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«La città si era resa, e noi precipitosamente corremmo in casa, prendemmo tre pezze di stoffa, una bianca, una rossa e una verde, che tenevamo nascoste, e subito non so proprio come, con le mani tremanti e gli occhi prugni di lagrime, ne facemmo tre bandiere italiane, che presto sventolarono sulla terrazza di casa Aiani. Queste bandiere erano tanto lunge che arrivavano al sottostante primo piano, e furono le prime bandiere italiane che sventolarono in Trastevere dopo il 49.

«Un signore, che da una terrazza vicina ci osservava, gridò: «Digraziati! che avete fatto? è una finta: gli Italiani non sono entrati! Disgraziati!» Le parole di costui ci ghiacciarono; impallidimmo e chissà che cosa sarebbe successo se un nostro amico, che veniva dall’altra riva del Tevere e che aveva udite le parole del nostro vicino, non ci avesse rassicurati.

«Intanto per le strade passavano gli zuavi sudici e malconci, gli antiboini pallidi e irati. A proposito di questi, uno che conduceva un carrettino, passando sotto le nostre finestre e vedendo le tre bandiere, cadde in ginocchio, e guardandole con rabbia, si morse un dito in atto minaccioso.

«I soldati italiani non occuparono Trastevere altro che la mattina dopo, ma noi eravamo andati già a vederli nelle piazze ov’erano accampati, e a dare ai nostri il benvenuto.

«Quando entrarono, la mattina dopo, che entusiasmo! Ura giornata come quella non la rivedremo più! Dopo tanti anni di continue trepidazioni, perché noi in Trastevere si viveva sempre con l’animo sollevato in attesa di sommosse e di atroci repressioni, come quella di cui si vedevano le tracce sanguinose sulle pareti della casa dove abitavo, ci sentivamo sicuri e sollevati. Che giornata! In essa rivedemmo anche i prigionieri politici, che erano stati liberati, e le scene di esultanza, di lagrime, di gioia non si possono descrivere; Tutti facevano a gara a rivestirli, a dar loro da mangiare; i racconti delle loro sofferenze erano interrotti da esclamazioni di orrore e da grida affermanti la liberazione di Roma, da evviva ai liberatori.»

Per ultimo ho riserbato una testimonianza di gran valore: quella del professor Giovanni Costa, il quale al suo nobile amore per l’arte ha sempre unito un affetto sviscerato per l’Italia.

Il Costa nel 1848 accorreva in Lombardia insieme con Nino Castellani (allora si chiamavano i due Nini), ora direttore, al posto del Montecchi, della Venezia-Murano, e insieme con Carlo Castellani, bibliotecario della Marciana. Fu a Cornuda e a Vicenza come caporale, dimostrando valore e ardimento, e appena Roma fu libera, corse qua e fu aggregato allo stato maggiore di Garibaldi, ove non solo combattè, ma seppe provvedere all’amministrazione della città e al vettovagliamento di essa.

Appena dichiarata la guerra all’Austria nel 1859, il Costa partiva di nuovo da Roma per recarsi in Lombardia, insieme col nipote Tito, con don Emanuele Ruspoli e col Valenziani, allora monsignor di mantellone, il quale fu ucciso il 20 settembre. Il Costa si arrolava in Aosta cavalleria, il Valenziani in un reggimento di linea, ma fin d’allora si giuravano di entrare insieme in Roma libera, e di essere i primi a recarsi al Campidoglio.

Si deve al Costa se il famoso Checcatelli di Ceciliano si converti alle idee di fusione al Piemonte e venne a Roma come capo del Comitato Nazionale Romano.

Dopo dieci anni nacque il sospetto che il Comitato non volesse far la rivoluzione e allora ebbe il Costa incombenza di appurare se questo sospetto era basato, e credendo riconoscerlo giusto, egli costituì, il Comitato d’Insurrezione, che si fece iniziatore della rivoluzione del 2 ottobre 1867, impadronendosi quasi di Roma. Si vuole che i piani della sommossa fossero dimenticati, da persona vogliosa di sventarla, sulla tavola dell’ambasciatore di Francia. Questo oblio, che i liberali ritengono