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5000 persone, guidate dal generale Fabrizi, che era stato capo di Stato Maggiore dell’esercito di Garibaldi nel 1867. Egli aveva seco il Generale Lante di Montefeltro, il capitano Petrocchi, il colonnello Galvagno, il colonnello Gigli, il capitano Longhi. Mentana era parata a lutto, e la lunga processione entrò in paese passando sotto un arco funebre, e fece sosta sulla fossa che racchiudeva gli avanzi di Fabio Giovagnoli. Qua e là nel campo, ove si sapeva erano caduti i volontari, sorgevano tumuli provvisorii, sui quali i viandanti deponevano fiori e corone.

Alla vigna Santucci, al Conventino, sulla Chiesa della Pietà e in altri luoghi erano notati i nomi dei caduti. Fu visitata la colonna eretta in memoria dei volontari italiani, in sostituzione di quella inalzata prima per i soldati pontificii, e fu spedito a Garibaldi un telegramma.

La commemorazione ebbe uno spiccato carattere repubblicano. Il Fabrizi biasimò la inettezza del Comitato Nazionale di Roma nel 1867, e il generale Lante biasimò la condotta poco liberale del Governo italiano. Tornando a Roma la dimostrazione si sciolse al grido di: «Viva Garibaldi!»

Accanto ai nomi del Pagliari, del Valenziani, del Paoletti, morti comandando i soldati il 20 settembre, la storia registrava anche quello di Andrea Ripa di Saleduccia, presso Rimini, capitano del 12° bersaglieri, morto a Santo Spirito il 29 ottobre in seguito alle ferite riportate nell’attacco. Dall’ospedale mosse una interminabile processione con bandiere. La cassa era seguita da tre bersaglieri del 12° e dall’ordinanza dell’estinto. Questi quattro pietosi dal 20 settembre non si erano staccati un momento dal letto del loro capitano, e piangevano accompagnandolo al cimitero. Dietro il ferito sventolava la ricchissima bandiera del «Club di S. Carlo», portata da don Marcantonio Colonna. Un lungo stuolo di compagni dell’estinto, guidati dal maggior generale Cavalchini, portava una corona civica donata dalle signore romane; il popolo gittava fiori sulla bara. A San Lorenzo un prete benedì il cadavere e rifiutò ogni propina, dicendo che sarebbe stato onorato se fosse perseguitato per aver compiuto quel pio atto.

I partiti politici si cominciavano a delineare. Esclusi volontariamente i clericali dalla nuova lizza per le elezioni amministrative e politiche, che erano indette le prime per il 13 novembre, le seconde per il 20, restavano di fronte i seguaci dell’antico partito nazionale e i repubblicani. La lotta fu violenta, ma tanto nelle elezioni amministrative, quanto in quelle politiche trionfò la lista moderata. Di fatto nel 1° collegio fu eletto Vincenzo Tittoni, contro Biagio Placidi; nel 2° il generale Cerroti, contro Pianciani, nel 3° Raffaele Marchetti, contro Augusto Calandrelli; nel 4° don Emanuele Ruspoli, contro Mattia Montecchi; nel 5° il duca di Sermoneta contro il conte Luigi Amadei, spiccato repubblicano e proprietario e direttore dell’Eco del Bisenzio, che pubblicava a Prato, ov’egli risiedeva. Il duca di Sermoneta era stato eletto anche a Velletri, e il Cerroti a Civitavecchia, ove era comandante la piazza; Emanuele Ruspoli anche a Fabriano.

Uno dei candidati repubblicani del «Circolo Romano», i quali erano stati specialmente sostenuti dalla Capitale, Alessandro Castellani, non entrò nemmeno in ballottaggio; e se questo fu necessario nel primo collegio, si deve alla poca unione nel campo monarchico, ove al Tittoni era contrapposto dal «Circolo Bernini» un candidato pure moderato, come Biagio Placidi. Il «Circolo Bernini» aveva pure sostenuto la candidatura Sella, credendo che uscisse dal ministero.

In queste elezioni dunque, in cui dal lato del «Circolo Romano», si voleva l’abolizione del 1° articolo dello Statuto, come aveva proposto Giovanni Costa in Campidoglio, quando egli vi sede per due giorni, e da quello della «Associazione costituzionale» si propugnava una politica di moderazione, prevalse quest’ultimo concetto che era quello del general Lamarmora; ma la moderazione della sua condotta non escludeva la forza, e lo provo, perchè se impediva da un lato la dimostrazione nella