittorio Emanuele nell’inaugurare a Firenze il 5 dicembre il Parlamento Italiano, nel quale per la prima volta Roma era rappresentara, pronunziava un discorso che fece fremere di gioia tutti i cittadini della Penisola. Mi pare che questa cronaca degli avvenimenti di quel tempo sarebbe incompleta, se non vi figurasse il patriottico discorso del Re.


«Signori Senatori, Signori Deputati,

«L’anno che volge al suo termine ha reso attonito il mondo per la grandezza degli eventi che niun giudizio umano poteva prevedere. Il nostro diritto su Roma noi lo avevamo sempre altamente proclamato e di fronte alle ultime risoluzioni cui mi condusse l’amore della patria, ho creduto dover mio di convocare i nazionali comizii (Lunghissimi applausi). Con Roma capitale d’Italia, ho sciolta la promessa e coronata l’impresa che 23 anni or sono veniva iniziata dal magnanimo mio genitore (Applausi).

«Il mio cuore di Re e di figlio prova una gioia solenne nel salutare qui raccolti per la prima volta tutti i rappresentanti della nostra patria diletta e nel pronunciare queste parole: L’Italia è libera ed una, ormai non dipende più che da noi il farla grande e felice (Applausi). Mentre noi qui celebriamo questa solennità inaugurale dell’Italia compiuta, due grandi popoli del continente, gloriosi rappresentanti della civiltà moderna, si straziano in una terribile lotta. Legati alla Francia ed alla Prussia dalla memoria di recenti e benefiche alleanze, noi abbiamo dovuto obbligarci ad una rigorosa neutralità, la quale ci era imposta dal dovere di non accrescere l’incendio e dal desiderio di poterci sempre interporre, con parole imparziali, fra le parti belligeranti.

«E questo dovere d’umanità e di amicizia, noi non cesseremo dall’adempierlo, aggiungendo i nostri sforzi a quelli delle altre potenze per metter fine ad una guerra, che non avrebbe mai dovuto rompersi fra due nazioni, la cui grandezza è egualmente necessaria alla civiltà del mondo.

«L’opinione pubblica, consacrando col suo appoggio questa politica, ha mostrato una volta di più che l’Italia libera e concorde è per l’Europa un elemento d’ordine, di libertà e di pace (Applausi).

«Quest’attitudine agevolo il compito nostro, quando per la difesa e integrità del territorio nazionale e per restituire ai Romani l’arbitrio dei loro destini, i miei soldati, aspettati come fratelli e festeggiati come liberatori, entrarono a Roma. Roma, reclamata dall’amore e dalla venerazione degli Italiani, fu resa a se stessa, all’Italia, e al mondo moderno.

«Noi entrammo in Roma in nome del diritto nazionale, in nome del patto che vincola tutti gli Italiani ad unità di nazione; vi rimarremo mantenendo le promesse che abbiamo fatto solennemente a noi stessi: libertà della Chiesa, piena indipendenza della Sede pontificia nell’esercizio del suo ministero religioso, nelle sue relazioni con la cattolicità (Applausi).

«Su questa base e dentro i limiti dei suoi poteri il mio Governo ha già dato i provvedimenti iniziali, ma per condurre a termine la grand’opera si richiede tutta l’autorità del Parlamento.

«L’imminente trasferimento della sede del Governo a Roma ci obbliga a studiare il modo di ridurre alla massima semplicità gli ordinamenti amministrativi e giudiziari, e rendere ai comuni e alle provincie le attribuzioni che loro spettano (Applausi).

«Anche la materia degli ordinamenti militari e della difesa nazionale vuole essere studiata, tenendo conto della nuova esperienza di guerra. Dalla terribile lotta che tiene tuttora attenta e sospesa [p. 44 modifica]l’Europa sorgono insegnamenti che non è lecito di trascurare a un Governo che vuole tutelare l’onore e la sicurezza della Nazione (Applausi).

«Su tutti questi temi vi saranno sottoposti disegni di legge e sulla pubblica istruzione eziandio, che vuole essere annoverata essa pure fra gli strumenti più efficaci della forza e della prosperità nazionale».


Tralascio la seconda parte del discorso, che riguarda le finanze e l’assunzione di Amedeo d’Aosta al trono di Spagna. La prima parte basta a dimostrare come il Re, dopo lo splendido Plebiscito di Roma, si sentisse saldo sul trono eretto dalla stima e dall’ammirazione degli Italiani.

La parola del Re, nella quale tutta la nazione aveva fede illimitata, l’assicurazione che la capitale sarebbe stata trasportata presto da Firenze a Roma, rinfrancarono gli animi abbattuti e impazienti dei nuovi sudditi di Vittorio Emanuele. Appena furono pubblicati i giornali della sera col discorso della corona, la città si animo; nei caffè, nei privati ridotti si fecero dimostrazioni di gioia. Nei teatri si chiedeva ripetutamente la marcia reale. In Borgo e nel rione Monti i popolani percorrevano le vie cantando inni patriottici, accompagnati da chitarre e organini, e al Foro Traiano vi fu una serenata, che durò fino a ora tardissima.

Un’altra prova dell’effetto prodotto dal discorso del Re: quella sera la rendita italiana si negoziava con grande richiesta in piazza Colonna a 60 e 20, mentre poche ore prima il listino della Borsa del mattino segnava 59,10.

Il discorso del Re, la circolare dell’Antonelli ai nunzi, la rabbia dei clericali vedendo che Roma si trasformava, e forse il ripicco dei Gesuiti contro il Lamarmora, provocarono il dì 8 dicembre una piccola sommossa in favore del Governo papale. Verso le 4 e mezzo un gruppo di papisti e di caccialepri mossero dalla gradinata di San Pietro verso il colonnato di destra, e presero a dir villanie ai popolani, gridando: «Viva Pio IX, morte ai liberali!» I popolani fischiarono e i provocatori furono rinforzati da un secondo gruppo schiamazzante. Un ex-ufficiale dei caccialepri dette uno schiaffo a un popolano, questi rispose con una legnata, e ne nacque un tafferuglio che fu subito sedato dai soldati. I papisti fuggirono in Vaticano, i popolani nelle viuzze laterali, e in mano alla forza non rimasero altri che un caccialepre, e il Tognetti, fratello dell’eroe popolare, il Valentini e un certo Francesco Bersani, ferito leggermente. Più tardi una turba di popolo, avendo arrestati tre caccialepri, li spingeva innanzi a sè e voleva gettarli nel Tevere. Un ufficiale della Guardia Nazionale, il signor Testori, il sergente Fabri, due furieri e alcuni militi, che avevano inteso del tumulto e giungevano in carrozza, arrestarono i tre caccialepri riuscendo a salvarli dall’ira popolare. Il giorno dopo gli assembramenti si ripeterono, perchè qualcuno aveva creduto riconoscere il colonnello pontificio Azzanesi in un signore che si era recato all’ufficio del Tribuno, in via della Vite e dovettero intervenire i soldati per ricondurre la calma. Ma queste erano inezie, che se davano al cardinal Antonelli incitamento a far proteste, non turbavano altro che momentaneamente la città, che teneva lo sguardo rivolto su Firenze, da dove sperava che giungessero due liete notizie: quella che il Parlamento aveva votato la legge del trasporto della capitale a Roma, e l’altra della partenza del Re. La prima fu votata avanti le vacanze di Natale. Ne era stato relatore il Guerzoni, e stabiliva, secondo il volere del Ministero, che il trasporto della capitale si sarebbe effettuato dopo sei mesi dalla promulgazione della legge e che le spese, contemplate in 17 milioni di lire, sarebbero state inscritte nel bilancio dei lavori pubblici per l’anno 1871.

La Porta e Pianciani avevano presentato una proposta tendente ad abbreviare quel periodo di tempo di sei mesi, già breve. Il Sella la combattè dicendo che i tecnici, interrogati in proposito, [p. 45 modifica]avevano dichiarato che i locali per gli uffici non potevano esser pronti. I cinque deputati romani votarono per il ministero, e di qui ire da non dirsi.

Per la venuta del Re si preparava la città; si voleva accoglierlo degnamente come vero liberatore. Chi voleva farlo entrare dalla via Appia, chi dalla Flaminia, i più da Porta Pia per la via aperta dai suoi soldati.

Il Re non voleva venire prima che fosse votata la legge delle guarentigie, già presentata, ma non discussa per la interruzione delle vacanze natalizie. Egli era atteso per la metà di gennaio o dopo. La Giunta aveva votato 360,000 lire per le feste, di cui una parte doveva essere erogata in soccorsi ai poveri. Si preparava un coro di 400 voci con un ritornello: «Vieni in Campidoglio», un Te Deum del Mililotti con accompagnamento di cannonate fatte sparare dalla scintilla elettrica. La Guardia Nazionale, sotto gli ordini del generale Lopez, si esercitava per fare ala al Re; i pittori Jacovacci, Mei, Joris, Cammarano, Scifoni e altri si affaccendavano a preparare gli stendardi rappresentanti i fasti del regno di Vittorio Emanuele.

In mezzo a tanti preparativi e a tanta attesa, una sventura colpì Roma, e il Re accorse a confortarla. Sulla fine di dicembre Roma era inondata. La pioggia continua dei giorni precedenti, aveva straordinariamente ingrossato il Tevere e l’acqua invadeva Ripetta, il Corso, il Babbuino, il Trastevere, tutta la città bassa insomma. Nel Ghetto l’acqua giungeva ai primi piani; in piazza Colonna arrivava alla fontana. La piena era più alta e più tremenda di quella del 1816, i danni spaventosi.

La merce delle botteghe avariata e distrutta, la gente nelle case priva di alimento. In alcuni tuguri del Trastevere si trovarono morti gli abitanti.

La Giunta crea subito sette comitati di soccorso nei punti diversi della città; il principe Doria chiede soccorsi di truppe al Cosenz; le guardie municipali, create da poco in numero esiguo, si prestano; la Guardia Nazionale fa con onore le prime prove; i cittadini gareggiano di zelo, ma il disastro è immenso. A terreno di Montecitorio, ov’era prima l’ufficio dei passaporti, è stabilito il quartier generale dei soccorsi. Ogni momento partono carri del treno accompagnati da soldati, per portar viveri agli inondati, e appena carri o zattere compariscono al principio di una strada, da tutte le finestre si grida: «Pane! Pane!» Anche la guarnigione di Castel Sant’Angelo rimane bloccata, e il comandante non riesce ad approvvigionarsi altro che rompendo un muro del corridoio, che mette in Vaticano. I locali terreni della Banca Romana sono pure inondati, e si perde buon numero di biglietti; le comunicazioni con Firenze sono interrotte per la rottura del ponte di ferro fra Orte e Roma.

Il Re è informato di questo disastro e lasciando da parte tutte le considerazioni, accorre in mezzo al suo nuovo popolo appena le comunicazioni sono ristabilite. Si era fatto precedere da un telegramma con cui annunziava un soccorso di 20,000 lire.

Giunse la mattina del 31 dicembre alle 4; alla stazione, in quella triste ora invernale, c’era il fiore della cittadinanza. Un grido universale lo saluto ed egli ai membri della Giunta disse subito con voce alta e forte:

«Sono venuto più presto che ho potuto».

S. E. Lanza, presidente del Consiglio; il ministro delle Finanze, on. Quintino Sella; il ministro degli Esteri, on. Emilio Visconti-Venosta; il ministro dei Lavori Pubblici, on. Gadda, lo accompagnavano, e quando ebbe traversato la stazione e stava per salire nella Daumont a quattro cavalli, che lo aspettava, nasceva sul piazzale la più bella, la più spontanea delle dimostrazioni. Un grido [p. 46 modifica]solo, altissimo, lo acclamava. «Viva il Re galantuomo!» urlavano i Romani, riconoscendo che Vittorio Emanuele da Novara a Roma non aveva fatto altro che mantenere la promessa data agli Italiani di liberare la patria.

Se il Re fosse giunto in mezzo all’apparato di una festa, non sarebbe stato accolto con più entusiasmo che in quella piovosa e buia mattinata invernale. La gente accendeva fuochi di bengala e faci per rischiarargli il cammino, centinaia di carrozze piene di signore seguivano quella reale, il popolo si accaleava sulla via che conduce al Quirinale, e sulla piazza per vederlo al balcone, e gridare, ma il Re non si mostrò; perché avvenivano le presentazioni della Giunta, la quale fu poi di nuovo ricevuta alle 9 in forma ufficiale, guidata dal principe Doria, assessore anziano, il quale nel suo discorso notava che la venuta del Re dimostrava che egli era un vero padre per i suoi sudditi, e che, qual padre, accorreva a lenire le loro sventure. Il Re rispose ringraziando e annunziando che metteva a disposizione del municipio un’altra offerta di 80,000 lire.

Poco dopo il Sella ne consegnava al principe Doria 200,000.

Il Re riceveva pure i deputati di Roma, i professori degli ospedali e altre autorità. Durante la cerimonia lo squadrone della Guardia Nazionale a cavallo si schierava nel cortile del Quirinale. insieme con un reggimento di fanteria e con una legione di Guardia Nazionale a piedi.

Alle 11 il Re usciva preceduto da un drappello di Guardia Nazionale a cavallo. In quella scorta d’onore del primo Re d’Italia, vi era il fiore del patriziato romano.

Vittorio Emanuele visitava alcuni quartieri inondati e la sua presenza ridava a tutti il coraggio; Roma si destava dallo sbalordimento della sventura e aveva fiducia nel suo Re.

La sera Vittorio Emanuele ripartiva per essere a Firenze il 1° di gennaio per i ricevimenti del Capo d’Anno. Alla stazione tutti gli gridavano: «Torni presto, Maestà!»