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La sera Firenze era tutta illuminata, tutta festante.
La mattina del 9 due maestri di cerimonie della casa del Re si recavano all’Hôtel New-York a prendere, con otto carrozze di gala, i deputati romani per condurli a Pitti. Sulle vie facevano ala soldati e guardie nazionali.
Vittorio Emanuele entrava nella sala delle Nicchie, trasformata in sala del trono, alle 11 precise, accompagnato da Umberto, principe di Piemonte, da Amedeo, duca d’Aosta, da Margherita, principessa di Piemonte, da Eugenio, principe di Savoia-Carignano, e secondo il suo uso, collocavasi a piè del trono. Il Re vestiva la divisa di generale di fanteria, e i principi si ponevano ai suoi lati. La principessa Margherita in mezzo alle sue dame: marchesa di Montereno, principessa Strozzi, marchesa Farinola e contessa degli Alessandri, era di una bellezza affascinante, tutta bianca nelle vesti, e sui capelli biondissimi, portava la corona d’oro, inviatale dalle dame romane. Nella sala si trovavano pure i Collari dell’Annunziata, i Ministri, tutte le alte cariche dello Stato. S. E. Bianchieri, che era allora presidente della Camera, il conte Casati, presidente del Senato, il sindaco e il municipio di Firenze, e i sindaci delle principali città d’Italia.
La deputazione, guidata dal duca di Sermoneta, fu introdotta dal primo aiutante di campo conte de Sonnaz e dai cerimonieri conte Panissera di Veglio e marchesi Della Stufa e Niccolini, che l’avevano ricevuta a piè dello scalone. Il vecchio duca si avanzò verso il trono, appoggiandosi al braccio del figlio, principe di Teano; gli altri deputati lo seguivano. Il duca presentò al Re l’atto del Plebiscito e pronunziò queste parole:
«Roma con le sue provincie, esultante di riconoscenza verso Vostra Maestà gloriosissima per averla liberata dalla oppressione straniera di armi mercenarie, col valore dell’Esercito Italiano, ha con generale Plebiscito acclamato per suo Re la Maestà Vostra e la sua Reale discendenza. Tale provvidenziale avvenimento, dopo si lunga ed amorosa aspettativa di tutti i popoli d’Italia, compie con questa novissima gioia la istorica corona che rifulge sul capo della Maestà Vostra».
Il Re commosso e con l’occhio fisso, come nei momenti in cui il suo cuore generoso traboccava dalla gioia, con voce alta, che copriva le cannonate della fortezza da Basso e i rintocchi della campana di Palazzo Vecchio, prese dalle mani del duca di Sermoneta la pergamena, e disse:
«Infine l’ardua impresa è compiuta e la patria è ricostituita. Il nome di Roma è il più grande che suoni sulle bocche degli uomini. Si ricongiunge oggi a quello d’Italia, il nonie più caro al mio cuore. Il Plebiscito, pronunciato con si meravigliosa concordia dal popolo romano, ed accolto con si festosa unanimità in tutte le parti del regno, riconsacra le basi del nostro patto nazionale, e mostra una volta di più, che se noi dobbiamo non poco alla fortuna, dobbiamo assai più all’evidente giustizia della nostra causa, al libero consentimento delle volontà ed al sincero scambio di fedeli promesse. Ecco le forze che hanno fatta l’Italia, e che, secondo le mie previsioni, l’hanno condotta a compimento: ora i popoli italiani sono veramente padroni dei loro destini. Raccogliendosi, dopo la dispersione di tanti secoli, nella città che fu metropoli del mondo, essi sapranno senza dubbio trarre dalle vestigie delle antiche grandezze, gli auspicii d’una nuova e propria grandezza, e circondare di riverenza la sede di quell’Impero spirituale, che pianto le sue pacifiche insegne anche là dove non erano giunte le aquile pagane. Io, come Re e come cattolico, nel proclamare l’unità d’Italia rimango fermo nel proposito d’assicurare la libertà della Chiesa e l’indipendenza Sovrana del Pontefice; e con questa dichiarazione solenne io accetto dalle vostre mani, signori, il Plebiscito di Roma, e lo presento agli Italiani, augurando ch’essi sappiano mostrarsi pari alle glorie dei nostri antichi, e degni delle presenti fortune».