Pagina:Emma Perodi - Roma italiana, 1870-1895.djvu/32


— 20 —

volontario, fece sì che il resultato della sommossa dovesse limitarsi all’occupazione della Porta San Paolo.

Anche a Mentana il Costa apparteneva allo stato maggiore di Garibaldi e dopo che gli chassepots ebbero fatto merveilles, egli dovè rifugiarsi a Firenze, in attesa degli eventi.

Il Comitato d’Insurrezione era capitanato a Firenze da Cairoli, Montecchi e Anioni; a Roma da Giovanni Costa, dal nipote Tito e da Giulio Pasi, detto Monaldini. Per mostrare quanto fosse perseguitato dalla polizia, basta dire che nel 1867 il Comitato dovette cambiare 47 abitazioni. Lo aiutava l’attuale portinaio di quella casa in via Margutta, che porta il n. 35, ove hanno lo studio il Costa, il Carnevali, il Cammarano, Iacovacci e tanti altri artisti romani, e una certa Placidi popolana.

Ma ora che ho tracciato la vita del patriota-artista, nelle sue linee generali, lasciamo al Costa stesso la parola:

«Poco prima che incominciasse la campagna su Roma, il Ministro Sella mi disse che avrebbemi dato 300,000 lire e fucili per fare insorgere la popolazione romana, e armarla, affinchè fosse essa che spalancasse le porte agli Italiani. Io partii per gli Stati Pontificii e vi rimasi molto tempo, ma i denari nè le armi si videro; erano stati consegnati in altre mani, mani avide, che non ne fecero alcun uso utile.

«Il 20 settembre la mattina ero alla vigna di Monsignor Santucci sulla via Nomentana. In essa erano i bersaglieri. Le vigne erano cariche d’uva; i bravi soldati non ne toccarono un chicco. Passai alla villa Torlonia fuori delle mura, e lì con somma gioia m’incontrai col mio amico, il luogotenente Valenziani, che cercavo per esser fedele al mio giuramento. Le colonne di attacco si movevano già con il generale in testa e lo stato maggiore, come se andassero a una passeggiata militare. Stavo a fianco di Valenziani, risoluto a sciogliere il mio voto ed il suo. Passando accanto a una vigna, vedemmo alcuni zuavi, che, su una tavola di marmo, mangiavano tranquilli un bel popone maturo. Alla porta corremmo avanti a tutti per salire il terrapieno. Valenziani era accanto a me. Sotto la porta sentii un colpo secco e scricchiolante; mi volsi verso Valenziani; egli aveva avuto una palla nella fronte e cadde. Lo rialzai fra le braccia, lo portai a ridosso a un muricciolo, che era dentro la porta, e gli dissi: «Amico, muori in pace». La mia esortazione era inutile: Valenziani era morto per la sua Roma.

«Mi spinsi avanti a tutti. Erano con me Cesare della Bitta, il Francia, il conte Luigi Amadei, il De Rossi, il Luciani, che montava il cavallo di un ufficiale, e due altri di cui non rammento il nome.

«Passando accanto alla villa Torlonia, che era dentro la città, vidi una compagnia di zuavi con l’arme al piede. Più giù, sulla via di Porta Pia, incontrai le carrozze dei diplomatici, scortate dai dragoni che andavano dal Cadorna. Avevo in mano una pistola e alla minaccia di un dragone, gliela misi sotto il muso senza far partire il colpo. Per via, fino al Quirinale, raccogliemmo remington abbandonati e cartucce in quantità. La mia mèta era il Campidoglio; e dal Quirinale scesi a Foro Traiano per quindi ascendere il colle sacro. A Foro Traiano trovammo gli zuavi barricati e gli zampitti. Vi era una bottega fra le due chiese, che aveva un ingresso dalla parte di dietro. Vi entrammo, facemmo anche noi le barricate coi tavolini, e ci mettemmo a tirare sugli zuavi, che già avevano cominciato a tirare su di noi. La padrona della bottega era tutta sgomenta per le rappresaglie degli zuavi; le sue bimbe mi si attaccarono alle polpe piangendo. Due dei miei compagni furono feriti. Non potevamo resistere e ci ripiegammo sul Quirinale, ove sapevamo di trovare gli Italiani. Per via dissi a una donna che c’erano due feriti dei nostri, che li ricoverasse in qualche luogo e cercasse un medico. Essa tornò a dirmi che erano rifugiati in una casa e che il dottor Tassi li curava.