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ricorrenza della morte di Monti e Tognetti, e non si piegava alle domande del popolo rispetto all’espulsione dei gesuiti, approvava le proposte di Terenzio Mamiani, rispetto all’istruzione pubblica, impediva ai gesuiti di fare scuola nel Collegio Romano, e apriva in quel palazzo un Liceo-Ginnasio, e le scuole tecniche. Centinaia e centinaia di alunni si erano già inscritti, e l’aspetto dell’aula al momento dell’inaugurazione, era grandioso. Il Luogotenente del Re, i suoi consiglieri, le autorità cittadine vi assistevano, e il prof. Domenico Gnoli, al quale fu affidato il discorso inaugurale, rivolse un caldo appello ai giovani invitandoli ad addestrarsi alle nuove battaglie della scienza e della virtù, alle madri a non sgomentarsi di queste battaglie. «Ogni nostra opera tornerebbe vana, egli concluse, se i vostri figli non venissero a noi bene educati alla scuola materna: noi dal canto nostro confidiamo che ve li renderemo migliori. Cosi, congiunte le forze, noi compiremo la più grande, la più benefica, la più santa delle opere per l’umanità e per la patria».

L’istituzione della scuola laica, il più grande fatto dopo quello della liberazione, era stata preceduta dalla creazione di una ventina di classi di scuole elementari, fra maschili e femminili, per parte della Giunta provvisoria. Le scuole private dovevano dalle autorità ottenere il permesso d’insegnare. e i vecchi insegnanti potevano concorrre ai posti municipali. All’università dalla quale il padre Murra, gesuita odiatissimo, aveva disertato, rifugiandosi in Vaticano, si creavano nuove cattedre, agli ospedali si costruivano cliniche, al Collegio Romano si dava ai locali assetto più adatto alle nuove esigenze, e i lavori erano diretti dall’ingegner Gabet. Il riordinatore così delle scuole come dei musei e degli ospedali, era stato il Brioschi, che aveva insieme col Lamarmora, visitato anche quelli Vaticani. Il preside del liceo al Collegio Romano era Nicomede Bianchi, ed Aristide Gabelli, provveditore agli studi; agli scavi e alle antichità era stato preposto il prof. Pietro Rosa, custode del Palatino per Napoleone III, che lo aveva comprato dall’ex-re di Napoli. Il De Rosa era stato creato in quei giorni senatore insieme col principe Doria, col principe Francesco Pallavicini, con l’avvocato Giuseppe Piacentini, con l’avvocato Lunati, con l’avvocato Bonacci, col conte Manni, che aveva presentato l’indirizzo de’ Viterbesi al Lanza e col professore Ponzi. All’università erano stati chiamati a insegnare il Saredo, il Tommasi-Crudeli, il Blaserna ed altri.

Intanto anche altre quistioni si appianavano: quella, per esempio, della Banca Romana, la quale per concedere alle Banche Nazionale e Toscana e al Banco di Napoli il diritto di aprire sedi a Roma, accettava un compenso di 2 milioni, e per dimostrare la sua fiducia nel nuovo ordine di cose, chiedeva e otteneva di partecipare per 5 milioni a una operazione di fondi conclusa dal Governo con le altre Banche.

Anche la Guardia Nazionale, bene o male si era costituita. Ne facevano parte 41000 cittadini; undicimila del corpo attivo, e 30000 della riserva. Quella denominazione di corpo attivo, aveva sgomuntato molti, che poi si erano rassicurati.

La Guardia Nazionale a cavallo, era l’ambizione di Roma in quel tempo. Ne era capitano don Bosio Sforza-Cesarini, conte di Santafiora; luogotenente il principe Ginetti; sottotenenti il conte Pandolfi e Antonio Tittoni; furiere Guglielmo Grant; sergenti don Ladislao Odescalchi, Ulisse del Pinto, don Giulio Grazioli; Caporali il duca di Marino, Tito Navone, Federigo Pesce, il conte Merolli e il marchese Calabrini. L’istruttore era Augusto Sindici, brillante ufficiale delle guide, e militi tutti i giovani signori romani, principiando dal principe don Maffeo Sciarra, allora ventenne.

Questo squadrone si modellava su quello di Napoli, comandato, credo, dal barone Marcello Spinelli, il quale era andato a Firenze a sollecitare il permesso di condurlo a Roma per l’ingresso del Re.