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ingombra di cavalli presi ai soldati pontificii, di remington, di daghe, di oggetti di vestiario. Si calcolava che mancassero poco più di 60 cavalli e ne furono riportati un centinaio. Le trasteverine, che si erano impossessate delle coperte nelle caserme abbandonate il 20 settembre, le restituivano; era una gara di onestà. Pareva che sotto il nuovo regime rinascessero nel popolo tutti i sentimenti di equità e di giustizia.

E in mezzo a questo rinascimento morale si preparava il Plebiscito. Da Firenze si desiderava che nella formula fosse espressa la salvaguardia del potere spirituale del Pontefice; e si era stabilita questa lunga tiritera:


« Colla certezza che il Governo Italiano assicurerà l’indipendenza spirituale del Papa, dichiariamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il Governo Monarchico-Costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi reali discendenti».


Questa formula, che i Romani non volevano, occasionò una gita a Firenze di due membri della Giunta, don Emanuele Ruspoli e Vincenzo Tittoni, e allora fu stabilito che la nuova formula sarebbe stata:


« Vogliamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il Governo del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi discendenti».


Su questa i Romani furono chiamati a votare il 2 ottobre.

Per questa rotazione sorgeva un’altra difficoltà. La città Leonina, nella capitolazione, era stata riconosciuta di spettanza del Papa, e in essa non si sarebbe potuto costituire il seggio per la votazione, nè raccogliere le schede.

Intanto, gli abitanti della città Leonina, patrioti sviscerati, volevano votare a ogni costo. Si adunarono protestando contro la loro esclusione dalle urne, e minacciarono tumulti in piazza S. Pietro. Il Cadorna fece occupare allora Castel Sant’Angelo, che era ancora custodito dai Pontificii, e si stabilì che gli abitanti della città Lconina avrebbero votato pure, ma che i voti sarebbero stati legalizzati da un notaro, invece che raccolti dai commissari come negli altri rioni.

E finalmente il giorno tanto desiderato del Plebiscito giunse.

Roma, in quella domenica 2 ottobre, era tutta in festa. Le seriche bandiere sventolavano su ogni casa, accanto a quelle più umili; ogni finestra era adorna di tappeti e d’arazzi, e la gente aveva il «Si» sul cappello, la coccarda all’occhiello e la gioia sul volto. Era il giorno in cui i Romani, potendo disporre della loro volontà, erano esultanti di darsi alla patria comune.

Ogni corporazione si era unita, per votare, attorno alla sua bandiera, e la precedeva una musica.

Nell’aula dell’Università si riunivano professori, letterati, studenti, giornalisti, medici, e perfino autori drammatici. I cultori di belle arti esumarono una bella bandiera, che tenevano nascosta fino dal 1860. Gli orafi, i vaccari e i commercianti sfoggiavano le più ricche. Vi era l’associazione degli addetti all’amministrazione dei tabacchi, degli emigrati romani, dei diversi Circoli, dei lanari, dei capi fabbrica, dei muratori, dei cappellari, dei cocchieri, dei vetturini, dei sarti, dei barbieri, del Circolo di Ponte e di Parione, e sulle bandiere di tutte queste associazioni era scritto «Libertà e Lavoro». In Trastevere i votanti erano accompagnati dalle donne, ovunque si vedevano vecchi infermi sorretti da giovani baldi, ovunque echeggiavano evviva e canti.