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Era una frenesia, un’esultanza generale; il voto era sciolto: la patria nostra aveva la sua storica capitale.

Vediamo ora che cosa avveniva dentro Roma, mentre in più punti le mura erano battute dal cannone.

Una persona che abitava al Babbuino mi racconta:

«Nell’udire la mattina alle 5 1/2, rispondere gl’Italiani al fuoco dei Pontificii, tutti gli uomini scesero nella via mezzo vestiti, e le donne ed i bambini si fecero alle finestre, e fra loro era un vivo scambio di domande.

«Per via non passava nessuno, e per più ore un’ansia indescrivibile invase tutti. Nessuno si arrischiava fuori, nessuno recava notizie, e intanto il rumore solenne del cannone e quello incalzante della moschetteria, continuava.

«Verso mezzogiorno tutti eravamo ancora alle finestre, tutti aspettavamo, dimenticando di mangiare, quando si udirono le trombe dei bersaglieri in distanza. In un attimo tutte le finestre si addobbarono di bandiere; il nostro padron di casa, noto clericale, ne mise cinque al balcone e due alle altre finestre. Sperava che esse lo proteggessero dalle ire degli Italiani, che erano designati dalla voce vaticana come depredatori ed empii. Molte bandiere mise pure alla finestra la moglie di uno zuavo, il quale era a Porta Pia, e che inginocchiata pregava piangendo.

«I soldati sfilavano anneriti dal sole e dalla polvere, ma fieri, alteri, sentendosi applaudire freneticamente come liberatori, e il sorriso compariva loro sulle labbra. Quella calda, indescrivibile manifestazione, quell’accorrere di donne, che gittavano loro le braccia al collo, che si contentavano di toccarne gli abiti, facevano loro dimenticare le fatiche e i pericoli. E liberatori erano infatti e per noi, che ne desideravamo l’entrata, e per gli altri, che pure essendo neri nel fondo del cuore, avevano tremato, vedendo Roma in mano degli zampitti».

Un’altra persona, che abitava a metà di via Giulia, mi narra così gli eventi di quella memorabile mattinata: «Al rimbombo delle cannonate salii sulla terrazza di casa mia, dalla quale scorgevo il Gianicolo, e mi accorsi che Bixio, che era atteso, batteva da quel punto la città. Le bombe imboccavano per Monserrato producendo danni in diversi fabbricati, e capii che il Bixio doveva esser giunto e che quel giorno si faceva per davvero. Dopo poco, dal mio punto d’osservazione, mi accorsi che Bixio aveva modificato i tiri, perchè le bombe cadevano esplodendo nel Tevere, e sollevavano una massa d’acqua. A un tratto San Pietro inalberò bandiera bianca, e il cannone tacque.

«Sapevo che fra i primi sarebbe entrato il colonnello Borghese, mio amico, e volli andargli incontro. Nel passare in fretta per via delle Muratte sentì un fischio accanto a me; guardai. Erano tre zuavi, che inginocchiati all’angolo di piazza di Trevi, mi avevano preso di mira. Per non essere ucciso, dovetti rifugiarmi dal vaccaro Serafini. Le vie erano deserte; tutta la gente era rinchiusa in casa; i cardinali, i monsignori, le cariche della Corte Pontificia erano al Vaticano. Nell’imboccare il Corso da un’altra via, mi meravigliai di vedere una turba di popolo, che trascinava un vecchio cannone. Sul cannone stava a cavallo Cencio Melacotta, zoppo e bigliardiere, che dopo divenne sergente delle guardie degli scavi, ed è morto dì recente. Il Melacotta, capitanando quella turba popolare, aveva tolto quel cannone agli zuavi della Porta del Popolo, dove era stato messo per ispazzare il Corso, e lo portava in trionfo per Roma.

«Giunsi all’Angiolo Custode e giù per piazza Barberini vidi scendere il reggimento, cui andavo incontro, con il Borghese alla testa. Nel vedere i soldati italiani, nel vedere la bandiera, la commozione mi strinse, come in una morsa di ferro, la gola. Nascosi il capo fra le due colonne della