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Si era calcolato che in Roma, tolte le donne e i bambini, vi fossero circa 45,000 votanti; così che gli astenuti furono relativamente scarsi.

Le provincie avevano dato un risultato splendido, perchè sul totale si ebbero:


133,681 Si e 1507 No.



Intanto che il popolo di Roma, col suo voto, decretava la caduta del potere temporale dei Papi, i signori, fedeli al Vaticano, correvano a consolare il Pontefice e a protestargli la loro devozione. Era un atto di dovere quello che compivano il principe Ruspoli, assistente del Sant’Uffizio, il principe Massimi, i marchesi Sacchetti, Serlupi e Vitelleschi e gli esenti della guardia mobile.

Il Papato è sempre stato il benefattore delle grandi famiglie romane, e sarebbe stato indecoroso che Pio IX, in un giorno di grande dolore, si fosse trovato isolato. È vero che egli non era portato a beneficare chi non era indigente, e che il cardinale Antonelli aveva intorno a sè troppe persone da favorire, per lasciare al Papa un largo campo nel quale spargere le sue protezioni, ma molte famiglie patrizie si sarebbero mostrate ingrate se non avessero affermato in un giorno di sventura il loro attaccamento al vinto dagli eventi.

Il Papa, si dice però che non fosse punto di cattivo umore, nonostante vedesse l’Austria e la Prussia restare inerti dinanzi a quella che egli chiamava una usurpazione, e le altre potenze non rispondere neppure alle sue circolari e alle sue proteste. Aveva avuta una lettera cortese, ma fredda, dall’imperatore Francesco Giuseppe e dal re Guglielmo, si era veduto abbandonato dalla Francia, e Roma lo aveva rinnegato. Eppure non rinunziava alle sue lepidezze, e quando gli fu annunziato a mezzogiorno, mentre si metteva a tavola, che i Romani parevano indemoniati, si vuole rispondesse:

«E allora intoniamo il Benedicite; mentre essi votano, noi riempiamoci».

Non posso asseverare la verità di queste parole, ma se furono attribuite al Papa, vuol dire almeno che era verosimile che egli le pronunziasse in un momento storico di tanta gravità per il Papato.

Il Cadorna non aveva voluto, fin dopo il Plebiscito, fare una dimostrazione armata, affinchè non si potesse dire che egli cercava di far pressione sui Romani; ma la mattina del 3 ottobre, riuniva ai prati della Farnesina tutte le truppe che guarnivano Roma, e le passava in rivista. Questo fatto, semplice in sè, attrasse una folla compatta nei grandi prati alle falde del Monte Mario. Le signore dai legni sventolavano i fazzoletti, il popolo applaudiva, specialmente i bersaglieri e gli artiglieri, i due corpi che in pochi giorni avevano conquistate tante simpatie, e si meravigliava che la Giunta, per quella festa militare avesse fatto spargere la rena gialla per le vie, come nei giorni in cui il Papa usciva in pompa magna.

La sera del 5 vi fu un’altra festa; ormai il giubilo non si calmava più. Ne dette motivo la rogazione dell’atto del plebiscito, fatto dai notari Camillo Vitti, Egidio Serafini, Francesco Guidi e Camillo Delfini in Campidoglio, alla presenza dei membri della Giunta Romana e dei deputati delle Giunte delle provincie. Dopo quell’atto, per il quale i notari rifiutarono il pagamento, dicendosi fieri di poter associare il loro nome al Plebiscito, i pompieri si schierarono sull’alto della gradinata del palazzo Senatorio e quindi si avanzarono la Giunta e i deputati. Innanzi a tutti mosse il duca di Sermoneta, e il venerando vecchio, la cui memoria rimarrà sempre attaccata al più grande atto della Roma moderna, comunicò il risultato delle votazioni delle provincie. Appena la sua voce tacque, la musica intono la marcia reale, e il campanone della Torre, messaggero di fauste novelle, suonò a distesa. Il popolo allora si mise ad applaudire e volle applaudendo, accompagnare il duca di Sermoneta fino al suo palazzo in via delle Botteghe Oscure.