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pola. Mi spinsi di nuovo avanti e tra noi era il colonnello Borghese col suo reggimento. Villa Bonaparte era in fiamme, il tetto sfondato, da un lato era crollato. Nella corsa avevo sopravanzato i miei compagni, che erano Napoleone Parboni, Raffaele Erculei ed altri. Da villa Bonaparte passai in quella Ludovisi ed entrai nel bel casino.

«Mi figuravo che ci fossero zuavi e a ginocchiate infransi le bellissime porte dorate. Vi era un vero arsenale di fucili, di revolvers, e io, sempre preso dalla frenesia, camminavo sopra alle armi per cercare gli zuavi. Ne trovai tre e li consegnai al capitano aiutante maggiore del colonnello Borghese. Insieme col reggimento entrai a Roma. Chi mi riconosceva, mi abbracciava, mi chiedeva armi. Giunsi in piazza Navona; in una osteria spalancata e abbandonata, trovai nel rientramento di un muro altri cinque zuavi, che indicai al solito capitano. Ero sfinito, sudicio, ma non potevo star fermo, e mi avviai al Corso. In piazza di Pietra incontrai nuovi zuavi malmenati dalla folla, e ne presi le difese, facendo vedere al popolo che era vile cosa inveire contro i prigionieri. ’enne un distaccamento del genio a salvarli. Intanto ero giunto al Corso e avevo veduto che dalle finestre di San Marcello tiravano sulla folla, e seppi, dalla gente che mi faceva festa, che erano i famosi zampitti. Ne avvertii il comandante del distaccamento, che circondò la casa e li fece prigionieri.

«Più tardi non volli unirmi a Luciani a cavallo, che andava teatralmente al Campidoglio con i dimostranti».

Un altro testimone oculare, l'onor. Arbib, mi racconta che entrò da Porta Pia, e seguì la via dopo detta Vittoria, e ora Venti Settembre. Era una via di campagna, selciata; da un lato vi era la villa Bonaparte, e dall’altra quella Torlonia, ove è ora l’ambasciata inglese. La strada era ingombra di cariaggi; non vi era popolo. Quando gli emigrati impazienti e i giornalisti giunsero in piazza del Quirinale, rimasero meravigliati del panorama che di lassù godevasi di Roma, e con nuova foga si precipitarono giù per la gradinata, ma la gente che era mossa loro incontro, li trattenne, dicendo che in fondo vi erano gli zampitti. Allora vi fu una sosta, fino al sopraggiungere di un battaglione di bersaglieri, comandato dal Rebaudi. Insieme con i soldati discesero e a passo di corsa sboccarono in piazza Colonna. Quando comparvero da ogni finestra sventolavano le bandiere italiane. A un tratto tutto il Corso ne era stato pavesato; le bandiere erano così folte, che formavano un vivace padiglione agitato dalla brezza autunnale. Roma dava il benvenuto all’esercito del Re; Roma si affermava italiana.

A piazza Colonna, quando giunse il general Bottacco in un legnetto, nonostante l’opposizione del suo aiutante di campo, fu sollevato sulle braccia dal popolo, baciato nelle mani, nel volto, negli abiti dalla folla giubilante.

I bersaglieri destavano un entusiasmo enorme. Sei battaglioni, sotto gli ordini del general Corte, bivaccavano a piazza Colonna, formando un quadrato nel quale erano rinchiusi 500 zuavi; un reggimento di linea custodiva il ponte Sant’Agelo e alle 3 il 59° di fanteria e un battaglione di bersaglieri andarono, seguiti dal popolo acclamante, al Campidoglio, e si impadronirono degli zampitti. I pompieri, saliti sulla torre, issarono la bandiera italiana e sonarono a stormo.

La lieta notizia della resa di Roma, era annnunziata alle 12 del mattino a tutta l’Italia col seguente telegramma:

«Forzata la Porta Pia e la breccia laterale aperti in quattro ore. Le colonne entrano con slancio, malgrado la vigorosa resistenza. Mancano le notizie delle divisioni Bixio e Angioletti».

Se il popolo di Roma esultava, non meno si abbandonava alla gioia quello del resto d’Italia.