Roma italiana, 1870-1895/Il 1871

Il 1871

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Il 1871.



Augurii al Quirinale e al Vaticano — Il processo per i fatti del dì 8 dicembre - Il principe Doria — Soccorsi agli inondati — La venuta dei Principi Reali — Feste pubbliche e ricevimenti del patriziato — Il Carnevale — Prediche e dimostrazioni — I professori vecchi-cattolici — La festa del 14 marzo — La legge delle Guarentigie Lo Statuto — La Capitale a Roma — Le sedi dei ministeri — Il pellegrinaggio dal Fapa — Il ritorno dei Principi Reali e del Re,


La mattina del 1° gennaio, mentre il Re d’Italia riceveva gli augurii delle deputazioni dei due rami del Parlamento, e rispondendo a quegli augurii, diceva di essere stato profondamente commosso per la sventura di Roma, Pio IX accoglieva pure gli omaggi degli ambasciatori, dei ministri e dei consoli delle potenze, secondo l’uso, e invece di parlare dei quartieri inondati, delle case crollate, della rovina di tante famiglie, pareva non avesse rivolta la mente altro che al grande fatto della venuta a Roma di Vittorio Emanuele. Notando il silenzio che su quel fatto serbavano tutti i diplomatici, col sorriso sulle labbra interrogò uno di essi, che abitava appunto sul principio del Corso, domandandogli se avesse veduto il Re di Sardegna. L’interrogato, che era un console, rispose di no, e il Pontefice non mancò di replicare: «Eppure ci viene assicurato che sia passato circa il mezzogiorno sotto le vostre finestre, dalle quali sventolava la bandiera della vostra nazione.

«Può darsi rispose il console; e il Papa soggiunse:

«È economico il doppio uso di quella bandiera, che serve per due Sovrani!»

Pio IX, al quale certo non si poteva negare molta prontezza di percezione, illustrava con queste parole la situazione che si andava delineando intorno a lui. Le potenze, alcune per riguardo alle antiche tradizioni, altre per non urtare il sentimento dei cattolici, lasciavano accreditati presso il Papa ambasciatori o ministri, ma di fatto lo abbandonavano, e con quella indifferenza che è propria di chi è noiato di una lunga questione, si rimettevano nel Governo italiano per la sicurezza del Papato. Esse dividevano la questione nazionale da quella internazionale, cioè il fatto dell’occupazione di Roma da quello della indipendenza del Pontefice nell’esercizio della sua missione spirituale, e siccome sotto questo rispetto il ministro italiano degli esteri aveva offerto spontaneamente ai Governi le più ampie assicurazioni, alle quali il Parlamento doveva dar forma di legge con le Guarentigie, esse non avevano desiderio, nè bisogno di protestare. E tanto meno esse appoggiavano il desiderio del Papa di lasciar Roma, come fin da principio consigliavalo un partito spesso [p. 48 modifica]prevalente nel Vaticano, e al quale avrebbe forse prestato fede, se avesse avuto ventidue anni di meno, come quando chiese ospitalità a Gaeta al Re di Napoli. Ma i vecchi temono ogni cambiamento materiale e, come gli alberi annosi gettano radici tanto più profonde nel suolo, quanto meno ricchi sono i loro rami. E così il consiglio di Antonelli e di Randi prevalse contro l’altro di de Merode, e il Papa rimase. Ogni tanto si parlava di partenza, ma erano voci sparse per dare a credere che la situazione del Pontefice non fosse tollerabile; erano minacce tendenti a rinfocolare gli animi dei fedeli e a commovere quelli dei dubbiosi e degli incerti.

Certi documenti del Vaticano peraltro facevano brutta impressione qui e altrove, come, per esempio, la nota-circolare del cardinale Antonelli alle potenze sui fatti del giorno 8 dicembre e di successivi. Il pettegolezzo e la bile erano le due note dominanti in quella circolare, e anche che l’idea fondamentale di essa fosse stata imposta da una volontà superiore, nel redigerla il cardinale segretario di Stato avrebbe potuto darle una intonazione più alta e meno aspra. Quella circolare prova che l’Antonelli, se era stato capace di guidare gli affari della Santa Sede in momenti più facili, era inetto assolutamente a dirigerli nei tempi che volgevano, perchè dimenticava il posto acquistato dall’Italia in Europa in poco volger di anni, e il prestigio che essa esercitava non solo sui Governi, mia sui popoli, le cui simpatie non potevano essere disprezzate da chi li governava.

Il primo fatto importante dell’anno 1871 fu appunto il processo contro Angelo Tognetti e Leopoldo Valentini, arrestati nei tumulti del giorno 8 dicembre in piazza San Pietro. Era difeso il primo dall’avvocato Carancini, il secondo dall’avvocato Federico Pugno, giornalista napoletano di molto ingegno, che poi morì nel 1881, e dall’avvocato Aperti. Presiedeva il tribunale il Liverani e funzionava da pubblico ministero il cav. Felici. Parte civile si erano costituiti Oddo, Bruschi, Ruffini, Cave ed i due fratelli Bersani, uno dei quali era stato ferito da un colpo di revolver, e gli altri feriti pure, ma più leggermente.

Tognetti e Valentini furono assolti per mancanza di prove, e al solito, come in tutti i processi nei quali due partiti avversi si trovano di fronte, non fu bene accertato chi dei due avesse provocato: se i papalini con lo scegliere la festa della Concezione, cara al Papa, per recarsi a frotte al Vaticano, o i liberali coll’adunarsi sulla piazza, con l’intento d’invigilare le mène dei loro avversarii. Fu un fatto spiacevole, ma di poca importanza; e forse, se i feriti non si fossero costituiti parte civile, il Governo avrebbe evitato il processo.

In tutto quell’inverno del 1871 si hanno tre manifestazioni diverse di vita nuova. Da un lato abbiamo l’azione del Governo tutta rivolta a cercar locali per gli uffici della capitale, ad appianare difficoltà, a mostrarsi conciliante con tutti, pur proseguendo il suo scopo di ridurre Roma una città moderna e modernamente costituita; dall’altro abbiamo la nuova vita municipale che si estrinseca in continui atti di resistenza contro il potere governativo; dal terzo la vita veramente politica, la lotta fra i partiti rappresentati dal Vaticano, dal Quirinale, e dai resti della Associazione Italiana del 1850, che aveva allora a Roma una piccola schiera di adepti e molti partigiani avventizi venuti dal di fuori.

La visita del Re aveva lasciato uno strascico, come ne aveva lasciati molti e dolorosi l’inondazione che aveva affrettato quella visita. Si seppe, dopo alcuni giorni di accuse al Lamarmora, che era stato don Filippo principe Doria Pamphily, assessore anziano, che era nella carrozza di Vittorio Emanuele, quegli che avevalo dissuaso dal visitare la città Leonina e i quartieri più danneggiati, e invece avevalo condotto a vedere il panorama di Roma dal Pincio. Dispiacque che il Re non rianimasse con la sua presenza gl’inondati, mentre il comitato di soccorso del palazzo [p. 49 modifica]

Fotografia Montabone
VITTORIO EMANUELE II
[p. 51 modifica]Piombino, sotto la direzione del duca di Fiano, tanto si adoprava; mentre don Baldassarre Odescalchi e il clericale principe don Filippo Orsini, che avevano il loro quartiere generale al palazzo di Monte Savello, non riposavano un momento; e il conte Guido di Carpegna faceva prodigi nel rione Campitelli; e il duca Sforza-Cesarini e don Ignazio di Venosa guidavano i militi della guardia nazionale ove maggiore era il bisogno. A Campitelli, il coadiutore del conte di Carpegna, era quel tale cappuccino di Palestrina, vestito di abiti civili, il quale soccorse i feriti il giorno della breccia.

E i cittadini facevano pure a gara a sollevare gli sventurati e ad essi si univa tutta l’Italia. Liste di offerte circolavano per Roma, e tutti i Comuni del Regno inviarono l’obolo loro. Il marchese Marignoli donò 5000 lire, il signor Costanzi 2000; il principe Torlonia, non solo metteva la sua bella barca dorata a servizio degli inondati, ma esercitava largamente la carità; anche i poveri cappuccini di piazza Barberini davano 100 lire; e il principe Doria aveva impedito che il Re vedesse la maggiore miseria di Roma! Il Governo faceva pressione sull’assessore anziano perché accettasse l’ufficio di sindaco, ma egli ricusava, sapendo che non era ben visto. E cosi, per quell’incidente della inondazione, Roma non ebbe sindaco fino al mese di aprile, quando finalmente fu nominato il principe Pallavicini.

Ma il principe Doria ne aveva fatta un’altra grossa: egli aveva trasmesso 20,000 lire a nome della Giunta al generale Cosenz, per essere erogate a beneficio dei soldati che si erano prestati in quei giorni. Il Cosenz rifiutò; l’assessore anziano si ebbe dalla stampa acerbo biasimo per quell’atto che provava una mancanza di tatto, tatto che non si poteva esigere in un principe romano, il quale non aveva idea che cosa fosse un esercito nazionale. Anche le lesinerie per non voler pagare gli artisti e gli artefici, i quali avevano lavorato per preparare le feste per la venuta del Re, furono nuovo motivo d’impopolarità. Il Re, peraltro, gli era grato dell’accoglienza fattagli, e lo nominava poco dopo Prefetto di palazzo e Gran Mastro delle cerimonie. Il Papa non era tanto in collera col principe per esser passato nel campo avverso; era però arrabbiatissimo contro la figlia di lui, la bella donna Teresa Massimo di Rignano, per avere accettato la carica di dama d’onore della Principessa di Piemonte.

Verso i primi di gennaio fu inaugurato a Roma, sulla via Flaminia, il tempio appartenente alla Libera Chiesa di Scozia. Nel 1865, gli Scozzesi di quella confessione religiosa, erano stati espulsi, perché si riunivano a pregare in casa del loro pastore, signor Bruce. Senza perdersi d’animo, essi vi tornarono nel 1869, e si diedero a costruire una casa privata per non destar sospetto, e nel 1871 potevano inaugurare al culto il loro tempio.

Si vuole che Cavour, nel suo viaggio intorno al 1843 in Inghilterra e in Iscozia, s’ispirasse appunto da quella chiesa, che attinge soltanto la propria forza nelle sue dottrine, e i mezzi per provvedere alle pratiche del culto dalle spontanee offerte dei credenti, per adottare la formula: «Libera Chiesa, in libero Stato».

In quel tempo appunto giunse a Roma il Minghetti, il quale fu festeggiatissimo dal Circolo Cavour, prettamente monarchico, e presieduto da don Augusto Ruspoli. Da quel Circolo poi nacque l’Associazione Monarchico-Costituzionale, che sussiste sempre. In quel Circolo il Minghetti, al suo ritorno di Sicilia, pronunziò un notevolissimo discorso, in cui era racchiuso un programma di governo che poco si allontanava da quello di Cavour. Ne cito un passo:

«Qui un vasto campo è aperto all’Italia; vastissimo a Roma. Grandi e rapidi miglioramenti possiamo e dobbiamo conseguire nelle scuole, nelle strade, nell’agricoltura, nell’industria, nel commercio. So bene che dipende per la massima parte dalla attività individuale e che la vera condizione di essa è la libertà. Ma il Governo può mostrare la via, può togliere di mezzo gli ostacoli, può incoraggiare gli [p. 52 modifica]sforzi dei privati e delle associazioni. E a tal fine è mestieri che esso sia ordinatamente progressivo. Questo ideale di un Governo arditamente progressivo in tutto ciò che s’attiene alla scienza, alla ricchezza, all’istruzione, alla educazione, e in pari tempo profondamente conservatore dell’ordine politico, delle istituzioni, dei rapporti internazionali, questo ideale io so che è il vostro, e da ciò viene questa comunanza di affetti e di pensieri che ci riunisce in amichevole banchetto».

Il Minghetti, che era stato ministro di Pio IX nei momenti della luna di miele del Papa con l’Italia, non chiese, in questa sua prima venuta a Roma, un’udienza, come aveva fatto a Bologna nel 1858, perchè forse credeva che non gli sarebbe stata accordata, neppure all’ultimo momento prima del pranzo, come avvenne allora.

Durante il soggiorno del Minghetti a Roma, due collegi elettorali, il terzo e il quarto, dovettero procedere a nuove elezioni, perché il deputato del terzo, l’avvocato Marchetti, era stato dichiarato ineleggibile, e don Emanuele Ruspoli, deputato del quarto, aveva optato per Viterbo. Il Marchetti aveva rimosso le cause d’ineleggibilità, e i suoi antichi elettori lo riportavano candidato. Egli si trovava di fronte al Venturi, a Giuseppe Garibaldi, portato dal Circolo Romano. Nell’altro collegio, don Augusto Ruspoli aveva contro Biagio Placidi, sostenuto dal Circolo Bernini, e Mattia Montecchi. Trionfò il Circolo Cavour, e il Marchetti e il Ruspoli furono eletti. Garibaldi ebbe una meschina votazione.

Il 17 gennaio segna una data memorabile nella storia della Roma moderna, perché la Giunta municipale in quel giorno decreto l’espropriazione dei terreni compresi fra la Porta S. Lorenzo e Porta Pia, che inaugurò l’era della creazione di larghe vie soleggiate e ventilate. L’iniziativa però si deve al cardinale De Merode, il quale aveva comprato già alcun tempo prima diverse vigne fra la Porta Pia e la Stazione, fra San Bernardo e le Quattro Fontane, ed era di sua proprietà anche la caserma del Macao. Infatti, appena il generale Lamarmora annunziò che da quella caserma si sarebbero tirate le cannonate per salutare l’arrivo del Principe e della Principessa di Piemonte, egli protestò, dicendo che aveva permesso che alla caserma venissero i soldati, perché non vi erano locali, ma non permetteva che da quella si sparassero salve di gioia per un fatto che lo addolorava. Però le cannonate furono sparate lo stesso il giorno 23 gennaio.

Il Principe Umberto veniva qui in qualità di comandante del 1° corpo d’esercito, che comprendeva le divisioni di Roma, Firenze, Chieti e Perugia, per prendervi stabile dimora. Il capo di stato maggiore era il generale Morra di Lavriano, il primo aiutante di campo il generale Cugia; ufficiali di stato maggiore Ceresa, Taverna e Buschetti; ufficiali d’ordinanza Giannotti, Brambilla e Del Mayno, tutti eleganti e brillanti ufficiali. Accompagnavano la Principessa di Piemonte il marchese e la marchesa Villamarina di Montereno.

I Romani erano tutti lieti di avere una corte giovane al Quirinale. Il Principe e la Principessa godevano ovunque immense simpatie: Umberto, per il suo valore, per la sua schiettezza, per la sua bontà; Margherita per la dolce beltà del suo volto, per la gentilezza dell’animo.

A Roma i Principi Reali ebbero una vera ovazione nel giungere. Pioveva in quel giorno, ma la Principessa, a metà strada, volle che il suo landau fosse aperto, per contentare la folla che chiedeva di vederla. La guardia nazionale a cavallo, faceva ala sul passaggio del corteo formato dalle tre carrozze di corte e da quelle delle dame che erano andate a ossequiare la Principessa.

Questa trovava già la sua corte formata. Le prime cinque dame erano: la duchessa di Rignano, la duchessa Sforza-Cesarini, la marchesa Calabrini, la principessa di Teano e la principessa Pallavicini; i cavalieri di compagnia: don Marcantonio Colonna, don Giannetto Doria, duca di [p. 53 modifica]Valmontone, il signor Cesare Brenda e il duca di Fiano. Le dame portavano già, come distintivo, la M in brillanti sul nodo di nastro azzurro.

Le prime passeggiate per la città, le prime serate al teatro, si cambiarono in calorose ovazioni. La Principessa andò al Pincio per la prima volta insieme con donna Flora Calabrini e col cav. Brenda, e dalle finestre le gittavano fiori, e tutti esclamavano: «Com’è graziosa! com’è bellina!» Fin d’allora, ella aveva conquistato il popolo di Roma con i suoi sorrisi, con la bontà che le traspariva dal volto giovanile.

Lunga sarebbe la lista delle persone che vollero esserle presentate. Fra gli uomini noto il duca don Romualdo Braschi, che era stato radiato dai ruoli della guardia nobile per avere inalberata la bandiera tricolore a Tivoli, il duca Lante di Montefeltro, don Maffeo Sciarra, don Mario e don Giulio Grazioli, il conte Fenfranelli-Cybo, il conte Trocchi, il conte Emilio Malatesta, il marchese Catpranica e molti altri.

Fra le dame del patriziato la marchesa Lavaggi, la principessa Del Drago, donna Agnese Ruspoli, le contesse Gabriella ed Ersilia Lovatelli, la duchessa di Sermoneta, la contessa Troili, la duchessa Lante, la principessa di l’enosa, la marchesa Del Grillo, la duchessa di Fiano, la contessa Cini, la marchesa Gavotti.

L’accoglienza fu dunque affettuosa da parte di ogni classe di cittadini, così per il Principe che per la Principessa, e ogni volta che si facevano vedere in pubblico, pareva che fossero allora allora giunti, tanto venivano acclamati calorosamente.

Anche questo arrivo dette luogo al cardinale Antonelli di fare una protesta ai rappresentanti delle potenze, e da quella protesta stacco un brano, a titolo di curiosità:

«Ieri (23 gennaio) a quattro ore dopo mezzodì, il principe Umberto di Savoia e la sua sposa hanno fatto il loro ingresso solenne a Roma, e si sono installati nell’appartamento del Santo Padre al Quirinale, intieramente trasformato ed appropriato al nuovo uso che si vuol farne. Perchè il popolo accorresse in folla e i Principi fossero l’oggetto di una dimostrazione di gioia, gli avvisi del municipio, gli articoli dei giornali, i proclami dei Circoli, avevano invitato la popolazione a recarsi in gran numero sul loro passaggio. Gli studenti dell’Università e quelli del Liceo, installati nel Collegio Romano, donde vennero espulsi i Gesuiti, dovettero del pari recarvisi colle loro rispettive bandiere. Tuttavia l’accoglienza presentò guari un carattere di festa, e se si eccettua un pugno di popolaccio, che accozzato nelle strade al suono della tromba che aveva alla testa, sul luogo medesimo circondava il corteo ed applaudiva i nuovi venuti, tutti gli altri curiosi, che sogliono riunirsi dappertutto, e per un motivo qualunque, serbavano un silenzio pieno di dignità.

«Quando i due viaggiatori furono saliti al quartiere destinato a diventare loro abitazione, quelli che durante il tragitto avevano gridato ed applaudito, si posero a richiedere la comparsa del Principe sul balcone principale del palazzo. Questo desiderio su prima esaudito che espresso. Si decorò infatti di un tappeto di seta rossa quella stessa loggia d’onde si annunzia al mondo cattolico l’elezione del Pontefice, Sovrano di Roma, Capo augusto della Chiesa; e il Principe e la Principessa si mostrarono al popolo. Alla sera volevasi che le case fossero illuminate; ma gli abitanti non si curarono di rispondere a questa esigenza, in guisa che la città rimase immersa affatto nelle tenebre».

Invece, come ho detto, ogni uscita dei Principi dal Quirinale, era una festa. Già prima che giungessero, il patriziato del partito bianco aveva incominciato a dar feste. Le aveva inaugurate il principe Doria. Gli onori di casa eran fatti dalla duchessa di Rignano, e a quei balli andava anche il conte Arnim. Poi avevano fatto ballare i Teano; gli Sforza-Cesarini arevano dato un pranzo in [p. 54 modifica]onore del generale Della Rocca, il quale era a Roma insieme col Cerotti e col Ricci, con incarico di far gli studi per fortificare Roma con una corona di forti staccati; poi la principessa Pallavicini aveva inaugurato i suoi venerdì, e fu appunto ad uno di questi balli che fece la sua prima comparsa Margherita di Savoia. Quindi andò in casa Teano, in casa Doria, a un pick-nick alla villa Torlonia, accettò gl’inviti dei Circoli, e ovunque ballava fino alla mattina, infaticabilmente. Il Principe non ballava e notavasi come il conte Arnim, che aveva sollecitato l’onore di essergli presentato, parlasse spesso con il Principe Reale.

Il piccolo Principe di Napoli usciva anch’egli ogni giorno e il popolo si fermava a guardarlo con tenerezza. Lo accompagnava la sua Bessie, la bambinaia inglese, ed un’altra bambinaia italiana, certa Teresina Fiore.

Il canonico Anzino era venuto a Roma come cappellano dei Principi, ma gli si era imposto di non ufficiare al Quirinale se non voleva incorrere nella sospensione a divinis. La prima domenica dunque i Principi andarono a sentire la messa a Sant’Agnese, in piazza Navona. Ufficiava l’Anzino, e il principe Doria, patrono di quella chiesa, aspettava la Principessa di Piemonte innanzi alla gradinata per condurla all’inginocchiatoio. Le domeniche successive i Principi andarono a Santa Maria Maggiore, ma anche lì un pettegolezzo, perchè il Ricci, sacrestano maggiore del Capitolo, aveva fatto preparare i guanciali di velluto rosso sull’inginocchiatoio. Allora ogni domenica, intanto che si restaurava la cappella del Sudario, che è di spettanza dei piemontesi, la Casa Reale mandava, prima dell’arrivo dei Principi in Santa Maria Maggiore, uno staffiere con i guanciali.

Alla principessa Margherita non mancarono in quei primi tempi del suo soggiorno a Roma, nessuna delle noie inerenti al suo grado. Una sera al Valle, durante la rappresentazione di un nuovo dramma di Carlo d’Ormeville, Tutto per la patria, dovette ascoltare l’Aliprandi, che le recitò una poesia pure del d’Ormeville: Roma ed il suo fiore, di cui non conosco altro che questa strofa:

Fra i mille fiori onde s’ingemma il suolo
Dell’Italo giardino,
Un sol ne bramo, e ne prescelgo un solo:
Ha d’argento le foglie e il botton d’oro;
Somiglia ad una stella,
Vince in confronto ogni maggior tesoro.

La futura Sovrana d’Italia in quell’inverno non visse punto per sè, non fece altro che dedicarsi alla missione che si era imposta di mostrarsi compiacente, cortese, buona, per farsi amare.

Il Principe compiva con impegno i suoi doveri militari, prendeva parte alle cacce, visitava ospedali ove giacevano i feriti.

I Principi assistettero in quell’anno ai corsi, che furono molto animati, dal terrazzino dell’Albergo di Roma, e li sotto c’era ressa di popolo e i fiori piovevano intorno a Margherita di Savoia. Dal Vaticano si faceva spargere la voce che quell’allegria carnevalesca fosse pagata dal municipio; allora comparve sul Corso una mascherata satirica. Tutti avevano un cartello sul cappello con la scritta: Pagate, e sul carro vi era scritto:

Ci hanno dato cento lire
Sol per farci divertire.

Un’altra mascherata, La Crociata, fu proibita, ed ecco perchè: [p. 55 modifica]Correva voce per Roma che si facessero arrolamenti in segreto dal Vaticano, e che gli zuavi e gli antiboini tornassero alla spicciolata. Se ne parlava tanto, che Crispi fece una interpellanza alla Camera su queste voci di arrolamenti. Il Visconti-Venosta gli rispose che era cosa da ridere, perchè i paladini del Papato volevano riconquistare la Francia a poi venire a cacciarci da Roma. Ma intanto qui la polizia aveva scoperto le fila della «Crociata Cattolica» in una litografia al Corso, dove si stampavano i cartoncini, e presso il padre Vincenzo Vannutelli a Santa Sabina, sull’Aventino. Per evitare nuove note dell’Antonelli e per non provocare disordini, la questura dunque proibì la mascherata satirica. E fece bene, perchè ogni inezia suscitava disordini e non ce ne furono pochi a proposito delle prediche del padre Curci prima a Sant’Ignazio e poi a Sant’Andrea della Valle, e per causa del padre Tommasi, che predicava al Gesù. A Sant’Ignazio i disordini incominciarono anche prima a proposito di un triduo. La questura vi aveva mandato due agenti, il Pasanesi e il Castagnola, i quali durante la benedizione s’inchinarono profondamente, senza inginocchiarsi. Il marchese di Baviera, direttore dell’Osservatore Romano, nell’uscire conoscendo il Pasanesi, gli battè sulla spalla e gli disse a voce alta: «Questo non è il contegno che si ha in chiesa; dovete ricevere la benedizione in ginocchio, intendete, in ginocchio. Nei vostri uffici comandate voi, ma in chiesa comandiamo noi».

Queste parole infiammarono gli altri devoti, che accostandosi ai due agenti li minacciarono. Alcuni giovani liberali volevano prender le difese degli insultati, i quali, per evitare un tafferuglio, entrarono nel vicino quartiere della Minerva.

Un giorno, verso la metà di febbraio, il padre Curci predicando a Sant’Ignazio a pro’ dei chierici sottoposti alla leva, disse che i romani liberali, erano «schiavi abbietti delle più abbiette passioni, che si lasciavano sedurre dalla facile gonnella di una sgualdrina». I non clericali, che erano in chiesa dettero in una solenne risata, rilevando la sconveniente allusione; i giornali riferirono quelle parole e il padre Curci, che già vedeva la mala parata, le rettificò con una lettera alla Libertà, assicurando di essersi espresso cosi: «Ed a cristiani educati a questa scuola (l’Evangelo) dovranno insegnare e portare libertà quattro cerretani politici, schiavi abbietti di più abbiette passioni, che non sanno resistere a un pollo arrosto, ad un gruzzolo di marenghi e, meno ancora, alla facile gonnella di una sgualdrina».

La rettifica giovò poco. Al Parlamento, ove lentamente discutevasi la legge sulle Guarentigie, di cui era relatore il Bonghi, fu presentata da alcuni deputati una aggiunta di cinque articoli con i quali si regolava l’espulsione dei gesuiti dal Regno. Questa aggiunta, oltre le firme del Bargoni, del Guerzoni, dello Zanardelli, del Civinini, del Corte e di altri, portava anche quella del Carini, padre di monsignor Isidoro, poi vice-bibliotecario della Vaticana.

Non ci voleva altro per dare un pretesto ai Romani di promuovere una agitazione contro la compagnia! Se ne fece iniziatore il serio e moderato Circolo Cavour, e le schede circolavano per la città e si coprivano di firme. Intanto i clericali facevano presentare un indirizzo al Papa, dalla principessa Orsini, corredato di 157 nomi del patriziato, il quale incominciava: «Padre Santo! coraggio; le vostre amarezze, sono le amarezze dei vostri figli.» Gli animi dalle due parti erano così eccitati, che bastava una guardata in cagnesco per suscitare disordini. E appunto perchè il tenente Santini, della guardia nazionale, guardò in cagnesco certi clericali all’uscire dalla predica del padre Tommasi al Gesù, venne insultato, e volarono bastonate; così dovette intervenire la truppa fare molti arresti. Pochi giorni dopo fuori della chiesa vi erano capannelli di liberali. Quando uscivano i caccialepri erano chiamati a nome e fischiati. Nacquero colluttazioni, si fecero venire due [p. 56 modifica]compagnie del 63° che erano consegnate, ci furono squilli e cariche per disperdere la folla in piazza. Intanto nella chiesa avvenivano scompigli. Un caccialepre si gettò addosso alle guardie e il prete che diceva messa, don Raffaele Collalti, si avventò a una guardia municipale dandole dello scomunicato. Il prete fu condotto a Montecitorio.

La sera nuovi disordini; gli studenti uscirono gridando: «Abbasso i gesuiti».

Il 12 aprile ricorreva l’anniversario del ritorno di Pio IX da Gaeta e una signora belga, la contessa di Steinlein, nota a Roma per andare in giro con una croce di Mentana sul petto e fiori bianchi e gialli in mano, e per dar guardatacce al Principe Ereditario quando lo incontrava, aveva illuminato le finestre della sua abitazione in piazza di Spagna con trasparenti bianchi e gialli, sui quali stava scritto: «Affetto, lutto, fedeltà». La notizia giunse al Corso, pieno di gente. La folla andò a fare una dimostrazione sotto le finestre della signora e ci volle la truppa per ricondurre l’ordine.

Anche in seno ai sodalizi avveniva lo stesso. L’elezione del Principe Umberto a socio onorario dei «Virtuosi al Pantheon», proposta dal Betocchi, solleva proteste e scissure per parte di alcuni soci; la denominazione di Reale data all’accademia dei Lincei, produsse uno scisma pure, di cui fu capo monsignor Nardi. L’accademia Reale continuò a risiedere in Campidoglio, la frazione che volle rimanere Pontificia emigrò a Propaganda Fide. I pontificii erano il dottor Viale Prelå, medico del Papa, che fu eletto presidente, il padre Secchi, l’Astolfo, l’Azzarelli, il padre Guglielmotti, l’abate Castracane, il Chelini e il Respighi.

All’università le cose non andavano meglio. Molti insegnanti fecero adesione al professor Doellinger di Monaco di Baviera, il quale non accettando il dogma della infallibilità, andava formando il nucleo dei vecchi cattolici.

Questi furono: Cleto Carlucci, professore di medicina e rettore dell’università; Giuseppe Saredo, prof. del codice civile; Emidio Pacifici-Mazzoni, prof. di diritto romano; Paolo Volpicelli, decano della Facoltà e prof. di fisica; Carlo Maggiorani, decano e preside della facoltà medico-chirurgica; Antonio Panunzi direttore della clinica ostetrica; Pietro Gentile, prof. di patologia generale; Corrado Tommasi-Crudeli, prof. di anatomia patologica; Ettore Rolli, prof. di botanica pratica; Casimirro Manassei, prof. della clinica dermopatica; Leone de Santis, prof. di zoologia e anatomia comparata; Alessandro Betocchi, prof. di geodesia e idrometria; Francesco Todaro, prof. di anatomia umana; Pietro Rosa, prof. di archeologia; Aliprando Moriggia, prof. d’isteologia; Fabio Nannarelli, prof. di letteratura italiana; Giacomo Lignana, prof. di lingua e letteratura comparata; Giuseppe Corradi, prof. di chirurgia; Giuseppe Ponzi, prof. di mineralogia e geologia; Telesforo Tombari, prof. di patologia veterinaria; Paoli, prof. incaricato della storia della filosofia; Francesco Occhini, prof. assistente alla clinica chirurgica; Antonio Valente, prof. assistente al gabinetto d’anatomia; Attilio Battistini, prof. assistente al gabinetto d’isteologia; Francesco Cerroti, direttore della biblioteca Alessandrina-Corsiniana. Questo indirizzo portava pure la firma di una cinquantina di artisti. I professori che non avevano aderito al programma neo-cattolico del Doellinger, ricevevano un invito del padre Seppiacci, segretario del generale dei Domenicani, col quale si pregavano di firmare un indirizzo al Santo Padre e una adesione a quanto era stato stabilito nell’ultimo concilio.

I firmatari della contro protesta, che erano per la massima parte professori di teologia, si scindono e così si forma la Pontificia Accademia. Il Papa, inviperito contro i seguaci del Doellinger, dirige una lettera al cardinal Patrizi, nella quale li chiama «ciechi e perduti duci di ciechi»; e invita i parroci ad adoprarsi per impedire che gli studenti frequentino le loro lezioni. La mattina [p. 57 modifica] dopo, appena i professori si presentano, sono acclamati dagli studenti liberali, fischiati dagli altri, che erano circa 300, perchè i clericali mandavano a Roma i loro figli a preferenza. Il professor Todaro impedisce che continui la dimostrazione dicendo: «Signori, occupiamoci della scienza». Il prof. Volpicelli invita gli studenti alla calma, ma nella notte si affiggono cartelli sulla porta della università dai clericali, i quali poi si riuniscono giornalmente al mese mariano a santa Santa Martina e firmano un indirizzo al Papa. A Roma quei giovani erano chiamati «gl’infallibili». La quistione non finiva più.

Ma rientriamo nell’ambiente meno saturo di elettricità della vita pubblica.

Al general Lamarmora, dopo il gennaio, era stato sostituito il Gadda, ministro dei lavori pubblici. Nel nominarlo commissario per Roma, il Governo si era lasciato guidare dal criterio di mettere un uomo autorevole e pratico alla soprintendenza dei lavori occorrenti per il trasporto della capitale. Ma il Gadda non ebbe poco da lottare. Montecitorio era stato destinato a sede della Camera dei deputati, si erano appaltati i lavori, questi già erano iniziati, quando viene fuori una protesta dell’ospizio di San Michele, che ne era possessore. Interruzione nei lavori, ritardi. Finalmente la quistione si appiana e i lavori ricominciano.

Il Governo estende a Roma la legge sulle Opere Pie, per poter occupare i conventi che gli occorrono, e qui proteste del cardinal Patrizi e dei vescovi delle diocesi suburbicarie di Roma, proteste delle monache e dei frati per occupare la Minerva, le Vergini, Sant’Andrea della Valle, i Filippini, Sant’Agostino, San Silvestro in Capite, San Silvestro al Quirinale, or’erano le monache di Santa Chiara, il convento dei SS. Apostoli e tutti gli altri creduti idonei a qualche ministero e a qualche ufficio. Delle cose trovate nei conventi si faceva subito inventario. Tutto ciò che era opera d’arte era affidata al comm. Pavan; gli atti pubblici al comm. Bollati e al dotto Costantino Corvisieri; i libri al Narducci, bibliotecario della Alessandrina. In tanto caos si cercava di non fare dispersioni e di non prender granchi, ma spesso non ci si riusciva.

La posta intanto si trasportava dal palazzo Madama, scelto pel Senato, in piazza Colonna, ov’è ora il palazzo Wedekind; si apriva un ufficio dello stato civile al Campidoglio e i parroci erano invitati a consegnare gli atti di battesimo. Lo facevano con riluttanza, ma finivano per obbedire.

Una sede della Banca Nazionale era aperta al pianterreno del palazzo Ruspoli.

Ogni innovazione meravigliava i romani, così poco assuefatti a vederne. La prima affissione degli annunzi di matrimonio attirava i curiosi, le prime coppie che si unirono civilmente ebbero numerosi spettatori dell’atto nuziale.

Un fatto degno di nota si è che appena fu estesa a Roma la legge sulla leva, spontaneamente si presentarono 900 coscritti, fra cui due gesuiti e un prete.

Quando i coscritti del distretto di Roma furono incorporati nei reggimenti, un sacerdote, certo Nicola Cafiero, accolse il loro giuramento nella chiesa di Santa Maria del Carmine, fuori di Porta Portese. Il Papa risaputolo, lo sospese e fecelo cacciare dalla chiesa parrocchiale. I popolani gli fecero una patriotica dimostrazione e il principe Pallavicini lo ricoverò in una casa in via Giulia. Poi il Governo gli dette una pensione equivalente al benefizio perduto.

Quell’anno la festa del 14 marzo fu celebrata a Roma con insolita solennità. Il principe passò in rivista le truppe schierate in piazza Barberini, via del Tritone, Babbuino, piazza del Popolo e Corso fino a piazza Venezia. Lo sfilamento ebbe luogo in piazza di Spagna. Le quattro legioni della guardia nazionale, comandate interinalmente dal colonnello Angelo Tittoni, che avevano prestato giuramento al Macao il 12, vi presero parte, e lo squadrone della guardia nazionale a cavallo [p. 58 modifica]fece la scorta d’onore al Principe Ereditario, che ebbe ovazioni calorose. La sera una grande dimostrazione andò al Quirinale con 28 bandiere.

La legge sulle Guarentigie, di cui era stata sospesa la discussione in seguito all’emendamento Peruzzi, è finalmente approvata dai due rami del Parlamento e promulgata. Eccone il testo:


TITOLO I

Prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede.

Art. 1. — La persona del Sommo Pontefice è sacra ed inviolabile.

Art. 2. — L’attentato contro la persona del Sommo Pontefice e la provocazione a commetterlo sono puniti colle stesse pene stabilite per l’attentato e per la provocazione a commetterlo contro la persona del Re.

Le offese e le ingiurie pubbliche commesse direttamente contro la persona del Pontefice con discorsi, con fatti, o coi mezzi indicati nell’articolo 1° della legge sulla stampa, sono punite colle pene

stabilite all’art. 19 della legge stessa.

I detti reati sono d’azione pubblica e di competenza della Corte d’Assise.

La discussione delle materie religiose è pienamente libera.

Art. 3. – Il Governo italiano rende al Sommo Pontefice nel territorio del Regno gli onori sovrani, e gli mantiene le preminenze d’onore riconosciutegli dai sovrani cattolici. Il Sommo Pontefice ha facoltà di tenere il consueto numero di guardie addette alla sua persona e alla custodia dei palazzi, senza pregiudizio degli obblighi e doveri risultanti per tali guardie dalle leggi vigenti nel Regno.

Art. 4 — È conservata a favore della Santa Sede la dotazione dell’annua rendita di L. 3,225,000. Con questa somma, pari a quella inscritta nel bilancio romano sotto il titolo: Sacri palazzi apostolici, Sacro Collegio, Congregazioni ecclesiastiche, Segreteria di Stato ed ordine diplomatico all’estero, s’intenderà provveduto al trattamento del Sommo Pontefice e ai vari bisogni ecclesiastici della Santa Sede, alla manutenzione ordinaria e straordinaria e alla custodia dei palazzi apostolici e loro dipendenze, agli assegnamenti, giubilazioni e pensioni delle guardie, di cui nell’articolo precedente, e degli addetti alla Corte Pontificia, e alle spese eventuali; non che alla manutenzione ordinaria e alla custodia degli annessi musei e biblioteca, e agli assegnamenti, stipendi e pensioni di quelli che sono a ciò impiegati.

La dotazione, di cui sopra, sarà inscritta nel Gran Libro del debito pubblico, in forma di rendita perpetua ed inalienabile nel nome della Santa Sede: e durante la vacanza della Sede si continuerà a pagarla per supplire a tutte le occorrenze proprie della Chiesa Romana in questo intervallo.

Essa resterà esente da ogni specie di tassa od onere governativo, comunale o provinciale; e non potrà esser diminuita neanche nel caso che il Governo italiano risolvesse posteriormente di assumere a suo carico la spesa concernente i musei e la biblioteca.

Art. 5 — Il Sommo Pontefice, oltre la dotazione stabilita nell’articolo precedente, continua a godere dei palazzi apostolici Vaticano e Lateranense, con tutti gli edifizi, giardini e terreni annessi e dipendenti, nonché della villa di Castel Gandolfo con tutte le sue attinenze e dipendenze.

I detti palazzi, villa ed annessi, come pure i musei, la biblioteca e le collezioni d’arte e d’archeologia ivi esistenti sono inalienabili, esenti da ogni tassa o peso, e da espropriazione per causa di utilità pubblica.

Art. 6. — Durante la vacanza della Sede Pontificia, nessuna autorità giudiziaria o politica potrà per qualsiasi causa porre impedimento o limitazione alla libertà personale dei Cardinali.

Il Governo provvede a che le adunanze del Conclave e dei Concili ecumenici non siano turbate da alcuna esterna violenza.

Art. 7. – Nessun’ufficiale della pubblica autorità od agente della forza pubblica può, per esercitare atti del proprio ufficio, introdursi nei palazzi del Sommo Pontefice, o nei quali si trovi radunato un Conclave o un Concilio ecumenico, se non autorizzato dal Sommo Pontefice, dal Conclave o dal Concilio.

[p. 59 modifica]Art. 8. — È vietato di procedere a visite, perquisizioni, o sequestri di carte, documenti, libri o registri negli uffizi e congregazioni pontificie, rivestite di attribuzioni meramente spirituali.

Art. 9. — Il Sommo Pontefice è pienamente libero di compiere tutte le funzioni del suo ministero spirituale, e di fare affiggere alle porte delle basiliche e chiese di Roma tutti gli atti del suddetto suo ministero.

Art. 10. Gli ecclesiastici che per ragione di ufficio partecipano in Roma all’emanazione degli atti del ministero spirituale della Santa Sede non sono soggetti per cagione di essa a nessuna molestia, investigazione o sindacato dell’autorità pubblica.

Ogni persona straniera investita di ufficio ecclesiastico in Roma gode delle guarentigie personali competenti ai cittadini italiani in virtù delle leggi del Regno.

Art. 11. — Gli inviati dei Governi esteri presso Sua Santità godono nel Regno di tutte le prerogative ed immunità che spettano agli agenti diplomatici secondo il diritto internazionale.

Alle offese contro di essi sono estese le sanzioni penali per le offese agli inviati delle potenze estere presso il Governo italiano.

Agli inviati di Sua Santità presso i Governi esteri sono assicurate nel territorio del Regno le prerogative ed immunità di uso, secondo lo stesso diritto, nel recarsi al luogo di loro missione e nel ritornare.

Art. 12. Il Sommo Pontefice corrisponde liberamante coll’episcopato e tutto il mondo cattolico, senza ingerenza veruna del Governo italiano.

A tal fine gli è data facoltà di stabilire nel Vaticano o in altra sua residenza uffizi di posta e di telegrafo serviti da impiegati di sua scelta.

L’ufficio postale pontificio potrà corrispondere direttamente in pacco chiuso cogli uffizi postali di cambio delle estere amministrazioni o rimettere le proprie corrispondenze agli uffizi italiani. In ambo i casi il trasporto dei dispacci e delle corrispondenze munite di bollo dell’ufficio pontificio sarà esente da ogni tassa o spesa pel territorio italiano.

I corrieri spediti in nome del Sommo Pontefice saranno pareggiati nel Regno ai corrieri di Gabinetto dei Governi esteri.

L’ufficio telegrafico pontificio sarà collegato colla rete telegrafica del Regno a spese dello Stato.

I telegrammi trasmessi dal detto uftizio con la qualifica autentica di pontifici saranno ricevuti e spediti con le prerogative stabilite pei telegrammi di Stato e con esenzione di ogni tassa nel Regno. I telegrammi diretti al Sommo Pontefice saranno esenti dalle tasse messe a carico dei destinatari.

Art. 13 — Nella città di Roma, e nelle sei sedi suburbicarie, i seminari, le accademie, i collegi e gli altri istituti cattolici fondati per l’educazione e cultura degli ecclesiastici continueranno a dipendere unicamente dalla Santa Sede, senza alcuna ingerenza delle autorità scolastiche del Regno.


TITOLO II

Relazioni dello Stato colla Chiesa.

Art. 14. – È abolita ogni restrizione speciale all’esercizio del diritto di riunione dei membri del clero cattolico.

Art. 15. — È fatta rinunzia dal Governo al diritto di legazia apostolica in Sicilia ed in tutto il Regno al diritto di nomina o proposta nella collazione dei benefizi maggiori.

I vescovi non saranno richiesti di prestare giuramento al Re.

I benefizi maggiori o minori non possono essere conferiti se non a cittadini del Regno, eccettochè nella città di Roma e nelle sedi suburbicarie. Nella collazione dei benefizi di patronato Regio nulla è innovato.

Art. 16. — Sono aboliti l’exequatur e placet Regio ed ogni altra forma di assenso governativo per la pubblicazione ed esecuzioni degli atti delle autorità ecclesiastiche.

[p. 60 modifica]Però fino a quando non sia altrimenti provveduto colla legge speciale di cui all’art. 18 rimangono soggetti all’exequatur e placet Regio gli atti di esse autorità che riguardano la destinazione dei beni ecclesiastici e la provvista dei benefizi maggiori o minori, eccetto quelli della città di Roma e delle sedi suburbicarie.

Restano ferme le disposizioni delle leggi civili rispetto alla creazione e ai modi di esistenza degli istituti ecclesiastici ed alienazione dei loro beni.

Art. 17. — In materia spirituale e disciplinare non è ammesso richiamo od appello contro gli atti delle autorità ecclesiastiche, nè è loro riconosciuta od accordata alcuna esecuzione coatta.

La cognizione degli effetti giuridici, così di questi come d’ogni altro di esse autorità, appartiene alla giurisdizione civile.

Pero tali atti sono privi di effetto se contrari alle leggi dello Stato od all’ordine pubblico, o lesivi dei diritti dei privati, e vanno soggetti alle leggi penali se costituiscono reato.

Art. 18. — Con legge ulteriore sarà provveduto al riordinamento, alla conservazione ed alla amministrazione delle proprietà ecclesiastiche del Regno.

Art. 19. — In tutte le materie che formano oggetto della presente legge cessa di avere effetto qualunque disposizione ora vigente, in quanto sia contraria alla legge medesima.

Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserta nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

Dato a Torino, addi 13 maggio 1871.


I nuovi oneri parevano gravosi ai Romani. Occorsero lunghe trattative perchè il municipio annuisse a pagare 3,800,000 lire l’anno al Governo, come quota del dazio consumo, e circolo una petizione fra i cittadini per ottenere che non fosse subito applicata la tassa di ricchezza mobile.

Per lo Statuto si erano fatti grandi preparativi, ma la pioggia torrenziale sciupò la festa. I bambini delle scuole elementari che, riuniti in piazza del Popolo, andarono al Campidoglio, vi giunsero tutti bagnati, nonostante si fossero rifugiati nel palazzo Sciarra.

Per i nati in quel giorno fu creato, per cura di alcuni cittadini, un fondo da erogarsi loro alla maggiore età, e difatti fu loro consegnato nel 1891 un libretto di cassa di risparmio. Uno degli iniziatori di questa istituzione fu Pacifico Pacifici, morto recentemente, buon patriota e valido sostenitore delle idee liberali a Roma, quando era pericoloso il sostenerle.

In Campidoglio furono scoperte queste due lapidi:

S. P. Q. R
QUESTA MEMORIA
RICORDERÀ NEI POSTERI
IL GIORNO 11 OTTOBRE MDCCCLXX
QUANDO I ROMANI
CON VOTO SOLENNE UNANIME
SI VOLLERO RICONGIUNTI ALL'ITALIA
SOTTO IL COSTITUZIONALE GOVERNO
DI VITTORIO EMANUELE II
E
DEI SUOI SUCCESSORI


[p. 61 modifica]

S. P. Q. R.
XXXI DICEMBRE MDCCCLXX
QUANDO CON ALLUVIONE INAUDITA
LE ACQUE DEL TEVERE DEVASTAVANO LA CITTÀ
IL POPOLO ROMANO
PONEVA QUESTA MEMORIA
A
VITTORIO EMANUELE II
PERCHÉ IN TANTA GRAVE SVENTURA
PRONTO ACCORREVA
A CONFORTARLO DI SUA PRESENZA
PALESANDOSI DALLA SUA PRIMA VENUTA
PIÙ ASSAI CHE RE PADRE BENEFICO


Queste altre due furono scoperte sulle mura di Roma, la prima sul Gianicolo, la seconda sulla breccia di Porta Pia.


ROMA FATTA LIBERA IL 20 SETTEMBRE 1870
E RICONGIUNTA ALL’ITALIA
ONORA LA MEMORIA DI QUEL PRODI
CHE
COMBATTENDO STRENUAMENTE DA QUESTE MURA
CADDERO NEL 1849 IN DIFESA DELLA PATRIA




L’ESERCITO ITALIANO
ENTRAVA VITTORIOSO DA QUESTE MURA
IL 20 SETTEMBRE 1870
COMPIENDO I LUNGHI VOTI DEI ROMANI
ED ASSICURANDO ALL’ITALIA
IL POSSESSO DELLA SUA CAPITALE
IL COMUNE
A RICORDO PERENNE DEL FATTO
POSE
IL 4 GIUGNO 1871


La breccia era stata restaurata, senza però rimettervi le due statue di S. Pietro e S. Paolo, che furono decapitate dalle cannonate il 20 settembre, e i morti non furono dimenticati. Porta Salaria era stata rifatta di sana pianta.

Un particolare curioso: La nave francese «Orénoque» che stava nel porto di Civitavecchia [p. 62 modifica]a disposizione del Papa, issò gala di bandiere il giorno dello Statuto e pose al posto d’onore quella italiana. L’ufficialità scese a terra, prese parte alla festa nazionale insieme con le autorità.

Il giorno dopo della festa dello Statuto i Principi di Piemonte partivano da Roma, salutati calorosamente dal patriziato e dalla cittadinanza romana. Nel loro soggiorno a Roma, essi avevano saputo gettar le basi di quella simpatia, che è andata sempre crescendo con gli anni.

Poco dopo la partenza della giovine coppia, ecco che nuove difficoltà incominciano per il Governo italiano. Il Papa, punto nella sua vanità vedendosi sfuggire un simulacro di poter temporale, permetteva si festeggiasse con grande solennità il suo giubileo papale, che ricorreva il 16 giugno, per aver la soddisfazione di ricevere condoglianze e voti da migliaia di cattolici. Questo fatto poteva parere ai romani una provocazione e forse era di fatto, dato il carattere di Pio IX, ma non fu raccolta. Tutti i liberali, dai monarchici ai repubblicani, dal Circolo Cavour a quello Romano, seppero, d’accordo col municipio e col Governo, imporre la calma. I pellegrini vennero a Roma, poterono assistere a tutte le funzioni e non furono nè molestati, nè insultati, e l’Europa capì che il Papa poteva perfettamente esercitare il suo alto ministero sotto l’egida del Governo italiano. Non vi fu altro che una tacita dimostrazione di bandiere il giorno dopo il giubileo. Roma se ne copri tutti. Un giovine inglese, il signor Noel, venuto in pellegrinaggio, fu dispiacente di vedere sventolare i colori italiani dal balcone del suo quartiere all’Albergo d’Inghilterra e fece togliere la bandiera. Il popolo se ne accorse e la richiese; il giovane allora si affacciò gridando: «Viva Pio IX!» e pronunziando parole ingiuriose per il Re. Forse l’ira avrebbe vinto il popolo, se le guardie nazionali non fossero riuscite a vincerne il risentimento.

Il Re aveva mandato il generale Bertolè Viale a portare le sue congratulazioni al Papa. Il generale e il suo aiutante di campo furono ricevuti dal cardinale Antonelli, al quale il Bertolè chiese l’udienza papale. Gli fu negata adducendo che il Pontefice era stanco.

Il 2 luglio finalmente il Re giungeva e trasportava qui la sede della Capitale. Veniva da Napoli e arrivò circa le 12 1/2. Le truppe erano sotto gli ordini del Principe ereditario, schierate in piazza di Termini, in piazza e via Santa Susanna, in piazza Barberini, via del Tritone, Due Macelli, via Condotti, Corso, via Muratte, Fontana di Trevi, via San Vincenzo e Anastasio e salita della Dateria. Il Re era stato preceduto dai sindaci di tutte le principali città d’Italia, dai Ministri, dagli ambasciatori delle potenze estere, dalle presidenze della Camera e del Senato, dai battaglioni di guardia nazionale di Civitavecchia, Viterbo, Frosinone e Velletri.

Il municipio di Roma aveva voluto dare molta solennità all’insediamento della Capitale. Per commemorare quell’avvenimento aveva creato due nuovi asili infantili, intitolandoli col nome del Re e del Principe Ereditario, e una sala di allattamento, che fu chiamata da Margherita di Savoia. Riconoscente a Firenze, che aveva con sì nobile abnegazione festeggiato il plebiscito romano, aveva inoltre addobbato con gigli fiorentini la sala reale alla stazione, e il sindaco Peruzzi ebbe ovunque nei festeggiamenti, brevi, ma splendidi, un posto d’onore.

Il principe Umberto andò a cavallo alla stazione a ricevere il padre. Il viaggio del Re da Napoli a Roma era stato un’ovazione continuata, qui fu una festa unica. Appena Vittorio Emanuele fu sceso dal vagone, e mentre stringeva la mano al figlio, gli si avvicinò una bella bimba, Elvira Sinimberghi, e presentandogli una corona d’alloro, gli disse: «Prendi, o Re galantuomo, la corona d’alloro che tanto ti sei meritata».

Fu quello il segnale delle ovazioni, e quel grido di «Re galantuomo» Vittorio Emanuele l’udì ripetere migliaia e migliaia di volte per via, mentre la gente, con pericolo di farsi [p. 63 modifica]schiacciare, si affollava attorno alla carrozza, per esprimergli da vicino il sentimento che l’animava.

Erano nella carrozza del Re il presidente del Consiglio, Lanza, il sindaco, principe Pallavicini e il primo aiutante di campo, generale De Sonnaz. Nelle altre carrozze di corte erano i ministri e le case civili e militari del Re. I corazzieri e la guardia nazionale a cavallo facevano scorta d’onore. Man mano che la carrozza reale passava, scoppiavano, dalle finestre gremite di gente, dal popolo stipato per le vie, grida frenetiche; tutti agitavano fazzoletti e cappelli, tutti gettavano fiori.

Giunto al Quirinale, l’ovazione raddoppiò. Il Re comparve una prima volta al terrazzo solo, una seconda col principe Umberto.

Dopo il ricevimento ufficiale dei ministri, delle presidenze dei due rami del Parlamento, del municipio, il Re entrò nel suo quartiere, che era al pianterreno del palazzo.

Alle 5 1/2 Vittorio Emanuele andava a inaugurare il tiro a segno all’Acqua Acetosa, dove era stato eretto un arco trionfale, e un padiglione. Il Re aveva la solita scorta, e allo sportello della carrozza di mezza gala, attaccata alla «Daumont», galoppava il marchese Pier Luigi Corsini di Laiatico, Scudiere di Sua Maestà.

Giunto sul campo, egli volle che il principe Pallavicini fosse il primo a tirare, poi prese il fucile e al secondo colpo colse nel cerchio bianco del bersaglio; la bandiera si alzò e scoppiarono applausi lunghi. Quindi il Re tirò al bersaglio mobile, che era un piccolo cinghiale, e lo colpi tutte e due le volte nelle gambe pasteriori.

La sera Roma pareva avvolta in un incendio. Le stelle d’Italia non si contavano più, per tutto festoni, palloncini, fiori, bandiere. In Trastevere poi la festa era grandiosa.

Il Re vide una parte dell’illuminazione andando all’«Apollo» ove la Fricci cantava la Norma, ma dello spettacolo nessuno si occupò, tutti aspettavano il Re, e lo accolsero con nuovo entusiasmo. Quando usci dal teatro, attraversando il Corso, lo aspettava una nuova dimostrazione.

Quella sera all’«Apollo» i ministri esteri che avevano assistito al pranzo del Quirinale, fecero la loro prima comparsa. Vi era il conte Brassier de Saint-Simon, ministro di Germania, Photiades Bey, ministro della Sublime Porta, il marchese di Montemar, ministro di Spagna, il Barone d’Uxkull, ministro di Russia, Sir Augustus Paget, ministro d’Inghilterra, i ministri di Portogallo, di Olanda, del Brasile, di Baviera e quello degli Stati Uniti d’America, che era il signor Marsh, che aveva preso stanza al villino Orsini; il ministro d’Austria, barone di Kübeck, giungeva il giorno dopo.

Per Roma, in quel primo giorno di esultanza, non si faceva altro che ripetere le parole del Re. Egli aveva detto alla Giunta: «Se avessi saputo che mi avevano preparato una così bella accoglienza, sarei entrato a Roma a cavallo». Parlando ai sindaci pronunziò quelle memorabili parole, che in bocca sua avevano il valore di un giuramento: «A Roma ci siamo e ci resteremo!» poi volgendosi al conte Rignon, sindaco di Torino, aggiunse: «Ora Torino sarà contenta».

Nell’accogliere la deputazione della Camera e del Senato, il Re si espresse cosi: «Signori, sono lieto di trovarmi con voi a Roma; i destini d’Italia sono compiuti, e nell’ottenere questo grande resultato certo ho concorso per la mia parte, ma anche i miei sforzi sarebbero stati inefficaci se non fossi stato costantemente sorretto dall’appoggio del Parlamento. Ora, signori, dobbiamo conservare quello che si è acquistato con tante fatiche e con tanti sacrifici; ma questo, o signori, confido di poterlo ottenere facilmente, quando l’appoggio vostro non mi venga meno».

La mattina del 3, il Re riceveva una deputazione della R. Università romana, composta del [p. 64 modifica]rettore, che era allora il Carlucci, del Ponzi, del Maggiorani, dell’Alibrandi, dello Spezzi, del Ratti, del Volpicelli e del canonico Audisio. Vittorio Emanuele fece con loro una specie di sfogo, dicendo che il venire a Roma gli era costato molte difficoltà, e dichiarò di essersi sempre mostrato deferente e cortese col Papa, ma che aveva ricevuto sempre ingrate ripulse alle sue gentili offerte. Parlo pure del dogma dell’infallibilità e aggiunse che la promulgazione di quel dogma, al quale non poteva consentire, aveva alienato dal Papa le persone intelligenti.

Il giorno doveva esservi e vi fu la grande rivista, con sosta del Re in un padiglione in piazza del Popolo, attorno al quale, in tanti quadri eseguiti dai migliori artisti romani, erano raffigurati i fasti del regno di Vittorio Emanuele. L’idea era sorta quando il Re, sulla fine dell’anno precedente, doveva entrare in Roma ufficialmente. I quadri furono ultimati e messi a posto, ma un vento impetuoso ne stracciò alcuni nella notte e danneggiò il palco reale, che dovette essere coperto da una tenda. Ai fianchi di questo vi erano le tribune per il corpo diplomatico e per i senatori e deputati. Il Re salì a cavallo al Pincio, scese al Babbuino, e dopo la rivista si collocò fra i cancelli del Pincio. Quando le logore bandiere che avevano sventolato sui campi di battaglia dell’indipendenza si abbassavano davanti a Vittorio Emanuele, il popolo scoppiava in grida ed in applausi; la vista dei bersaglieri e del loro comandante Pinelli, che era a Porta Pia il 20 settembre, e che tutti conoscevano, aumentò l’entusiasmo delle 30,000 persone pigiate sulla piazza. Il Re, dai soldati, riportava l’occhio sulla folla stipata, e quell’occhio brillava di compiacenza. Dopo la rivista, nuova dimostrazione popolare al Quirinale, guidata da Guglielmo Castellani, dal Polidori, dal D’Ormeville, dal Mascetti e dal Di Mauro. Castellani portava il magnifico stendardo donato da Roma al Re, e attorno a quello ve ne erano altri cento. La dimostrazione, nel passare sotto l’Albergo di Roma, applaude a Firenze e a Torino, perché in quell’albergo erano alloggiati il Peruzzi e il conte Rignon, poi corre al Quirinale, e le grida sono cosi forti e insistenti, che il Re deve affacciarsi. Allora sull’obelisco si accende la stella d’Italia; lo spettacolo è grandioso.

Quella sera stessa il Re assisté al ballo al Campidoglio, e dopo partì per Firenze, sbalordito dall’accoglienza, superbo di sentire che Roma e l’Italia valutavano quanto egli aveva fatto per renderle alla libertà.

Vittorio Emanuele non aveva, nella sua prima visita a Roma, dimenticato i miseri. Egli, non potendo, per la ristrettezza del tempo, andare all’ospedale militare di S. Spirito, vi aveva inviato il generale Pralormo, con ordine di interrogare i malati e di dar loro un soccorso, e al sindaco aveva mandato una oblazione per gli asili.

Se il Re era veramente commosso per la dimostrazione di Roma, il popolo era veramente pago di essersi dato a lui. Sentiva finalmente che i suoi destini erano affidati ad un soldato glorioso, ad un Re che manteneva ciò che prometteva.

Larga fu la distribuzione di onorificenze per la venuta del Re. Il generale Lipari, comandante la guardia nazionale, la quale aveva fatto un servizio ammirabile, ebbe la commenda della Corona d’Italia; il sindaco, principe Pallavicini, le insegne di grande ufficiale dell’ordine mauriziano; quelle di ufficiale Biagio Placidi, e quelle di cavaliere don Bosio Cesarini, il principe Ginetti e il conte Pandolfi, ufficiali dello squadrone della guardia nazionale a cavallo.

Anche per la venuta del Re non mancarono i pettegolezzi. Proclive, Pio IX al pettegolezzo aveva assuefatto Roma a pascersene, e anche chiuso nel Vaticano lo alimentava. Di là partì quello a proposito della visita dell’Alibrandi in Vaticano, insieme con i fedeli, mentre era stato un’ora prima al Quirinale, insieme con i professori scomunicati dell’Università. Due giorni dopo, l’Alibrandi si [p. 65 modifica]

Giuseppe Garibaldi

[p. 67 modifica]dimetteva da professore dell’Università. E un altro fu provocato per il fatto che fra quei professori c’era il canonico Audisio, già preside di Superga e canonico di San Pietro. Egli non si dimise peraltro.

La capitale si era alla meglio accomodata a Roma.

I ministeri erano così distribuiti: Interno e Presidenza, nel monastero di San Silvestro in Capite, in via della Mercede; ministero della Guerra, nel convento dei SS. XII Apostoli, con ingresso in via della Pilotta; ministero degli Esteri, al palazzo Valentini, ove è ora la Prefettura; ministero delle Finanze, al convento della Minerva, con ingresso in via del Seminario; ministero del Commercio, in via della Stamperia; ministero di Grazia e Giustizia, nel palazzo di Firenze; ministero della Marina, nel convento di Sant’Agostino; ministero dei Lavori Pubblici, al palazzo Braschi; ministero della Istruzione, in piazza Colonna, sopra alla Posta. La direzione del Genio militare era a San Silvestro al Quirinale, i tribunali ai Filippini.

Il ministro Gadda aveva terminato la sua missione di commissario, ma quanti lagni ebbe a sentire per i locali preparati! Sella non volle saperne di andare alla Minerva, e fra i ministri fu il più esigente. Gli furono proposti dei cambiamenti, ma nessuna proposta andavagli a genio, e finalmente fu stabilita la costruzione del nuovo ministero delle Finanze, e si presero tre anni di tempo. Intanto gli uffici, meno il segretariato generale e una sezione, credo, sarebbero rimasti a Firenze. Neppure il Lanza era stato contento dei locali di San Silvestro in Capite e fu acquistato il palazzo Braschi per l’Interno. Il palazzo che apparteneva ad Augusto Silvestrelli costò 1,500,000 lire. Al Visconti Venosta non piaceva il palazzo Valentini; per mezzo di una permuta con due conventi, quello dei Cappuccini e di Santa Maria Maggiore al Quirinale, si ottenne dalla lista civile la Consulta per gli Esteri. Il palazzo Valentini, però, era costato lo stesso del palazzo Braschi, e anche i lavori avevano importato spese, ma in quei momenti ci si badava poco. Il Ricotti solo non si lagnava della Pilotta, eppure il ministro della guerra stava in una stanza appena degna di un capo divisione.

Era speranza generale a Roma, che la Camera e il Senato tenessero qui alcune sedute in luglio, ma non fu possibile. A Montecitorio non erano ancora pronte molte cose, fra l’altre l’illuminazione a gaz, e al palazzo Madama vi erano fuori ancora le impalancate. Anche i lavori del Quirinale erano stati fatti con troppa fretta, e il Re stesso vi aveva una incomoda abitazione. Eppoi la scarsezza degli alloggi per gl’impiegati era l’ostacolo maggiore a un rapido trasporto di tutti gli uffici. Il municipio aveva richiesto dai cittadini le denunzie dei quartieri vuoti e delle camere ammobiliate, ma di queste ve n’erano circa duemila, e gl’impiegati sommavano a molte e molte migliaia. Si studiava anche il piano regolatore per costruire subito il resto del quartiere incominciato da monsignor De Merode, e quelli dell’Esquilino e del Macao, ma ci voleva tempo, e per tutta quell’estate Roma rimase capitale di nome, ma non di fatto. I ministri vi venivano di tanto in tanto, ma risiedevano a Firenze, e il Re stette assente dai primi di luglio alla fine di novembre.

Intanto Roma si ripuliva, o almeno i proprietari erano costretti nelle vie principali a ripulire le facciate delle case, e i molti giornali sbraitavano perchè la città prendesse un aspetto decente e si costringessero i cittadini a rispettare certe norme, che erano in vigore in tutte le città civili. Peraltro questi lamenti, che il municipio cercava di far cessare, applicando regolamenti, restavano lettera morta, perchè il popolo si opponeva ad essi con una grande forza d’inerzia. Ma se era in questo indisciplinato, prima per indole, e in secondo luogo, perchè non era assuefatto al rispetto dei regolamenti municipali, era però obbedientissimo alle leggi. In quell’anno non vi fu un renitente alla leva e i cittadini si sobbarcarono con grande slancio al servizio imposto loro come [p. 68 modifica]guardie nazionali. Anzi si può dire che molto si deve a quella milizia se il popolo uso prudenza in molte occasioni, vedendo offeso dal partito petulantissimo dei papisti il suo sentimento nazionale.

Quel partito era mirabilmente ordinato, pareva anzi che avesse imparato dagli antichi cospiratori.

Esso aveva fondato la «Società primaria Romana per gl’interessi cattolici» di cui era presidente il principe don Mario Chigi, e vice presidente l’avvocato Camillo Baccelli. Quella società aveva un consiglio direttivo composto di 24 consiglieri e 29 comitati, che tenevano sede in altrettante parrocchie, diretti da un prefetto e da un segretario. Fra quei prefetti vi erano molti commercianti, per meglio insinuarsi nel popolo, col quale avevano rapporti. Gli adepti non giungevano al migliaio, ma si arrabattavano tanto che parevano dieci volte tanti. Non so se il marchese Cavalletti appartenesse alla società, ma so che egli si fece promotore di una sottoscrizione per offrire un trono d’oro al Papa, in occasione del 23 agosto, perchè in quel giorno il pontificato di Pio IX raggiungeva la durata di quello di S. Pietro. Il Papa ricevè il marchese Cavalletti, che lo chiamò «Grande». Pio IX rispose che quell’appellativo non si poteva dare ai vivi, e che invece di spendere per offrirgli il trono d’oro, spendessero la somma raccolta ad aiutare i chierici che dovevano andar soldati.

Il trono gli fu offerto, e se non era d’oro, era di metallo dorato, e per farlo entrare in Vaticano fecero mille sotterfugi, fra gli altri quello di farlo passare dall’ambasciata francese.

I tridui che si fecero in quella occasione, ebbero un esito luttuoso. I tumulti incominciarono davanti alla chiesa di San Giovanni, perchè alcuni liberali giunsero sulla piazza in vettura con una bandiera. Si ripeterono alla Minerva la sera dopo. I fedeli, nell’uscir di chiesa, furono salutati da fischi. Nel parapiglia venne arrestato il Tognetti, che aveva già subito un processo per i fatti del di 8 dicembre 1870. Una turba di circa 400 popolani vuol liberarlo e si dirige verso San Marcello. Nel passare sotto il Collegio Romano, fischia e lancia insulti ai gesuiti. A San Marcello non vi erano nè il Tognetti nè gli altri arrestati, e la turba popolare corre a San Silvestro, ov’era la questura, e cerca di penetrare negli uffici. I soldati vedendo uscire sulla porta del «Rebecchino» un uomo con un coltello, fanno fuoco e lo uccidono. Era il cuoco dell’albergo, certo Ferrero, che era andato a vedere che cosa succedeva.

Il 20 settembre fu pietosamente commemorato l’ingresso delle truppe, con processioni recanti corone alla porta Pia, con largo tributo di fiori sulle tombe del Valenziani e del Pagliari, con l’invio di un gioiello al Rannaccini, ufficiale dei bersaglieri, ancora infermo per le ferite riportate l’anno prima.

Il 2 ottobre il comm. Biagio Placidi, istituì la festa scolastica della premiazione degli alunni delle scuole elementari; la sua nobile idea di associare l’infanzia alla festa del plebiscito fu molto encomiata, non così un suo inno d’occasione, che i Romani di quel tempo ripetono ancora col sorriso sulle labbra.

I professori dell’Università dovevano prestar giuramento nelle mani del rettore Carlucci prima che si riaprissero i corsi. Il professor Volpicelli fu il primo a giurare e sedici dei suoi colleghi giurarono pure, uno si rifiutò, tre erano assenti, e sette chiesero schiarimenti prima di compiere quell’atto. L’Università, come si vede, non era ancora purgata dall’elemento gesuitico, nonostante che molti fra i professori fossero passati a quella pontificia: il vecchio rettore Murra, così odiato a Roma, vedendo tanta resistenza per parte dei suoi antichi colleghi, avrà esultato nel suo vescovado di Sardegna.

[p. 69 modifica]I Principi Reali tornarono a Roma soltanto il 25 di novembre, il Re subito dopo, per inaugurare il 27 il Parlamento, pronunziando un notevole discorso ispirato al più alto amor di patria.

In quei giorni essendo terminati i lavori al Sudario, la Corte incominciò ad andarvi ogni domenica a udir la messa.

Per appagare il gusto del Re per la caccia, il Governo comprò la tenuta di Castel Porziano dei duchi Grazioli per 4,500,000 lire acquisto che suscitò vive discussioni. La Casa Reale vendè al principe Lancellotti la tenuta della Ruffinella, che apparteneva alla moglie di Carlo Felice.

Il fatto più importante che seguì quella fine d’anno, fu l’approvazione per parte del consiglio superiore dei Lavori Pubblici del piano regolatore.