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aspettano dal Governo Italiano. Una lunga educazione contraria, anzi riprovante ogni iniziativa privata, li aveva assuefatti a starsene con le braccia conserte in attesa di un aiuto dal di fuori, e per questo l’Italia, che sperava di vedere insorgere Roma, dopo partite le truppe francesi, fremeva e trepidava; e se il malessere e l’incertezza erano quindi dentro la città, non meno grandi erano nel resto della penisola.

Le sole notizie che commovessero i Romani erano quelle che si riferivano alle gesta degli zampitti e agli abusi della polizia. Oggi si parlava di una cospirazione, domani moveva rumore l’espulsione di venti pittori napoletani, fra cui il Vertunni, il Marinelli, il Santoro, il Rocco, il Della Rocca e altri. I cannoni che si trascinavano alle porte della città, i galeotti che passavano per recarsi a lavorare ai terrapieni e alla barricate, erano i soli spettacoli che distraessero i Romani su quella triste fine d’estate, in cui i patrizi non avevano osato allontanarsi dalla città, in cui il popola non si arrischiava ad abbandonarsi alle tradizionali baldorie.

Ai primi di settembre l’Imperatrice-reggente di Francia spediva l’«Orénoque» nelle acque di Civitavecchia per imbarcare i rimanenti soldati francesi, i Prussiani facevano prigioniero Napoleone a Sedan, in Francia era proclamata la Repubblica.

Quella sconfitta, quella prigionia esoneravano il Governo Italiano dal rispetto di ogni patto antecedente, ed il Corpo d’Osservazione avrebbe subito potuto mettersi in marcia su Roma.

Ma se la Francia era inerme e vinta, il Governo del Re doveva tener conto delle altre potenze, le quali sapeva bene che non si sarebbero opposte all’ingresso delle truppe regolari a Rom.i, ma non avrebbero mai permesso che un corpo irregolare se ne fosse impossessato. Il timore dunque del Lanza, allora presidente del Consiglio, e dei suoi colleghi, si era che il partito d’azione, che aveva numerosi adepti a Roma e nello Stato Pontificio, tentasse un colpo di mano; per questo si fingeva di affidare missioni di fiducia ai più ardenti fra gli emigrati romani, per ridurli alla inazione, sparpagliandoli qua e là, e si faceva sorvegliare Garibaldi dal Prefetto di Sassari nella sua Caprera, affinché non potesse muoversi.

Una invasione capitanata da Garibaldi o da Mazzini, che si sapeva partito da Londra, avrebbe rovinato tutto.

E Vittorio Emanuele, come cattolico e come Re cavalleresco, prima di far passare il confine ai suoi soldati, inviava il giorno 8 settembre a Roma il conte Ponza di San Martino, latore di una nobile ed affettuosa lettera a Pio IX. Quella lettera diceva:

«Beatissimo Padre,

«Con affetto di Figlio, con fede di Cattolico, con lealtà di Re, con animo d’Italiano, m’indirizzo ancora, com’ebbi a fare altra volta, al cuore di Vostra Santità.

«Un turbine pieno di pericoli minaccia l’Europa. Giovandosi della guerra che desola il centro del continente, il partito della rivoluzione cosmopolita cresce di baldanza e di audacia, e prepara, specialmente in Italia e nelle provincie governate da Vostra Santità, le ultime offese alla Monarchia ed al Papato.

«Io so, Beatissimo Padre, che la grandezza dell’anima Vostra non sarebbe mai minore della grandezza degli eventi; ma essendo io Re cattolico e Re italiano, e come tale custode e garante, per disposizione della Divina Provvidenza e per volontà della Nazione, dei destini di tutti gli Italiani, io sento il dovere di prendere, in faccia all’Europa ed alla Cattolicità, la responsabilità del mantenimento dell’ordine nella Penisola e della sicurezza della Santa Sede.