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avevano dichiarato che i locali per gli uffici non potevano esser pronti. I cinque deputati romani votarono per il ministero, e di qui ire da non dirsi.
Per la venuta del Re si preparava la città; si voleva accoglierlo degnamente come vero liberatore. Chi voleva farlo entrare dalla via Appia, chi dalla Flaminia, i più da Porta Pia per la via aperta dai suoi soldati.
Il Re non voleva venire prima che fosse votata la legge delle guarentigie, già presentata, ma non discussa per la interruzione delle vacanze natalizie. Egli era atteso per la metà di gennaio o dopo. La Giunta aveva votato 360,000 lire per le feste, di cui una parte doveva essere erogata in soccorsi ai poveri. Si preparava un coro di 400 voci con un ritornello: «Vieni in Campidoglio», un Te Deum del Mililotti con accompagnamento di cannonate fatte sparare dalla scintilla elettrica. La Guardia Nazionale, sotto gli ordini del generale Lopez, si esercitava per fare ala al Re; i pittori Jacovacci, Mei, Joris, Cammarano, Scifoni e altri si affaccendavano a preparare gli stendardi rappresentanti i fasti del regno di Vittorio Emanuele.
In mezzo a tanti preparativi e a tanta attesa, una sventura colpì Roma, e il Re accorse a confortarla. Sulla fine di dicembre Roma era inondata. La pioggia continua dei giorni precedenti, aveva straordinariamente ingrossato il Tevere e l’acqua invadeva Ripetta, il Corso, il Babbuino, il Trastevere, tutta la città bassa insomma. Nel Ghetto l’acqua giungeva ai primi piani; in piazza Colonna arrivava alla fontana. La piena era più alta e più tremenda di quella del 1816, i danni spaventosi.
La merce delle botteghe avariata e distrutta, la gente nelle case priva di alimento. In alcuni tuguri del Trastevere si trovarono morti gli abitanti.
La Giunta crea subito sette comitati di soccorso nei punti diversi della città; il principe Doria chiede soccorsi di truppe al Cosenz; le guardie municipali, create da poco in numero esiguo, si prestano; la Guardia Nazionale fa con onore le prime prove; i cittadini gareggiano di zelo, ma il disastro è immenso. A terreno di Montecitorio, ov’era prima l’ufficio dei passaporti, è stabilito il quartier generale dei soccorsi. Ogni momento partono carri del treno accompagnati da soldati, per portar viveri agli inondati, e appena carri o zattere compariscono al principio di una strada, da tutte le finestre si grida: «Pane! Pane!» Anche la guarnigione di Castel Sant’Angelo rimane bloccata, e il comandante non riesce ad approvvigionarsi altro che rompendo un muro del corridoio, che mette in Vaticano. I locali terreni della Banca Romana sono pure inondati, e si perde buon numero di biglietti; le comunicazioni con Firenze sono interrotte per la rottura del ponte di ferro fra Orte e Roma.
Il Re è informato di questo disastro e lasciando da parte tutte le considerazioni, accorre in mezzo al suo nuovo popolo appena le comunicazioni sono ristabilite. Si era fatto precedere da un telegramma con cui annunziava un soccorso di 20,000 lire.
Giunse la mattina del 31 dicembre alle 4; alla stazione, in quella triste ora invernale, c’era il fiore della cittadinanza. Un grido universale lo saluto ed egli ai membri della Giunta disse subito con voce alta e forte:
«Sono venuto più presto che ho potuto».
S. E. Lanza, presidente del Consiglio; il ministro delle Finanze, on. Quintino Sella; il ministro degli Esteri, on. Emilio Visconti-Venosta; il ministro dei Lavori Pubblici, on. Gadda, lo accompagnavano, e quando ebbe traversato la stazione e stava per salire nella Daumont a quattro cavalli, che lo aspettava, nasceva sul piazzale la più bella, la più spontanea delle dimostrazioni. Un grido