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si rifugiassero a Roma. Quello squadrone ebbe uno scontro con 1 soldati papalini, e il luogotenente Grotti, cadendo da cavallo, fu fatto prigioniero e condotto a Roma. Egli era figlio di un deputato molto noto per le sue idee clericali, e fu restituito il i6.

Però il quartier generale del 4° Corpo rimaneva ancora alla villa Spada, vicina a Monterotondo, ma già si poteva dire che tutto lo Stato Pontificio fosse in mano degli Italiani. Il principe Odescalchi aveva inalberato la bandiera nazionale sulla rocca di Bracciano, il duca don Francesco Sforza-Cesarini aveva fatto lo stesso sul suo castello di Genzano e alla testa degli insorti percorreva la campagna, e in ogni piccola città si erano create giunte liberali; ovunque i soldati erano accolti come liberatori, e festeggiati come fratelli lungamente attesi.

Il giorno 16 Mazzini fu arrestato a Palermo travestito da pastore inglese. Fino dal 1850 egli era riuscito sempre a sfuggire a tutte le polizie, ma il Governo italiano, che come ho detto, non voleva assolutamente che il partito repubblicano avesse una qualsia» ingerenza nella presa di Roma, lo aveva fatto seguire, e senza permettergli di sbarcare in città, dalla nave su cui era giunto, lo faceva trasbordare su un’altra della marina da guerra, e lo inviava a Gaeta, ordinando al prefetto di Caserta, di tenergli gli occhi addosso.

Il 17 entra in iscena il conte Arnim, ministro di Prussia presso la Santa Sede, e che ebbe poi tanta parte negli avvenimenti. Era un uomo di carattere leggero, amante dei divertimenti e che si compiaceva di far parlare di sé. Aveva per moglie una graziosa signora, abile disegnatrice, la quale un giorno essendo alla Corsiniana per copiare certe iniziali di codici, tutta vestita di rosso, diceva a un amico mio: «Mio marito non è uomo di saldi principii». Ed aveva ragione.

Nel tornare da un congedo in Germania, il conte Arnim era passato per Firenze ed aveva saputo da qualche ministro (si vuole che vedesse il Visconti-Venosta), tutto quello che si riferiva alla missione del conte di S. Martino. Infiammato da uno zelo generoso quanto effimero, e forse contando sulla sua cresciuta autorità dopo le vittorie dei soldati prussiani, egli credè di poter adoprare la sua influenza affinchè gl’italiani entrassero a Roma per volere del Pontefice. Tornato a Roma, ne ripartiva subito per il quartier generale del 4° corpo e chiedeva al general Cadorna una sosta di 24 ore per trattare con il Vaticano. Il tentativo del conte Arnim fallì, e il comandante in capo ordinava alle tre divisioni, che lo seguivano, la marcia su Roma.

Queste tre divisioni si accamparono alla Storta, ultima posta sulla via provinciale fra la Toscana e Roma, per aspettare che fosse pronto il ponte di barche, che il genio preparava a Grottarossa.

Come mai, vien fatto di domandare, il 4" Corpo dopo aver valicato il Tevere a Passo Corese, per trovarsi sulla destra del fiume, sotto le mura di Roma lo ritraversava per venire sulla sinistra?

La risposta è facile. In principio il Cadorna voleva attaccar Roma dalla parte del Gianicolo, dal punto cioè dal quale i francesi erano entrati nel 1849, ma poi venne in altra determinazione: forse per un riguardo per il Vaticano, forse per non far seguire la stessa via ai liberatori che agli oppressori, fors’anco per recar minor danni all’abitato, aveva rinunziato a scegliere la Porta San Pancrazio come punto principale dell’attacco, e vi mandava la sola divisione Bixio, la quale vi giungeva la sera del 19 per la via Aurelia.

Alla Storta era una confusione senza nome, di cui il Cadorna si lagna nel suo libro. In quelle quattro case e attorno ad esse vi era un intero esercito con un codazzo di giornalisti, fra i quali Edoardo Arbib, Edmondo De Amicis, Roberto Stuart, Ugo Pesci, il conte Arrivabene. l’on. Cucchi.