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ropa sorgono insegnamenti che non è lecito di trascurare a un Governo che vuole tutelare l’onore e la sicurezza della Nazione (Applausi).

«Su tutti questi temi vi saranno sottoposti disegni di legge e sulla pubblica istruzione eziandio, che vuole essere annoverata essa pure fra gli strumenti più efficaci della forza e della prosperità nazionale».


Tralascio la seconda parte del discorso, che riguarda le finanze e l’assunzione di Amedeo d’Aosta al trono di Spagna. La prima parte basta a dimostrare come il Re, dopo lo splendido Plebiscito di Roma, si sentisse saldo sul trono eretto dalla stima e dall’ammirazione degli Italiani.

La parola del Re, nella quale tutta la nazione aveva fede illimitata, l’assicurazione che la capitale sarebbe stata trasportata presto da Firenze a Roma, rinfrancarono gli animi abbattuti e impazienti dei nuovi sudditi di Vittorio Emanuele. Appena furono pubblicati i giornali della sera col discorso della corona, la città si animo; nei caffè, nei privati ridotti si fecero dimostrazioni di gioia. Nei teatri si chiedeva ripetutamente la marcia reale. In Borgo e nel rione Monti i popolani percorrevano le vie cantando inni patriottici, accompagnati da chitarre e organini, e al Foro Traiano vi fu una serenata, che durò fino a ora tardissima.

Un’altra prova dell’effetto prodotto dal discorso del Re: quella sera la rendita italiana si negoziava con grande richiesta in piazza Colonna a 60 e 20, mentre poche ore prima il listino della Borsa del mattino segnava 59,10.

Il discorso del Re, la circolare dell’Antonelli ai nunzi, la rabbia dei clericali vedendo che Roma si trasformava, e forse il ripicco dei Gesuiti contro il Lamarmora, provocarono il dì 8 dicembre una piccola sommossa in favore del Governo papale. Verso le 4 e mezzo un gruppo di papisti e di caccialepri mossero dalla gradinata di San Pietro verso il colonnato di destra, e presero a dir villanie ai popolani, gridando: «Viva Pio IX, morte ai liberali!» I popolani fischiarono e i provocatori furono rinforzati da un secondo gruppo schiamazzante. Un ex-ufficiale dei caccialepri dette uno schiaffo a un popolano, questi rispose con una legnata, e ne nacque un tafferuglio che fu subito sedato dai soldati. I papisti fuggirono in Vaticano, i popolani nelle viuzze laterali, e in mano alla forza non rimasero altri che un caccialepre, e il Tognetti, fratello dell’eroe popolare, il Valentini e un certo Francesco Bersani, ferito leggermente. Più tardi una turba di popolo, avendo arrestati tre caccialepri, li spingeva innanzi a sè e voleva gettarli nel Tevere. Un ufficiale della Guardia Nazionale, il signor Testori, il sergente Fabri, due furieri e alcuni militi, che avevano inteso del tumulto e giungevano in carrozza, arrestarono i tre caccialepri riuscendo a salvarli dall’ira popolare. Il giorno dopo gli assembramenti si ripeterono, perchè qualcuno aveva creduto riconoscere il colonnello pontificio Azzanesi in un signore che si era recato all’ufficio del Tribuno, in via della Vite e dovettero intervenire i soldati per ricondurre la calma. Ma queste erano inezie, che se davano al cardinal Antonelli incitamento a far proteste, non turbavano altro che momentaneamente la città, che teneva lo sguardo rivolto su Firenze, da dove sperava che giungessero due liete notizie: quella che il Parlamento aveva votato la legge del trasporto della capitale a Roma, e l’altra della partenza del Re. La prima fu votata avanti le vacanze di Natale. Ne era stato relatore il Guerzoni, e stabiliva, secondo il volere del Ministero, che il trasporto della capitale si sarebbe effettuato dopo sei mesi dalla promulgazione della legge e che le spese, contemplate in 17 milioni di lire, sarebbero state inscritte nel bilancio dei lavori pubblici per l’anno 1871.

La Porta e Pianciani avevano presentato una proposta tendente ad abbreviare quel periodo di tempo di sei mesi, già breve. Il Sella la combattè dicendo che i tecnici, interrogati in proposito,